da Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia di Avagliano-Palmieri
Nel libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri “Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia -Diari e lettere 1938-1945” vi sono le parole scritte dalle vittime di una persecuzione e di un crimine che il nazifascismo voleva mettere a tacere ed annientare, ma che invece sono arrivate fino a noi, lasciandoci traccia tangibile, prova storica inconfutabile e memoria indelebile di ciò che è stato. Dando ragione all'epigrafe di una di queste vittime, Angelo Fortunato Formiggini, che nell'atto estremo di togliersi la vita a causa delle leggi razziali italiane, scrisse:
Né ferro né piombo né fuoco
possono salvare
la libertà, ma la parola soltanto.
Questa il tiranno spegne per prima.
Ma il silenzio dei morti
rimbomba nel cuore dei vivi.
Da una lettera del 1° settembre 1938: «La verità è che sono rimasto sorpreso; non mi aspettavo tanto, e così presto, mai, mai avrei potuto pensare che da noi, nella civile e gentile Italia "madre delle genti", potesse allignare la trista pianta dell'antisemitismo. Si è mai visto al mondo, la persecuzione mondiale di una razza? Dove andranno? È possibile che non si tenga conto di ciò che hanno dato agli studi, all' arte, alla patria, alla scienza, alla società, in tutti i paesi? Che Mussolini voglia seguir Hitler anche in quello ?»
E Rita Levi Montalcini: «Mi sembrò, non esagero, di aver perso ogni possibilità di vita»
«Non rimane che voltarsi agli onesti e dire loro: sono israelita di religione, italiano di paese, nascita, lingua, ho separato la forma religiosa dalla politica, non ho invaso, perché da non so quanti anni residente in Italia (forse 800 o 900), ho sempre parlato questa mia lingua, ho sempre amato questa mia terra».
Un ebreo tedesco, sposato con una ebrea italiana, così si esprime: «Ma oggi il mondo ci è precluso. Siamo soli nello spazio che per noi è venuto freddo, e la sua ricca vastità c'è inaccessibile. Siamo terribilmente soli, espulsi dall' ambiente, gettati nell'incertezza e nell'angoscia dei senza patria, come certe sperdute masse di materia staccate dagli astri e lanciate nel niente».
Vengono create 22 scuole elementari e tredici medie che consentono di far proseguire gli studi ai giovani e ai bambini cacciati dagli istituti pubblici.
Una bambina di Torino: « Oggi è il primo giorno della mia nuova vita di scuola. Andandoci pensavo con rammarico alla mia Maestra e alle compagne che avevo dovuto lasciare».
Tra la fine del 1938 e lo scoppio della guerra molti ebrei decisero di “far fagotto", cioè di lasciare l'Italia, non senza dolore e incertezza, dopo essere riusciti a superare innumerevoli difficoltà per ottenere i passaporti e i visti d'ingresso ed essersi garantiti un minimo punto d'appoggio all'estero:
«eravamo disposti, ad abbandonare tutte le nostre cose, spinti dalla preoccupazione che gli avvenimenti precipitassero, costretti a staccarci da tanta massa di ricordi e di affetti tra cui la nostra casa, che ci eravamo faticosamente costruita pezzo per pezzo e mi sembrava impossibile il poterla abbandonare insieme con tutto quanto ci circondava».
Per gli ebrei, però, l'unica conseguenza della guerra fu un nuovo giro di vite nella persecuzione. Il regime, infatti, decise l'internamento degli ebrei in diverse località: Urbisaglia, Tarsia, Campagna, Ferramonti, etc.:
«È terribile pensare che siamo stati confinati qui perché l'Italia non aveva fiducia in noi, ciò che è ancora più terribile per me che sono nata in Italia e che ho amato il mio paese come ogni buon cittadino italiano».
Scrive nel settembre 1941 un ebreo internato nel campo di Isernia:
«Ci troviamo in circostanze disastrose. Una grande sala di cinema serve da dormitorio di noi tutti 46. Lo spazio fra i letti è appena di 40 cm e a stento passabile. Nessuna possibilità di riscaldamento esiste nella sala in quanto installandovi una stufa l'aria diventerebbe irrespirabile. D'inverno e d'autunno quando dovremo per forza chiudere le porte laterali della sala, rimarremo nel freddo, in un buio quasi notturno e senza ventilazione. A causa del vitto, del clima e dell’acqua il 20 per cento di noi sono affetti da una febbrile infezione viscerale di carattere tifoideo».
Il 6 maggio 1942 una nuova misura razziale segnò un'ulteriore radicalizzazione della persecuzione, toccando «l'estremo limite di una persecuzione dei diritti degli ebrei raggiunto dal fascismo» prima del passaggio alla persecuzione delle vite. Una circolare della Demorazza ai prefetti indicò che «Con disposizione ministeriale odierna appartenenti alla razza ebraica anche se discriminati di età dai diciotto ai cinquantacinque anni compresi sono sottoposti a precettazione a scopo di lavoro».
«Una nuova legge, - annota nel suo diario uno dei precettati,
- impone a tutti i giovani ebrei anche se discriminati di età dai diciotto ai 55 anni compresi, di presentarsi, dietro cartolina a precetto al municipio per il lavoro obbligatorio».
Il 30 novembre l'Ordine di Polizia numero 5, emanato dal neo ministro dell'Interno repubblicano Buffarini Guidi e trasmesso il giorno seguente alla radio, annunciò che tutti gli ebrei - «a qualunque nazionalità appartengano» e compresi i discriminati - sarebbero stati arrestati e inviati nei campi di concentramento.
«Da qualche giorno, sono state emanate delle leggi d'inasprimento verso gli ebrei: riunione in campi di concentramento di tutti gli ebrei fino a 70 anni e confisca di tutti i loro beni. Noi purtroppo non abbiamo preso la notizia sul serio, mentre quasi tutti gli altri hanno cercato di nascondersi in altri luoghi cambiando nome!»
«senza la collaborazione delle autorità politiche e di polizia della Rsi la deportazione degli ebrei dall'Italia verso i campi di sterminio non sarebbe stata assolutamente possibile, almeno non in modo così sistematico».
«Per me - si legge in una memoria di quei giorni – l’arresto fu un momento terribile, non so neppure descrivere ciò che provai. Al sentire il rumore di quel catenaccio che ci chiudeva nella cella, mi sembrò che qualcosa chiudesse la mia vita stessa; credevo di impazzire al pensiero di quello che sarebbe potuto succederei, il terrore di venir deportati si fece più vivo in quei primi momenti della nostra prigionia, e fui presa da una crisi così acuta di disperazione che ora non voglio neppure più ricordare!».
Se un numero così elevato di persone poté sopravvivere in clandestinità, fu anche merito della generosità e della disponibilità di migliaia di italiani non ebrei, grazie ai quali - si legge in una lettera scritta nei giorni della Liberazione: «abbiamo sempre avuto dove dormire la notte e la fame brutta non abbiamo mai sofferta nonostante gli otto mesi in alta montagna, isolati dal mondo, sovente senza viveri sufficienti, sempre dovendo abnegare di ogni conforto. Facendo la guardia dall’alba fino al crepuscolo, dovevamo scappare assai spesso in conseguenza dei rastrellamenti, di soldati in giro, di persone sconosciute. Eravamo, quasi senza coperte, senza un paio di scarpe per camminare».
Eugenio Curiel in una lettera alla famiglia:
«E quando viene la tristezza ed il peso diviene duro a portare, bisogna dire: Vita! Vita! e tirare avanti con serenità e coraggio, ringraziando che tutto il tumulto non riesca a spezzare la nostra fiducia nelle cose fondamentali della vita, ma anzi ci tempri a sperare e a volere cose migliori e una vita più ricca».
Giulio Bolaffi scrive nel suo diario:
«W L'Italia Libera», «lo ho viva speranza, che questa guerra debba terminare presto e tutti i miei voti sono perché tutti noi ci possiamo ritrovare per poter iniziare la creazione di una nuova Italia in cui veramente la giustizia e la fratellanza vi regnino sovrani»!
Primo Levi, in una relazione scritta subito dopo la loro liberazione, nel '45: «Il viaggio da Fossoli ad Auschwitz durò esattamente quattro giorni e fu molto penoso, soprattutto a causa del freddo; il quale era così intenso, specialmente nelle ore notturne, che la mattina si trovavano coperte di ghiaccio le tubature metalliche che correvano nell'interno dei carri, per il condensarsi su di essa del vapore acqueo dell'aria respirata. Altro tormento, quello della sete, che non si poteva spegnere se non colla neve raccolta in quell'unica fermata quotidiana, allorché il convoglio sostava in aperta campagna e si concedeva ai viaggiatori di scendere dai vagoni, sotto la strettissima sorveglianza di numerosi soldati, pronti, col fucile-mitragliatore sempre spianato, a far fuoco su coloro che avessero accennato ad allontanarsi dal treno».
«Appena il treno giunse ad Auschwitz (erano circa le ore 21 del 26 febbraio 1944), i carri furono rapidamente fatti sgombrare da parecchie S.S., armate di pistole e provviste di sfollagente; e i viaggiatori obbligati a deporre le valigie, fagotti e coperte, lungo il treno stesso. Poi la comitiva fu subito divisa in tre gruppi: uno di uomini giovani e apparentemente validi, del quale vennero a far parte 95 individui; un secondo di donne, pure giovani, gruppo esiguo, composto di sole 29 persone; e un terzo di bambini, di invalidi e di anziani. E, mentre i primi due furono avviati separatamente in campi diversi, si ha ragione di credere che il terzo sia stato condotto direttamente alla Camera dei gas a Birkenau e i suoi componenti trucidati nella stessa serata»!
Il dovere della memoria
Ha scritto Settimia Spizzichino: «Ci sono cose che tutti vogliono dimenticare. Ma io no. lo della mia vita voglio ricordare tutto, anche quella terribile esperienza che si chiama Auschwitz: due anni in Polonia (e in Germania), due inverni, e in Polonia l'inverno è inverno sul serio, è un assassino .. , anche se non è stato il freddo la cosa peggiore. Tutto questo è parte della mia vita e soprattutto è parte della vita di tanti altri che dai Lager non sono usciti. E a queste persone io devo il ricordo: devo ricordare per raccontare anche la loro storia. L'ho giurato quando sono tornata a casa; e questo mio proposito si è rafforzato in tutti questi anni, specialmente ogni volta che qualcuno osa dire che tutto ciò non è mai accaduto, che non è vero»?