Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

Dall'unità d'Italia al nuovo secolo

25 Juin 2006 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #L'ITALIA tra Ottocento e Novecento

Il 17 marzo 1861, il Parlamento riunito a Torino, a Palazzo Carignano aveva proclamato la nascita dell'Italia. L'avvento del Regno d'Italia, sotto lo scettro di Vittorio Emanuele II, aveva visto realizzarsi quello che ancora a metà Ottocento sembrava un miraggio: il sogno di una patria comune, non più divisa e soggetta alla dominazione straniera.

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Il Risorgimento, il conseguimento dell'indipendenza e dell'unità nazionale, se da una parte aveva coronato le ambizioni dinastiche della monarchia di Savoia, era stato dall'altra il risultato dell'impegno delle forze più valide della cultura e della società italiane.

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Quelle rappresentate, sia pur con di verse matrici ideali e differenti impostazioni politiche, da Cavour, Mazzini, Gioberti, Cattaneo. E la straordinaria impresa di Garibaldi,

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che aveva liberato il sud dalla Sicilia a Napoli, era entrata nella mitologia popolare. L'audacia e la genialità strategica dell'Eroe dei due Mondi, che a capo di un pugno di uomini era riuscito a cacciare i Borboni, consentendo così a Cavour di tirare le fila della sua sapiente azione politica e diplomatica, avevano suscitato grande ammirazione anche all'estero. Ma una volta "fatta l'Italia" era stato ben più difficile "fare gli italiani", amalgamare le diverse popolazioni della penisola.

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Cavour (scomparso prematuramente nel giugno 1861) aveva lasciato in consegna ai suoi successori, agli esponenti del partito liberale moderato che avevano avuto la meglio nei confronti dei democratici repubblicani, un sistema politico costituzionale parlamentare dalle fondamenta quanto mai fragili. Non solo perché si trattava di un sistema rappresentativo a ristretta base censitaria, per cui meno del due per cento della popolazione aveva diritto di voto, ma anche perché il processo di annessione-unificazione, avvenuto con la "guerra regia" e i plebisciti del 1859 e del 1860, avevano visto la giustapposizione di tante realtà assai differenti fra di loro per leggi e valori civili, per tradizioni e costumi, per livelli di sviluppo economico e sociale.

A questa frammentazione della penisola in vari microcosmi, i governi della destra, al potere sino al 1876, giustamente preoccupati di consolidare il nuovo Stato, cercarono di porre rimedio mediante l'estensione a tutto il territorio nazionale della struttura amministrativa, rigidamente centralistica, sul modello francese, già in vigore nel Piemonte sabaudo.

Ma ciò facendo essi sacrificarono qualsiasi ipotesi pur moderata di decentramento come quella proposta da uno dei leader della destra, Marco Minghetti, che prevedeva l'attribuzione di maggiori poteri agli enti locali e l'elettività dei sindaci. Nello stesso tempo, con l'intento di risanare l'ingente passivo delle finanze pubbliche, ereditato dai vecchi governi preunitari, e di dotare il paese di alcune infrastrutture essenziali, venne imposto un pesante regime fiscale che fu percepito come un'autentica vessazione. Anche perché le imposte colpivano più i consumi che i redditi. Fra le tasse più impopolari figurava quella (in vigore dal gennaio 1869) sul macinato, ossia sul pane, l'alimento principale dei poveri.

Per tutti questi motivi l'unificazione del paese si rivelò un'impresa estremamente ardua, tra mille difficoltà e non poche ondate di ribellione. In alcune regioni del sud il governo dovette agire con mano ferrea, ricorrendo a esecuzioni sommarie e impegnando sino al 1865 un esercito di quasi 120.000 uomini, per debellare il grave fenomeno del brigantaggio alimentato anche dagli agenti della monarchia borbonica appena spodestata. E a Palermo nel settembre 1866 solo l'intervento delle truppe valse a domare l'insurrezione di migliaia di popolani sobillati dai legittimisti borbonici e da una parte del clero.

Le manifestazioni di insofferenza esplose al sud nei confronti del nuovo Stato nazionale non ebbero solo connotazioni eversive. Esse rivelarono anche l'esistenza di una "questione meridionale", dovuta al forte divario economico e sociale, già preesistente all'unità, fra le regioni del nord e quelle del sud. Il male principale di cui soffriva il meridione era il latifondo che, mentre perpetuava la concentrazione della maggior parte delle terre nelle mani di pochi possidenti, condannava molte zone a uno stato di endemica arretratezza. A farne le spese era in primo luogo la gran massa di contadini senza terra, costretti a sottostare, per poter campare, a rapporti semifeudali e alle peggiori forme di sfruttamento.

Per incrementare la piccola proprietà rurale, i governi della destra avevano messo in vendita le terre degli ordini religiosi soppressi e quelle dei beni demaniali borbonici. Ma finirono per accaparrarsele, grazie anche al potere che detenevano nelle amministrazioni locali, i maggiori proprietari fondiari e alcuni notabili più facoltosi.

Il dissidio fra Stato e Chiesa fu un altro motivo fondamentale di discordia e di malessere. Poco prima di morire Cavour aveva invano sperato di risolvere la questione con la formula separati sta «libera Chiesa in libero Stato».

E l'occupazione di Roma nel settembre 1870

 

1870 breccia di Porta Pia

era sfociata in un aspro contrasto con il mondo cattolico. All' abolizione del potere temporale dei papi, che la Chiesa considerava come una condizione irrinunciabile per l'esercizio del suo magistero, Pio IX replicò scomunicando tutti i responsabili della presa di Roma ed emanando nel 1874 il decreto "Non expedit" che proibiva ai fedeli di partecipare alla vita politica dello Stato italiano. E ciò, malgrado l'approvazione da parte del Parlamento nel maggio 1871 della "legge delle guarentigie", che garantiva insieme all'extraterritorialità dei palazzi del Vaticano la più ampia libertà al papato nell'esercizio delle sue funzioni. Per reazione alle aspre condanne delle autorità ecclesiastiche contro il nuovo Stato, radicali e repubblicani alimentarono da allora una vasta campagna politica e di stampa accesamente anticlericale.

Un altro grave elemento di debolezza stava nello scarso grado di sviluppo del sistema economico. Pressoché priva di materie prime e di risorse energetiche, l'Italia era un paese che si reggeva su un'agricoltura per lo più di sussistenza e su alcune attività manifatturiere, con un reddito nazionale pari ad appena un quarto di quello dell'Inghilterra.

La politica di "economie fino all'osso" (di cui fu massimo artefice Quintino Sella) portò infine nel 1876 al sospirato pareggio del bilancio.

L'Italia riuscì così a scongiurare il pericolo di una bancarotta ma non fece molti passi avanti sulla strada dello sviluppo economico. D'altra parte, la destra rappresentava gli orientamenti e gli interessi del patriziato e della proprietà fondiaria. E l'indirizzo liberistico che essa aveva mutuato dal Piemonte cavouriano in materia di rapporti commerciali, se favoriva l'esportazione di alcuni nostri prodotti agricoli (come il vino, l'olio, la seta), spalancava per contro le porte del mercato italiano alla più agguerrita industria straniera. Fu la sinistra costituzionale (che reclutava il suo maggior seguito fra la borghesia urbana e che andò al potere nel marzo del 1876, con Agostino Depretis) ad avviare il processo di industrializzazione con la revisione nel 1878 delle tariffe doganali, gli stanziamenti varati tra il 1883 e il 1885 a sostegno dell'industria cantieristica, e i forti dazi protettivi introdotti nel giugno 1887 a favore del settore tessile e di quello siderurgico. All'adozione di questi provvedimenti concorsero peraltro anche motivi di sicurezza militare, giacché non si poteva continuare a dipendere per gli armamenti e per alcuni prodotti di base dalle forniture di imprese straniere e dal beneplacito dei loro governi. Nell'orientare il governo verso il rafforzamento del settore industriale, contribuì anche l'intento di neutralizzare le conseguenze della crisi agraria che, abbattutasi sull'Europa in seguito all'afflusso a prezzi assai competitivi dei cereali russi e americani, minacciava di provocare un crollo generale del reddito e dell' occupazione. Proprio quando una vasta catena di agitazioni stava scuotendo molte zone della bassa padana.

Sia pur con cautela i governi della sinistra guidati da Depretis

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(che si alternò al potere sino al 1882 con Benedetto Cairoli, per poi tenerlo ininterrottamente sino al luglio 1887), posero mano ad alcune significative riforme. Con una legge del 1877, su proposta del ministro Michele Coppino, venne resa obbligatoria e gratuita l'istruzione elementare. Lo stesso anno fu elevato il minimo di esenzione fiscale, così da ridurre della metà il numero dei contribuenti.

Nel 1878 venne avviata la bonifica dell'Agro pontino. Sempre in materia economica e sociale il governo abolì nel luglio 1880 l'imposta sul macinato e si assunse nel 1882 l'onere finanziario di tutte le opere riguardanti l'igiene pubblica. Proprio in quegli anni era scoppiata a Napoli e in alcune zone del sud una grave epidemia di colera. Sempre nel 1882 venne varato un nuovo codice di commercio, che conteneva norme tali da favorire gli investimenti industriali e la creazione di società cooperative. Vennero assunte inoltre le prime misure di legislazione sociale, con l'istituzione della Cassa Nazionale di Assicurazione per gli infortuni sul lavoro, su iniziativa di Luigi Luzzatti; e con il divieto (stabilito nel 1886) di impiegare negli opifici i minori di nove anni. Ma di tutte le riforme, la più importante fu quella, varata nel gennaio 1882, che abbassò il limite di età degli elettori da 25 a 21 anni e dimezzò la quota di imposte necessaria per aver diritto al voto e garantì comunque tale diritto anche a coloro che avessero concluso con buon esito i primi due anni della scuola elementare. L'estensione del corpo elettorale a quasi il 7 per cento della popolazione diede maggior peso politico alla piccola borghesia urbana e ad alcune frazioni della classe operaia. Tuttavia la riforma elettorale non modificò sostanzialmente i precedenti equilibri politici, nonostante la maggiore forza acquisita da repubblicani e radicali e la nascita del partito operaio. A bloccare qualsiasi reale mutamento di scenario contribuì la convergenza in Parlamento, su una piattaforma di centro, fra una parte della destra e una parte della sinistra attraverso una serie di intese personali e di compromessi pattuiti di volta in volta secondo determinate convenienze. Con il "trasformismo", con il superamento degli antichi steccati fra i due maggiori schieramenti, l'originaria distinzione fra destra e sinistra venne perdendo qualsiasi effettivo contenuto politico. Ma ciò non concorse alla formazione di salde maggioranze parlamentari. Anche perché alcuni autorevoli esponenti della sinistra costituzionale presero le distanze da Depretis. In questa circostanza, come nel decennio successivo, si scontarono gli effetti deleteri del divieto di votare e di essere eletti, imposto a suo tempo ai fedeli da Pio IX.

La perdurante astensione delle masse cattoliche dalla vita politica impedì così la formazione di un partito conservatore popolare che avrebbe potuto, con la sua presenza, porre le premesse per l'avvento di un sistema politico basato sul ricambio e l'alternanza della classe dirigente.

Dopo la scomparsa di Depretis finì per prevalere l'indirizzo del tutto personalistico di Francesco Crispi.

Venne varata nel dicembre 1888 la riforma della legge comunale e provinciale che estendeva il diritto di voto a tutti i cittadini maschi di 21 anni che sapessero leggere e scrivere e rendeva elettiva la carica di sindaco nei comuni con più di 10.000 abitanti. E nel giugno 1889 fu promulgato, con la firma del ministro Zanardelli, il nuovo codice penale che aboliva la pena di morte, attenuava le pene per i reati contro la proprietà, e sanciva la liceità dello sciopero. Sostenitore di una politica estera più risoluta, e primo uomo politico meridionale asceso alla presidenza del Consiglio, Crispi riteneva di poter coniugare l'affermazione degli interessi nazionali e l'emancipazione del Mezzogiorno mediante l'espansione coloniale, quale valvola di sfogo dell'emigrazione.

Dal maggio 1882, accantonando le rivendicazioni irredentiste su Trento e Trieste, l'Italia era entrata a far parte con l'Austria-Ungheria e la Germania della Triplice alleanza; e il nuovo sovrano Umberto I (succeduto a Vittorio Emanuele II nel 1878) s'era mostrato favorevole a un mutamento di indirizzo rispetto alla "politica delle mani nette". Inaugurato dall'acquisto nel 1882 dei diritti sulla Baia di Assab, sulle sponde del Mar Rosso, e dall'occupazione tre anni dopo di Massaua, l'insediamento dell'Italia in Africa orientale trovò in Crispi il suo più deciso fautore.

In quello stesso anno, rinnovata l'adesione alla Triplice, il contrasto con la Francia (emerso fin dal 1881, al tempo dell'annessione francese della Tunisia) sfociò in gravi tensioni diplomatiche e poi nell'interruzione dei rapporti commerciali con Parigi (la cosiddetta "guerra doganale"), di cui ebbero a fare le spese soprattutto le regioni meridionali tradizionali esportatrici di prodotti agricoli nei mercati d'Oltralpe.

L'avvicinamento agli imperi centrali influì anche sugli indirizzi di politica interna. Ammiratore di Bismarck, Crispi finì per adottare lo stesso modello autoritario del cancelliere tedesco. E ciò proprio quando, in seguito al declino delle tendenze anarchiche di cui negli anni Settanta erano stati alfieri Carlo Cafiero e l'esule russo Michail Bakùnin, l'estrema sinistra e il nascente movimento operaio si stavano orientando verso i princìpi del socialismo evoluzionista. Erano questi i valori professati dalla rivista Critica Sociale (nata a Milano nel 1891 per iniziativa di Filippo Turati e dell'intellettuale russa Anna Kuliscioff) che si proponeva, all'insegna delle idee di Marx ma anche dell'umanitarismo democratico, di indirizzare le forze operaie e socialiste verso un'unica organizzazione su modello della socialdemocrazia tedesca. Sotto la guida di Turati nasceva così, al Congresso di Genova dell'agosto 1892, il Partito dei Lavoratori Italiani, che tre anni dopo assunse il nome di Partito Socialista Italiano.

Tra gli esponenti della classe dirigente soltanto Giovanni Giolitti cercò di porre un argine sia alla politica coloniale, fonte di oneri eccessivi per le finanze pubbliche, sia ai metodi repressivi nei confronti del movimento operaio. Ma, travolto dallo scandalo della Banca Romana, il suo governo ebbe breve durata, dal maggio 1892 al novembre 1893.

Tornato al potere, Crispi ricorse nel gennaio 1894 alla proclamazione dello stato d'assedio e all'istituzione dei tribunali militari per stroncare le agitazioni scoppiate in Sicilia, a causa delle condizioni sempre più precarie delle masse contadine, e in Lunigiana per iniziativa degli anarchici. L'anno dopo, in ottobre, il governo giunse a sciogliere il Partito Socialista e a metterne al bando i militanti. A sbalzare di sella lo statista siciliano furono le disavventure coloniali. Proprio quando il trattato di Uccialli del maggio 1889 col negus Menelik riconoscendo l'occupazione di Asmara e del territorio sino al Marèb sembrava il preludio a un protettorato italiano sull'Etiopia. La disastrosa sconfitta subita il l° marzo 1896 da 16.000 soldati italiani nello scontro presso Adua con 70.000 abissini, segnò il ritiro di Crispi dalla scena politica.

I quattro anni che conclusero il secolo furono fra i più drammatici della storia italiana. La questione sociale era andata sempre più aggravandosi. Tant'è che pure la Chiesa con l'enciclica Rerum Novarum emanata nel maggio 1891 da Leone XIII aveva preso aperta posizione. Il pontefice indicava come dovere fondamentale dello Stato il compito di migliorare la sorte dei ceti più umili all'insegna dei princìpi della solidarietà. È un ideale questo che si affermerà nel secolo successivo. Nel frattempo esso valse a incoraggiare l'attività del movimento cattolico sociale. Su un altro versante il Partito Socialista intensificò in questo periodo le sue battaglie per l'adozione di concrete misure legislative a sostegno dell'emancipazione del proletariato.

Le manifestazioni popolari inaspritesi in seguito all'aumento del prezzo del pane, ma che rivendicavano anche più libertà e più giustizia sociale, assunsero un significato chiaramente politico. Dilagate un po' dovunque, queste agitazioni ebbero il loro epicentro dal 6 al 9 maggio 1898 a Milano, dove il generale Bava Beccàris ordinò ai soldati di sparare sulla folla provocando 80 morti e centinaia di feriti.

Proclamata la legge marziale, vennero sciolte le organizzazioni socialiste, radicali e cattoliche; mentre un nuovo governo, presieduto dal generale Pelloux, tentò di imporre una serie di leggi liberticide che avrebbero affossato il regime costituzionale, se l'opposizione congiunta in Parlamento dei liberali democratici e dei socialisti non fosse riuscita a respingerle ricorrendo anche all'ostruzionismo. Fu in questo clima incandescente di esasperata tensione che l'anarchico Gaetano Bresci venuto dall'America per vendicare le vittime dell'eccidio di Milano compì a Monza, il 29 luglio 1900, l'attentato che costò la vita a Umberto I.

Un itinerario, dunque, quanto mai tormentato quello dell'Italia nei suoi primi decenni di esistenza. E tuttavia, insieme alle difficoltà e ai motivi di divisione politica e sociale, non vanno dimenticati i progressi compiuti dal paese. Innanzitutto, la crescita della popolazione del 30 per cento, anche per via della diminuzione della mortalità, in particolare di quella infantile. E poi la riduzione dell'analfabetismo: tra il 1863 e il 1901 il numero degli insegnanti crebbe da 34.000 a più di 65.000. Insieme allo sviluppo delle vie di comunicazione (dal 1870 al 1890 la rete ferroviaria passò da 2.000 a 13.000 km), anche la formazione di un esercito di leva contribuì a congiungere le varie parti e popolazioni della penisola. Se nel 1866 i soldati e gli ufficiali piemontesi costituivano ancora i due terzi degli effettivi militari, la riforma del 19 luglio 1871, stabilendo la coscrizione obbligatoria generalizzata, fece dell'esercito un'istituzione autenticamente nazionale.

Un ruolo rilevante nell'unificazione culturale della penisola aveva svolto la sempre più diffusa stampa quotidiana (quasi tutti i grandi giornali di oggi erano già sorti a quell'epoca). E alla formazione di una coscienza nazionale aveva contribuito l'opera di scrittori e intellettuali: da Francesco De Sanctis, a Giosuè Carducci, dagli studiosi riuniti intorno all'Istituto Storico Italiano nato nel 1883 con il compito di coordinare la pubblicazione di documenti della storia nazionale; agli scienziati che avevano dato vita alla Società Italiana per il Progresso delle Scienze.

Ma forse nessun'opera più del libro Cuore di Edmondo De Amicis pubblicato dal 1886 in ben quaranta edizioni, aveva concorso alla formazione civica di tanti italiani, con le sue pagine in cui l'incitamento all'amor di patria si fondeva con quello all'osservanza delle norme morali e dei doveri sociali. Un paese ancora in bilico fra arretratezza e sviluppo, ma pieno di energie, desideroso di migliorare, di andare avanti. Questo è il ritratto dell'Italia che emergeva anche dall'Esposizione Generale tenutasi a Torino nel 1898, in occasione del cinquantenario dello Statuto Albertino e della prima guerra di indipendenza. Malgrado tanti problemi ancora aperti, prevale nel paese un clima di fiducia nel futuro, nelle prospettive del nuovo secolo.

 

Da un articolo di Valerio Castronovo pubblicato in “Storie d’Italia dall’unità al 2000”

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