8 settembre 1943: la difesa di Roma
Roma fu al centro degli avvenimenti dell'8 settembre: perché fu la città che più attivamente tentò di organizzarsi a difesa, e perché, con un pizzico di audacia - e forse solo con il normale spiegamento delle proprie capacità professionali - da parte dei capi militari, poteva essere liberata dallo sforzo congiunto dell'Esercito, del popolo e degli Alleati, che avevano previsto uno sbarco aereo di paracadutisti.
L'annuncio dell'armistizio, dato dalla voce funerea e meccanica del maresciallo alle otto del pomeriggio, sorprese la capitale, cagionando un tumulto di passioni, di illusioni e di speranze. Vi fu una parte che non seppe intuire le conseguenze, e accolse il discorso di Badoglio con il sollievo con cui s'accoglie la fine di un incubo. Ma il popolo comprese, e si mise subito in cerca di chi potesse dirigerlo. Nell'atmosfera eccitata della grande città, al termine di una giornata estiva placida e assolata come tutte le altre, passò un fremito antitedesco e risorgimentale. Ma la sera, al primo buio, già i cuori si rinserravano, pur senza un motivo esplicito, come stretti da presentimenti di lutto. La gente rincasava silenziosa, in un'attesa sgomenta.
Si videro carri armati, quella sera, nelle vie che portavano al Viminale e al Quirinale. Si pensò che l'Esercito italiano prendesse posizione per la difesa della città. Ma al mattino seguente erano spariti: più tardi si comprese che non s'era trattato che d'un episodio della fuga del re, del governo e dello stato maggiore, fuga che occupò, distraendole dai compiti aggressivi e difensivi per Roma, forze ingenti e perfettamente attrezzate. E Bonomi, quando, a nome del Comitato delle opposizioni, si recò il 9 mattina al Viminale per concertare col governo il concorso dell'antifascismo alla lotta, non trovò nessuno. Di conseguenza, il Comitato si costituì in Comitato di liberazione nazionale il giorno stesso, con Bonomi, Casati, De Gasperi, Ruini, Nenni, Scoccimarro, Lussu e incominciò da Roma la sua opera di direzione e di riorganizzazione, in vista della liberazione di quella che di lì a pochi giorni fu l'Italia occupata.
Febbrilmente, nonostante l'abbandono dei capi militari più qualificati, le forze popolari predisposero la propria resistenza. La sera dell'8 il gen. Carboni, ch'era stato designato al comando della difesa di Roma, con 4 divisioni ai suoi ordini più due altre dislocate nella città di Roma e nei dintorni, decise di non ostacolare l'armamento popolare. E difatti, la sera, mi consegnò tre autocarri di armi, prelevate da alcune caserme, e che scaricai la notte stessa ai vari depositi precostituiti presso magazzini e case private.
Il mattino seguente, tuttavia, gli ordini erano già mutati: proibito rifornirsi ancora di armi, proibito girare armati per la città. La polizia mise le mani su uno dei depositi notturni; il gen. Carboni, sollecitato ad intervenire, s'era reso irreperibile. Era evidente che, se si voleva seguitare la distribuzione delle armi - senza la quale non si sarebbe potuto contare su un intervento efficace dei volontari civili - bisognava proteggerla, stimolando manifestazioni popolari che creassero un'atmosfera ardente e tale da incutere rispetto alle forze di polizia, ai funzionari e agli ufficiali fascisti. In parte, la mossa riuscì per un'altra parte, si dovettero fronteggiare azioni della polizia e resistenze di reparti militari disorientati dal lavorio subdolo e corrosivo della quinta colonna, che spararono su colonne di dimostranti le quali chiedevano solo di combattere e di fraternizzare con le forze regolari dell'Esercito ..
Il quadro, al mattino del 9 settembre, era il seguente: i tedeschi avevano evacuato Roma; i combattimenti con le nostre truppe avevano avuto inizio fuori della città; il morale dei soldati incominciava a vacillare; le formazioni popolari erano armate in modo insufficiente. Ma, soprattutto, i tentativi più energici e conseguenti di resistenza all'invasore si urtavano con la contrarietà, sorda o aperta, di tutti gli organismi dirigenti. Ostacolato l'armamento, dissolti i Comandi superiori, contrastata l'opera di fraternizzazione tra popolazione ed Esercito dalle mosse disfattiste di ufficiali e di fascisti infiltratisi nelle forze armate, la situazione tendeva irresistibilmente a farsi insostenibile.
Si raccoglievano oramai a piene mani i frutti amari d'un colpo di Stato pilotato da interessi e da punti di vista reazionari; le conseguenze d'un rovesciamento di regime più apparente che sostanziale; gli effetti fatali di tutto un cumulo di errori, di debolezze, di tradimenti e di viltà. Lo stato maggiore era scomparso; le truppe migliori spostate agli obbiettivi cruciali al mero scopo di proteggere la ritirata dei «pezzi grossi»; le rimanenti, prive di un polso direttivo e abbandonate alla mercé d'una quinta colonna lasciata prosperare nel più perfetto rigoglio. Il popolo e l'Esercito erano rimasti soli, e in condizioni indicibilmente sfavorevoli, a fronteggiare un nemico deciso, che colmava l'inferiorità numerica con una schiacciante superiorità tattica e una ferrea coerenza direttiva.
Il 10 mattina la città era investita. La resistenza esterna era crollata, più per effetto dell'autosuggestione disfattista abilmente inoculata tra gli armati che per altri fattori. Qua e là, sporadicamente, s'erano verificati episodi di valore e di abnegazione, secondo le più nobili tradizioni del combattente italiano. Ma a poco a poco le truppe tedesche di assalto erano giunte a San Paolo, avvolgevano la Passeggiata Archeologica, erano li li per sfondare le ultime difese. Fu a questo punto che si produsse l'estremo, disperato sforzo dei difensori. Furono i granatieri, che morirono l'uno sull'altro, sparando fino all'ultimo colpo, sotto il sole a picco, nella località Cecchignola; furono i popolani, che accorsero accanto ai militari, e per alcune ore tennero duro presso la Piramide Cestia e in altri luoghi della capitale. Si ebbero i primi caduti della guerra di liberazione, tra cui Raffaele Persichetti, l'insegnante liceale accorso tra i primi e morto eroicamente alla testa d'un drappello di valorosi.
A piazzale Ostiense alcuni civili aiutano gli artiglieri della “Piave” a mettere in linea i pezzi.
Alla montagnola dell’Eur, un autoblindo della “Piave” viene colpito da un pezzo anticarro tedesco.
Civili che hanno combattuto sulla via Laurentina insieme ai “Granatieri di Sardegna”, catturati dai paracadutisti tedeschi della “Student”.
Ma nel momento decisivo della lotta, quando i tedeschi in qualche punto ripiegavano e in altri non riuscivano a passare, si produsse un fatto nuovo, che accelerò il processo di disgregazione che nonostante tutto seguitava a svilupparsi tra i combattenti. Il maresciallo Caviglia, di propria iniziativa, intervenne nel conflitto e prese a trattare con i tedeschi, si disse, il loro passaggio incruento attraverso Roma, per guadagnare posizioni strategiche più a nord. Fu l'inizio della fine. La voce lugubre della radio, che a brevi intervalli si insinuava fra mezzo al crepitio dei combattimenti; cadde sulla resistenza di Roma come un annuncio di capitolazione e di tradimento.
Una sensazione di sconforto invase i combattenti e il popolo; l’arrivo dei primi soldati in fuga dalle zone dei combattimenti, laceri, insanguinati, con l'elmo di traverso e il fucile penzoloni, contribuì ad accrescere l'impressione d'essere tutti vittime del caos, d'una confusione non, più frenabile. Le voci più contraddittorie serpeggiavano tra i combattenti e in mezzo alla popolazione; a poco a poco non rimase più che un velo di volontari e di soldati a contrastare l'attacco nemico. Caviglia e Calvi di Bergolo, comandante della «Piave», capitolarono; i tedeschi entrarono in Roma, dapprima con le bandiere bianche di parlamentari, poi, insultanti e brutali, col ghigno del conquistatore e, più spesso, del rapinatore di strada.
Passarono, le formazioni di Hitler, per vie deserte o popolate di gente ostile, muta. Le gialle divise dei paracadutisti, i simboli di morte dei carristi, i mitra spianati, furono accolti dalla tetra disperazione d'un popolo che si era battuto con valore e aveva sperato di dare inizio quei giorni al riscatto della patria.
L'aspetto di Roma quel giorno era l'aspetto d'una città ferita ma non vinta: la capitale di un'Italia affranta, ma unita in un intento profondo e inarrestabile di riscossa e di rinascita. Si trovò un modus vivendi ridicolo, con la funzione della«città aperta».
Ma la sera del 10 settembre era chiaro a tutti che si chiudeva una fase e se ne apriva un'altra, dura, difficile, sanguinosa e forse lunga, ma certamente luminosa, ma sicuramente di vittoria.
La resistenza di Roma rappresentò il tentativo più avanzato compiuto l'8 settembre di collegare le forze popolari all'Esercito. E per tutto ciò ch'esso contenne di anticipazione della resistenza popolare e partigiana, della guerra di liberazione, che in seguito avrebbe avuto un ben più ampio respiro, non può dirsi totalmente fallito. Sarebbe riuscito - non v'è dubbio - se i quadri dirigenti non avessero tradito, non importa se per insipienza, per calcolo, per viltà, per decadenza professionale o per irresolutezza; se la quinta colonna non fosse stata libera di agire a suo piacimento; se l'Esercito fosse stato tenuto in pugno da capi decisi e patriottici, capaci di trasfondere nelle sue file stanche e demoralizzate da tanti anni di fascismo lo spirito eroico e garibaldino che animava le masse popolari. Nonostante tutto questo, una parte dell'Esercito tenne duro, si batté finché potette, poi si diede alla macchia portando con sé armi e rifornimenti. Sentiva che non tutto era perduto, che dalla disfatta doveva venire immancabilmente la nostra risurrezione.
Bibliografia:
Luigi Longo “Un popolo alla macchia” Editori Riuniti 1965