La folle impresa di Russia
19 Janvier 2011 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale
OPERAZIONE BARBAROSSA
Senza dichiarazione di guerra, il 22 giugno 1941 la Germania attacca l'Unione Sovietica alla conquista dello «spazio vitale» a Est. È l'Operazione Barbarossa, che pone fine di fatto alla «alleanza innaturale» sancita col patto Molotov-Ribbentrop nell'agosto del 1939.
IL DUCE: «VENGO ANCH'IO»
Mussolini si offre di inviare truppe italiane in Russia, a sostegno del Corpo di spedizione tedesco. È un'offerta che Hitler fa capire di non gradire. Ma il Duce, che vuol far dimenticare i rovesci militari patiti in Grecia e in Africa, insiste. Viene così allestito il Corpo di Spedizione italiano in Russia (Csir). E così, in quello che si rivelerà lo scontro fra i più giganteschi eserciti mai affrontatisi nella storia, si trova implicata, sia pure di straforo, l'Italia. Tedeschi e alleati sono 3 milioni e 50 mila, 4 milioni e 750 mila sono i sovietici: in tutto 7 milioni e 750 mila soldati.
PARTE IL CSIR
Il Csir è composto da tre divisioni (la «Torino», la «Pasubio» e la «Celere») affidate al generale Messe. In tutto ci sono 50.000 soldati, 2.900 ufficiali, 4.600 quadrupedi, 80 aerei, artiglieria scarsa e antiquata, automezzi pochi e malfunzionanti. L'equipaggiamento è penosamente inadeguato al clima dell'inverno russo.
ITALIANI VALOROSI
Gli italiani, assegnati prima alla XI Armata di von Rundstet e poi alla I Armata di von Kleist, si comportano bene, guadagnandosi gli elogi dei generali tedeschi. A Isbuscenskij 650 uomini del Savoia Cavalleria inscenano l'ultima carica (vittoriosa) a cavallo della storia militare: un episodio eroico ma vistosamente fuori dal tempo. Gli italiani, comunque, partecipano alla grande manovra con cui le armate corazzate di von Guderian e di von Kleist prendono Kiev.
MESSE INALSCOLTATO
Le forze dell'Asse giungono in vista di Mosca, ma sono già provate dal gelo e dalla fatica. Con l'inverno le condizioni per i soldati italiani si fanno durissime. Ben presto i casi di congelamento arrivano a 3.600. A Natale resistono agli attacchi russi, nonostante le pessime condizioni di equipaggiamento, con calzature inadeguate, senza pellicce. Messe, buon generale, in disaccordo con i tedeschi, invia proteste a Roma: «Non si può andare avanti in queste condizioni». Ma non viene ascoltato.
MUSSOLINI TRIPLICA
Sordo agli appelli del generale Messe, Mussolini, spinto dalla sua smania di presenzialismo, si offre addirittura di triplicare la forza italiana operante sul fronte russo. E così, nella tarda primavera del 1942, Messe viene a sapere quasi per caso che il suo corpo di spedizione lascia il posto a una vera e propria armata, l'Ottava, con la sigla di Armir (Armata italiana in Russia) agli ordini del generale Gariboldi, che si era dimostrato mediocre in Libia.
OFFENSIVA RUSSA
Riorganizzati militarmente e forti di un equipaggiamento efficiente, i russi iniziano, il 10 dicembre 1942, la controffensiva sul fronte del Don, in concomitanza con l'assalto finale sovietico a Stalingrado. Essi concentrano l'azione contro le truppe più provate dal freddo. Le nostre erano schierate a fianco di quelle ungheresi e romene, su un fronte enorme, di 270 km. Cedettero per primi i romeni, e nel varco di infilarono i russi, che chiusero l'Armir in un'enorme sacca.
NIKOLAJEVKA
Le truppe italiane si trovarono accerchiate da forze enormemente superiori e iniziarono la grande ritirata dal Don sotto i continui assalti dei carri armati russi, nell'imperversare della tormenta. A Nikolajevka gli alpini della «Tridentina», che avevano trascinato in salvo migliaia di sbandati (non solo italiani) riescono a sfondare l'accerchiamento e a farsi strada verso il ritorno in patria.
CIFRE PAUROSE
Erano occorsi 200 treni per portare gli alpini in Russia, ne bastano 15 per rimpatriare i superstiti. Un bollettino speciale russo conclude così: «Solo il Corpo alpino italiano deve ritenersi invitto in terra di Russia». Ma a quale prezzo: la sciagurata campagna voluta da Mussolini era costata 26.115 morti, 63.184 dispersi, 43.116 feriti.
LA TRAGEDIA DEI DISPERSI
La tragedia dell'Armir non finisce con la guerra. Cala il silenzio sulla sorte dei dispersi, una tortura che durerà anni per le famiglie che li aspettano in Italia. Dalle carte emerse dal Kgb, dopo il crollo dell'Urss, si sa che i russi avrebbero fatto 48.957 prigionieri, di cui molti sarebbero morti nei campi e nei gulag.
Bibliografia:
supplemento del “Corriere della Sera” - dicembre 1999
* * *
La testimonianza di un soldato del Savoia Cavalleria
Ettore Sarti, novant'anni, ha partecipato ha partecipato alla battaglia di Isbuschenskij, quando per l'ultima volta nella sua storia la cavalleria italiana si lanciò alla carica, come in guerra ottocentesca, per rompere l'accerchiamento nemico.
L' avventura russa di Ettore Sarti era iniziata il 29 novembre 1941. Figlio di un calzolaio romano, Sarti si ritrova a Milano, nella caserma del Savoia Cavalleria. «Partimmo per il fronte russo con 5 squadroni e 1300 cavalli stipati in 25 vagoni ferroviari. Giunti a Timisoara, in Romania, ci venne ordinato di abbandonare le carrozze merci, perché i treni dovevano essere utilizzati dall' esercito tedesco. E così proseguimmo a cavallo: nella neve e nel ghiaccio cavalcammo 20 giorni consecutivi, 1200 chilometri nel cuore dell'impero Sovietico». Il momento della verità arriva all'alba del 24 agosto 1942. È estate, ma le temperature nella campagna di Isbuschenskij, un villaggio in un' ansa del fiume Don, sono sotto lo zero.
«Alle prime luci del giorno giunse per il secondo e terzo squadrone l'ordine di attacco» racconta Sarti. «In formazione a scacchiera, con le sciabole sguainate, ci lanciammo al galoppo contro l'artiglieria russa. Moltissimi di noi furono falciati dai proiettili. Ma riuscimmo a conquistare le trincee nemiche e a prendere prigionieri centinaia di soldati russi. Fu l'ultima, vittoriosa carica del reggimento Savoia Cavalleria».
Ma nell' autunno del 1942 i russi scatenarono la controffensiva che avrebbe annientato le forze nazi-fasciste sul Fronte Orientale. «Un mese dopo la carica di Isbuschenskij, venni fatto prigioniero insieme ai commilitoni sopravvissuti. E per noi tutti, giovani trai 18 e i 20 anni, iniziò un viaggio allucinante. Prima 225 chilometri a piedi, con 20 gradi sotto zero. Poi il trasferimento su vagoni merci fino ai confini della Siberia: a centinaia, in condizioni disumane, morirono assiderati su quel treno. A Kyrof, ottocento chilometri a nord-est di Mosca, venimmo ricoverati in un ospedale militare. Pesavo 39 chili, avevo la pellagra e un inizio di congelamento alla gamba destra. Si diffuse il colera e, dopo qualche mese, di noi italiani eravamo rimasti in vita solo una ventina.
da una intervista di Luca Fraioli e Giuseppe Serao
da “La Repubblica” del 17 gennaio 2011
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