Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

Le rovine del "Bel Paese"

14 Novembre 2010 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Dopo le prime azioni che mirano a colpire obiettivi importanti e d'interesse strategico la pioggia di bombe continua, falcidiando vite umane e distruggendo opere d'arte

 

Le sirene dell'allarme aereo suonarono a Torino otto minuti dopo la mezzanotte di martedì 11 giugno 1940: !'Italia era entrata in guerra il giorno prima. Cominciò la sirena di Mirafiori e subito la seguì quella della Maddalena, poi le altre. L'urlo lamentoso, della durata di quindici secondi, si ripeté sei volte: aerei sconosciuti, varcate le Alpi sulla verticale del Moncenisio, si dirigevano su Torino.

Era una serata afosa ma non troppo calda. Malgrado l'oscuramento parecchia gente sostava nelle strade; i locali della collina, verso Cavoretto, erano affollati. I cinema - dove ancora si proiettavano film americani come «L'amaro tè del generale Yen» e, in terza visione, «Seguendo la flotta» con Fred Astaire e Ginger Rogers - avevano chiuso i battenti alle 23. La «Manon» di Massenet, in scena dal Teatro della Moda, era terminata alle 24 in punto: l'urlo delle sirene accolse gli spettatori che per ultimi lasciavano la sala. Nel silenzio che seguì si poté udire il ronron degli aerei, alti nel cielo senza luna. Alle 0.47 i cannoni da 75/35 della Dicat i­niziarono un tiro di sbarramento, accompagnato da raffiche di mitragliera. Nello stesso istante le luci accecanti dei bengala si accesero sopra Stupinigi e sopra San Mauro; quasi contemporaneamente, con un fischio lacerante caddero 40 bombe da 500 libbre. L'indomani parecchia gente si precipitò alle edicole per cercare nei giornali le notizie dell'attacco aereo della notte prima ma fu delusa: non trovò neppure una riga. La stampa cittadina e nazionale tacque sui 14 morti e i 39 feriti anche il giorno dopo, 12 giugno, e soltanto il 13 il bollettino dell'una pomeridiana parlò di «velivoli nemici, probabilmente inglesi» che avevano attaccato Torino provocando «pochi danni e qualche perdita fra la popolazione civile».

Il bombardamento di Torino fu la prima di una lunga serie di incursioni (oltre 7.000) sulle città italiane durante i cinquantotto mesi e mezzo della guerra: l'ultima avvenne a Gemona del Friuli nella tarda serata del 30 aprile 1945. Complessivamente, secondo i dati dell'Istituto centrale di statistica, le vittime civili ammontarono a 59.796 persone (32.082 di sesso maschile; 27.714 di sesso femminile), pari all'intera popolazione di una città come Asti, o Mantova, o Caltanissetta. L'attacco a Torino rappresentò un vero e proprio raid mai tentato prima ma fu anche un prezioso test per gli esperti degli stati maggiori britannici: duemila chilometri di volo fra andata e ritorno con la necessità di attraversare due volte le Alpi a una quota fra i 5.000 e i 6.000 metri, prima col carico delle bombe e poi col carburante contato. I torinesi che in quella seconda notte di guerra trepidarono sotto lo scoppio delle bombe non sanno che, dei trentasei bimotori Whitley partiti dallo Yorkshire e diretti alla loro città, ventidue furono costretti ad ab­bandonare l'impresa a causa delle violente bufere sulle Alpi. Dei rimanenti, soltanto dodici giunsero nel cielo del Piemonte (gli altri due si diressero su Genova senza riuscire nella missione) ma non ebbero egualmente un compito facile. L'obiettivo primario degli Whitley era la Fiat Mirafiori, quello secondario lo scalo delle ferrovie. I bengala caddero fra Pinerolo e Stupinigi, alcuni andarono anche a nord del Po; tuttavia la loro luce abbagliante non rivelò la città ai piloti: tre quattro Whitley, infatti, proseguirono nella rotta fin quasi ad Asti prima di accorgersi di aver sbagliato obiettivo. Le quaranta bombe (e non trenta, come affermò il reticente bollettino italiano del 13 giugno) furono sganciate sia sulla Fiat sia su Porta Nuova ma fecero effettivamente fiasco.

Nei mesi che seguirono questi primi attacchi avvenne, in campo britannico, un fondamentale mutamento dal punto di vista tattico: l'arma aerea inglese, sotto la direzione di sir Arthur Harris, che non proprio a torto fu chiamato «il macellaio», sviluppò i tipo di velivoli adatti a lunghi percorsi e a notevoli quote e perfezionò gli strumenti di rilevazione e di puntamento. Più tardi, sul finire del 1942, dopo l'entrata in guerra degli Stati Uniti e lo sbarco anglo-americano nel Nord Africa, non un solo lembo del nostro Paese riuscì a sottrarsi all'offesa aerea, diurna e notturna.

In generale, nella fase iniziale del conflitto, cioè fra il giugno 1940 e l'inverno-primavera 1941, a far le maggiori spese dei bombardamenti inglesi furono le città del Meridione, più vicine alle basi britanniche di Malta e di Gibilterra.

Poi la guerra aerea degenerò e, nei suoi orrori, furono coinvolti i civili, senza discriminazione. Di fronte agli sviluppi e all'estensione del conflitto gli inglesi non tardarono, infatti, a sostituire all'indirizzo strategico dell'obiettivo unico e preciso (come la Fiat di Torino, o l'Ansaldo di Genova, o le acciaierie Breda di Milano) il concetto più generico di un bombardamento a zone («area-bombing») che aveva per scopo la progressiva distruzione e lo sconvolgimento del sistema militare, industriale ed economico nemico.

 

 

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Si vive alla giornata, con coraggio e spirito di adattamento, nella Milano dell'agosto 1943. Millequattrocento edifici sono distrutti. Subiscono danni anche la Scala, la Villa Reale, il Castello Sforzesco, la biblioteca Braidense

 

Tutti i più pesanti bombardamenti delle grandi città del Nord furono compiuti dalla Raf con aerei (Stirling, Lancaster, Halifax) partiti da aeroporti dell'Inghilterra meridionale: a cominciare da quelli dell'ottobre-novembre '42, i più disastrosi,· a quelli di Torino del 3 luglio '43 e di Arquata Scrivia, Savona, San Paolo d'Enza del 15 luglio '43 (ma in questo caso i bombardieri inglesi non tornarono indietro e dopo l'incur­sione proseguirono verso sud atterran­do ad Algeri). Anche i bombardieri che attaccarono Milano a Ferragosto del '43 (e l'indomani Torino) arrivavano dalla Gran Bretagna su una rotta che li portava ad attraversare le Alpi svizze­re. Gli americani e la Raf di stanza a Malta attaccavano invece le città del Sud e Centro Italia, come Roma.

Uno degli esempi della tattica dell' «area bombing» fu l'incursione aeronavale scatenata su Genova nell'alba della domenica 9 febbraio 1941. Una squadra della flotta britannica di base a Gibilterra, composta dall'Ark Royal, delle corazzate Renown e Malaya, scortata da incrociatori e da cacciatorpediniere, penetrò nel golfo ligure con una puntata di sorpresa. Favorite dalla foschia di quella grigia mattina festiva e dalla inspiegabile assenza della nostra ricognizione, le navi inglesi giunsero a 15 chilometri dalla costa e rovesciarono sulla città 273 colpi da 381 e 1.182 proiettili di minor calibro: il bilancio fu di 72 morti e 230 feriti.

Ma due anni e mezzo più tardi, quando ormai l'Italia, stremata, stava per uscire dal conflitto (e, caduto il fascismo, già si iniziavano le trattative per l'armistizio dell'8 settembre) i bombardamenti aerei sulle città aumentarono, inspiegabilmente, sia per il ritmo sia per la durezza. All'inizio dell'agosto 1943 Terni venne attaccata. L'obiettivo dichiarato era la stazione ferroviaria ma le bombe, invece, finirono sui quartieri di abitazione: la città fu semidistrutta, i morti accertati ammontarono a 564. La domenica 8 agosto, all'una del mattino, Milano venne attaccata da oltre 600 Stirling e Lancaster che demolirono, con i «block-buster», interi gruppi di case a Porta Venezia, a Porta Nuova, a Porta Garibaldi.

Il venerdì 13 agosto, all'una e un quarto di quella notte afosa, i bombardieri tornarono con altre distruzioni; tornarono anche la mattina di Ferragosto e poi il 16, per la terza volta conse­cutiva, Milano fu di nuovo duramente colpita. Nessuno dubitava che quelle azioni fossero «puro terrorismo». L'indomani della tragica «tre giorni» milanese il bilancio era terrificante: la città mancava di gas, acqua e luce; 1.400 edifici erano stati distrutti; 11.000 avevano riportato danni così gravi da essere considerati perduti, le comunicazioni ferroviarie e telefoniche erano interrotte e sarebbe occorsa almeno una settimana per riattivarle. « ... Non avevo visto niente di più grandiosamente orribile - disse un pilota inglese al ritorno dalla terza incursione su Milano, eppure aveva partecipato agli attacchi su Essen e su Norimberga - ... Mi chiesi perché eravamo lì a bombardare. Secondo me non c'era più niente da bombardare».

 

Milano-1943.jpg

 

Milano-Piazza-Fontana-bombardamento.jpg Milano-galleria-.gif

 

Bibliografia:

Giuseppe Mayda in La seconda guerra mondiale di Enzo Biagi – Ed. Corriere della Sera

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