Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

ricordo di Primo Levi

1 Janvier 2011 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Primo Levi era partigiano in Val d'Aosta quando venne catturato. Gli dissero: «Se sei ebreo ti mandiamo dietro i reticolati a Carpi, se sei un ribelle ti mettiamo al muro».

L’intervista che segue è stata pubblicata nel 1982 nel libro “1935 e dintorni” di Enzo Biagi ed. Mondadori

 

“Nel '38, leggi razziali. Una lunga conversazione con Primo Levi, a Torino, in un ufficio di Einaudi. Barbetta e occhiali, uno sguardo che sa leggere nelle avventure umane. Ha un'aria tranquilla, pacata, severa. Diffonde sicurezza. Dottore in chimica, ha scritto due libri che, e non solo per me, sono dei classici. Ricordano l'antico dramma di Giobbe: il giusto oppresso dall'ingiustizia. Ha narrato le sue esperienze, Auschwitz e le peripezie del viaggio di ritorno, per liberarsi da un peso.

Quella lontana estate. Tutto cominciò con qualche recensione di opere antisemite, due o tre articoli di giornali, e molti si illudevano che si trattasse «di qualche eresia del fascismo, poi si è visto che non era così». Levi è molto giovane, e una disposizione permette che gli studenti, anche stranieri, finiscano il loro corso: ci sono polacchi, cecoslovacchi, ungheresi, perfino tedeschi, che essendo matricole, hanno potuto laurearsi. Non si è mai capito perché.

Primo LeviPrimo Levi racconta:

«lo mi sentivo ebreo, da una stima vaga, al venti per cento: mio padre e mia madre e i miei nonni lo erano, ma praticanti abbastanza poco, l'equivalente della comunione ogni tanto, e più che altro per ragioni sociali, tradizionali. L'appartenenza a una certa cultura devo dire che era molto scarsa; il fatto di essere quasi integralmente assimilati, di parlare la lingua degli italiani, di avere le stesse abitudini, di vestirsi nella stessa maniera, un aspetto fisico che non si distingue in nessun modo, erano fattori di rapida assimilazione. Ho letto poi delle statistiche: anche senza quelle leggi, l'ebraismo sarebbe sparito perché i matrimoni misti erano molto numerosi».

Non frequentava il tempio, la comunità si ritrovava per la vita religiosa, poi c'era un orfanotrofio, una scuola, una casa di riposo per gli anziani e per i malati.

Continuò a studiare, arrivò alla laurea. C'erano tante piccole angherie: proibita la radio, ma poi, siamo sempre in Italia, te la davano lo stesso, vietata la donna di servizio, ma poi la tenevano ugualmente. Ma altri casi erano più tragici: impiegati dello Stato, insegnanti, che si sentivano magari fascisti, e che venivano scaraventati fuori. C'è il caso di uno, Di Jesi, mutilato di guerra in Africa e medaglia d'oro, che si sentiva ancora camicia nera nonostante tutto, ma andava a spaccare le vetrine dei bar di via Roma, dove avevano scritto: «Gli ebrei non sono desiderati». Commenta Levi: «Era rimasto entrambe le cose».

Nonostante gli avvertimenti, chiudevano gli occhi «per questa stupidità intrinseca all'uomo in pericolo»: ascoltavano i racconti degli scampati che riferivano fatti spaventosi, ma li vedevano lontani o romanzeschi, o frutto della propaganda: si tende sempre a ingigantire le atrocità dell'avversario. Il ragazzo Levi dà esami e va, anche con gli amici cristiani, in montagna «col vago presentimento che l'allenamento al freddo, alla fame e a decidere avrebbe servito».

E quando è arrivato l'8 settembre?

«lo stavo a Milano, lavoravo regolarmente per una ditta svizzera, la Wander, quella dell'Ovomaltina, perché non era così impossibile trovare un impiego, anche ben pagato; siccome la maggior parte degli italiani non ebrei erano sotto le armi, le occasioni non mancavano.

L'8 settembre sono ritornato a Torino dove c'erano i miei, sfollati in collina, per decidere il da farsi e avevamo pensato che era meglio star fuori dalla città perché, a questo punto, la minaccia era veramente troppo vicina. I tedeschi erano già venuti».

Infatti, il 1° dicembre 1944 la Repubblica Sociale inaugura i campi di concentramento. E Primo Levi, che fa il partigiano in Val d'Aosta, viene catturato, e gli dicono: «Se sei ebreo ti mandiamo dietro i reticolati a Carpi, se sei un ribelle ti mettiamo al muro».

Che cosa vuoi dire lager?

«In tedesco, almeno otto cose diverse, compresi i cuscinetti a sfere. Significa accampamento, luogo in cui si riposa, giaciglio, magazzino, ma nella terminologia attuale, anche in Germania, è il campo di concentramento, un luogo di distruzione. Auschwitz era qualcosa di poco reale, lo sbarco in un mondo imprevisto in cui tutti urlavano, in cui si creava il fracasso a scopo intimidatorio. Siamo stati privati dei bagagli prima, degli abiti poi, delle famiglie subito. Penso che a sopravvivere mi ha aiutato principalmente la fortuna, perché non c'era una regola che stabilisse che doveva farcela il più colto o il più ignorante, il più grasso o il più magro, il più devoto o il più incredulo; poi, a molta distanza, la salute, e una mia curiosità che non mi ha permesso di cadere nell'atrofia, nell'indifferenza, che era mortale. Chi si riconosceva in una fede, religiosa o politica, chi percepiva se stesso non più come individuo, ma come membro di un gruppo, ne era molto aiutato; anche se me ne vado, la mia sofferenza non è vana. Ma io quella fede non l'avevo».

Mi spiega la differenza tra i lager del Reich e quelli sovietici: i russi hanno avuto un numero di vittime paragonabile ai nazisti, ma c'era una diversità fondamentale: Stalin voleva lo sfruttamento e stroncare una resistenza alle sue decisioni, Hitler lo sterminio di un popolo.

Rievoca anche qualche momento di vita umana: «In un giorno di sole, di luce, durante una marcia, ho cercato di insegnare l'italiano a un mio compagno di prigionia, recitandogli il canto di Ulisse, che non sapevo bene, così a brandelli; era un francese, e aveva capito quanto fosse importante ripescare in fondo alla memoria un ricordo di scuola, un ricordo di poesia.

«E poi, il giorno del Kippur, del digiuno, che nessuno rispettava, perché eravamo tanto affamati; in fila per la zuppa della mia baracca, davanti a me c'è uno che conoscevo poco, un lituano, che si è presentato davanti al Kapo, un politico, comunista tedesco, un gladiatore, un omaccione grande e grosso, pieno di cicatrici, molto svelto coi pugni, e il piccolo ebreo lituano si è messo sull'attenti come era prescritto, e ha detto: "Signor superiore, per piacere, non mi dia la razione, me la tenga fino a domani, perché io stasera non posso mangiare", e l'altro, sconvolto dallo stupore ha detto di sì, e gli ha chiesto: "Perché lo fai?" e quello: "Perché sono credente e privandomi del cibo non solo faccio ammenda dei miei peccati, ma anche di quelli degli altri, e forse anche dei tuoi, Herr Kapo".

Che cosa signifìca essere ebreo?

«Un'infinità di posizioni, uno spettro che va da un estremo all'altro. Da una parte c'è l'ebraismo totale: è un fatto religioso, tradizionale, linguistico, nazionalistico, se vogliamo, con molte sfumature; e dall'altra c'è l'ebraismo anagrafico che consiste nel rifiutare tutto, se è possibile: la tradizione, la cultura, la fede, e comportarsi esattamente come il popolo presso cui il singolo, appartenente alla minoranza, abita. Nella realtà, ogni ebreo si sceglie una sua nicchia in qualche punto di questo spettro e la vive come desidera o come può.»

Come ha vissuto ad Auschwitz?

«Sono stato un anno non nel campo centrale, ma nel più grosso dei sottocampi di dodicimila prigionieri, che era incorporato nell'industria chimica, il che è stato provvidenziale per me perché io ero, e sono tuttora, laureato in chimica, e dopo dieci mesi passati come manovale, ho avuto la possibilità di trascorrere gli ultimi due mesi, ma erano i più freddi, in laboratorio.

«C'erano due allarmi al giorno, e la mia attività consisteva nel portare in cantina tutte le apparecchiature, e riportarle su appena suonava la sirena del cessato pericolo, ma tutti i vetri erano saltati, mancava l'acqua, mancava il gas, mancava la corrente elettrica e quindi era un lavoro puramente fittizio, con i russi a quaranta chilometri, già alla portata delle artiglierie».

Che cosa mancava maggiormente? La facoltà di decidere, si sentiva il disagio fisico ...

«In primo luogo il cibo. Questa era l'ossessione di tutti, di cui non ci si liberava mai».

Non pesava di più la nostalgia?

«Pesava soltanto quando i bisogni elementari erano soddisfatti. Perché è un dolore umano, un dolore ragionevole, un dolore al di sopra della cintola, diciamo, che riguarda l'uomo pensante, che gli animali non conoscono, e la vita del lager era animalesca e le sofferenze che prevalevano erano quelle delle bestie, appunto la fame, il freddo, essere mal coperti. E poi venire picchiati, quasi tutti i giorni, quasi tutte le ore. Anche un asino soffre per le botte, per la fame, per il freddo, anche un cane, e nei rari momenti in cui capitava che le sofferenze primarie cessassero, e accadeva molto di rado, allora affiorava questa altra categoria di dolori fra cui la nostalgia, l'esilio, la famiglia perduta, il pericolo, la paura della morte, anche. Stranamente, l'angoscia della morte era relegata in secondo ordine. Io ho raccontato nei miei libri la storia di un compagno di prigionia condannato alla camera a gas: lo sapeva, ma sapeva anche che in quella baracca, per usanza, si concede­va una seconda razione di zuppa a chi doveva andare a morire e lui, siccome avevano dimenticato di dargliela, ha protestato. È andato a dire: "Ma signor Kapo, io vado nella camera a gas, quindi devo avere un'altra porzione di minestra".»

Lei ha raccontato che nei lager si verificavano pochi suicidi: la disperazione non arrivava che raramente a portare all'autodistruzione.

«Sì, l'ho visto ed è stato poi studiato da specialisti, da sociologi, da fisiologi. Il suicidio era raro. Le ragioni addotte dagli scienziati sono molte: personalmente ne propongo una, ed è quella che dicevo prima, cioè che gli animali non si ammazzano. E noi, eravamo piuttosto animali che uomini».

Considera Auschwitz la sua seconda università: gli ha insegnato che non esiste né la felicità né l'infelicità perfetta, e a non nascondersi, per non guardare la realtà, e a trovare la forza di pensare. «Meditate che questo è stato/Vi mando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore/Stando in casa andando per via/Coricandovi alzandovi; ripetetele ai vostri figli».

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