Suore durante la Resistenza
La storia della Resistenza al fascismo e nazifascismo è storia di lotta armata, di eroismi e di tragedie. Ma la Resistenza è stata segnata anche da una grande partecipazione nonviolenta. La racconta Ercole Ongaro nel libro “Resistenza nonviolenta 1943-1945”. Ercole Ongaro è direttore dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea (Ilsreco)
«La resistenza attuata con tecniche non violente ha avuto un ruolo importante nella lotta di liberazione nazionale, favorendone sicuramente l'esito positivo» scrive Giorgio Giannini, segretario del Centro Studi Difesa Civile.
«Resistere è per prima cosa trovare la forza di dire 'No' [...] Caratteristica dell'atto di resistenza è la volontà di non cedere alla dominazione dell'aggressore che si manifesta in un atteggiamento radicale di non cooperazione e di confronto con l'avversario» afferma Jacques Sémelin.
La Resistenza civile può essere scandita in due forme fondamentali, sulla base di due diversi obiettivi: la prima consiste "nel ricorso a mezzi non armati per agevolare o rafforzare la lotta armata", quali l’aiuto della popolazione ai partigiani, la cura medica dei loro feriti, il favoreggiamento della loro fuga dagli ospedali, la mediazione per lo scambio di prigionieri, il ruolo delle staffette, l'intervento sulla segnaletica stradale, il posizionamento di chiodi sulla sede stradale. La seconda consiste "in un ricorso a forme di mobilitazione e cooperazione intese a difendere obiettivi civili", a contestare la legittimità dell'autorità occupante e collaborazionista, ad aiutare persone o gruppi perseguitati, a costruire nuove forme di legittimità, a impedire le deportazioni, a lottare per la dignità delle persone e per il loro diritto alla sopravvivenza, a lottare contro i diktat dell'occupante e la sua razzia di beni, di risorse, di persone.
In questa forma di resistenza si inserisce il comportamento di molte suore durante la Resistenza.
La scarsa visibilità delle donne nella storiografia della Resistenza è stata ancora più marcata nei riguardi delle suore, cui solo nell'ultimo quindicennio sono state dedicate ricerche specifiche per valorizzare il ruolo avuto da esse, singolarmente o come comunità religiose. La loro emarginazione può essere ricondotta sia alla loro stessa scelta di vita, per molti incomprensibile, sia alla loro "ritrosia a confrontarsi con il passato in nome di una modestia che è virtuosa sul piano personale ma non su quello della memoria collettiva".
Molte suore furono partecipi del salvataggio degli ebrei e tredici di loro (sette di Roma, quattro toscane e due piemontesi) furono insignite del titolo di "Giusta" dalla Fondazione Yad Vashem di Gerusalemme.
Numerosi conventi del Centro-Nord aprirono le loro porte offrendo un provvisorio o a volte un prolungato rifugio. In Piemonte numerosi istituti accolsero intere famiglie ebree o i loro bambini. Il cardinale di Torino Maurilio Fossati fu tra i presuli più attivi nel dare indicazioni in tal senso e nell'ispirare reti di sostegno attraverso il suo segretario don Barale. Nel convento delle Domenicane di Morozzo furono ospiti i membri della famiglia Bachi di Torino; le Domenicane dell'Istituto Sacra Famiglia di Dogliani accolsero la madre e la zia di Marco Levi, un imprenditore di Mondovì. La madre e la sorella di Luciano Jona, ex dirigente della Banca San Paolo di Torino, trovarono sistemazione presso l'asilo infantile delle suore Salesiane di Canelli. Nel convento delle Domenicane di Fossano (Cuneo) fino alla fine della guerra suor Maria Angelica Ferrari accolse la piccola Regina Schneider, mentre suo fratello era collocato in un istituto maschile e la loro madre nell'ospedale cittadino prima come degente e poi come dipendente. Tre bambine di ebrei croati trovarono rifugio nell'asilo del convento di San Giovanni a Rivalta per intervento di suor Maria Anna Operro, mentre i loro familiari vennero ospitati dalla famiglia contadina di Luigi Operro, fratello della suora. La direttrice del piccolo ospedale di Borgo San Dalmazzo nel Cuneese, Suor Anna Volpe, trovò un nascondiglio per undici bambini ebrei nella case del Cottolengo di Bra e della Morra. Le suore dell'istituto delle Figlie di Nostra Signora di Lourdes, a Casale Monferrato, accolsero nei primi mesi dopo l'8 settembre gruppi di ebrei in attesa che l'avvocato Giuseppe Brusasca prendesse di volta in volta accordi per il loro spostamento a Olgiate Comasco, da dove dei contrabbandieri li accompagnavano al confine svizzero.
Nel Bergamasco, a Torre Boldone, le suore Poverelle, che gestivano l'ospedale dell'Istituto Palazzolo e un orfanotrofio, prestarono soccorso dall'autunno 1943 prima a ex prigionieri alleati e poi a ebrei in fuga: gli ebrei venivano fatti passare per degenti fino a quando erano sicuri i contatti per il loro passaggio in Svizzera ad opera della rete clandestina OSCAR, organizzata presso il Collegio Arcivescovile San Carlo di Milano. Ma il 30 maggio 1944 una perquisizione dell'Ufficio politico investigativo accertò la presenza di alcuni di loro sotto falso nome: furono catturati i fratelli Guido, Mario e Vittorio Nacamulli, di origine greca, Giuseppe Weinsrein, di origine boema, Oscar Tolentini e Gustavo Corrado Coen Pirani. La superiora madre Anastasia Barcella riuscì a darsi alla fuga. Le indagini portarono poi la polizia fascista a interessarsi a una struttura collegata, l'Istituto Palazzolo di Milano, che aveva un ospizio femminile in via Gattamelata e uno maschile in via Aldini; il 14 luglio nell'ospizio femminile furono individuate soltanto tre anziane ebree, poiché altre dodici ebree erano state portate in un appartato ripostiglio dell'istituto. Furono recluse a San Vittore madre Donata Castrezzati e la sua segretaria suor Simplicia Vimercati. Il 17 luglio fu perquisito l'ospizio maschile e arrestata madre Clara Filippini, che aveva però fatto a tempo a mettere in salvo gli ebrei ospitati. L’intervento del cardinal Schuster riuscì a ottenere il 3 agosto il rilascio delle tre religiose, acconsentendo al loro "confino" nell'istituto per Frenastenici di Grumello al Monte (Bergamo). Dalla documentazione raccolta risulta che le suore Poverelle, tra ebrei e altri ricercati (resistenti e renitenti), accolsero 200 persone in via Aldini e 165 in via Gattamelata.
Un'altra oasi di salvezza per ebrei e ricercati fu il convento di clausura di S. Quirico ad Assisi, dove era abbadessa madre Giuseppina Biviglia, che fu indotta ad aprire le porte del suo convento dal vescovo Giuseppe Placido Nicolini. A portarvi i primi ebrei fu il guardiano del convento di San Damiano padre Rufino Niccacci; vi furono ospitate le famiglie Kropf, Gelb, Baruch, Jozsa e altre. Gli uomini stazionavano in un dormitorio, le donne e i parenti anziani nei locali della foresteria. A tutti vennero forniti documenti d'identità contraffatti per iniziativa di padre Rufino che coinvolse nell'impresa rischiosa il tipografo assisano Luigi Brizi, che produsse documenti falsi anche per la rete clandestina toscana (ritirati dal ciclista Bartali). Tutto funzionò a dovere fino al 26 febbraio 1944, quando qualcuno dei rifugiati, che era uscito dal monastero, fu fermato e rivelò di essere alloggiato a San Quirico. Ci fu una perquisizione, ma mentre madre Giuseppina teneva testa ai funzionari di polizia, gli ebrei riuscirono a mettersi al sicuro negli antichi sotterranei del monastero, da dove nelle notti seguenti uscirono per altre destinazioni.
A Roma nel 1943-44 vi erano 475 case religiose femminili; circa 150 offrirono ospitalità a ebrei e ricercati. Gli oltre 4.400 ebrei nascosti a Roma in strutture religiose erano collocati in maggioranza presso istituti di suore. Molte madri superiore si mossero di loro iniziativa, altre attesero indicazioni da parte di sacerdoti amorevoli in contatto con il Vaticano, soprattutto quando doveva essere violata la clausura. Un documento del 1945 ha assegnato il maggior numero di ospiti ebrei ai seguenti istituti: Suore di Nostra Signora di Sion (187), Suore Adoratrici del Preziosissimo Sangue (136), Suore del Buono e Perpetuo Soccorso (133), Maestre Pie Filippini (114), Oblate Agostiniane di Santa Maria dei sette dolori (103), Suore Orsoline dell'Unione Romana (103), Suore della Presentazione (102), Adoratrici Canadesi del Prezioso Sangue (80), Clarisse Francescane Missionarie del SS. Sacramento (76), Figlie del Sacro Cuore di Gesù (69), Suore Compassioniste Serve di Maria (63), Suore di San Giuseppe di Chambery (57).
Le suore furono inoltre molto attive negli ospedali per nascondere i ricercati, per far fuggire i degenti che rischiavano la deportazione o la fucilazione: all'Ospedale di Niguarda a Milano suor Teresa Scalpellini e poi suor Giovanna Mosna, dell'Istituto di Carità delle Sante Capitanio e Gerosa, furono protagoniste di molti interventi in questo campo e si mossero in sintonia con i medici Cazzullo, Rizzi, Gatti-Casazza, Grossoni e con le infermiere Minghini, Berti, Modone e Colzani.
Preziosa si rivelò la presenza delle suore nelle carceri, dove alcune figure ricevettero un attestato unanime di stima e di riconoscenza. A suor Giuseppina De Muro, religiosa delle Figlie della Carità con convento nel quartiere popolare di San Salvario a Torino, era stata affidata la responsabilità del settore delle detenute politiche nelle carceri, controllato dai tedeschi, sottoposto a disciplina molto rigida. Con le sue consorelle, una decina, fece entrare di nascosto in carcere indumenti e generi alimentari da distribuire alle detenute bisognose, in particolare alle ebree anziane prelevate in fretta e furia dalle case di riposo dove erano ricoverate. Poi ottenne di fornire medicinali ai detenuti: questo le permise di portare loro viveri, di diventare il tramite per informazioni familiari e politiche, di provvedere ai bisogni di una ventina di sacerdoti arrestati per aiuto a ebrei e partigiani. Su iniziativa delle Figlie della Carità fu anche allestita una infermeria.
A San Vittore fu suor Enrichetta Alfieri a conquistare i cuori dei detenuti. Vi era arrivata nel 1923. Fernanda Wittgens, direttrice della Pinacoteca di Brera, detenuta a San Vittore dal luglio 1944 ha testimoniato che suor Enrichetta "si prodigava per tutti, sempre presente, sempre carica nel soggolo, nella cuffia, nelle vesti, fin nelle scarpe, di messaggi, cibi, denari, nonché di lime d'acciaio". Molte decine furono i detenuti politici liberati e centinaia quelli a cui fu dato qualche soccorso. Per aver fatto uscire dal carcere un biglietto di una detenuta ai familiari e avervi a sua volta scritto alcune frasi, suor Enrichetta fu arrestata il 23 settembre 1944 con l'accusa di spionaggio e intesa col nemico e posta in una cella di isolamento. L'intervento del cardinal Schuster ottenne la sua liberazione il 7 ottobre, a condizione di un suo allontanamento: suor Enrichetta raggiunse le tre suore dell'Istituto Palazzolo confinate a Grumello al Monte. Fece ritorno a San Vittore il 6 maggio 1945, accolta con entusiasmo dai detenuti. Del gruppo di suore di San Vittore ha scritto Maria Massariello Arata, detenuta a San Vittore nei mesi di luglio e agosto 1944 e poi deportata a Ravensbruck:
«Ricordo con animo pieno di commossa gratitudine le revende suore di San Vittore: la madre superiora suor Enrichetta Alfieri, suor Gasparina, suor Vincenza, suor Onorina e le altre ancora. Sono anch'esse nobili figure della resistenza milanese. Con i maniconi della loro veste, le loro S. Messe in San Vittore, quanti biglietti portarono fuori dal carcere! Erano biglietti di collegamento dei carcerati con l'attività clandestina esterna che continuava, erano avvisi salutari, esortazioni alla prudenza. E tutto questo con grave pericolo. Vegliavano anche sugli interrogatori che avvenivano in una camera con finestra ad inferriate che dava sul giardino. Una sera quando il mio interrogatorio si prolungava più del consueto tra minacce di torture varie, approfittando di un'assenza del tenente e dei suoi collaboratori che erano andati a rifocillarsi, suor Vincenzina comparve tra le sbarre e mi porse un rosso d'uovo con marsala».
Un altro "angelo" delle carceri fu suor Demetria Strapazzon, che operava nella prigione di San Biagio a Vicenza. Si occupò soprattutto dei detenuti che mancavano di tutto, di vestiti e di viveri supplementari. Nell' autunno del 1943 si curò in particolare dei detenuti slavi, che da un anno non avevano contarti con le famiglie. Nei mesi seguenti ebbe a interessarsi dei resistenti torturati, cui medicava le piaghe, somministrava calmanti; assistette i condannati a morte, trascorrendo con loro le ultime ore e confortandoli con amore materno; introduceva in carcere viveri. Sentendosi spiata ed accusata, teneva preparata una valigetta nel caso venisse deportata all'improvviso. A fine guerra il capitano partigiano Gaetano Bressan la ringraziò con una lettera per l'opera da lei svolta "con tanto spirito di abnegazione e di cristiana pietà nei riguardi dei patrioti detenuti nel periodo della dominazione nazifascista".
Queste donne coraggiose uscite dall'anonimato, rappresentano centinaia di altre suore che nelle carceri, negli ospedali e nei loro istituti si sono schierate dalla parte delle vittime e di chi era nel bisogno: con scarsa o nessuna coscienza politica inizialmente, poi man mano sempre più consapevoli delle loro scelte orientate a salvare vite in nome del senso umanitario e della carità cristiana che faceva loro riconoscere nei sofferenti il volto del Signore a cui si erano consacrate.
Bibliografia:
Ercole Ongaro, Resistenza nonviolenta 1943-1945, I Libri di Emil Editore