Un posto al sole
Infrantosi nel 1896 (con la disastrosa disfatta di Adua) il disegno a cui mirava il governo di Francesco Crispi di impadronirsi dell'Etiopia, non era bastato il possesso dell'Eritrea e della Somalia per arginare un fenomeno come quello migratorio che nell'ultimo quarto dell'Ottocento aveva cominciato ad assumere dimensioni imponenti.
Neppure l'occupazione nel 1911 della Libia (per altro mai portata a compimento del tutto) era valsa a contenere l'esodo di tanti emigranti in cerca di lavoro. Anzi, proprio negli anni antecedenti la Grande Guerra, il movimento migratorio aveva registrato gli indici più elevati. Così che, alla fine del primo quindicennio del Novecento, ammontava a quasi nove milioni il numero delle persone espatriate: assai più di quante ne fossero partite da altri paesi europei di forte emigrazione come l'Irlanda, la Polonia e la Spagna.
Pesanti erano stati i disagi e gli ostacoli che le comunità italiane avevano dovuto affrontare, anche per via talora di odiose discriminazioni. E tuttavia era andata crescendo la schiera di quanti, a costo di durissimi sacrifici, avevano migliorato la propria posizione e messo da parte qualche gruzzolo. Di fatto, le rimesse degli emigranti, i sudati risparmi che essi mandavano in patria alle loro famiglie o riportavano al loro ritorno, avevano contribuito, sommati insieme, al saldo attivo della nostra bilancia dei pagamenti e perciò allo sviluppo dell'economia italiana. Ma, all'indomani della guerra, alcuni governi europei, in difficoltà economiche, avevano chiuso le loro frontiere. E quello di Washington, in particolare durante la presidenza del repubblicano Hoover, aveva limitato notevolmente l'ingresso negli Stati Uniti agli emigranti dai paesi dell'Europa Orientale e Mediterranea, fra cui l'Italia. Da parte sua il regime fascista aveva cercato, per ragioni di prestigio internazionali, di scoraggiare il movimento migratorio verso l'estero, puntando in alternativa su un vasto programma di colonizzazione interna. Ma il trapianto di pur numerosi nuclei di disoccupati nelle zone di bonifica non poteva certamente bastare a colmare il divario cronico fra la scarsità di risorse e l'eccedenza di popolazione. Si riaffacciò così, quando s'era appena cominciato a mettere a frutto le coste della Tripolitania, il miraggio di un'ulteriore espansione coloniale, come antidoto all'esuberanza demografica. In tal modo, il mito fascista del «destino imperiale» dell'Italia, quale erede della «Roma dei Cesari», venne saldandosi alle vecchie componenti populistiche e ruralistiche che già avevano alimentato le avventure coloniali nell'età liberale. Ancora una volta «l'Italia grande proletaria» (per dirla con lo slogan coniato dal nazionalista Enrico Corradini) si sarebbe mossa per conquistare uno "spazio vitale".
Di fatto l'assoggettamento dell'Etiopia tornò a costituire un obiettivo preminente, nonostante la stipulazione nell'agosto 1928 di un accordo di amicizia ventennale con il governo di Addis Abeba. Che questo fosse il proposito del Duce, lo aveva chiarito senza mezzi termini il ministro degli Esteri Dino Grandi, in una seduta del Gran Consiglio del fascismo dell'ottobre 1930:
«Un'Italia più forte non può rimanere per sempre aggrappata, come siamo oggi in Eritrea, all'estremo ciglio dell'altopiano etiopico, ovvero ristretta, come lo siamo oggi in Somalia, tra il Giuba e i deserti petrosi dell'Ogaden».
Ma si era dovuto attendere, per agire in questa direzione, che giungesse a compimento la totale sottomissione della Libia. Ciò che avvenne nel 1931 quando anche il leader della resistenza senussita, Ornar Al-Muctar, venne catturato e impiccato. Da quel momento erano stati accelerati i preparativi militari per l'attacco all'Abissinia e così pure quelli politici e diplomatici. Essenziale fu, in particolare, l'intesa raggiunta nel gennaio 1935 con il governo di Parigi, disposto a concedere il suo placet per la conquista italiana dell'Etiopia al fine di compensare la delusione subita dall'Italia al tavolo della pace di Versailles e di esorcizzare, in tal modo, il pericolo di un isolamento della Francia di fronte al risorto fantasma (dopo l'avvento al potere di Hitler) di una rivalsa tedesca in Europa.
Nel frattempo Mussolini aveva affidato alle organizzazioni del partito il compito di mobilitare il paese in favore dell'impresa etiopica, facendo leva tanto sulle masse contadine senza terra, quanto sulla piccola borghesia frustrata da un complesso di inferiorità di fronte allo status imperiale di altri paesi europei. A sua volta, un rapporto della Società delle Nazioni sulla schiavitù nel mondo, nel quale l'Etiopia veniva indicata come uno dei paesi che non avevano ancora ratificato la convenzione del 1926 che ne imponeva l'abolizione, valse ad accreditare presso l'opinione pubblica la tesi che l'Italia si accingeva a intraprendere in Africa Orientale un'opera di civilizzazione.
Tuttavia, non fu soltanto la martellante propaganda condotta dalla radio e dalla stampa, a rendere popolare fra gli italiani la guerra d'Abissinia. Se per alcuni c'era da vendicare Adua e da far valere gli interessi dell'Italia come grande potenza, per tanti altri c'era soprattutto la convinzione che la conquista dell'Etiopia avrebbe procurato nuove possibilità di lavoro in un periodo ancora afflitto dai postumi della grande crisi economica del 1929.
Molti furono i volontari fra quanti salparono per l'Africa e pressoché unanime fu l'adesione degli italiani. Anche dalle file dei vecchi oppositori del regime numerosi e genuini furono i consensi dell'impresa etiopica. Vittorio Emanuele Orlando espresse a Mussolini la sua adesione. E fu presto seguito da altri personaggi fino ad allora contrari al fascismo.
Per sostenere la spedizione in Etiopia il regime non badò a lesinare uomini e mezzi, nell'intento di concludere il più rapidamente possibile la campagna militare per evitare tanto eventuali complicazioni internazionali, quanto ogni ipotesi di compromesso con il Negus Hailé Selassié.
«Voglio peccare per eccesso non per difetto», dirà Mussolini promettendo ai suoi generali il doppio dei soldati che essi ritenevano sufficienti per la spedizione. Completata così la preparazione bellica, il Duce si rivolse, il 2 ottobre 1935, agli italiani per annunciare loro:
«Con l'Etiopia abbiamo pazientato quarant'anni. Ora basta!». L'esercito abissino era mal equipaggiato e armato in modo sommario. E il Negus non poteva contare interamente sulla fedeltà dei ras locali. Anche se non si trattò di una passeggiata, non fu difficile per gli italiani avanzare rapidamente fin nel cuore dell'Abissinia. Enorme era la superiorità in truppe, armamenti e tecnica militare. Tant'è che mai s'era visto uno spiegamento di forze così imponente per una guerra coloniale. Non si esitò a usare anche il gas e altre armi chimiche, proibite dalle convenzioni internazionali. Quintali di bombe caricate a iprite vennero sganciate dall'aviazione sulle postazioni nemiche.
A nulla valsero le sanzioni economiche che cinquantuno stati aderenti alla Società delle Nazioni adottarono nei confronti dell'Italia, quale paese aggressore dell'Etiopia, con una risoluzione votata il 2 novembre 1935. All'embargo sulle armi e sui materiali strategici (peraltro mai interamente applicato) e alla restrizione delle importazioni (ma non per le forniture di carbone e petrolio), il governo fascista reagì con l'autarchia e con un appello alla solidarietà nazionale.
Il 18 dicembre si svolse la Giornata della Fede in tutta Italia. All'insegna della parola d'ordine «oro alla patria», gli italiani furono invitati a donare le fedi nuziali per sostenere lo sforzo bellico del paese; in cambio ai donatori venne dato un anello di ferro. La raccolta fruttò un'ingente somma. Pur avversario del regime, Benedetto Croce donò la sua medaglia di senatore, mentre Luigi Pirandello offrì quella da lui ricevuta con il premio Nobel.
Il 5 maggio 1936 il generale Badoglio entrò ad Addis Abeba e due giorni dopo il generale Graziani fece ingresso nella città di Harrar. Sebbene una parte consistente dell'Etiopia fosse ancora da occupare e restassero in armi non meno di 50.000 abissini, la guerra poteva considerarsi conclusa. Il 9 maggio Mussolini annunciava al mondo che «sui colli fatali di Roma era tornato l'Impero dei Cesari», L'Italia era giunta così a possedere un grande impero. Lo superavano, per estensione territoriale, solo quelli dell'Inghilterra e della Francia. Per il Duce e il fascismo fu l'apoteosi. Mussolini venne glorificato come «il fondatore del secondo Impero», che avrebbe concluso «due millenni di storia» e coronato le «più profonde aspirazioni della stirpe». Al Re Vittorio Emanuele III andò il titolo di imperatore.
Sembrò così che la strada fosse oramai spalancata per altre avventure e altri inebrianti successi. Nell'agosto 1936, parlando a Potenza, Mussolini affermava: «Hanno diritto all'impero i popoli fecondi, quelli che hanno l'orgoglio e la volontà di propagare la loro razza sulla faccia della terra, i popoli virili nel senso più strettamente letterale della parola».
L'anno dopo, il 16 marzo, Mussolini presenziò in Libia a un'imponente esercitazione navale in prossimità del confine egiziano. Due giorni dopo, a Tripoli, il Duce, sguainando la spada dell'Islam, si erse a difensore degli interessi dei popoli musulmani del mondo nei confronti delle vecchie potenze coloniali. Ciò che indusse alcuni notabili islamici ad appoggiare per qualche tempo, la sua politica estera. Nel frattempo migliaia di italiani si riversarono nella nuova colonia. Ma poche, non più di 3.500, furono le famiglie che riuscirono a stabilirsi in Abissinia e soltanto 110.000 ettari, sui 50 milioni disponibili, furono le terre bonificate. Assai più numerose risultarono le schiere di impresari e di lavoratori edili, di tecnici e addetti ai trasporti, di esercenti e di artigiani, accorsi in Etiopia. Con il loro lavoro essi concorsero a trasformare il volto ancora arcaico del paese appena conquistato, costruendo strade, edifici pubblici, ospedali, realizzando opere di bonifica e infrastrutture. Lo riconoscerà per primo lo stesso Hailè Selassiè al suo rientro in patria nel 1941, al seguito dell'esercito inglese.
La guerriglia condotta dai superstiti dell'esercito abissino giunse a colpire lo stesso vicerè di Etiopia Graziani (rimasto ferito nel febbraio 1937 in un attentato nella capitale abissina).
Ma non bloccò l'opera di valorizzazione dei nuovi possedimenti. Nel breve giro di diciotto mesi venne costruita la strada che da Massaua portava sino a Addis Abeba. A tempo di record fu realizzata anche la ferrovia tra Massaua e Asmara che superava un dislivello di oltre 2000 metri. Dalle vie di comunicazione all'urbanistica, dall'irrigazione ai servizi sanitari, ingente fu il fiume di denaro speso dall'amministrazione italiana in Etiopia. Senza tuttavia un adeguato corrispettivo per la madre-patria in materie prime e prodotti agricoli.
Eliminata la schiavitù, venne peraltro imposto dal governo fascista un regime di rigida separazione fra italiani e indigeni. Solo per la Libia, dove dal 1934 s'era insediato come nuovo governatore Italo Balbo, si continuò a fare un'eccezione. Giacché si trattava - così recitavano le direttive ministeriali - di una «terra abitata da popolazioni anche di razza bianca e di cultura superiore, tenute a freno per giunta dalle rigorose norme morali della religione musulmana».
Per Mussolini non s'era andati in Abissinia, come affermava, per «imbastardirsi». Anche la canzone Faccetta nera, che aveva accompagnato l'avventura etiopica, venne censurata in quanto alludeva a relazioni amorose degli italiani con donne indigene. Si trattava, stando a una pubblicazione ufficiale, di un «accoppiamento con creature inferiori», assolutamente deleterio, non solo per le sue conseguenze fisiologiche, ma anche perché avrebbe generato una «promiscuità sociale in cui si annegherebbero - così si diceva - le nostre migliori qualità di stirpe dominatrice». Ma l'''apartheid'' non trovò mai piena attuazione, nonostante la propaganda segregazionista delle organizzazioni fasciste e le successive leggi razziali. Se le speranze originarie sulla ricchezza dell'Etiopia si rivelarono presto illusorie, altrettanto avvenne per le ambizioni di affermazione internazionale coltivate da Mussolini. Lo spostamento del baricentro della politica estera italiana verso il Mediterraneo e l'Africa comporterà, di fatto, l'abbandono dell'Austria, a vantaggio delle mire espansionistiche di Hitler, e la progressiva perdita delle aree d'influenza acquisite nei Balcani e in Europa centro-orientale.
In compenso la macchina bellica allestita per l'impresa etiopica aveva ridato ossigeno all'industria, tornata così a produrre profitti e investimenti. La littorina (l'automotrice per le ferrovie divenuta presto popolare), il rayon e le altre fibre tessili artificiali, una nuova gamma di fertilizzanti chimici, il minerale di Carbonia, la Topolino (la prima vetturetta utilitaria prodotta dalla Fiat), furono i risultati più tangibili di questa nuova stagione di euforia economica.
Ma l'indirizzo autarchico si rivelò presto una "camicia troppo stretta" per le imprese. E risultarono spesso inutili le ricerche di materiali sostitutivi di quelli d'impiego normale. Sebbene in quegli anni la produzione industriale fosse giunta a superare per la prima volta il reddito dell'agricoltura, il ruralismo, il primato della terra e dei valori patriarcali, rimase il cardine dell'ideologia sociale del regime. Mussolini continuò a credere, e a far credere ai suoi gerarchi, ma anche a tanti italiani, che le basi fondamentali della ricchezza e della potenza del paese fossero l'espansione demografica e la conquista di un "posto al sole", il numero delle braccia e il possesso di qualche lembo d'Africa.
Da un articolo di Valerio Castronovo pubblicato in “Storie d’Italia dall’unità al 2000”