Le leggi razziali del fascismo
Nel 1938 venivano emanate dal governo di Mussolini le leggi razziali che causarono la deportazione degli ebrei italiani nei campi di sterminio.
Accadde settanta anni fa: il 16 ottobre Dannecker (SS capo di un gruppo mobile di intervento per mettere in opera le azioni di rastrellamento nelle grandi comunità ebraiche italiane) e Kappler ordinarono il rastrellamento del ghetto romano. Nell’ azione furono arrestate 1259 persone. La maggioranza lasciò Roma il 18 ottobre su diciotto vagoni merci in direzione nord.
Le leggi razziali del fascismo furono una vergogna e una infamia imperdonabile.
Quelle leggi, infatti, portarono alla morte migliaia di ebrei e provocarono sofferenze indicibili, paura, terrore, angoscia e miseria.
Le leggi razziali furono emanate nel 1938: esattamente il 14 luglio con la pubblicazione del famoso “Manifesto del razzismo italiano’’ poi trasformato in decreto, il 15 novembre dello stesso anno, con tanto di firma di Vittorio Emanuele III di Savoia, Re d’Italia e imperatore d’Etiopia “per grazia di Dio e per volontà della nazione”.
Il 25 luglio, il ministro della cultura popolare Dino Alfieri e il segretario del partito fascista Achille Starace si erano premurati di ricevere “un gruppo di studiosi fascisti, docenti nelle università italiane che avevano, sotto l’egida del ministero della cultura popolare, redatto il manifesto che gettava le basi del razzismo fascista”.
Le norme erano complesse e articolate, il contenuto chiaro e preciso: fuori gli studenti ebrei dalle scuole pubbliche e private frequentate da alunni italiani (ad eccezione - nel caso la «razza» fosse stata temperata da un battesimo - di quelle private cattoliche); fuori il personale direttivo, insegnante, amministrativo, di custodia ecc. di «razza ebraica»; fuori gli ebrei dalle accademie; fuori dalle scuole medie i libri di testo frutto, anche parziale, di mano ebraica. Gli ebrei venivano anche licenziati dalle amministrazioni militari e civili, dagli enti provinciali e comunali, dagli enti parastatali, dalle banche, dalle assicurazioni.
Tutti i ricercatori dei centri scientifici, se ebrei, erano stati cacciati fino all'ultimo uomo. I loro colleghi «ariani» avevano assistito senza fiatare, chi compiaciuto, chi dispiaciuto e imbarazzato. Molti primari di ospedale erano stati costretti, per sopravvivere, a sbarcare il lunario diventando piccoli contabili presso qualche benevolo imprenditore. A questa epurazione vergognosa si erano aggiunte norme vessatorie che impedivano ai «giudei» di avere dipendenti «di razza pura», di contrarre matrimoni misti, di esercitare una serie di attività. Gli ebrei di origine straniera erano stati espulsi dal Paese.
Il 5 agosto del 1938, comparire nelle edicole e nelle librerie, il primo numero del giornale “La difesa della Razza”, diretto da Telesio Interlandi.
Interlandi era un giornalista e uno scrittore sulla cresta dell’onda che già dirigeva, su richiesta di Mussolini, il quotidiano “Il Tevere”. Gli scritti di Interlandi erano già di un razzismo ripugnante. Con “La difesa della Razza”, la politica del regime nei confronti degli ebrei diventa metodica e, per così dire, “scientifica” e pianificata. La rivista, fu il prodotto giornalistico più vergognoso e infame del fascismo.
In seguito, Giorgio Almirante fu chiamato a ricoprire l’importantissima carica di segretario di redazione della rivista.
“Anche se non coordinate tra loro, le azioni di settembre furono comunque i primi segnali dei gravissimi avvenimenti che di lì a poco avrebbero travolto la comunità ebraica italiana durante l'occupazione del Paese. Nessuno, però, aveva ancora avuto chiara notizia dei massacri avvenuti in Russia, né delle carneficine effettuate nei campi della morte in Polonia, né delle selezioni verso le camere a gas già in atto nel campo di sterminio di Auschwitz.
L'antisemitismo fascista nonostante le sue leggi vessatorie e vergognosamente discriminatorie, non si era mai tradotto in atti dil crudeltà fisica generalizzata.
Paradossalmente, l'antisemitismo legalizzato italiano servì a disorientare i più, che non ritennero necessario fuggire finché ve n'era ancora il tempo” (Liliana Picciotto Fargion).
«Molti ebrei erano convinti che le atrocità di cui sentivano parlare non potevano accadere in Italia. Era purtroppo un'illusione. E più di settemila ebrei, il 15 per cento del totale in Italia finirono nei campi di concentramento (Alexander Stille).
«I fascisti parteciparono attivamente alla ricerca e all'arresto degli ebrei destinati ai campi di sterminio rintracciati il più delle volte grazie agli elenchi che il governo di Mussolini aveva fatto predisporre fin dal 1938» (Arrigo Levi).
Le leggi razziali restarono operanti anche durante i 45 giorni di Badoglio. Le prefetture andarono avanti a fare il loro dovere, aggiornando gli schedari nei quali finirono anche quegli ebrei che continuavano ad affluire dai paesi invasi dalle armate di Hitler.
Con la messa sotto controllo da parte tedesca dell'Italia nel settembre 1943 risultò eliminato per un'altra organizzazione nazionalsocialista un ostacolo che ! l'a stato rappresentato dal governo italiano: l'ufficio di Eichmann intravide ora la possibilità di estendere anche in Italia e nei territori italiani occupati la «soluzione finale». La decisione di introdurre nel 1938 nell'Italia fascista le leggi razziali antiebraiche, cui seguirono ben presto misure restrittive per eliminare gli ebrei dalla vita economica italiana, voleva avere una ripercussione politica soprattutto verso l'esterno, in quanto significava un avvicinamento ideologico alla Germania nazionalsocialista, più che ['espressione di un antisemitismo che fosse fortemente radicato nella popolazione italiana.
Con l'occupazione tedesca dell'Italia, l'ufficio di Eichman (alla Direzione generale per la sicurezza deI Reich) ebbe così la possibilità di trasferire qui i piani nazionalsocialisti di sterminio.
Circa 44000 ebrei si trovavano in Italia nell'estate 1943.
Dato che con la registrazione amministrativa erano già state apprestate le relative msure, ai rappresentanti di Eichmann in Italia rimaneva.«soltanto» di passare alla cattura e deportazione delIe loro vittime italiane.
I pianificatori della deportazione – e questo rese più dirompente sul piano diplomatico l’azione antiebraica nel ghetto romano – si preoccuparono di una possibile protesta del papa contro la deportazionedi ebrei (8.000 residenti a Roma) o temevano addirittura da parte del Vaticano l’abbandono della politica di neutralità.
Roma non fu la prima città in cui furono attuate misure antiebraiche: singole deportazioni erano già avvenute a metà settembre a Merano, e il 9 ottobre anche a Trieste, mentre reparti della Divisione «Guardie del corpo di Adolf Hitler» fecero un eccidio a Meina, sul lago Maggiore.
Il 16 ottobre Dannecker (SS capo di un gruppo mobile di intervento per mettere in opera le azioni di rastrellamento nelle grandi comunità ebraiche italiane) e Kappler ordinarono il rastrellamento del ghetto romano. Nell’ azione furono arrestate 1259 persone. La maggioranza lasciò Roma il 18 ottobre su diciotto vagoni merci in direzione nord. Perfino in tale situazione il papa non ritenne consigliabile prendere apertamente posizione contro le deportazioni e la protesta diplomatica non ebbe alcun seguito.
Da parte della Chiesa l'unica ufficiosa reazione fu la lettera del vescovo Hudal, rettore della Chiesa cattolica tedesca di Roma, il quale chiese la sospensione degli arresti onde evitare che il papa prendesse pubblicamente posizione contro e con ciò fornire un'arma alla propaganda antitedesca. Quando il telegramma giunse a Berlino, gli ebrei romani erano già avviati oltre il Brennero incontro al loro triste e fatale destino.
Entro la fine di novembre in molte città italiane del settentrione si ebbero altre azioni contro gli ebrei.
Là dove la diplomazia vaticana fu assente, tanto più efficace fu l’ aiuto a Roma fornito da religiosi. Soltanto a Roma, oltre 4000 ebrei furono sottratti alla persecuzione in conventi, congregazioni, parrocchie- e nel Vaticano stesso. Senza la solidarietà quasi unanime che gli italiani offrirono ai loro connazionali ebrei e ai fuggiaschi perseguitati, il numero di ebrei vittime del nazismo sarebbe sicuramente stato più elevato.
I piani di Eichmann sembrarono più facilmente realizzabili dal novembre: infatti il 14 novembre, il congresso del Partito fascista a Verona proclamò che tutti gli ebrei non erano soltanto stranieri ma anche appartenenti a una «nazionalità nemica».
Il 30 novembre il ministro degli Interni, Buffarini-Guidi diede ordine a tutti i prefetti di raccogliere «in campi di concentram nelle province tutti gli ebrei»; le proprietà degli ebrei arrestati sarebbero state requisite e assegnate persone evacuate perché vittime dei bombardamenti.
I piani nazisti dello sterminio ricevettero un apporto decisivo grazie all’arresto e all’internamento degli ebrei nei campi di concentramento italiani.
Un numero non indifferente di ebrei (circa 2500) avevano optato per la resistenza attiva contro i tedeschi e si era unito ai partigiani.
Diversi gruppi di polizia fascisti (come per esempio nel caso di Milano, la Muti, gli Uffici investigativi politici, il gruppo Koch) partecipavano alla ricerca degli ebrei nascosti.
Per le deportazioni naziste e le persecuzioni in Italia e sulle isole di Rodi e di Kos perdettero la vita circa 8.000 ebrei. 820 ebrei italiani sopravvissero alle deportazioni.
Le autorità fasciste furono – e i fatti lo dimostrano – strettamente legate agli occupanti nazisti e fornirono nomi ed elenchi “dei figli di Israele” da portare via per sempre. Altre volte, parteciparono direttamente ai rastrellamenti e alle deportazioni. Certo, ci furono questori coraggiosi, poliziotti, carabinieri e autorità militari che aiutarono gli ebrei a rischio della vita. E altri ebrei furono salvati da tanti singoli italiani indignati per la persecuzione. Poi dai parroci, dalle suore e dagli uomini della Resistenza antifascista.
Bibliografia:
Marco Nozza - “Hotel Meina – La prima strage di ebrei in Italia” – Ed.Il Saggiatore Milano 2005
Lutz KlinKhammer – “L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945” Ed. Bollati Boringhieri 1993
Le conseguenze delle leggi razziali
Nel Censimento speciale nazionale degli ebrei, ad impostazione razzista del 22 agosto 1938 vengono censite 58.412 persone aventi per lo meno un genitore ebreo; di esse, 46.656 sono effettivamente ebree (pari a circa l’1 per mille della popolazione della penisola). Nel Consiglio dei ministri del 1-2 settembre 1938 viene approvato un primo gruppo di decreti antiebraici che contengono tra l’altro provvedimenti immediati di espulsione degli ebrei dalla scuola. Seguono provvedimenti di espulsione degli ebrei dagli impieghi pubblici e dalle libere professioni, limitazione del loro diritto di proprietà.
Nel maggio 1942 viene istituito il lavoro obbligatorio per alcune categorie di ebrei italiani.
Precettazione degli ebrei a scopo di lavoro
Nel settembre del 1943 parte il primo convoglio di deportazione di ebrei arrestati in Italia (da Merano) ad opera dei nazisti. Il 16 ottobre 1943 la polizia tedesca attua a Roma una retata di ebrei, la più consistente dell’intero periodo. Due giorni dopo vengono deportate ad Auschwitz 1023 persone. Di questi deportati, solo 17 sopravviveranno.
Il 30 novembre 1943 viene diramato l’Ordine di polizia n. 5 del Ministero dell’interno della RSI, decretante l’arresto degli ebrei di tutte le nazionalità, il loro internamento dapprima in campi provinciali e poi in campi nazionali, il sequestro di tutti i loro beni (alcune settimane dopo verrà disposta la trasformazione dei sequestri in confische definitive; la Rsi si approprierà di terreni, fabbricati, aziende, titoli, mobili, preziosi, merci di famiglie ebraiche). Nella "caccia agli ebrei", i più accaniti sono i fascisti delle bande autonome, la banda Carità a Firenze, la banda Kock a Roma e poi a Milano, la legione Muti, e la Guardia nazionale repubblicana, le Brigate Nere, le SS italiane.
In attuazione dell’ordine del 30 novembre, nel dicembre 1943 viene allestito il campo nazionale di Fossoli, e il 19 e 22 febbraio 1944 partono i primi convogli di deportazione da Fossoli (per Bergen Belsen e Auschwitz) organizzati dalla polizia tedesca. Il campo di Fossoli si rivela quindi come il punto operativo di cerniera tra Rsi e Terzo Reich per la deportazione.
Gli ebrei arrestati e deportati nel nostro Paese furono 6807; gli arrestati e morti in Italia, 322; gli arrestati e scampati in Italia, 451. Esclusi quelli morti in Italia, gli uccisi nella Shoah sono 5791 (fonte Liliana Picciotto Fargion nell'aggiornamento del "Libro della Memoria").
Secondo uno studio di Michele Sarfatti, i perseguitati che non vennero deportati o uccisi in Italia furono circa 35.000. Circa 500 di essi riuscirono a rifugiarsi nell’Italia meridionale; 5500-6000 riuscirono a rifugiarsi in Svizzera; gli altri 29.000 vissero in clandestinità nelle campagne e nelle città. Circa 2000 ebrei, tra i quali Enzo e Emilio Sereni, Vittorio Foa, Carlo Levi, Primo Levi, Umberto Terracini e Leo Valiani, parteciparono attivamente alla Resistenza dando un alto contributo al ritorno della libertà e della democrazia in Italia (1000 inquadrati come partigiani e 1000 in veste di "patrioti"), pari al 4 per cento della popolazione ebraica italiana. Circa 100 ebrei caddero in combattimento o, arrestati, furono uccisi nella penisola o in deportazione; cinque furono insigniti di medaglia d’oro alla memoria.
Il "Giorno della Memoria"
Legge 20 luglio 2000, n. 211
"Istituzione del "Giorno della Memoria" in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti"
Per ricordare la Shoah, cioè lo sterminio nazista del popolo ebraico e di tutti quanti soffrirono e morirono nei campi di concentramento, nelle prigioni naziste e fasciste di tutta Europa o che furono perseguitati, tormentati, vilipesi, persero il lavoro, la scuola, i diritti civili e poi fucilati, torturati o impiccati, solo per il fatto di essere ebrei, è stato fissato il 27 gennaio "Giorno della Memoria".
Quel giorno, vuole anche ricordare l'infamia delle leggi razziali fasciste, la persecuzione terribile degli ebrei italiani, la loro deportazione prima nel campo di Fossoli e poi in quelli di sterminio in Germania o in Polonia. Un gran numero finirono anche nella Risiera di San Sabba per essere massacrati. Altri furono prelevati nel Ghetto di Roma (più di mille, tra i quali 207 bambini) per finire ad Auschwitz o a Mauthausen. Tornarono solo in sedici. Una cinquantina morirono poi nell'infame carnaio delle Fosse Ardeatine, sempre per l'unica colpa di essere ebrei. Le autorità fasciste furono - e i fatti lo dimostrano - strettamente legate agli occupanti nazisti e fornirono nomi ed elenchi "dei figli di Israele" da portare via per sempre. Altre volte, parteciparono direttamente ai rastrellamenti e alle deportazioni. Certo, ci furono questori coraggiosi, poliziotti, carabinieri e autorità militari che aiutarono gli ebrei a rischio della vita. E altri ebrei furono salvati da tanti singoli italiani indignati per la persecuzione. Poi dalla Chiesa, dai parroci, dalle suore e dagli uomini della Resistenza antifascista.
Copertina del libro “I Giusti d’Italia”: nel libro sono raccontate le storie di italiani non ebrei che durante la Shoah salvarono uno o più ebrei dalla deportazione e dalla morte, rischiando la propria vita e senza trarne alcun vantaggio personale.
l'applicazione delle leggi razziali a Lissone
Le leggi razziali del Fascismo del 1938 si ispiravano alle leggi di Norimberga (Decreti antisemiti emessi a Norimberga nel settembre 1935, in occasione di un raduno nazionale del partito nazista. Le Leggi di Norimberga costituirono le basi della persecuzione antisemita, che condusse progressivamente all'esclusione degli ebrei dalla vita economica, politica e civile della Germania nazista, fino allo sterminio di massa.
In applicazione delle leggi razziali anche a Lissone periodicamente viene svolto il censimento degli ebrei. Così nell'agosto del 1942 La Regia Prefettura di Milano ordina la revisione del censimento degli Ebrei.
Nel 1942, in una lettera alla Questura di Milano, il Commissario Prefettizio di Lissone, Aldo Varenna, comunica che nel Comune di Lissone "non ven mai censito alcun ebreo".
Nel 1944 in paese vi sono molti sfollati a causa dei bombardamenti degli Alleati. Ed è proprio un cittadin, Michele Cassin, residente a Milano con una attività di commercio di compensati e tranciati, la cui sede è a Lissone in Via San Martino, che viene identificato come non appartenente alla razza ariana, figlio di genitori ebrei (i genitori, defunti, avevano nomi tipici ebrei).
Il 14 gennaio 1944 il Commissario Prefettizio Varenna segnala alla Prefettura di Milano (ormai della Repubblica Sociale Italiana) che "il locale Comando dei Carabinieri, in seguito ad ordine della Tenenza di Desio, ha proceduto al sequestro dell'azienda", dopo aver effettuato l'inventario dei beni in essa custoditi.
Non si conosce quale fu la sorte dello sventurato responsabile dell'azienda Iissonese dopo il sequestro dei suoi beni.
Il 30 giugno 1944 Ancona Elisa, nata a Ferrara ma residente a Lissone, viene arrestata perché di origini ebree; dal carcere di Milano viene mandata ad Auschwitz dove muore subito dopo il suo arrivo il 6 agosto 1944.
La rete mondiale clandestina di fuga dei criminali nazisti O.D.E.S.S.A. e la “via dei monasteri”
Il 10 agosto 1944 in una riunione ultrasegreta si ritrovarono a Strasburgo un gruppo di rappresentanti delle grandi industrie tedesche, alti funzionari del Ministero della Guerra del Ministero degli Armamenti. Gli industriali, convinti che la guerra era ormai persa, presero in esame le misure atte a salvare il patrimonio tedesco.
Tre anni dopo dei membri delle SS organizzarono O.D.E.S.S.A. (Organisation der S.S. Angehörigen), una rete clandestina incaricata di portare gli ex nazisti criminali di guerra in Paesi amici dove gran parte dei fondi delle industrie tedesche e delle SS erano stati trasferiti.
A seguito delle decisioni prese a Strasburgo, gli industriali tedeschi trasferirono all’estero ingenti capitali, su conti bancari segreti e in imprese in Spagna, in Turchia e in America del Sud, particolarmente in Argentina.
I tesori nascosti delle SS
Le SS, a loro volta, avevano costituito un enorme tesoro sequestrando i beni di milioni di ebrei diretti ai campi di concentramento. Dollari, sterline, rubli, sloty, orologi d’oro, diamanti, collane di perle si erano accumulati nei depositi delle SS. I denti d’oro e le fedi erano state fuse in lingotti depositati nelle casse della Reichbank a credito delle SS. A questo sordido recupero parteciparono delle imprese delle SS, che, d’altra parte, trassero grandi profitti dalle risorse inesauribili di manodopera dei prigionieri dei lager. Questi lavoratori schiavi erano affittati, da 4 ad 8 marchi per uomo e per giorno, alle grandi aziende, come la Siemens, la I.G. Farben, la Krupp. Non gli importava che il lavoro li uccideva in massa. Questo modo di lenta annichilazione di massa era previsto dal sistema concentrazionario, così come lo sterminio immediato. I prigionieri che morivano venivano subito rimpiazzati dai nuovi arrivi.
Al momento della sconfitta tedesca il caos fu totale su tutto il territorio; strade, città e villaggi erano invasi dai resti della Wehrmacht, dai vecchi prigionieri di guerra usciti dai campi, dai prigionieri politici sfuggiti alle SS durante i trasferimenti, dai lavoratori stranieri volontari e schiavi, dalla popolazione tedesca che aveva abbandonato le città bombardate e i campi di battaglia, ad ovest, o in fuga davanti all’avanzata delle truppe sovietiche. Tutto era sottosopra e la maggior parte dei responsabili nazisti, di SS e di agenti della Gestapo aevano buon gioco per nascondersi nella massa.
Fu relativamente facile a coloro che temevano un giusto castigo, utilizzare un falso nome per nascondersi presso connazionali o scomparire in uno dei numerosi campi per profughi (200 campi in Germania e in Austria) che gli alleati avevano dovuto aprire per alloggiare e nutrire una popolazione sradicata per le tragiche circostanze della guerra. Da questi campi era abbastanza facile fuggire inserendosi tra i gruppi di lavoratori che venivano impegnati all’esterno nell’opera di demolizione e di sterramento delle città devastate dai bombardamenti aerei.
Fu così che Adolf Eichmann, zelante esecutore della “soluzione finale” del problema ebreo, dapprima rifugiatosi in uno di questi campo, evase alla fine del 1945 nel timore che la sua identità venisse scoperta. Così pure il dottor Josef Mengele, il famigerato medico capo di Auschwitz, dopo cinque anni trascorsi sotto falso nome nella sua città natale, in zona di occupazione americana, fuggì prima che si iniziasse a menzionare il suo nome in occasione di alcuni processi ai criminali nazisti.
La rete mondiale clandestina di fuga dei criminali nazisti
Due anni dopo la fine della guerra, nel 1947, ex membri delle SS crearono O.D.E.S.S.A., rete mondiale clandestina di fuga, organizzata meticolosamente con un gran numero di corrispondenti, di collegamenti, di guide sia in Germania che in Austria. Due itinerari era usati principalmente per la fuga: da Brema a Roma e da Brema a Genova, passando per la Baviera, l’Austria, dove da Innsbruck raggiugevano l’Italia passando per il Brennero.
Per un certo periodo, prima che gli Alleati se ne accorgessero, utilizzarono i camion americani, con autisti tedeschi, che distribuivano i giornali Stars and Stripes alle truppe.
L’organizzazione O.D.E.S.S.A. teneva rapporti con le ambasciate di Spagna, della Siria e dei paesi dell’America del Sud dislocate in alcune capitali europee, che non ponevano alcuna difficoltà a rilasciare visti ai fuggitivi.
La “via dei monasteri” verso Genova e Roma
Tra l’Austria e l’Italia, O.D.E.S.S.A., aveva organizzato un itinerario speciale sfruttando la carità cristiana di monaci francescani che non si preoccupavano dell’identità delle persone alloggiate in completa sicurezza nelle celle dei loro conventi; questi frati facilitarono enormemente la fuga di un gran numero di criminali di guerra che percorrevano questa “via dei monasteri” verso Roma e verso Genova. A Roma alcuni nazisti beneficiarono dell’aiuto efficace di preti slovacchi in un collegio religioso, finanziato da un vecchio amico del capo ustascia Ante Pavelich.
Questa “via dei monasteri” fu una delle realizzazioni più efficaci di O.D.E.S.S.A.
È per questo percorso che Mengele, Eichmann e Bormann furono instradati in Italia, poi in Spagna per raggiungere poi l’Argentina.
All’estero O.D.E.S.S.A. disponeva di conti bancari segreti. Arrivati nei paesi che gli accoglievano, i fuggitivi nazisti non avevano alcuna difficoltà ad installarsi. I nazisti di alto rango si ritrovavano dei fondi che erano stati trasferiti tanto che potevano acquistare vasti appezzamenti di terreni per costruire spendide dimore. Gli altri trovavano lavoro nelle società create all’estero dalle industrie del Reich con fondi tedeschi. Nei diversi paesi, i criminali di guerra nazisti ottennero la loro naturalizzazione, usando delle false identità, potendo vivere in perfetta sicurezza.
Famiglie di criminali di guerra in fuga presentarono ai tribunali tedeschi e austriaci domande di proclamazione di morte dei loro congiunti, col pretesto di ottenere pensioni o per le mogli autorizzazioni a risposarsi. Le domande furono accolte quasi automaticamente e senza controlli. Ufficializzate le loro morti, i nomi di questi colpevoli sparirono dalle liste di ricerca. Vivendo sotto falso nome, poterono risposarsi con le loro proprie mogli “vedove”.
Tuttavia i tempi della vendetta stavano arrivando. Grazie a Simon Wiesenthal, sopravvissuto all'Olocausto che dedicò il resto della sua vita a raccogliere le informazioni sui criminali nazisti e a rintracciarli per poterli sottoporre a processo, e a Beate Klarsfeld attivista antinazista, militante per la memoria della Shoah, il mondo non dimenticherà i crimini inespiabili che avevano commesso i boia nazisti fuggiti.
Simon Wiesenthal e Beate Klarsfeld
A proposito di scuola …
Pubblichiamo il discorso, pronunciato da Piero Calamandrei a Roma l’11 febbraio 1950, al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale (Adsn), perché ci sembra ancora di attualità.
«Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci).
Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. ...
E c’è un altro pericolo: di lasciarsi vincere dallo scoramento. Ma non bisogna lasciarsi vincere dallo scoramento. Vedete, fu detto giustamente che chi vinse la guerra del 1918 fu la scuola media italiana, perché quei ragazzi, di cui le salme sono ancora sul Carso, uscivano dalle nostre scuole e dai nostri licei e dalle nostre università. Però guardate anche durante la Liberazione e la Resistenza che cosa è accaduto. È accaduto lo stesso. Ci sono stati professori e maestri che hanno dato esempi mirabili, dal carcere al martirio. Una maestra che per lunghi anni affrontò serenamente la galera fascista è qui tra noi. E tutti noi, vecchi insegnanti abbiamo nel cuore qualche nome di nostri studenti che hanno saputo resistere alle torture, che hanno dato il sangue per la libertà d’Italia. Pensiamo a questi ragazzi nostri che uscirono dalle nostre scuole e pensando a loro, non disperiamo dell’avvenire. Siamo fedeli alla Resistenza. Bisogna, amici, continuare a difendere nelle scuole la Resistenza e la continuità della coscienza morale».
In memoria di Gianfranco De Capitani da Vimercate
A Lissone, dal 12 ottobre 2008, c'è ancora un luogo dedicato ad un giovane concittadino morto in un lager nazista: i giardini, tra Palazzo Terragni ed il vecchio municipio, hanno assunto la denominazione “Largo Gianfranco De Capitani da Vimercate”. Accolta dalla Giunta Comunale una proposta della Sezione lissonese dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia.
Questi i fatti:
l’11 giugno 1963 l’Amministrazione comunale di Lissone decise, con delibera del Consiglio Comunale n°43, di intitolare alcune vie della città a lissonesi protagonisti della Resistenza e della guerra di Liberazione. Vennero così dedicate alcune vie della città ad antifascisti lissonesi fucilati dai nazifascisti o morti nei campi di concentramento nazisti tra cui Gianfranco De Capitani da Vimercate, morto nel lager di Ebensee.
Il 12 aprile 1999, con delibera di Giunta n°152, la denominazione della Via Gianfranco De Capitani da Vimercate fu sostituita con una nuova, con la seguente motivazione: ”L’esistenza di due vie aventi denominazione simile e particolarmente lunga (via Carlo De Capitani da Vimercate e Gianfranco De Capitani da Vimercate) causa gravi disagi che penalizzano ingiustamente le persone e le famiglie residenti … per il ripetersi di malintesi ed errori”. “Si preferisce sostituire la sola denominazione Gianfranco De Capitani da Vimercate in considerazione del fatto che l’insediamento abitativo ivi presente di recente realizzazione interessa una quindicina di famiglie”.
Nel gennaio 2007, in occasione del “Giorno della Memoria”, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia di Lissone, a nome anche dei parenti, chiese all’Amministrazione comunale di trovare una soluzione per ricordare Gianfranco De Capitani da Vimercate.
Il 12 marzo 2008 la proposta è stata accolta: la Giunta comunale, con delibera n°85, ha stabilito di intitolare i giardini adiacenti Palazzo Terragni “Largo Gianfranco De Capitani da Vimercate”.
Domenica 12 ottobre 2008 alle ore 11 è stato inaugurato il Largo a lui dedicato.
Intervento del presidente dell’ANPI di Lissone, Renato Pellizzoni, durante la cerimonia di inaugurazione del Largo dedicato a Gianfranco De Capitani da Vimercate, caduto per la Libertà
Lissone 4 febbraio 1925 - Ebensee 5 dicembre 1944
Con l’inaugurazione di oggi avremo ancora un luogo di Lissone dedicato a Gianfranco De Capitani da Vimercate. Era un desiderio dei suoi parenti, in particolare di suo fratello Mario e delle nipoti, Carlotta e Giovanna, di un suo amico e coetaneo, Santino Lissoni, ma anche della nostra associazione, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia di Lissone.
Chi era Gianfranco De Capitani da Vimercate? Era un giovane diciannovenne lissonese che il 5 dicembre 1944, dopo nove mesi di prigionia e di lavoro coatto in condizioni disumane, moriva nel lager nazista di Ebensee, per non essersi presentato alla chiamata della Repubblica Sociale di Mussolini, per continuare una guerra ormai persa al fianco degli occupanti nazisti.
Ripercorriamo alcuni momenti della sua breve esistenza.
Gianfranco De Capitani da Vimercate nacque il 4 febbraio 1925 a Lissone in Via Umberto I (l’attuale Via Giuliani); era figlio di Giuseppe e di Carlotta Arosio. La sua era una famiglia numerosa. Gianfranco crebbe, infatti, in compagnia di altri cinque fratelli e quattro sorelle.
I De Capitani da Vimercate, di antiche origini nobiliari, appartenevano ad una borghesia illuminata: erano proprietari di un’industria del legno e avevano creato l’industria del compensato. Nel 1920, infatti, a Lissone era nata la più grande fabbrica italiana di tranciati e compensati, l’Industria Nazionale Compensati ed Affini (INCISA).
Lo zio di Gianfranco, commendatore Carlo De Capitani da Vimercate, dal 15 settembre 1924 era Commissario prefettizio di Lissone, insediatosi in attesa della nomina del podestà.
Dall’ottobre 1922 al governo dell’Italia c’era Benito Mussolini, a cui il re Vittorio Emanuele III aveva affidato l’incarico dopo la marcia su Roma.
Nel mese di novembre del 1922 si era costituita a Lissone la sezione locale del Fascio nazionale di combattimento. Nelle elezioni politiche dell’aprile 1924, il Listone di Mussolini, che su scala nazionale aveva avuto una media del 60% dei votanti, scesa al 18,7 % in Brianza, a Lissone aveva ottenuto il peggiore dei risultati elettorali d’Italia con 307 voti (pari al 13,2 %). Allora la furia di Mussolini si era abbattuta sulla Brianza.
Una raffica di violenze colpì le istituzioni cattoliche e quelle socialiste. Con l'aiuto di squadre fasciste giunte dalla Bassa milanese e da Milano furono distrutti circoli cattolici e socialisti; a Monza furono devastate le sedi de «Il Cittadino» e della Camera del Lavoro.
A Lissone la vendetta fascista si scatenò sull’Osteria della Passeggiata, con danni materiali e percosse ai presenti, e sul circolo della gioventù cattolica San Filippo Neri.
Il paese contava quasi 13.000 abitanti.
Alle scuole elementari la maggior parte dei ragazzi andava in classe con gli zoccoli.
Un alunno di allora mi ha raccontato di ricordarsi ancora di quel disordinato “totoc” degli zoccoli che battevano l’uno contro l’altro sul pavimento di legno quando, al mattino, tutti gli scolari si mettevano sull’attenti e facevano il saluto romano alla maestra che entrava in classe.
Essendo la scuola elementare di Via Aliprandi ormai insufficiente a far fronte alle esigenze della popolazione scolastica, erano iniziati i lavori di costruzione della nuova scuola elementare (sarà poi dedicata a Vittorio Veneto e le singole aule assumeranno i nomi delle principali località della guerra, conclusasi da soli sei anni).
Uno dei problemi che affliggevano il paese era la carenza degli alloggi per effetto del costante sviluppo demografico, dovuto all’ immigrazione e all’alto tasso di natalità.
Il commissario prefettizio Carlo de Capitani da Vimercate, per cercare di risolvere in parte questa crisi, assunse impegni a livello personale e affidò ad un ingegnere di Monza l’incarico di progettare case per operai ed impiegati.
Il 17 ottobre 1924 era stata inaugurata la nuova chiesa (l’attuale prepositurale SS Pietro e Paolo) anche se non era ancora stata finita. Il suo altare maggiore era stato donato da Carlo De Capitani da Vimercate.
La Pro Lissone era in piena attività. Lissone, infatti, era dotata di un centro sportivo in perfetta linea con i principi fascisti del culto del corpo e dell'esercizio fisico.
La Società sportiva lissonese, alla vigilia del conflitto del 1915-18, aveva contribuito alla formazione della Croce Verde e Di Carlo De Capitani da Vimercate era stata anche l’idea di costituire il corpo dei pompieri.
Gianfranco frequentò la scuola elementare Vittorio Veneto di Lissone.
La scuola elementare aveva due sezioni distinte, maschile e femminile, con ingressi separati.
L’adolescenza di Gianfranco trascorse in modo spensierato; studio, giochi, vacanze. Era il beniamino della famiglia: era bello, studioso, affabile.
Gianfranco ha dieci anni quando, nel 1935 arriva a Lissone Starace (sarà la più alta carica del regime a giungere in città durante tutto il ventennio).
Alcuni antifascisti lissonesi, schedati, che più volte avevano subito pestaggi dai fascisti locali, vengono fermati e trattenuti: qualcun altro si rifugia in Francia per una settimana.
Gianfranco inizia a frequentare la palestra: il “salone” di Via Dante è un punto di riferimento per i giovani lissonesi.
Terminate le scuole elementari prosegue gli studi alle scuole medie e superiori (istituto commerciale) presso il Ballerini di Seregno.
Ha quindici anni quando il 10 giugno 1940 Mussolini trascinò l’Italia nella seconda guerra mondiale, alleandosi con la Germania nazista. Non poteva finire che così. Il regime che fin dalla scuola primaria tentava di inculcare nei ragazzi ideali bellicosi (credere, obbedire e combattere o libro e moschetto, fascista perfetto e altri slogan) manda in guerra tanti giovani e meno giovani che vengono richiamati alle armi.
Gli amici di Gianfranco, con i quali frequentava la Pro Lissone, lo chiamavano Gianni. Era robusto, si dedicava oltre alla corsa campestre alla pesistica. Gli piaceva stare in compagnia: era un buongustaio; l’appetito non gli mancava mai.
Novembre 1942: l'inverno si preannuncia rigido. Già a fine novembre cade la prima neve. Per difendersi dal gelo, un grave problema si presenta a diverse famiglie lissonesi: trovare del carbone per scaldare le case. E per accendere la stufa si utilizzano trucioli e carta straccia raccolta durante tutto l'anno, prima macerata nei mastelli, poi fatta a palle e infine lasciata seccare al sole.
Gianfranco sta per terminare gli studi nel marzo 1943 quando arrivano cattive notizie per molte famiglie lissonesi: sono oltre 60 i militari lissonesi del corpo di spedizione italiano in Russia che non ritornano a Lissone. Oltre 100.000 gli italiani che sono caduti sul fronte russo.
Nello stesso mese di marzo del 1943, 1200 dipendenti dell'Incisa e i 500 dipendenti dell'Alecta di Lissone partecipano agli scioperi delle industrie dell'Italia settentrionale: gli operai chiedono “pane e pace” Gli scioperi contribuiscono attivamente alla crisi delle istituzioni che doveva portare alla caduta del fascismo il 25 luglio.
25 luglio 1943 - Destituito di Mussolini dopo la seduta del Gran Consiglio del fascismo, il Re Vittorio Emanuele III lo fa arrestare e nomina a Capo del Governo il maresciallo Badoglio .
Manifestazioni di tripudio in tutte le città d’Italia. Molti pensano che crollato Mussolini finirà anche la guerra.
A Lissone, all’indomani, mentre i lissonesi Francesco Mazzilli, Attilio Gattoni e Carlo Arosio, arrestati verso la fine giugno 1943 ed incarcerati a S. Vittore vengono liberati, un nostro concittadino, Attilio Mazzi sfila per le vie di Lissone, innalzando un cartello con l’immagine di Badoglio, mettendosi a capo di un breve corteo che manifesta apertamente a favore del nuovo governo.
Attilio Mazzi, per il suo dichiarato antifascismo, verrà arrestato: passerà poi nel campo di concentramento di Fossoli per finire i suoi giorni nel lager di Mauthausen-Gusen.
8 settembre 1943- Annuncio dell'armistizio con gli Alleati. I nazisti disarmano le truppe italiane. 700.000 italiani finiscono prigionieri nei lager tedeschi.
10 settembre 1943 - I tedeschi occupano Roma dopo brevi scontri con le truppe italiane. Re Vittorio Emanuele III con la famiglia e il seguito fugge a Brindisi.
Mussolini, prigioniero sul Gran Sasso, viene liberato da un Commando tedesco e raggiunge Monaco.
Ridotto a un fantoccio nelle mani di Hitler, Mussolini proclama la “Repubblica Sociale Italiana” formando un nuovo governo fascista la cui autorità si estende sul territorio della penisola occupato dai tedeschi.
Dopo l’8 settembre 1943 si formano i primi nuclei di partigiani.
A Lissone alcuni antifascisti si ritrovano settimanalmente presso il bar della stazione, il cui gestore era un oppositore del regime.
Tra loro anche Giuseppe De Capitani da Vimercate, il padre di Gianfranco. Il capo di questo gruppo di antifascisti è Davide Guarenti, monzese, vigile urbano nella nostra città (sarà fucilato nel campo di concentramento di Fossoli).
Altro punto di ritrovo degli antifascisti lissonesi è la Trattoria con alloggio Ronzoni (nella curt di Gergnit), dove spesso i fascisti locali arrivano a menar botte.
Gianfranco è chiamato alla visita militare. Era una tradizione che, non avendo i soldi per fare dei manifesti, i coscritti scrivessero sui muri del paese frasi inneggianti alla classe di appartenenza. I coscritti del ’25, nottetempo, scrivono con la calce sui muri di Lissone “W la classe della marmellata” (in periodo di razionamento dei generi alimentari, la marmellata era concessa solo ai minori di età inferiore ai 18 anni) e “W la mica fresca”.
La notizia in parte distorta arriva a Radio Londra, molto ascoltata, anche se il regime ne proibisce l’ascolto pena l’arresto e il sequestro dell’apparecchio radio.
Durante una delle famose trasmissioni rivolte all’Italia, viene trasmessa la notizia che a Lissone vi era stata una “protesta del pane”.
E’ anche vero che la fame era tanta soprattutto per dei giovani prestanti frequentatori della palestra della Pro Lissone.
Diversi coscritti sono convocati dal podestà Cagnola.
Dopo circa un mese arrivano a Lissone agenti del regime e si insediano nella Casa del fascio (l’attuale Palazzo Terragni): tra i convocati, Gianfranco e il padre Giuseppe.
All’interrogatorio di Gianfranco e del padre assiste anche un noto fascista locale. Giuseppe deve pagare una multa.
Giuseppe De Capitani da Vimercate era di idee socialiste. Per i fascisti Gianfranco è il figlio di un sovversivo.
Intanto continua l’avanzata delle truppe alleate nel sud dell’Italia.
A Lissone aumenta il numero degli sfollati.
Da quel momento la guerra entrò direttamente nelle case dei lissonesi, attraverso gli avvisi alla popolazione controfirmati dall'ing. Aldo Varenna che dall'undici agosto del 1943 aveva sostituito il podestà Angelo Cagnola, dimissionario per «diplomatici» motivi di salute.
Questa piazza che si chiamava piazza Vittorio Emanuele III, dal 3 marzo 1944 viene intitolata ad Ettore Muti (gerarca fascista ucciso; porterà il suo nome, durante i 600 giorni di Salò, una delle più famigerate squadre della Repubblica di Salò).
Presso il palazzo Mussi si installa un comando antiaereo tedesco che, con i militi della GNR alloggiati nei locali di palazzo Magatti in via Garibaldi, garantiva un controllo capillare del paese e serviva a contrastare la Resistenza partigiana.
Il 18 febbraio 1944 il governo di Salò emanava il bando di chiamata alle armi delle classi 1923,1924,1925 con scadenza il 7 marzo 1944 minacciando la pena di morte per i renitenti alla leva.
Domenica 27 febbraio 1944 Gianfranco con altri giovani della Pro Lissone si ritrovano in stazione. Salgono sul treno per Como dove parteciperanno ad una corsa campestre.
E’ una bella giornata di sole, anche se il paesaggio è imbiancato per la recente nevicata. Sarà questa l’ultima domenica di libertà per Gianfranco.
I nazisti per far funzionare la loro industria bellica carente di manodopera, fanno ricercare dalla milizia repubblichina i renitenti alla leva; li catturano e li spediscono di forza a lavorare nelle fabbriche del Reich.
La situazione si fa critica per Gianfranco. Mamma Carlotta vorrebbe che il figlio rispondesse alla chiamata alle armi. Il fratello Mario pensa che Gianfranco stia per organizzare una festa per salutare gli amici. La situazione si fa rischiosa
Gianfranco De Capitani ha da poco compiuto i 19 anni. Sabato 4 marzo 1944, Gianfranco, fermato ad un posto di blocco tra Monza e Lissone, mentre era sul tram, è tratto in arresto (probabilmente su indicazione di un fascista locale, fondatore del Fascio lissonese). I familiari, non vedendolo rincasare, si preoccupano per la sua assenza. Dopo alcune ricerche vengono a sapere che il giovane Gianfranco è stato portato in Villa Reale, a Monza: la Villa reale di Monza era diventata tristemente famosa perché luogo di tortura di antifascisti e partigiani caduti nelle mani dei repubblichini o dei nazisti. Il fratello Mario si precipita alla Villa Reale: gli viene confermata la presenza di Gianfranco ma gli impediscono di vederlo. Anche il padre Giuseppe inutilmente chiede di vedere il figlio. Poi si perdono le tracce di Gianfranco. (I parenti verranno poi a sapere, tramite il console di Danimarca in Milano, che Gianfranco si trova a Mauthausen; la triste fama di quel lager lascia poche speranze di un suo ritorno).
Forse, se fosse stato ancora in vita lo zio Carlo, , avrebbe potuto fare qualcosa per il nipote, invece era già morto mentre si trovava in Ungheria per motivi di lavoro.
De Capitani Gianfranco, nato a Lissone il 24/02/1924, professione impiegato, matricola 57014, convoglio numero 32, deportato a Mauthausen. Trasferito poi a Ebensee sottocampo di Mauthausen.
Il campo di concentramento di Ebensee si trovava in un’area molto boscosa in grado da permettere il camuffamento delle gallerie in costruzione ed anche del Lager. Era un campo di lavoro. I prigionieri venivano affittati dalle SS alle ditte incaricate dei lavori di costruzione.
I prigionieri avviati al lavoro schiavo venivano scelti in genere tra coloro che avevano una giovane età ed erano in buono stato fisico. Ma le loro condizioni peggioravano rapidamente a causa delle pessime condizioni di vita e per il lavoro estremamente duro. Non meno di undici ore ininterrotte di lavori pesanti, spesso senza appropriati attrezzi, senza alcuna misura di sicurezza.
Scarsamente alimentati, venivano puniti violentemente per la più piccola interruzione dai kapos e dalle SS, che obbligavano al lavoro anche malati e debilitati. Più volte al giorno i prigionieri dovevano riunirsi per l’appello. Il lavoro alla “cava” era particolarmente massacrante e pericoloso. La violenza e il terrore, oltre ad essere un mezzo per spingere al massimo le prestazioni di lavoro, erano anche funzionali alla distruzione fisica e psichica dei prigionieri, fiaccandone anche ogni tentativo di solidarietà o di reazione.
Nella primavera del 1944, di fronte alla mortalità crescente, le SS attivarono la costruzione di un crematorio, nonostante si trattasse di un campo «di lavoro»..
Nelle squadre di lavoro particolarmente grave era la condizione degli Italiani, per la maggior parte deportati per motivi politici (indossavano una casacca a strisce bianco e blu con un triangoli rosso). La situazione generale del lager andò sempre più degradando. Le baracche non offrivano una benché minima protezione contro intemperie, freddo e pioggia; l’alimentazione sempre più insufficiente, l’abbigliamento inadeguato e la mancanza di igiene erano causa di diffuse malattie, spesso mortali.
Costretti a svolgere nelle gallerie un lavoro estenuante, con un clima gelido e un’alimentazione miserabile, i deportati sopravvivevano in media qualche mese.
Il 5 dicembre 1944, dopo nove mesi di prigionia e di lavoro coatto in condizioni disumane, anche il fisico robusto di un giovane diciannovenne come Gianfranco De Capitani da Vimercate venne stroncato.
C’era la neve a dicembre ad Ebensee quando Gianfranco é andato “nel vento passando per il camino”.
C’era la neve come in quella sua ultima domenica di libertà quando correva nella corsa campestre:
quando passerò in questi giardini a lui dedicati mi sembrerà di vederlo correre, lanciato verso il traguardo.
Ad Ebensee c'era la neve / il fumo saliva lento / nei campi c’erano tante persone / che ora sono nel vento /
lo mi chiedo come può l'uomo / uccidere un suo fratello / eppure sono a milioni / in polvere nel vento (da "AUSCHWITZ" di Francesco Guccini)
meditiamo che questo è stato ...
Anche a Gianfranco De Capitani da Vimercate abbiamo dedicato una pagina del nostro sito.
Un particolare ringraziamento va a Mario De Capitani da Vimercate, fratello di Gianfranco, e a Santino Lissoni, amico e coetaneo di Gianfranco, per le loro testimonianze. (Renato Pellizzoni, presidente dell’A.N.P.I. di Lissone)
Fucilazioni e stragi in Brianza
Alessandro Pavolini, il segretario del Partito fascista repubblicano, lo aveva detto chiaramente al duce:
È ora di finirla con la politica all' acqua di rose. Occhio per occhio, dente per dente!
Roberto Farinacci, ovvero l'estremismo del fascismo, lo aveva ribadito:
Quando i plotoni d'esecuzione funzioneranno, la gente vedrà che si fa sul serio e rientrerà nella normalità.
Vincenzo Costa, comandante della Brigata nera Aldo Resega, esprimeva così il
proprio parere:
Occorre, secondo questo comando, usare i metodi forti per salvare il salvabile; Nessuna pietà per i ribelli; la deportazione per i renitenti e i favoreggiatori. E ora di usare il bisturi in profondità ...
Il comandante del presidio di Monza, ten. col. Zanuso, calca ancor di più la mano, esprimendosi a proposito della città di Sesto S. Giovanni:
Certo che per la zona di Gorgonzola, Desio, Seregno, Monza, Cernusco è una vera maledizione questo centro industriale totalmente sovversivo! Lì sta veramente il cancro della Lombardia e questa città rossa dovrebbe essere completamente distrutta all' infuori delle industrie, con il sistema germanico. La popolazione maschile deportata in Germania, lasciando sul posto solo donne, vecchi e bambini. Le maestranze dovrebbero essere deportate e sostituite sul posto da altre città d'Italia!
È il viatico per la guerra intestina, pietà l'è morta. Il fascismo repubblichino intende imporsi con gli stessi metodi dei nazisti padroni, con la repressione violenta. La Resistenza non può piegarsi al ricatto del terrore, ne andrebbe della sua stessa sopravvivenza e, d'altronde, i tedeschi e i fascisti non hanno certo aspettato la nascita della ribellione per perpetrare le loro stragi.
Il massacro di Cefalonia, l'eccidio degli ebrei di Meina sul lago Maggiore, la distruzione di Boves, le esecuzioni sommarie al sud, tutte queste atrocità, e molte altre, datano il mese di settembre del '43.
Opporsi con le armi è dunque l'unica via da intraprendere per chi vuole mutare questa triste situazione; combattere per salvarsi, per sfuggire ai bandi,
alle deportazioni, per impedire le razzie delle risorse del paese. Una strada che implica anche il recupero agli occhi del mondo libero, della dignità di un popolo coinvolto in una guerra assurda. L'alternativa è subire il tallone di ferro nazifascista e apparire davanti alla storia, come una nazione immeritevole di qualsiasi riconoscenza nella lotta per il progresso della civiltà.
I fascisti agirono duramente già contro i responsabili di piccoli atti criminali o presunti tali.
Ad Inverigo, il 20 aprile 1944, furono fucilati presso il cimitero cinque giovani (il più vecchio aveva 24 anni) accusati di vari furti in case private.
L'11 giugno a Lissone accade qualcosa di grosso. Due arditi della Legione Muti, Alessio La Cava ed Emanuele Scaglione, in servizio presso il Comune e sempre scatenati alla ricerca di renitenti furono gli obiettivi di un lancio di bombe a mano, uno morì subito, l'altro dopo qualche giorno. Le ricerche fasciste non approdarono a nulla, solo a causa· di una spiata vengono arrestati cinque·partigiani, non è sicuro che siano loro gli autori dell' attentato, ma ormai la guerra è totale, per loro non c'è scampo. Anche in Brianza, da tempo, la via è aperta alle esecuzioni sommarie e agli eccidi.
Dopo qualche giorno d'interrogatori e torture, Pierino Erba e Carlo Parravicini la sera del 16 giugno, sono sospinti brutalmente sulla soglia della Casa del fascio, sono pieni di lividi e incapaci di reggersi in piedi. Davanti a loro, nella piazza centrale del paese, i fascisti'hanno chiamato a raccolta con gli altoparlanti la popolazione, ignara di ciò che doveva accadere, 1'esempio doveva essere chiaro per tutti. Dopo pochi minuti, i due giovani furono fucilati pubblicamente, la piazza si svuotò subito per l'orrore, mentre raffiche di mitra venivano esplose in aria. Altri due fermati, Remo Chiusi e Mario Somaschini, furono invece incarcerati e seviziati alla villa Reale a Monza dove, il giorno dopo i loro compagni, subirono la stessa tragica sorte. Solo uno riuscì a scampare, Giuseppe Parravicini, attivista politico, fu trasferito a S. Vittore e poi deportato ad Auschwitz, da dove tornerà miracolosamente vivo.
Verso la fine di quello stesso mese, a Desio si assiste non ad un' esecuzione, ma ad un vero e proprio omicidio. Luigi Biondi, partigiano dell' Atm di Milano, viene prelevato da casa sua in viale Monza a Milano e trucidato nella cittadina brianzola in via Milano.
Il metodo dei rastrellamenti, anche nelle cittadine più piccole, non viene abbandonato dai repubblichini. E ancora il ten. col. Frattini, che guida tutte queste azioni repressive in provincia di Milano, che il4 luglio all'alba, conduce 150 militi della Gnr e 50 squadristi a setacciare Renate e Veduggio. Non si hanno per fortuna incidenti, ma sei renitenti vengono portati via fra la popolazione terrorizzata per l'improyvisa puntata.
E questa della bassa Brianza occidentale, una zona dove in questa estate di fermento partigiano gli atti cruenti sono più frequenti, anche a carico della popolazione innocente.
A Seveso, infatti, il 13 luglio in via Montenero durante un allarme aereo, la ronda della Gnr uccide per la leggerezza di un suo componente, una signora inerme, Antonia Vago. A sparare è stato il milite Paolo Cogliati che è subito trasferito. Un mese dopo viene ucciso in circostanze non chiarite, mentre era di servizio sulla provinciale Saronno-Monza. (42)
Il 31 agosto, a Cesano Maderno, altro fatto drammatico. Una delazione conduce la Gnr e la Brigata nera di Cesano, ad un deposito di armi allestito dai partigiani del luogo. I fascisti perquisiscono così Baruccana, frazione di Seveso, dove rinvengono due rivoltelle, una cassa di dinamite, manifestini antifascisti, 200 tessere annonarie di un comune della periferia milanese e parecchie carte d'identità in bianco. Mentre è in atto il sopralluogo giunge il partigiano Pietro Arienti, che viene immediatamente immobilizzato. Ha indosso due pistole, il suo destino è segnato. Viene caricato su di un camion per trasferirlo alla caserma di Cesano. Pietro non si dà per vinto e salta improvvisamente dal mezzo, un milite se ne avvede e con una scarica lo abbatte, i proiettili vaganti colpiscono anche una donna, Chiara Arienti, uccidendola. Il fratello Candido venne arrestato e picchiato alla caserma di Mombello, poi fu trasferito a Monza e a S. Vittore. Destinato alla deportazione in Germania, durante il viaggio riuscì però a fuggire.
I fascisti applicano in modo esagerato il motto di Pavolini ad Aicurzio, nella Brianza orientale. In questo caso il dente per dente, non è costituito da un uomo per un uomo, ma da un palo della luce, quello abbattuto dalle bombe di Mascetti, per un uomo. Per rappresaglia all' atto di sabotaggio, i fascisti tirano fuori dal carcere l'antifascista monzese Giovanni Bersan e lo impiccano nello stesso luogo dell'attentato. Un'esecuzione avviene anche a Inverigo; due giovani, forse renitenti, non si fermano all' alt di due repubblichini che sparano, uno dei fuggitivi viene ferito, l'altro, catturato, viene fucilato davanti al cimitero.
L'eccidio di Cucciago rimane però l'episodio più grave in quest'estate brianzola di guerra. Il 18 luglio, nel canturino, la polizia fascista è alla caccia di elementi particolarmente attivi nella ribellione; uno degli obiettivi è Cucciago, dove abita Bruno Battocchio, uno dei primi sappisti della zona. Giunti alla casa di questi non pensano a dare degli avvertimenti, non pensano neppure ad entrare, sfondata la porta vi buttano subito all'interno delle bombe a mano uccidendo degli inermi, il ricercato non era nemmeno in casa. Muoiono senza colpe Giovanni Battocchio, fratello di Bruno, la moglie Maria Borghi e Giuseppe Meroni.
da “La Resistenza in Brianza” di Pietro Arienti Bellavite Editore Missaglia
Zemljanka: la canzone dell'Armata Rossa a Stalingrado
Nelle ultime settimane del 1942 a Stalingrado la canzone preferita dell'Armata Rossa era Zemljanka («Il ricovero»), la risposta russa a Lili Marlene, a cui tra l'altro assomigliava.
È un’incantevole canzone di Aleksej Surkov, scritta l'inverno precedente, nota anche con il titolo tratto dal suo verso più famoso, «I quattro gradini verso la morte»
Il fuoco guizza nella stufetta
La resina cola dal ciocco come una lacrima
E la fisarmonica nel bunker
Mi canta del tuo sorriso e dei tuoi occhi
I cespugli mi hanno sussurrato di te
In un campo bianco di neve vicino a Mosca
Voglio soprattutto che tu senta
Com' è triste ora la mia voce
Ora tu sei molto lontana
Distese di neve si frappongono fra noi
È così difficile per me venire da te
E qui ci sono quattro gradini verso la morte
Canta fisarmonica, sfidando la tempesta di neve
Chiama quella felicità che ha smarrito la strada
Sto al caldo nel freddo bunker
Perché ho il tuo amore inestinguibile.
L’operazione “Barbarossa”, l’attacco nazista all’Unione Sovietica, era iniziata il 22 giugno 1941.
“disumanizzare i sovietici” era l’obiettivo cosicché tutto diventava lecito: ogni tipo di sevizie e di massacri, lo sterminio razziale, rappresaglie collettive. Ed ancora: vivere dei prodotti dei territori occupati, affamando i civili. “Annientare gli ebrei che appoggiano il bolscevismo e la sua cricca di assassini, i partigiani, è un provvedimento di autoconservazione”: queste erano le direttive impartite all’esercito invasore.
Nel corso della campagna di Stalingrado l’Armata Rossa subì 1.100.000 perdite. Ma il più grande errore dei comandi tedeschi era stato quello di aver sottovalutato il soldato semplice dell’Armata Rossa “Ivan”.
Scoprirono ben presto che militari circondati o in numero decisamente inferiore continuavano a combattere, quando, nella stessa situazione, le loro controparti occidentali si sarebbero arrese.
traduzione della scritta sul manifesto: per far cadere il coltello da questa mano moltiplica le forze del fronte antifascista
Un ordine di Stalin dell’agosto 1941, a due mesi dall’invasione, stabiliva che “ chiunque abbassa la sua bandiera durante la battaglia e si arrende dovrà essere considerato come un vile disertore, la sua famiglia verrà arrestata perché ha nel suo ambito una persona che non ha tenuto fede ad un giuramento e che ha tradito la madrepatria. Questi disertori saranno fucilati sul posto. Chiunque cada in un accerchiamento e chiunque preferisce arrendersi dovrà essere eliminato ad ogni costo, mentre la sua famiglia verrà privata di tutti i benefici dell’assistenza dello Stato”.
Numerosi soldati sovietici feriti e catturati dai nazisti riuscirono a sopravvivere nei campi di concentramento fino a quando non furono liberati nel 1945. Invece di essere considerati eroi vennero mandati nei gulag, considerati da Stalin dei traditori per essere caduti in mano nemica. Stalin applicò lo stesso provvedimento anche nei confronti di suo figlio Jakov.
Mentre l’Armata Rossa entrava a Stalingrado, il 24 gennaio 1943, a Casablanca, Roosevelt e Churchill annunciavano la loro intenzione di combattere fino alla resa incondizionata dell’Asse.
Stalingrado: 2 febbraio 1943. La VI armata tedesca capitola
I Russi stavano facendo pagare caro ai tedeschi il loro attacco; il fronte orientale stava dissanguando a morte la Wehrmacht con molto maggiore rapidità di ogni altro fronte occidentale. L’Armata Rossa non si sarebbe fermata fin quando Berlino non fosse assomigliata alla città di Stalingrado in rovina. Dopo i bombardamenti nazisti Stalingrado era poco più di uno scheletro mal ridotto e bruciacchiato: migliaia di bambini erano morti sotto le rovine.
Nel novembre del 1943, durante la conferenza di Teheran, Churchill donò la spada di Stalingrado (il re d’Inghilterra Giorgio VI l’aveva fatta forgiare come dono alla città) a Stalin.
La conferenza di Teheran stabilì sostegno alleato per il resto della guerra. Il piano di Churchill di un’invasione attraverso i Balcani fu respinto: lo sforzo principale degli Alleati doveva essere rivolto verso l’Europa nord-occidentale.
La vittoria sovietica a Stalingrado aveva costituito una spinta inimmaginabile per i comunisti in tutto il mondo. Con il “Nuevo canto de amor a Stalingrado”, Pablo Neruda scrisse una poesia d’amore senza confini per una città il cui nome aveva dato speranza al mondo intero:
…
Città, Stalingrado, non possiamo
giungere alle tue mura, siamo lontani.
Siamo i messicani, siamo gli araucani,
siamo i patagoni, siamo i guaranì,
siamo gli uruguaiani, siamo i cileni,
siamo milioni d’uomini.
E abbiamo altra gente, per fortuna, nella famiglia,
ma non siamo ancora venuti a difenderti, madre.
Città, città di fuoco, resisti finchè un giorno
arriveremo, indiani naufraghi, a toccare le tue muraglie
con un bacio di figli che speravano di tornare.
Stalingrado, non c’è un Secondo Fronte,
però non cadrai anche se il ferro e il fuoco
ti mordono giorno e notte.
Anche se muori non morirai!
Perché gli uomini ora non hanno morte
e continuano a lottare anche quando sono caduti,
finché la vittoria non sarà nelle tue mani,
anche se sono stanche, forate e morte,
perché altre mani rosse, quando le vostre cadono,
semineranno per il mondo le ossa dei tuoi eroi,
perché il tuo seme colmi tutta la terra.
Pablo Neruda (traduzione di Salvatore Quasimodo)
Durante la seconda guerra mondiale l’Armata Rossa aveva avuto 9.000.000 di morti e 18.000.000 di feriti. Solo 1.800.000 prigionieri ritornarono in patria dei 4.500.000 catturati dalla Wehrmacht. Le perdite tra i civili si pensa che si aggirino attorno ai 18.000.000 portando il totale delle perdite di guerra dell’Unione Sovietica a più di 26.000.000, ovvero cinque volte il totale delle perdite tedesche.
libera elaborazione dalla lettura del libro di Antony Beevor “Stalingrado – La battaglia che segnò la svolta della Seconda guerra mondiale” BUR Storia
due pagine gloriose della guerra di Liberazione
La battaglia per Genova
«Padre morto, figlia uccisa, tutto finito anche io finito» dice il parlamentare tedesco all'interprete del CLN: viene dal Comando del generale Meinhold a Savignone e ne riflette lo scoramento. Sennonché l'autorità di Meinhold si ferma ai confini del porto, dove "comanda il capitano di vascello Berninghaus, nazista per l'eternità. L'insurrezione di Genova è segnata da questo dualismo e dagli equivoci che ne derivano.
Il 23 aprile le forze dell'insurrezione si muovono contro un nemico che ha circa 12.000 uomini nella città e 18.000 nelle zone circostanti. Non si può sperare di batterlo, si può tentare di paralizzarlo. Ed ecco il grande sabotaggio, saltano le linee elettriche ad alta tensione, vengono messe fuori uso le locomotive a vapore, si spara sulle strade che portano al Piemonte, si bloccano i telefoni. L'ordine di ritirata impartito dal comandante supremo in Italia generale Vietinghoff è giunto il 20 aprile,. ma il 23 Meinhold non sa come eseguirlo: prima ha chiesto il libero passaggio al Comando della garibaldina Pinan-Cichero e la risposta è stata no; ora tramite il cardinale Boetto, tenta la via del CLN, promette la salvezza della città per il libero transito, ma la risposta è identica, firmata dal presidente Paolo Emilio Taviani: «I tedeschi colpevoli di distruzioni saranno considerati criminali di guerra e come tali passati per le armi ». A sera il CLN rompe gli indugi, proclama l'insurrezione generale, ha capito che Meinhold offre ciò che non ha: Berninghaus sta facendo affondare natanti ali'imbocco del porto; e un reparto di SS è fuggito verso il Piemonte portandosi dietro venticinque prigionieri politici fra cui il primo Comando regionale ligure.
Insurrezione! La sera del 23 Battista arriva con la brigata Balilla a Sampierdarena; nel porto i sommozzatori, gli scaricatori, i finanzieri, i partigiani vanno, sotto le raffiche tedesche, a disinnescare le 219 cariche di esplosivo sparse fra moli e impianti. C'è un tipo anziano con i capelli grigi che alla testa di una squadra disinnesca una cinquantina di mine; colpito a morte scompare nelle acque. I testimoni diranno: «Si faceva chiamare Medici ». La Resistenza, esercito senza anagrafe, ha molti di questi soldati ignoti.
Il giorno 24 le battaglie parallele per il porto e per la città proseguono con alterne vicende. Sono entrati in azione nel centro i GAP e le SAP, le carceri di Marassi cadono nelle mani dei ribelli, i prigionieri politici chiedono armi per combattere. Dalla periferia buone notizie: Rivarolo è partigiana, il Comando regionale è alla Certosa. Ma in città c'è una dura sorpresa: i fascisti del tenente Pisano, travestiti da partigiani, si sono impadroniti della prefettura; un loro giornale con la testata «Secolo nuovo» tenta di seminare l'indecisione, la confusione, finge di parlare per conto di un comitato di liberazione, annuncia la nomina di un nuovo prefetto, di un nuovo questore, e invita a sospendere la lotta, ad affidare l'ordine ai metropolitani. Dal porto sale una colonna di fumo, brucia una nave carica di benzina, l'incendio potrebbe propagarsi alla città, ma Berninghaus non cede, è deciso a resistere ad oltranza.
Genova la sera del 24 è in questa dannata. situazione: il porto in mano nemica, il centro conteso fra fascisti e partigiani, la cintura fortificata presidiata dai tedeschi a loro volta assediati dalle divisioni partigiane. E non si può sperare in un immediato soccorso alleato, le avanguardie inglesi sono a La Spezia, a cento chilometri di distanza, e in mezzo ci sono forze nemiche, montagne.
Ma la mattina del 25 la situazione è decisamente migliorata: durante la notte i partigiani hanno rotto in più punti la cerchia delle postazioni d'artiglieria tedesche e hanno espugnato sull'altura di Granarolo la stazione radio, che comincia a trasmettere messaggi del CLN. Tutt'intorno, più in alto, la Pinan-Cichero ha completato il blocco delle vie di uscita. Meinhold non ha più scampo e alle 19,30 firma la resa la rimette nelle mani dell'operaio comunista Remo Scappini: «Tutte le Forze armate germaniche di terra e di mare alle dipendenze del signor generale Meinhold· si arrendono alle Forze armate del Corpo volontari della libertà .alle dipendenze del Comando militare per la Liguria ... ».
Ma Berninghaus dice ancora no, anzi condanna a morte il suo superiore Meinhold, colpevole di. tradimento; con lui dice no il capitano Mario Arillo della X Mas, e insieme compiono le ultime distruzioni. E allora battaglia: vi entrano i partigiani della montagna, della Cichero e della Mingo, mentre Genova è il teatro di caotici movimenti: una colonna di 2.000 fascisti e tedeschi che ha cercato di aprirsi la strada verso Savona deve rifluire in città: parte si trincerano nel grattacielo, parte riescono a fuggire verso Uscio. Nella tarda serata del 26 finalmente anche i nazifascisti del porto si arrendono. Restano alcuni reparti di artiglieria sulle colline, lassù c'è un comandante che risponde ad ogni proposta di resa: «lo non sparo sulla città, ma voi non attaccatemi. Voglio consegnarmi agli Alleati ». La minaccia dura fino all'ultima ora.
La città è libera, il CLN la controlla, rimette in funzione i .servizi pubblici. Il pomeriggio del 26 gli Alleati sono a Rapallo, dal loro Comando si telefona al Comando partigiano. L'incontro avviene l'indomani mattina a Nervi. I partigiani consegnano agli Alleati 6.000 prigionieri catturati in città, 12.000 in montagna; ma Genova no, anche se formalmente bisogna fare il passaggio dei poteri Genova è dei genovesi, l'hanno pagata con migliaia di morti e di feriti.
La battaglia del Piemonte
Solo il Piemonte ha le forze per tentare una grande battaglia manovrata e ci va, senza esitazioni, rischiando lo sterminio in una pianura percorsa da grandi unità tedesche ancora compatte. Le più forti unità gielliste, la 1a e la 2a divisione, scendono su Cuneo e Saluzzo con i garibaldini della 9a e con gli autonomi di Cosa. Giellisti, maurini e garibaldini delle Langhe, in barba agli. ordini operativi, iniziano la corsa su Torino, l'alto Monferrato pensa ad Asti, i garibaldini di Ciro a Novara; calano su Torino le divisioni dalle valli di Susa, di Lanzo, del Chisone, del·Pellice.
La battaglia per Cuneo inizia il 25 aprile. Nei giorni precedenti i partigiani hanno costretto alla resa nelle vallate i battaglioni fascisti della Monterosa e della Littorio, salvate le centrali; ora si va al capoluogo, è l'ottavo assedio nella storia della città, quello posto dai suoi figli per liberarla. I tedeschi devono tenere la città per garantire il passaggio alle divisioni in ritirata dalla Liguria per le valli Roja e Vermenagna; e possono farlo, la città sta su un altopiano fra due fiumi, le artiglierie e le mitragliere da 20 battono tutte le provenienze, i ponti, le passerelle. Ma Ettore Rosa e i giellisti guadano il fiume Stura nella notte, risalgono la ripa, mettono in fuga, in località Torrette, un avamposto tedesco, raggiungono i quartieri ovest della città dov'è scoppiata l'insurrezione.
Dopo due giorni di lotta nell'abitato le posizioni si cristallizzano: i tedeschi chiusi nei loro fortini controllano da ponte a ponte la strada Borgo San Dalmazzo-Torino, tengono libero il tratto nell'abitato. Una commissione cittadina viene da Rosa a riferire la proposta tedesca:
« Sospendete l'attacco ed eviterete distruzioni alla città». « No », risponde Rosa, «non faccio la guerra sul piano di Cuneo, ma su quello nazionale ».
Arrivano a dar man forte i reparti giellisti e garibaldini che hanno occupato Savigliano e Saluzzo, arrivano i pezzi da 88 catturati a Busca, sparano sulla caserma del 2° alpini, fortilizio tedesco. I partigiani si battono con accanimento, devono liberare la città prima che vi giungano gli Alleati, prima soprattutto che vi calino le truppe francesi del generale Doyen. Il tenente Barton, che conosce le loro ansie, va a trattare con i tedeschi nel pomeriggio del 28 aprile. Non cedono ancora, anche se la città è ormai partigiana, con tricolori a tutte le finestre: Nuto Revelli tornato dalla Francia è passato sotto casa sua, ma senza salirvi; prima bisogna finire questo lavoro che si chiama liberazione.
Il 29 aprile la battaglia è finita, i capi della ribellione si ritrovano dopo venti mesi nella loro città: Dalmastro, Ventre, Rosa, Revelli giellisti,.i comunisti Comollo e Bazzanini, l'autonomo Cosa. Manca Duccio Galimbertl, morto, manca Livio Bianco, preso dalla battaglia per Torino. I francesi non. sono scesi in forze a Cuneo, si sono fermati nelle alte valli. C’e stato a Limonetto un incidente con i partigiani, un soldato marocchino ucciso per questa contesa di cui non si sa niente. Ed è arrivata in tempo la minaccia di Truman a De Gaulle: ogni tentativo di entrare in Italia significherebbe la cessazione immediata degli aiuti americani.
Il 25 aprile, quando inizia la battaglia per Torino, la città è un campo fortificato, interi quartieri sono circondati dal filo spinato, le strade sbarrate dai cavalli di frisia, dalle cupole dei fortini. «Nel paesaggio lunare di certi angoli di periferia », riferisce Giorgio Amendola, « si scontrano le pattuglie repubblichine e partigiane» Sono pronti a combattere immediatamente 9.000 delle squadre cittadine, e 1.000 autonomi, 3.000 garibaldini, 1.600 giellisti, 1.500 matteottini, affluiti in città dalle montagne. Le squadre. operaie pensano alle fabbriche, alla Fiat Grandi Motori piazzano le mitragliere da 20, l'ordine che stabilisce l'insurrezione. per il 26 arriva dovunque in ritardo, la bandiera tricolore già sventola sui fumaioli. L'ordine non è piaciuto al colonnello Stevens, comandante delle missioni alleate, vi ha acconsentito a malincuore ma a condizione che prima si liberino le strade provenienti da Asti e da Casale, per cui passeranno le avanguardie alleate. Poi scompare, si ritira in una villa sulla collina .. A tarda sera i resistenti della STIPEL, la centrale telefonica, intercettano gli ordini tedeschi: hanno deciso di restare in città per attendervi le truppe che si ritirano dal basso Piemonte. Stevens, in buona o in mala fede, ne trae pretesto per tentare un nuovo rinvio dell'insurrezione, dal suo rifugio manda a Barbato . l'ordine di non muoversi. L'ordine è su carta intestata del CMRP. Barbato lo conserva per la storia, ma scende in città.
Il 26 il Comando tedesco tratta: Torino diventi città aperta; il tedesco eviterà ogni distruzione purché sia libero il transito per la colonna Liebe che sale da Cuneo, composta dalla 5a e dalla 34a divisione; in caso contrario farà della città «una nuova Varsavia ».
No a Torino, no in tutti i luoghi dell'Italia insorta. I nazi, trincerati nel quadrilatero fra corso Vittorio Emanuele, via Arcivescovado via XX Settembre, corso Galileo Ferraris, ne escono per furenti sortite, per cannoneggiare le fabbriche sui cui sventolano le nostre bandiere. Sono venticinque carri armati che percorrono la città senza riuscire a spezzare le file di un esercito ribelle che ingrossa di ora in ora, manovrato con sicurezza sempre maggiore dal Comando che si è allogato alla Lancia in Borgo San. Paolo. Qui giunge un altra ambasciata tedesca: chiedono di far passare le divisioni in ritirata in un tempo massimo di quarantotto ore. La risposta è sempre no.
Il 28 le formazioni della montagna giungono in città, l'armata partigiana conquista la città strada per strada: la 8a Garibaldi arriva a corso Valdocco; Mauri, al termine della lunga corsa, occupa i ponti a Moncalieri, seguito da! suoi concorrenti, i giellisti della 3a di Alberto Bianco e i garibaldini di Nanni. Il 28 i tedeschi sgomberano gran parte del presidio. Il 29 ricompare il colonnello Stevens, chiede al Comando partigiano di far saltare i ponti sul Po; non gli danno retta, i ponti stanno in piedi per il domani, li difendono i partigiani.
Il generale Schlemmer chiede ancora via libera per le divisioni della colonna Liebe, il rifiuto glielo porta il colonnello Contini: Schlemmer legge, si inchina, saluta freddamente. Incomincia la corsa pazza fra la città e il Canavese delle diviosioni tedesche che non vogliono arrendersi ai partigiani.
Gli Alleati giungono a Torino il l° maggio, sei giorni dopo l'inizio della battaglia: In valle d'Aosta il capoluogo è occupato il 26, i francesi si fermano a Pre Saint-Didier. Novara, Vercelli, Alessandria cadono una ad una; qua e là bruciano i fuochi delle ultime stragi a Grugliasco, Collegno.
da “Storia dell’Italia partigiana” di Giorgio Bocca
Costituiamo un Comitato
La Sezione lissonese dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia chiede all’Amministrazione Comunale che si costituisca a Lissone un COMITATO, con lo scopo di promuovere, unitamente alla Amministrazione Comunale in particolari momenti di carattere nazionale e locale ed in occasione di ricorrenze storiche, iniziative e manifestazioni diverse. Del Comitato faranno parte le varie Associazioni interessate.
Negli anni ’80 esisteva a Lissone il COMITATO PER LA DIFESA DELLE ISTITUZIONI DEMOCRATICHE. Per il 25 aprile 1985 il Comitato pubblicò un documento in cui Angelo Cerizzi, Sindaco e membro del Comitato, scrisse degli APPUNTI SU UOMINI E FATTI DELL' ANTIFASCISMO LISS0NESE, che di seguito riportiamo.
“Questi appunti scaturiscono dalla opportunità di contribuire a riunire e riordinare testimonianze su uomini e fatti di un particolare momento della nostra comunità per arrivare a formulare una pagina di storia dell'antifascismo lissonese. Appunti che vogliono essere, soprattutto per i giovani, un momento di riflessione sui valori basilari della libertà, della democrazia, della giustizia e della solidarietà per cui lottarono, soffrirono e diedero la vita coloro che non accettarono di piegarsi alla dittatura.
E’ un periodo che pur nella sua globalità può essere suddiviso in diverse fasi assumendo ciascuna connotati precisi e diversi.
Così per quanto concerne il periodo che va dall'avvento del fascismo (ottobre 1922) alla sua caduta (25 luglio 1943), devono essere segnalate come figure particolari e fatti significativi del momento:
Vismara Leonardo - nato a Lissone il 18.5.1899, figura di indomabile fede antifascista, costretto all'esilio per le continue vessazioni. Partecipa alla guerra di Spagna nella Brigata Internazionale. Rientra in Italia dopo il 25 luglio 1943 e durante la Resistenza svolge come comandante militare funzioni di collegamento col locale C.L.N
Francesco Mazzilli - Ing. Attilio Gattoni - Carlo Arosio -arrestati verso la fine giugno 1943 ed incarcerati a S. Vittore furono liberati il 26 luglio 1943 subito dopo la caduta del fascismo.
Tra gli antifascisti di vecchia data devono essere ricordati:
Avvoi Ambrogio - Mazzi Attilio - Camnasio Ing. Mario - Consonni Luigi - Donghi Luigi - Foglieni Luigi - Piatti Attilio ed i componenti del Circolo S. Filippo Neri diretti da Don Ennio Bernasconi: pure questi subì vessazioni dai fascisti.
Alcuni episodi meritano di essere segnalati perchè danno l'immagine della situazione locale nel periodo fascista.
Al Circolo San Filippo Neri tocca il battesimo delle iniziative vandalistiche attraverso un tentativo di incendio della sede. La Casa del Popolo dopo aver subito atti di violenza è costretta a chiudere.
Il Circolo di Pro Cultura del Popolo (Biblioteca fondata verso il 1908 e condotta da persone antifasciste) viene obbligato a trasferirsi presso la sede della Sezione Combattenti.
La Trattoria della Passeggiata viene denneggiata perchè ritenuta luogo di incontro di persone non simpatiche al fascismo.
Con il triste 8 settembre 1943 e fino al radioso 25 aprile 1945 la storia d'Italia segna una delle pagine più travagliate e drammatiche: è il momento epico della Resistenza contro la dura occupazione nazifascista ed il contributo dei lissonesi per la riconquista della libertà è degno della generosità che distinguono la nostra gente. Ricordiamo:
Partigiani fucilati dai fascisti e dai nazisti:
Arosio Arturo: fucilato a Sestri Levante per essersi rifiutato di entrare a far parte della Repubblica Sociale Italiana.
Galimberti Ercole:componente delle formazioni partigiane e fucilato dai nazisti a Susa per rappresaglia.
Meroni Attilio: componente delle formazioni partigiane e fucilato a Valdossola.
Guarenti Davide: staffetta fra le squadre partigiane, distributore della stampa clandestina: fucilato a Fossoli.
Erba Pierino - Parravicini Carlo Somaschini Mario – Chiusi Remo: componenti di una squadra della formazione partigiana Garibaldina; a seguito di una cruenta azione nel giugno 1944 contro spietati militi fascisti, furono arrestati - su delazione - e fucilati: i primi due nella piazza principale di Lissone, gli altri a Monza.
Morti in campo di concentramento:
Avvoi Ambrogio, operaio deportato a Flossenburg per motivi politici.
Bettega Mario, operaio deportato a Mauthausen per motivi politici.
Colzani Giulio, operaio deportato a Flossenburg per motivi politici.
De Capitani Gianfranco, impiegato deportato a Mauthausen per non aver aderito alle formazioni della R.S.I.
Mazzi Attilio, implacabile antifascista, deportato a Mauthausen.
Parravicini Giuseppe rimpatriato per motivi di salute dal campo di concentramento e poi deceduto per malattia contratta nel campo stesso.
Parravicini Oreste, Perego Francesco
È doveroso segnalare inoltre i nominativi di quei Partigiani, Patrioti e Benemeriti che in misura diversa ed in modi vari hanno dato il loro valido contributo alla lotta per la Liberazione, sia di coloro che hanno avuto l'attestazione della apposita Commissione Riconoscimento Qualifiche Partigiana - Lombardia dell'allora Ministero Assistenza Post Bellica, sia di coloro che parimenti operarono attivamente per il successo, sia infine di coloro che sentirono l'anelito alla Libertà ed aderirono alla Resistenza.
Innanzitutto ricordiamo le seguenti persone per le loro particolari funzioni svolte: Frisoni Agostino - Gelosa Luigi - Cavina Nino, quali componenti del C.L.N. locale, Costa Federico promotore del C.L.N. dal quale poi si dimise sempre comunque svolgendo attività clandestina, Crippa Riccardo comandante militare della Piazza di Lissone, Arosio Angelo (Genola) -Sindaco della Liberazione; quindi i Sigg.:
Casati Erino - Parravicini Giuseppe fu Mario - Perego Franco - Tassinato Tiziano - Vavassori Luigi - Zappa Pierino - Arosio Alfredo - Arosio Giulio (Tan) - Arosio Luigi (American) - Beggio Giovanni - Beretta Alfredo - Besana Celesti no - Brambilla Gerolamo - Carabelli Casimiro - Casati Bruno - Cerizzi Angelo - Cesana Carlo - Colombo Emilio - Colzani Francesco - Colzani Luigi - Crippa Arturo - Crippa Giuseppe - Donghi Giuseppe - Donghi Luciano - Erba Andreina - Erba Natale (Erbet)- Fedeli Lino - Ferrario Isacco - Foglieni Risveglia - Fumagalli Giovanni - Fusi Attilio - Galli Nino - Galimberti Giancarlo - Gelosa Giuseppe - Lambrughi Santino - Meroni Ezio - Meroni Fausto - Meroni Giulio (Tricil) - Molteni Carlo - Muschiato Bruno - Mussi Mario (Griset) - Mutti Celeste - Negrelli Mario - Nespoli Augusto - Parma Anna - Perego Augusto - Pirola Gabriele - Pozzi Alfredo - Pozzi Pierino - Redaelli Attilio Riva Augusto - Rovati Carlo - Rovati Giulio - Sala Felice - Sala Mario - Sacchetti Luciano - Scali Edoardo - Sironi Chiara - Terenghi Felice - Tromboni Eugenio - Ziroldi Augusto.
È giusto infine ricordare coloro che dopo l'8 Settembre 1943,. rimasti nell'Italia meridionale, combatterono per la Liberazione dell'Italia nel 1° Reggimento Motorizzato, nei Gruppi di Combattimento nel Corpo Italiano di Liberazione e nei Gruppi di Combattimento: Rovera Massimiliano - Arosio Giuseppe - Galimberti Renzo - Mussi Mario - Rivolta Franco - Sala Giulio - Paltrinieri Bruno - Arosio Ennio.
Per quanto riguarda fatti ed episodi avvenuti in Lissone durante la Resistenza, il più rimarchevole fu senza dubbio quello che ebbe per protagonisti una squadra della S.A.P. per un attentato contro due militi fascisti che più si accanivano nella caccia ai renitenti. I quattro patrioti componenti la formazione furono arrestati a seguito di delazione e - dopo torture - fucilati. La fucilazione avvenne per due di essi nella piazza principale davanti ad una folla incredula e sbigottita che dopo la raffica mortale fuggì terrorizzata.
Il giorno dopo a Monza venivano fucilati gli altri due. Anche Radio Londra nella nota trasmissione "La Voce della Libertà" ricordò il tragico episodio di Lissone esaltando il martirio dei quattro patrioti.
Con riferimento a questo fatto un altro merita di essere segnalato anche per la vasta risonanza che suscitò: nella ricorrenza dei defunti, il 2 novembre 1944: il C.L.N. per onorare la memoria dei quattro patrioti fucilati in giugno, depose sulla loro tomba - durante la notte - una corona di fiori ed un cartoncino tricolore con la scritta "Comitato di Liberazione Alta Italia".
Ci si è limitati a questi episodi: altri ve ne sono, ma il carattere succinto di questi appunti non consente di dilungarsi oltre
Un esempio di impegno e fedeltà nella difesa e nell'affermazione degli ideali e dei valori della Resistenza è stata la costituzione del Comitato per la Difesa delle Istituzioni Democratiche. Infatti in particolari momenti di carattere nazionale e locale ed in occasione di ricorrenze storiche si è fatto promotore, unitamente alla Amministrazione Comunale, di iniziative e manifestazioni diverse.
N.B.: il Comitato è a disposizione per precisazioni ed integrazioni." (Angelo Cerizzi)