tragedie del confine orientale: le motivazioni degli esuli
Tra le motivazioni soggettive che si cumularono tra loro fino a spingere gli istriani ad abbandonare la loro terra, assolutamente preponderante in tutte le testimonianze, sia coeve che posteriori, appare il ruolo svolto dalla paura. In realtà, nel corso del dopoguerra non si ebbero in Istria stragi paragonabili a quelle dell' autunno del 1943 e della primavera del 1945, ma vi fu un continuo stillicidio di violenze che pesava di per se, e ancor più perché veniva letto alla luce degli esempi «pedagogici» degli anni precedenti, rammentando a ogni istante il destino latente di una comunità che si sentiva costantemente sull'orlo della cancellazione violenta.
«Bastava poco» è l'espressione che più di frequente ricorre nelle testimonianze, a segnare l'incerto confine che nella terra istriana correva tra i comportamenti ammessi e quelli che, spesso in maniera non intelligibile, facevano scattare il meccanismo delle intimidazioni e delle persecuzioni. Si trattava non soltanto - e neanche principalmente - di atti di opposizione al regime, ma piuttosto di segni di insofferenza verso le innovazioni introdotte nell'economia e nella vita sociale, di insufficiente partecipazione alle «riunioni popolari», accompagnata magari dalla frequentazione invece delle funzioni religiose, e di manifestazioni esteriori di legami con il mondo borghese, denunciati per esempio dall'abbigliamento. E ancora, di rapporti familiari o professionali con individui in qualche modo invisi alle autorità, e del rifiuto di farsi coinvolgere nelle logiche del regime accettando incarichi o entrando nel meccanismo perverso delle delazioni, utilizzato su larga scala dalla polizia politica, e che risultava così efficace nel suo potere deterrente, da impedire anche solo di dare il suo vero nome alla violenza.
Accanto a elementi, riferibili alla sfera dell’economia e della politica, ve ne erano altri, che coinvolgevano la quotidianità dell'esistenza e davano la misura di una trasformazione che finiva per venir percepita come un rivolgimento dell’ordine naturale delle cose. I valori cardine della società venivano messi radicalmente in discussione, le abitudini consolidate da generazioni dovevano essere abbandonate, tutte le certezze scomparivano e le nuove regole (dalla necessità di imparare la lingua di popoli da sempre considerati senza cultura, al tentativo di forzare la terra ai ritmi di una pianificazione irrispettosa dei tempi della natura e della tradizione, all’imposizione di nuovi criteri di misura del lavoro e del prestigio sociale) apparivano frutto di una volontà insensata e malevola, alla fine insondabile. Ancor più nere erano le prospettive per il futuro, e le sofferenze del presente si sommavano all’angoscia per il destino dei figli. In alcuni casi, fu proprio la preoccupazione per il modo in cui le nuove generazioni sarebbero cresciute nelle maglie del regime a far pendere la bilancia verso l'Esodo.
Lo «spaesamento» che divenuto la chiave interpretatìva privilegiata cui far ricorso per comprendere l'atmosfera in cui furono costretti a vivere gli istriani di lingua, cultura e sentimenti italiani, i quali, anche quando resistettero più a lungo alle ondate repressive e alle pressioni politiche del regime, finirono per ritrovarsi in una terra diversa, dove altre presenze, altri costumi, altri meccanismi di integrazione sociale, altri orizzonti di vita facevano sì che quella medesima terra, in cui pure erano nati, non sembrasse più la loro. Sentirsi «stranieri in patria» - secondo un'espressione ricorrente nelle fonti - è una condizione lacerante, che getta le fondamenta psicologiche per la scelta dell'abbandono.
La scelta dell'Esodo pertanto, che - a parte le fughe ìndividuali legate a situazioni di emergenza - fu in genere scelta collettiva, capace di svuotare interi paesi o addirittura intere città come Pola.
Così si è espresso lo storico tedesco Theodor Veiter:
La fuga degli italiani secondo il moderno diritto dei profughi è da considerare un'espulsione di massa. È vero che tale fuga si configura come un atto apparentemente volontario, ma già l'opzione pressoché completa dei sudtirolesi per il trasferimento nel Reich germanico dopo il 1939 mostra come dietro la volontarietà possa esserci una costrizione assoluta e ineludibile. Colui che, rifiutandosi di optare o non fuggendo dalla propria terra, si troverebbe esposto a persecuzioni di natura personale, politica, etnica, religiosa o economica, o verrebbe costretto a vivere in un regime che lo rende senza patria nella propria patria di origine, non compie volontariamente la scelta dell'emigrazione, ma è da considerarsi espulso dal proprio Paese.
Bibliografia:
Raoul Pupo – Il lungo Esodo – BUR Storia 2006
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