Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

ii guerra mondiale

10 giugno 2020: 80 anni fa l’Italia entrava in guerra

9 Juin 2020 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

Per l’Italia iniziava 80 anni fa la seconda guerra mondiale: una guerra inutile e sciagurata in cui l’Italia era stata trascinata dal regime dittatoriale fascista, che aveva fatto della guerra un dato fondamentale della propria azione politica e dell'educazione dei giovani.

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Il 10 giugno del 1940 l'Italia entrò in guerra accanto alla Germania, contro la Francia e l'Inghilterra. Mussolini, svincolato da ogni autorizzazione o controllo di tipo parlamentare democratico, lo annunciò dal balcone di palazzo Venezia, a Roma, davanti a una piazza che lo applaudì freneticamente.

«Quel giorno, a Roma, le maestre avevano radunato nei cortili delle scuole le Piccole Italiane. Le bambine erano arrivate un po' affannate, per il caldo del primo pomeriggio, ancora con il pranzo sullo stomaco, ma tutte ben pettinate, i capelli lustri sotto il berrettino di seta nero, la camicetta bianca stirata, il distintivo cucito sul petto e i gradi sulla manica, la gonna nera a pieghe e le calzine bianche. Le Giovani Italiane si erano radunate sotto il Colosseo ed erano entrate in piazza Venezia a passo svelto da via dei Fori Imperiali; dall'altra parte della piazza erano arrivati i Balilla con i calzoncini corti, poi gli Avanguardisti con lo sguardo fiero e l'aria marziale. Nella grande piazza, i vari gruppi si erano disposti ordinati e compatti, come pezzi su una scacchiera, ad aspettare la parola del Duce. In attesa che si affacciasse al balcone cantarono l'Inno a Roma. Rimasero fermi più di un'ora sotto il sole, pronti ad alzare il braccio nel saluto romano al momento giusto e a rispondere al Saluto al Duce».

10 giugno 2020: 80 anni fa l’Italia entrava in guerra
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10 giugno 2020: 80 anni fa l’Italia entrava in guerra

La dichiarazione di guerra pronunciata da Mussolini il 10 giugno 1940 dal balcone di Palazzo Venezia

Scrive Lucio, figlio di un IMI (Internato Militare Italiano, cioè quei soldati italiani che  saranno fatti prigionieri dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943 e costretti al lavoro coatto in Germania e negli altri territori del Reich): «Una giornata tragica per la nostra terra quel 10 giugno; da quella decisione iniziarono le sofferenze per gli italiani e i nostri padri in particolare , prima sui fronti di guerra e poi in Germania. Di seguito un link del filmato del discorso del Duce. Lo avrete visto molte volte ma è un documento storico e vale sempre la pena di rivederlo per una riflessione sui nostri errori come italiani; non si può non notare infatti le piazze piene di gente...» video 10 giugno 1940

e a Lissone:

«Un'ora segnata dal Destino sta per scoccare sul quadrante della Storia, l'ora delle decisioni irrevocabili [...]. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell'Occidente, che in ogni tempo hanno ostacolato la marcia e spesso insidiato l'esistenza medesima del popolo italiano [...]».

Con queste parole altisonanti Mussolini annuncia alle ore 17 del 10 giugno 1940 l'entrata in guerra dell'Italia al fianco della Germania nazista.

Era un caldo lunedì pomeriggio; anche i dirigenti degli stabilimenti lissonesi fermarono la produzione. I dipendenti, incolonnati dietro i cartelli recanti il nome della fabbrica, si diressero verso piazza Vittorio Emanuele II, dove rimasero in attesa sotto gli altoparlanti per ascoltare le parole del duce trasmesse via radio. C’erano tutte le autorità schierate, arrivava gente da ogni parte: come raccontano le cronache, poche e sparute le grida di entusiasmo e di approvazione, circoscritte comunque ai soli individui in camicia nera; moltissimi invece gli sguardi sgomenti delle donne e degli uomini preoccupati per il destino dei loro figli; tangibili l'amarezza e lo sconforto dei giovani, che vedono profilarsi l'esperienza del fronte.

 

Due grandi firme del giornalismo italiano, così hanno scritto di quel 10 giugno 1940.

 

 

 

Enzo Biagi

«Nel giugno del 1940 io non avevo ancora vent'anni ... »

 

 

 

e

Giorgio Bocca 

Quando il 10 giugno 1940 entriamo in guerra, la tacita intenzione del nostro comando affidato al maresciallo Badoglio è di aspettare che i tedeschi abbiano sconfitto le armate franco-inglesi ... »

 

 

 

 

BibliografiaBibliografia

Bibliografia

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Operazione Overlord

5 Juin 2020 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

Nella notte tra il 5 e il 6 giugno 1944, una flotta gigantesca, la più formidabile mai assemblata nella storia dell’umanità, (21 convogli americani e 38 anglo-canadesi che trasportavano o rimorchiavano 2.000 mezzi da sbarco, scortati da una formazione di 9 corazzate, 23 incrociatori e 104 cacciatorpediniere) levò l’ancora dalle coste meridionali dell’Inghilterra per far rotta verso la Francia.

Le truppe alleate (che contavano nei loro ranghi 1,7 milioni di Americani, 1 milione tra Inglesi e Canadesi e 300.000 altre reclute, divise tra Francesi, Polacchi, Belgi, Olandesi, Norvegesi e Cecoslovacchi) disponevano di circa 2 milioni di tonnellate di materiale e di 50.000 mezzi (carri armati, veicoli semicingolati, automitragliatrici, camion, veicoli).

Mezzo milione di soldati del Reich era dispiegato tra l’Olanda e la Bretagna lungo il “Muro dell’Atlantico”, il sistema di fortificazioni fatto costruire da Rommel. Il grosso delle forze tedesche (la XV armata era disposta nella zona del Pas de Calais, là dove la Manica è più stretta, luogo di un probabile sbarco alleato secondo le previsioni di Hitler. Dieci divisioni blindate sono pronte ad intervenire, ma sono troppo distanti dalla costa.

Lo scarto in mezzi tra le due aviazioni è enorme: gli Alleati dispongono di 3.000 bombardieri e 5.000 caccia contro 320 apparecchi tedeschi.

È il feld-maresciallo Gerd von Rundstedt che prende il comando delle forze tedesche sul fronte occidentale. Al momento dello sbarco, Rommel è in Germania per festeggiare il compleanno della moglie.

Altri fattori rendono più facile la realizzazione del piano di invasione. Un esempio: sette messaggi trasmessi dagli Alleati alla Resistenza francese, benché intercettati dai servizi segreti tedeschi, non vengono mai ritrasmessi ai comandi militari in Francia.

Il comando supremo dell’Operazione Overlord è affidato al generale americano Eisenhower e il comando tattico al generale inglese Montgomery.

Il cattivo tempo sulla Manica provoca un ritardo di ventiquattro ore delle operazioni.

1944-Eishenower-e-paracadutisti.JPG

Le condizioni meteorologiche costringono il generale Eisenhower a scegliere la data del 6 giugno. La bassa marea delle prime ore del mattino e il levarsi tardivo della luna facilitano l’atterraggio degli alianti e il lancio dei paracadutisti.

Nella notte dal 5 al 6 giugno, le navi partite da diversi porti inglesi della Manica convergono al loro punto di incontro (“Piccadilly Circus”) per dirigersi sulle coste situate tra la foce della Senna e la penisola del Cotentin.

Il “Giorno più lungo” inizia alle 3 e 14 del mattino del 6 giugno con il bombardamento aereo delle difese costiere tedesche, seguito dall’atterraggio dei paracadutisti alleati (circa 18.000 uomini su 20.000 potranno compiere la missione che a loro era stata assegnata), il cui compito consisteva nell’annientare il sistema logistico del nemico. Due ore più tardi inizia il bombardamento navale alleato. La copertura aerea è impressionante e i tiri dei cannoni della marina micidiali. Pe evitare qualsiasi sorpresa, le navi dei convogli sono precedute da dragamine e protette dallo sbarramento di palloni frenati (potevano ascendere fino a quote di 1.500 m, tendendo i cavi di collegamento che consentivano di interdire ed ostacolare i velivoli ostili a bassa quota).

1944 cartina sbarco Normandia

Alle 6 e 30 i primi segni dello sbarco: la prima ondata d’invasione del gruppo di armate, agli ordini di Montgomery raggiunge le spiagge il cui nome in codice sono “Utah”, “Omaha”, “Gold”, “Sword” e “Juno”.

Questo impressionante spiegamento di forze è seguito dall’arrivo di 145 banchine galleggianti in cemento destinate alla costruzione di porti artificiali per l’attracco di navi fino a 10.000 tonnellate e di elementi di una pipeline prefabbricata “Pluto” (Pipeline-under-the-ocean) che fornirà il carburante necessario all’armata.

I primi soldati a calpestare il suolo delle coste francesi sono gli Americani della I armata del generale Omar Bradley che sbarcano sulle spiagge d’Utah e d’Omaha dove lo stato del mare e la resistenza accanita dei tedeschi li mettono in seria difficoltà. Sulle spiagge di Gold, Sword e Juno, gli inglesi della II armata del generale Miles Dempsey sono più fortunati. Alcune ore dopo, gli Inglesi si ammassano già nei dintorni di Caen, mentre le unità americane si battono ancora contro le fanterie e le Panzer divisioni accorse in tutta fretta sulle colline circostanti.

1944-sbarco-mezzi-Normandia.JPG

Alle ore 9 e 33 del 6 giugno 1944, il quartier generale di Eisenhower comunica al mondo intero il seguente messaggio: «Sotto il comando supremo del generale Eisenhower, le forze alleate navali, sostenute dalle potenti forze aeree, hanno incominciato a sbarcare armate alleate sulla costa nord della Francia». È questo l’annuncio che l’operazione “Overlord”, ossia l’invasione della Francia, è riuscita e il mondo libero non può che rallegrarsene.

A mezzogiorno, il primo ministro britannico, Churchill, rivolgendosi alla Camera dei Comuni, annuncia lo sbarco in Normandia: «La prima serie di sbarchi delle forze alleate sul continente europeo è iniziata nel corso della notte. Questa volta, l’assalto liberatore è stato effettuato sulla costa della Francia. L’armonia più completa regna tra le armate alleate».

Hitler sarà informato dell’invasione solamente in tarda mattinata. Quanto a Rommel, riguadagnerà il teatro delle operazioni in serata del giorno J. Ma i tedeschi si ostinano a pensare che non si tratti della grande offensiva alleata attesa da alcuni mesi. Questo errore fatale contribuirà al successo dell’Operazione Overlord. Hitler invia l’ordine tassativo di non spostare verso la zona dello sbarco le divisioni blindate che si trovavano in altri settori e gli Alleati non saranno respinti in mare «durante la notte» come espressamente richiesto dal Führer.

Al calar della notte, al contrario, circa 160.000 uomini calpestano già il suolo francese. Anche se gli Alleati hanno raggiunto solo in parte i loro obiettivi, l’operazione è un successo.

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La liberazione del Nord Italia

28 Avril 2020 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

Mentre le nuove unità italiane, a fianco della V e dell'VIII Armata, erano pronte per l'imminente offensiva, dietro le linee tedesche l'esercito partigiano attendeva con ansia il giorno dell'insurrezione. Il generale Cadorna ha detto: 

«Il 28 febbraio del 1945, riconfermato come capo comandante del Corpo Volontari della Libertà, partii per la Svizzera e successivamente per l'Italia meridionale, ivi chiamato per prendere accordi coi massimi dirigenti degli eserciti alleati in vista della prossima offensiva. A quel momento le forze partigiane, superata la grave paralisi invernale si stavano ricostituendo e avevano già ripreso la normale attività di disturbo alle spalle dell'esercito tedesco e si preparavano per l'atto finale, l'insurrezione, che avrebbe dovuto scattare in accordo con le forze alleate man mano che questi si avvicinavano agli obiettivi. Era compito delle forze partigiane di collaborare nell’atto tattico con gli Alleati, di occupare, ovunque possibile, i grandi centri italiani, di salvaguardare il patrimonio artistico, quello industriale, le opere pubbliche della nazione ed infine di osservare l'ordine nel periodo intermedio fino all'arrivo delle truppe alleate».

Hitler aveva giurato di non capitolare mai. Ora i tedeschi pagano il prezzo di quel giuramento. Tutta la terra fra il Reno e l'Oder è in fiamme; gli eserciti alleati avanzano da Ovest e da Est chiudendo la Germania in una morsa. La disfatta che si annuncia, non ha precedenti nella storia, ma Hitler ordina ancora ai tedeschi di morire tutti piuttosto che arrendersi.

Non tutti i capi sono però disposti a seguire fino in fondo la follia del Führer. In Italia il generale Wollf d'accordo con Himmler, cerca da tempo di trattare la resa del fronte Sud. Ne sono al corrente il maresciallo Kesselring, che il 9 marzo viene trasferito sul fronte renano, e il suo sostituto generale von Vietinghoff; ma gli Alleati non intendono rinunciare ai loro piani.

Di essi parlarono i due generali Lucian K. Truscott, comandante della V Armata e Richard L. Mac Creery comandante dell'VIII. 

Disse Truscott:

«L'offensiva di primavera della V Armata era stata prevista in tre fasi: prima, la conquista e il consolidamento di una posizione nei pressi di Bologna; seconda, lo sviluppo delle posizioni sul fiume Po; terza, la traversata del Po e il blocco della strada del Brennero, principale via d'uscita dall'Italia, con la conquista e il consolidamento delle posizioni sul fiume Adige. Le truppe della V Armata avrebbero occupato le provincie dell'Italia settentrionale, da Treviso a est, a Bolzano a nord, a Torino ad ovest. Il Gruppo "Legnano" avrebbe attaccato all'estrema destra del nostro schieramento, nell'area di Monte Grande, e avrebbe mantenuto contatti con l'VIII Armata nella pianura ad est.

E debbo aggiungere che il Gruppo "Legnano”  del generale Umberto Utili non solo ebbe una parte importante in questo attacco del II Corpo americano e della V Armata, ma prese parte alla conquista di uno dei nostri obiettivi più importanti: la città di Bologna ». 

E Mac Creery: 

«L'offensiva finale in Italia era prevista per i primi di aprile 1945, quando l'VIII Armata doveva attaccare in due direzioni. L'ala destra doveva sfondare attraverso quella che noi chiamavamo la breccia di Argenta, raggiungere il Po, passarlo e continuare verso nord-est. L'ala sinistra doveva, d'intesa con la V Armata americana, attaccare e conquistare Bologna. L'VIII Armata era costituita da quattro Corpi d'Armata, alle cui dipendenze erano, nel mio settore, tre Gruppi di combattimento italiani. Il loro compito non era facile, ed era di sfondare le linee tedesche scendendo dalla zona dei contrafforti appenninici e raggiungere la valle del Po per unirsi al Corpo polacco sulla loro destra, e prendere insieme Bologna ».

Le operazioni preliminari dell'VIII Armata iniziarono il 2 aprile nelle valli di Comacchio e oltre il fiume Reno. Una settimana più tardi gli inglesi sferravano l'attacco in tutto il settore.

La preparazione d'artiglieria fu tremenda: 1.200 cannoni, uno ogni sei metri, sparavano su un fronte di sette chilometri contro le posizioni tedesche martellate in precedenza da 700 bombardieri.

Lo sfondamento della linea del Senio a cavallo della via Emilia fu affidato ai polacchi con l'appoggio dei Gurka indiani e di reparti corazzati.

I tedeschi non s'aspettavano un inizio tanto violento.

Entrarono anche in azione i lanciafiamme «coccodrillo», che arrivavano fino a 120 metri. L'ultima arma controcarro tedesca, il «Faustpatrone», aveva una gittata inferiore, così il «coccodrillo» sparse il terrore nelle file nemiche.

Una volta rotto il fronte, i tedeschi sapevano che non avrebbero più potuto costituirne un altro, perciò si batterono con disperato accanimento. Ma ormai non avevano più riserve da gettare nella lotta per tappare le falle. Pochi giorni di battaglia, poi il fronte della Romagna cominciò a cedere. Nelle brecce aperte dai reparti d'assalto, avanzarono i carri armati.

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Varcato il Senio, i polacchi si dirigevano verso Imola e Bologna; le truppe inglesi del V Corpo entravano il 10 aprile a Lugo di Romagna.

Sull' ala destra dell'VIII Armata anche il Gruppo «Cremona» partecipava all'offensiva. L'attacco era stato diretto contro le posizioni tedesche sul basso corso del Senio e il 10 aprile gli italiani, oltrepassato il fiume, liberarono Alfonsine catturando numerosi prigionieri.

Il Gruppo «Cremona» proseguiva verso le linee del Santerno, superandole nei giorni successivi. Dovunque i reparti italiani erano accolti festosamente. Essi concluderanno il ciclo operativo ad Adria e Cavarzere, partecipando con una colonna rappresentativa alla liberazione di Venezia.

Cinque giorni dopo l'attacco dell'VIII Armata, anche la V entrò nella lotta, sulle montagne a nord di Bologna.

765 bombardieri pesanti scaricarono sul nemico migliaia di tonnellate di esplosivo.

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La preparazione d'artiglieria fu davvero impressionante. Contro le posizioni tedesche di Monte Sole, al fuoco dei grossi calibri si aggiunsero gli attacchi con bombe al «napalm» dei cacciabombardieri.

Mentre il suolo tremava ancora, come raccontò più tardi il generale Clark, le fanterie partirono all' attacco precedute dai mezzi corazzati. I tedeschi lottarono. Tenevano gli ultimi caposaldi dell'Appennino come se fossero i battenti di una porta, che si sforzavano disperatamente di tenere chiusa. Ma uomini e automezzi scendevano sempre più numerosi dai monti. Infine i battenti si spalancarono. Gli americani entrarono a Vergato. E fu il principio della fine.

Anche il Gruppo di combattimento «Folgore» che stava sulla sinistra dell'VIII Armata, era entrato in azione. Il Luogotenente Umberto, accompagnato dal comandante generale Morigi, lo visitò nella zona di Tossignano, dopo i primi combattimenti sul fronte del Sillaro. Qualche giorno dopo il «Folgore» prendeva contatto con il Gruppo «Friuli» che, a fianco del Corpo polacco, avanzava sulla via Emilia verso Bologna.

La manovra avvolgente con cui gli Alleati miravano alla conquista della città era in pieno sviluppo. Quando, il 18 aprile, insieme a Vergato, cadde sulla destra della tenaglia anche Argenta, la sorte dei tedeschi che erano dentro la sacca, fu segnata.

Oltre Argenta, gli inglesi del V Corpo puntavano su Ferrara e il Po, mentre i polacchi correvano già verso Bologna inseguendo gli odiati paracadutisti della I Divisione, quella di Cassino; con loro gli italiani del «Frluli» volevano essere i primi a entrare in città. E vi entrarono, infatti, il mattino del 21 aprile, insieme ai soldati del generale Anders.

I bolognesi avevano atteso tutto l'inverno la liberazione, tanto più intensamente quanto più sembrava vicina: ora potevano sfogare la loro gioia.

Più tardi, da sud, entrarono gli americani con i soldati del Gruppo «Legnano» che aveva duramente combattuto con la V Armata, sin dal primo giorno dell'offensiva, al comando del generale Utili. Per la prima volta gli italiani, operando con gli Alleati, avevano ottenuto una grande vittoria. Era stata fatta molta strada dalle dure giornate di Montelungo. Un membro della Resistenza bolognese così ricorda quella giornata: 

«Gli Alleati erano entrati da Porta Mazzini, i polacchi dell'VIII Armata, e poi il Corpo Italiano di Liberazione, in particolare, è venuto da Porta San Vitale. Naturalmente han trovato la città completamente libera perché, per quanto durante la serata precedente noi non avessimo ricevuto, com'era convenuto, i segnali prestabiliti, i preavvisi, diciamo, verso la sera tardi, quasi la notte, avevamo ricevuto il segnale definitivo che era "Domani all'ippodromo si corre". E allora le nostre Brigate che assommavano ad un insieme di 4500-5000 uomini, durante la notte han preso le armi e hanno spazzato via i tedeschi e i fascisti. Vi sono state azioni singole specialmente in difesa delle fabbriche e dei punti nevralgici: il telegrafo, i telefoni della TIMO, ecc., punti in cui vi sono state più che scaramucce, delle vere lotte, tanto è vero che noi abbiamo avuto 54 morti quella notte stessa. Alla mattina perciò la città era completamente libera, non solo libera, ma completamente festante». 

alleati a Milano

Il generale Clark, comandante in capo delle Armate, non intendeva però fermarsi in città a festeggiare la vittoria. «Bologna è un simbolo - egli aveva detto alle truppe, ma la distruzione delle forze nemiche rimane il nostro obiettivo più importante». È giunto il momento tanto atteso, di dare via libera ai carri armati sulle strade che il nemico non ha avuto nemmeno il tempo di minare.

A meno di due settimane dall'inizio dell'offensiva, il fronte tedesco non esisteva più. Sulla destra l'Armata inglese lo ha sfondato per prima, seguita dalla V Armata al centro. Il giorno della liberazione di Bologna inizia la grande galoppata verso le città della pianura. Gli americani premono anche sull'ala sinistra, dove la resistenza tedesca continua accanita lungo il litorale tirrenico. Genova è ancora lontana, ma la città sta preparando la sua insurrezione.

Ce ne parla il presidente del CLN della città Giovanni Savoretti: 

«Alle prime luci del mattino del 23 si scatenò in tutta la città e sulle alture circostanti l'insurrezione. I più importanti combattimenti avvennero in porto e segnatamente alla stazione marittima, qui di fronte, alla stazione Principe, in piazza de' Ferrari dove squadre d'azione patriottica e gruppi d'azione patriottica attaccarono i carri armati tedeschi incendiandoli. In tutta la zona industriale, là negli stabilimenti dove operai difesero il loro lavoro, ai cantieri Ansaldo e nelle altre industrie di Genova; a Levante, a Sturla e un po' in tutte le vie della città, tanto che il generale comandante la Divisione accettò di recarsi il 24 sera nella casa del compianto Cardinal Boetto per trattare col comando della Resistenza ligure l'atto di resa». 

Un esercito regolare ancora efficiente e ben comandato che s'arrende al popolo in armi: è un fatto nuovo nella storia d'Italia. Eppure non provoca meraviglia. Ottomila tedeschi si sono consegnati ai genovesi perché non avevano altra via d'uscita, senza proteste o ribellioni, con la procedura normale che si usa in simili faccende fra vinti e vincitori. E la città è libera.

Il 24 aprile, giorno dell'insurrezione di Genova, le truppe alleate, che da Bologna dilagano nella pianura, già corrono lungo la via Emilia puntando verso Milano. Nello stesso momento raggiungono la riva destra del, Po da Ostiglia a Ferrara. È troppo tardi perché i tedeschi possano organizzare una resistenza sul fiume. Non c'è più tempo di scavare una trincea né di piazzare una batteria.

L'aviazione alleata non dà respiro.

Le avanguardie dell'esercito arrivano subito dopo.

I tedeschi hanno dovuto ubbidire agli ordini di Hitler: resistere fino all'estremo per tenere tutta la vallata. Costretti alla ritirata, si sono accorti che il fiume in piena, con tutti i ponti distrutti, è diventato davvero invalicabile: ma invalicabile per loro. Fino a due giorni prima hanno cercato di passare dall'altra parte, sotto il fuoco dei cacciabombardieri, dando l'assalto agli ultimi traghetti e abbandonando in disordine armi e automezzi. Molti sono annegati tentando di attraversare il fiume dentro tinozze o aggrappati a travi di legno o a materassi. Più di diecimila, rimasti sulla riva destra, si sono dati prigionieri. Ora gli Alleati passano in forze, verso il cuore dell'Italia Settentrionale, dove dilaga l'offensiva partigiana.

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Ne parla Dino Baracco del CLN di Torino: 

«La città di Torino insorse il 24 aprile. Per tre giorni si combatte aspramente in ogni punto vitale della città: attorno alle fabbriche, alla STIPEL, alla Caserma Cernaia, alla Casa Littoria ed alla Caserma di via Asti dove vengono impiegate dalle formazioni partigiane armi anticarro e pezzi di artiglieria. Nella notte dal 27 al 28 i superstiti reparti nazifascisti abbandonano in disordine la città ed il mattino successivo il CLN si trasforma in Giunta di Governo, ed assume i pubblici poteri con l'insediamento del prefetto e del sindaco.

Le giornate del 29 e del 30 aprile sono particolarmente drammatiche. Due Divisioni tedesche perfettamente armate decidono di aprirsi un varco attraverso la città per raggiungere la Svizzera. Sono circa 35.000 uomini perfettamente armati e disposti a tutto.

Il generale Schlemmer, attraverso la Curia, chiede di poter passare indisturbato. La risposta del CLN e del Comando Militare Regionale Piemontese è una sola: resa senza condizioni. Le truppe naziste scendono verso la città, ma giunte in prossimità della stessa e di fronte allo spiegamento delle truppe partigiane, si ritirano defluendo verso il Canavese.

Il 30 aprile la città è libera e salva». 

Ormai è finita. E se gli alti comandi tedeschi indugiano ancora a compiere l'ultimo passo, le truppe decidono per conto proprio, e si arrendono. Non c'è tempo di contare i prigionieri. Il problema è solo di radunarli da qualche parte perché non ingombrino le strade. Sono decine di migliaia. Al 30 aprile saranno oltre centomila.

Le immagini di una rotta si ripetono. Le armi abbandonate sono montagne, ma non fanno paura. Arrugginiranno sui margini delle strade, nei prati, come ferraglia. Anche i simboli del regime che per sei anni ha terrorizzato l'Europa, finiscono fra i rottami.

 

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Finalmente anche per Milano è la liberazione. Ce ne parla Leo Valiani del CLN Alta Italia: 

«Il 19 aprile demmo l'ordine dello sciopero generale ferroviario che, iniziato si il 23 aprile, paralizzò le comunicazioni tedesche. Il mattino del 24 aprile io ricevetti da Genova la telefonata che mi annunciava l'avvenuta insurrezione di quella città. Diramammo l'ordine dello sciopero generale insurrezionale che ebbe inizio in Milano con lo sciopero dei tramvieri e con l'occupazione delle fabbriche da parte delle maestranze alle ore 13 del 25. Quel giorno stesso il Comitato di Liberazione per l'Alta Italia doveva incontrare Mussolini e Graziani per una eventuale resa delle truppe fasciste. Mentre il colloquio dei nostri delegati si svolgeva in Arcivescovado, l'insurrezione divampava in tutta Milano. Forse il primo atto insurrezionale fu compiuto da una squadra di Corrado Bonfantini che fece occupare da partigiani alle sue dipendenze tutta una serie di commissariati. La sera mandai per iscritto l'ordine dell'insurrezione alle Guardie di Finanza. La città era ancora largamente occupata dalle formazioni fasciste e da cospicue forze tedesche. I cinquecento militi della Guardia di Finanza avrebbero potuto essere facilmente sopraffatti, però la loro tempestività fece sì che le reazioni avversarie furono pochissime. All'alba del 26 aprile la liberazione della Prefettura ad opera della Guardia di Finanza comunicava con un urlo di sirena ai milanesi l'avvenuta liberazione della città». 

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Come Genova, come Torino, Milano si era liberata da sola. E come in quelle città, i prigionieri tedeschi passavano tra due ali di folla eccitata: ora generali e colonnelli dovevano ubbidire ai tanto odiati capi delle squadre partigiane e affidarsi alla loro protezione.

1945 aprile Milano tedeschi prigionieri

Arrestato mentre fuggiva verso la Valtellina, il 28 aprile Mussolini venne fucilato da un distaccamento partigiano a Giulino di Mezzegra.

 

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Il giorno dopo, piazzale Loreto. A Milano era cominciata l'avventura del dittatore e qui ne avveniva l'epilogo. Fu un penoso eccesso, e il CLN Alta Italia, in un suo comunicato, disse che non si sarebbe più ripetuto nel nuovo clima di libertà e di legalità che doveva seguire la fase insurrezionale. Un eccesso, è vero: ma era stato il fascismo con le sue violenze e crudeltà a dare l'esempio.

Ora gli Alleati potevano entrare. Erano amici attesi da tempo, non avevano nemmeno più la fisionomia di soldati di un esercito liberatore. La guerra per loro era finita. Continuava ancora a Oriente, verso il Veneto. A Milano, militari e civili potevano già celebrare la vittoria.

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Gli ultimi due giorni d'aprile la V Armata aveva raggiunto sulla sinistra tutte le principali città dell'Italia nordoccidentale, trovandole già liberate dai partigiani.

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Sulla destra del fronte, l'inseguimento del nemico in rotta era continuato a ritmo incalzante. Varcato il Po, il 25 aprile gli americani puntavano su Verona, mentre l'VIII Armata si avvicinava al corso inferiore dell' Adige pensando di trovare resistenza sulle posizioni tedesche lungo il fiume.

I «Bunker» mezzo coperti dal fogliame che vi sorgono ancora, costituivano nella primavera del '45 la linea dell'Adige verso il mare. Erano fortificazioni poderose, costruite senza risparmio di materiali, come se la guerra fosse ancora tutta da combattere. Sono rimaste pressocché intatte, i tedeschi neppure si provarono ad usarle. Ordinando la resistenza ad oltranza a Sud del Po, Hitler aveva reso impossibile ogni altra difesa.

Gli Alleati sostarono si in riva all'Adige, ma solo per riordinare le loro Divisioni. Poi l'inseguimento riprese, e la V Armata entrò a Verona il 26 aprile, dividendosi quindi in due colonne. Una risali la valle dell'Adige verso il Brennero, l'altra avanzò nel Veneto costeggiando le Prealpi.

A Verona, dov'era il comando americano, i partigiani portarono da Como, prigioniero, il maresciallo Graziani. Per quasi due anni egli s'era illuso di comandare un esercito. Ora avrebbe dovuto rispondere, come un soldato semplice, alla giustizia del suo Paese.

La corsa volgeva alla fine. Il 28 aprile gli americani raggiungevano Vicenza. Qui c'era ancora odore di guerra. I tedeschi se n'erano andati da poco lasciando indietro qualche soldato fanatico che, insieme a franchi tiratori fascisti, si sforzava di prolungare la resistenza. Erano tentativi disperati e inutili, che però bisognava eliminare uno ad uno, Alleati e partigiani insieme.

Si trattava comunque di episodi sporadici, che turbavano appena l'atmosfera festosa della liberazione.

La città aveva molto sofferto a causa della guerra. Il palladiano palazzo Chiericati era stato colpito dalle bombe durante un'incursione aerea. I suoi parchi e giardini ora servivano da campi di raccolta per i prigionieri tedeschi.

Vicenza era all'estrema destra dello schieramento americano. Da qui fino all'Adriatico si estendeva il settore dell'VIII Armata. Oltrepassato l'Adige, questa liberava Padova da sud avvicinandosi a Mestre e a Venezia.

Della liberazione di Venezia parla Eugenio Gatto membro di quel CLN: 

«L'insurrezione a Venezia, come nelle altre città d'Italia, era nell'aria; essa venne ordinata la sera del 24 aprile; la mattina del 25 si arresero i fascisti e la resa venne firmata dai tedeschi ma i tedeschi non volevano arrendersi incondizionatamente. Si ritornò in Prefettura e in Prefettura il Comitato Militare decise di ottenere la resa incondizionata.

Nel frattempo i tedeschi avevano telefonato in Patriarcato che intendevano arrendersi e in Piazza San Marco era ormai tutta una sparatoria. In tutta la città vi erano scaramucce e si sparava un po' ovunque e i tedeschi non avevano il coraggio di venire, dal Palazzo Reale dove si trovavano, al Patriarcato per trattare.

Fu allora che il Comitato di Liberazione decise di andarli a prendere e la scena del passaggio dei tedeschi attraverso Piazza San Marco è una scena che è stata filmata non sappiamo assolutamente da chi. Siccome piovigginava e vi era bisogno di una bandiera bianca, la bandiera bianca venne fatta con un ombrello e con un fazzoletto che era di Monsignor Urbani, oggi Cardinale, Patriarca di Venezia.

In Patriarcato si trattò la resa; le condizioni tecniche, diremo così, della resa furono discusse nell'Hotel Europa e lì noi ottenemmo la carta delle mine dell'Adriatico. I tedeschi poi se ne andarono da Venezia.

In quest'episodio della resa fu meraviglioso l'esplodere del sentimento di libertà e del sentimento patriottico dei cittadini veneziani, i quali si misero a gridare: "viva l'Italia!", "fuori i tedeschi!", "viva il Comitato di Liberazione!"». 

Il passo del Brennero, dov'era ancora inverno, fu il punto più a nord raggiunto dalla V Armata. Da questo valico, nell'estate del '43, i tedeschi erano calati in Italia per sottometterla al loro volere. Ora la situazione si era capovolta: cacciati dall'Italia, essi lo ripassavano come prigionieri.

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Ad Est, verso Trieste, l'VIII Armata andava in fretta. C'era chi marciava ancora più rapidamente. Quando i neozelandesi giunsero a Monfalcone, i partigiani di Tito li avevano preceduti. Era il 10 maggio e già era in corso una manifestazione per la Jugoslavia. Appena arrivato, il generale Freyberg, che non poteva rifiutare l'incontro con gli ufficiali di un esercito da anni in guerra contro i tedeschi, si trovava coinvolto, suo malgrado, nella complessa questione di Trieste.

Per Trieste ci parla Antonio Fonda-Savio, che fu eletto sindaco subito dopo la liberazione:

«Nella notte sul 30 il CLN dispose che si passasse all'insurrezione generale ed io difatti, alle cinque del mattino, feci suonare le sirene. Noi eravamo circa duemila volontari male armati contro circa quindicimila militari tedeschi armatissimi, ma già nelle prime ore del mattino avemmo i primi successi: i combattimenti con alterne vicende avvennero alla stazione centrale, che fu presa, persa, ripresa e, contemporaneamente, entrarono in azione tutte le squadre antimine che erano state predisposte per evitare che il porto fosse fatto saltare. I combattimenti continuarono nella mattina e nel pomeriggio e, nel pomeriggio, i tedeschi erano ormai rinserrati in alcuni capisaldi, tanto che il Comando pensò bene di prendere contatto con noi per trattare la resa. Senonché, nel frattempo, le avanguardie del IX Corpo dell'esercito regolare di Tito si avvicinarono alla città e vi entrarono il mattino del 10 maggio e come esercito regolare presero in mano la situazione. Essi, rompendo la tregua che si era praticamente instaurata, attaccarono i tedeschi i quali risposero con un bombardamento indiscriminato delle loro artiglierie sulla città, mentre aeroplani alleati, contemporaneamente o quasi, bombardavano le motozattere tedesche sulle rive causando danni anche alla città. lo cercai di prendere contatto con le truppe neozelandesi che stavano avvicinandosi a Trieste e il pomeriggio del 2 maggio riuscii ad incontrare il generale Freyberg a Grignano e lo pregai di affrettare la sua marcia in modo da poter venire a prendere in consegna il palazzo della Prefettura e quello del Municipio che i miei ancora occupavano. Sennonché egli non lo fece ed il mattino del 3 la città era completamente in mano, ormai, delle truppe di Tito le quali vi rimasero per circa quaranta giorni, fino al 12 giugno».

Il 3 maggio anche i soldati di Freyberg entrarono in città. I triestini li avevano attesi con ansia, ma il loro entusiasmo ebbe breve durata. Vedendo neozelandesi e titini che fraternizzavano, e la folla dei simpatizzanti jugoslavi che manifestava in piazza dell'Unità dove, in altra epoca, essi avevano acclamato l'Italia, i triestini si sentivano traditi e delusi. Essi temevano che l'occupazione titina preludesse ad un'annessione definitiva alla Jugoslavia. Ma gli Alleati avevano preso degli impegni con l'Italia a proposito di Trieste, ed erano contrari alle richieste di Tito. Per chiarire la situazione Clark si recò nella città contesa, incontrandosi con i suoi generali. Gli inglesi, soprattutto, erano decisi a non cedere alle pressioni jugoslave.

Mentre le discussioni si protraevano, la marina inglese entrò nel porto. Era un fatto abbastanza eloquente. Nei giorni successivi ci furono momenti in cui la tensione giunse a un punto drammatico, oltre il quale sembrava che le due parti dovessero ricorrere alle armi. Ma la ragione finì per prevalere. Non ci sarebbe stata una guerra per Trieste.

Militarmente la campagna d'Italia era finita; dopo quasi due anni, che avevano causato al nostro Paese lutti e rovine, ma aprivano anche un nuovo capitolo della sua storia.

Mancava soltanto l'atto ufficiale che sanzionasse la resa tedesca. Il generale Morgan, per conto del maresciallo Alexander, ricevette a Caserta i rappresentanti dell’esercito sconfitto.

Caserta-resa-tedesca.jpg Caserta-firma-resa-tedesca.jpg

La cerimonia fu breve. Tra il generale inglese ed il delegato tedesco si svolse questo colloquio:

 Generale Morgan: «Lei è disposto a firmare la resa a nome del generale Von Vietinghoff ... comandante delle forze tedesche Sud-Ovest? ».

 Primo delegato tedesco: «Sì ».

 Generale Morgan: «E lei è disposto a firmare per conto del generale Wolff, comandante delle "SS" e plenipotenziario per la "Wehrmacht" in Italia?».

 Secondo delegato tedesco: «Sì, certo».

 Generale Morgan: « Il maresciallo Alexander, comandante supremo alleato mi ha incaricato di firmare per lui. I termini della resa diverranno esecutivi a mezzogiorno».

 Primo delegato tedesco: «Sta bene».

 Generale Morgan: «Vi chiedo allora di firmare i documenti».

 

 

Bibliografia:

Manlio Cancogni in AA.VV - Dal 25 luglio alla Repubblica - ERI 1966

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1 settembre 1939: l'invasione della Polonia

2 Septembre 2019 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Le prime bombe sparate dalla corazzata tedesca Schleswig-Holstein alle 04.45 del 1° settembre sulla Penisola di Westerplatte sul Mar Baltico, davanti a Danzica, segnarono l'inizio della II guerra mondiale.

Il 1° settembre 1939 l’esercito tedesco, su ordine di Hitler, varca la frontiera polacca.

La seconda guerra mondiale è stata «una catastrofe che si è abbattuta su una parte dell’umanità … E’ arrivata perché c’è stata una guerra nel 1914 che fu una follia della nostra civiltà. Il 1939 è il seguito, la fine dell’Europa».
Claude-Lévi-Strauss

 

L’aumento delle tensioni

I Polacchi cominciano a preoccuparsi della minaccia tedesca dopo l’occupazione di Praga da parte della Wehrmacht, il 15 marzo 1939.

Forte dei suoi primi successi sulla scena internazionale, Hitler non tarda a rivendicare Danzica (Gdansk in polacco), porto polacco sul mar Baltico che divideva il territorio del III Reich e isolava la Prussia orientale dal resto della Germania.  Questo "corridoio di Danzica" è un non senso dovuto al trattato di Versailles del 1919, che fu fatalmente destinato a diventare il pomo della discordia tra i due Paesi.
Dal 31 marzo 1939, il  primo ministro inglese Nerville Chamberlain aveva dichiarato il suo sostegno alla Polonia. Anche il capo dello Stato Maggiore francese, Maurice Gamelin, aveva rassicurato i suoi omologhi polacchi sulla determinazione della Francia ad aiutarli con tutti i suoi mezzi. Per Londra e per Parigi, non si può indietreggiare di fronte ad Hitler, come a Monaco per la questione dei Sudeti (con gli accordi di Monaco del settembre 1938, le democrazie europee, Inghilterra e Francia, acconsentivano, con la mediazione dell'Italia, che la Germania di Hitler annettesse la regione dei Sudeti. Solo pochi mesi dopo, violando gli accordi, le truppe naziste avrebbero invaso la Cecoslovacchia).


La "guerra lampo"
Il Fürer prende a pretesto un sedicente attacco polacco, che sarebbe avvenuto nella notte alla frontiera orientale della Germania, per attaccare i suoi vicini senza preoccuparsi di una dichiarazione di guerra: in realtà, si era trattato di una macabra messinscena montata dall’esercito tedesco con dei cadaveri di detenuti rivestiti di uniformi polacche.
 
Il 3 settembre, l’Inghilterra si decide a dichiarare guerra alla Germania, dopo avere sperato fino all’ultimo momento in una pace di compromesso. La Francia fa lo stesso cinque giorni dopo e lancia una ridicola offensiva nella Sarre. Ma il mese seguente i due alleati restano fermi dietro la linea Maginot, quell’insieme di fortificazioni che proteggono la Francia lungo la sua frontiera con la Germania.
Nel frattempo i bombardieri tedeschi distruggono a terra l’aviazione polacca, le infrastrutture, ponti, caserme e stazioni, ostacolando anche la mobilitazione dell’esercito polacco, che era ritenuto essere il quinto in Europa. La metà delle sue 42 divisioni non riescono a raggiungere il fronte!
Sopravvalutando le sue forze, il maresciallo Rydz-Smigly, ispettore generale dell’esercito polacco, concentra le sue truppe all’entrata del corridoio di Danzica, in vista di una marcia su Berlino! Conta sul fatto che alla frontiera settentrionale e meridionale, le paludi ed i rilievi saranno sufficienti per arrestare le truppe tedesche. Ma è proprio in quelle zone che la Wehrmacht concentra i suoi sforzi, utilizzando le divisioni blindate, le famose Panzerdivisionen. Attraverso un’apertura a nord, a partire dalla Prussia orientale, e a sud, dalla Sovacchia e dalla Slesia, chiude i polacchi in una morsa. Si susseguono attacchi combinati di carri armati e di aviazione, che utilizza i suoi Stukas dal sinistro sibilo. Queste azioni di guerra stupiscono gli strateghi europei, che, però, non impareranno la lezione e verranno presi di sorpresa qualche mese dopo, quando Hitler utilizzerà la stessa strategia contro la Francia, l’Olanda ed il Belgio.

Il colpo di grazia
Il 1° settembre, la III armata tedesca, venuta da nord, si ricongiunge ad est di Varsavia con la X, venuta dalla Slesia. La capitale polacca è messa sotto assedio. La sorte della guerra è segnata.
Tre giorni dopo, anche l’Armata Rossa di Stalin entra in Polonia, senza dichiarazione di guerra, in virtù del Patto di non aggressione concordato con Hitler, il 24 agosto precedente, che prevedeva una divisione dello sfortunato Paese.
Il governo polacco si rifugia in Romania e Varsavia cade il 27 settembre, dopo una eroica resistenza.
 

Un ufficiale polacco consegna i documenti della resa ai tedeschi (foto tratta da La seconda guerra mondiale di Enzo Biagi)



La Polonia viene divisa tra i due stati conformemente ai loro accordi segreti.

Mentre la parte occidentale rimane ai tedeschi, l’Unione Sovietica si annette la parte orientale della Polonia e riporta le sue frontiere sulla "linea Curzon", dal nome di Lord Curzon, segretario del Foreign Office inglese, che, nel 1919, nel folle trattato di Versailles, aveva disegnato le frontiere della ricostituita Polonia. I polacchi, vincitori sulla Russia bolscevica nel 1920, avevano riportato la loro frontiera verso est. Stalin ristabilisce nel 1939 la linea Curzon, che è ancora oggi quella che segna il confine ori
entale della Polonia.

  

 

I numeri non hanno anima, ma quelli dei lager e della guerra contengono tutto il dolore dell’uomo.


La seconda guerra mondiale ha rappresentato il più grave e terrificante conflitto della storia dell'umanità. A descriverlo, prima delle parole, valgano molto di più le cifre.

I militari italiani deceduti in prigionia furono più di 20.000. Se si aggiungono a questi morti i militari italiani che persero la vita durante i trasporti (13.300), 6300 militari trucidati durante le operazioni di disarmo delle truppe italiane, circa 600 uccisi in massacri dell’ultima ora, e 5400 prigionieri di guerra italiani uccisi o dispersi nella zona di operazioni sul fronte orientale, si arriva a circa 45.000 unità.

Il totale di questa immane carneficina che è stata la seconda guerra mondiale è spaventoso: oltre 55 milioni di morti, di cui 25 milioni di soldati e 30 milioni di civili.

Nei 12 anni di regime nazista furono, inoltre, sterminati nei campi di concentramento circa 6.000.000 di ebrei.

Gli internati furono, in totale, 7.500.000.

Ai morti vanno aggiunte le distruzioni materiali, le devastazioni di incalcolabili ricchezze, di un immenso patrimonio creato dal lavoro e dalla intelligenza dell'uomo.

Molti paesi furono ridotti nella più completa rovina, con le città trasformate in un cumulo di macerie, le strutture economiche e le comunicazioni sconvolte, le popolazioni superstiti affamate.

Nel 1945 il costo totale della guerra fu calcolato in 1.154 miliardi di dollari; il costo delle distruzioni provocate dalla guerra in 230 miliardi di dollari. Si è anche calcolato che nella sola Europa occidentale furono completamente distrutti 1.500.000 edifici e danneggiati 7.000.000.

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Polonia, 1° settembre 1939

2 Septembre 2019 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Era la prima volta che il mondo vedeva in azione la macchina militare tedesca.

La blitzkrieg, la “guerra lampo”, era una combinazione di tre tecniche differenti e pienamente sviluppate. La prima era costituita dal reparto d'assalto dei panzer: tutti i mezzi blindati, appoggiati dalla fanteria motorizzata, cioè truppe in motocicletta che ronzavano come vespe intorno alle colonne corazzate eliminando occasionali sacche di resistenza.

1939 panzer tedeschi 

 

1939 invasione Polonia

 

La seconda era la fanteria vera e propria, la Wehrmacht che marciava a volte distaccata di molti chilometri dai panzer, ma che alla fine li raggiungeva per occupare il territorio su cui avevano imperversato i mezzi corazzati.

 1939 fanteria Wehrmacht     

 

 

La terza, era l’elemento nuovo: in appoggio a queste truppe di terra c’era la Luftwaffe, la forza aerea. La Luftwaffe forniva sia il fuoco di sbarramento necessario per fiaccare il nemico prima della carica dei panzer sia la copertura aerea per proteggere la fanteria d'appoggio dal contrattacco dell'aviazione nemica.

Stukas in volo

In sostanza, questa forza aerea era costituita da tre tipi di velivoli: il bombardiere da picchiata Ju-87, lo Sturzkampfflugzeug, detto brevemente “stuka”;

Stuka

l'aereo da trasporto Ju-52, in grado di atterrare praticamente su qualunque striscia di terreno, pianeggiante e di portare rifornimenti per mantenere in azione gli stuka al fronte,    

Junkers Ju52 

infine, il caccia Me-109, l'aereo allora più manovrabile in aria, e il più veloce ad eccezione dello Spitfire britannico.

Me-109

Gli stuka incutevano un particolare timore. Anche se la loro precisione nei bombardamenti era appena mediocre, scendevano in picchiata quasi verticalmente ed erano dotati di una sirena lacerante che, si diceva, una volta udita non si poteva dimenticare mai più. Ogni soldato, a terra, aveva la sensazione che lo stuka puntasse proprio contro di lui, e che non ci fosse scampo. Subito dopo un bombardamento del genere, dover resistere all'assalto dei carri armati era più di quanto un uomo potesse sopportare. Almeno così si dimostrò nel caso della Polonia, che, dovette soccombere dopo una resistenza vigorosa, spesso eroica ma da ultimo infruttuosa.

 

Bibliografia:

Charles Williams, DE GAULLE L'ultimo Grande di Francia, La Biblioteca di Repubblica, 2006

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1° ottobre 1943: Napoli era libera

20 Septembre 2017 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Alcune testimonianze di napoletani che sono stati protagonisti di quei giorni drammatici.

Intanto la liberazione del Sud si completava rapidamente. Dopo un facile sbarco a Taranto il 9 settembre le avanguardie britanniche si spinsero nella Penisola Salentina e verso Brindisi. A Bari giunsero la sera del 15. Attaccati a Gioia del Colle, i tedeschi si ritirarono a nord del fiume Ofanto, mentre soldati italiani e popolo insorgevano a Matera, Rionero in Vulture e in altri centri e si liberavano. Avanzando in Calabria, il XIII Corpo britannico occupò Crotone, Castrovillari e Belvedere e si diresse quindi da una parte verso Potenza e Taranto, dall'altra verso Salerno. Il congiungimento con la V Armata avvenne a Vallo della Lucania il 16 settembre, quando cioè la crisi era già stata superata.

L'incontro fra i comandanti delle due armate fu cordiale solo in apparenza. Durante la crisi, Montgomery aveva inviato al collega americano un messaggio: «Quando ci riuniremo sarà un gran giorno». Clark l'aveva commentato ironicamente, perché era sicuro che l'VIII Armata sarebbe arrivata a cose fatte. Ora, mentre sorrideva a Montgomery, Clark ripensava al brutti momenti passati in quei giorni. 

«Avevo posto il mio quartier generale - ricorda Clark - sulla spiaggia vicino al fiume Sele, e quella notte, la prima notte che io passavo a terra, i tedeschi arrivarono fin là e facemmo appena in tempo ad andarcene. Ma era normale che i tedeschi attaccassero in quel punto, tra il settore inglese e quello americano, per cui la situazione fu estremamente critica per due o tre giorni. Ma io ero convinto che i nostri uomini avrebbero tenuto duro, e così infatti fecero, per cui alla fine potemmo proseguire verso il nostro obiettivo: Napoli ». 

Nessuna città aveva sofferto per la guerra quanto Napoli. Oltre cento bombardamenti aerei avevano fatto 22.000 morti. I tedeschi completarono l'opera finendo di distruggere il porto.

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Con l'8 settembre la pazienza era giunta al limite. La tracotanza dei nazisti, che avevano occupato la città, si aggiungeva alle miserabili condizioni della gente e le esasperava. Mancava l'acqua, si soffriva la fame. E la rivolta covava.

Il 12 settembre il comando tedesco della piazza aveva proclamato lo stato d'assedio minacciando per ogni soldato ferito o ucciso rappresaglie cento volte maggiori. Gli avvisi recavano una firma che i napoletani non avrebbero più dimenticato, un nome che è rimasto il simbolo di tutte le loro sofferenze: il colonnello Scholl.

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Il 22 settembre un nuovo bando: si ordina di sgomberare entro le 24 ore tutta la fascia costiera della città per una profondità di 300 metri. Significa che 150.000 persone devono lasciare le loro case e cercare un alloggio impossibile. Gran parte della città si svuota. Sembra che Scholl sia riuscito nel suo intento di terrorizzare i napoletani. In realtà non ha fatto che esaltarne la rabbia. Nessuno ubbidisce più ai nuovi bandi. Al decreto per il servizio obbligatorio del lavoro sono attese 30.000 persone e se ne presentano 150. Scholl s'infuria. Ordina la deportazione della popolazione maschile. Chi non si presenta sarà fucilato.

Egli non immagina che questa città, nota per la sua gentilezza e la sua bonaria filosofia, stia per ribellarsi. Una rivolta spontanea che scoppierà dappertutto, senza piani ne ordini. Ecco diverse testimonianze di napoletani che rievocano quei giorni drammatici: 

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« Il 27 sera s'è incominciato a sentire qualche sparo sporadico e ciò fu dovuto proprio al rastrellamento che avevano iniziato i tedeschi, dopo i bandi. Ma questi tedeschi che non conoscevano la città erano accompagnati dai fascisti collaborazionisti i quali conoscendo le famiglie che avevano dei giovani, accompagnavano i tedeschi fin nelle case di questi, anche loro amici che in quel momento avevano dimenticato la vecchia amicizia. Da qui nacque una specie di organizzazione in questo senso, che molti giovani si raggruppavano in un sol posto, in una cantina, in una chiesa, non so, è vero, in un palazzo, in una masseria, e quando si è saputo che i rastrellamenti sarebbero stati ancora più intensificati allora si è pensato alla difesa». 

«Qui al Vomero i combattimenti hanno avuto inizio la sera del 27; uscimmo dalle Selve di Case Puntellate giù alle spalle e ci avviammo verso il centro. Il primo scontro con i tedeschi lo abbiamo avuto in via Bellini ed è stato in quel posto che verso le 18 circa incontrammo per la prima volta il professor Tarsia. Ci fu simpatica la sua figura di vecchio arzillo il quale portava uno scollino rosso al collo e con un bastone in mano si mise a gridare: “Dai, andiamo addosso ai tedeschi, questi disgraziati che vogliono creare una colonia tedesca qui in Italia!". La figura del vecchio ci piacque, allora pensammo di tenerlo come il simbolo dell’insurrezione del Vomero e lo facemmo comandante, comandante affibbiandogli il titolo di colonnello perché non sapevamo se era o non era militare, ma per dare un titolo specifico e alto lo chiamammo colonnello».

«Allora si è cominciato a dare addosso ai tedeschi per impedire che mettessero queste mine. E le armi so' state portate da delle donne, da dei ragazzi, da noialtri stessi, insomma c'è stata una collaborazione direi quasi di tutto il quartiere, non soltanto di noi adulti, di noi giovani, ma c'erano dei vecchi, c'erano delle donne; mi ricordo che dei cestini di bombe a mano ci sono state portate da una ragazza, da una popolana, e lei ci portava le bombe a mano che noi dalla terrazza tiravamo contro questi guastatori per disturbarli nella loro azione. Così v'è stata sparatoria lì fino alla sera e mano mano però si è cominciato a sentire anche per tutta Napoli le sparatorie; giungevano notizie: al Carmine si combatte, sul ponte della Sanità si combatte». 

«Quando i tedeschi stavano per far saltare il ponte della Sanità che è lassù, un sottotenente dell'esercito, Dino Del Prete, organizzò una certa difesa con una barricata e contemporaneamente da quella terrazza, da questa di fronte a me e da questa dove ci troviamo noi, dei patrioti incominciarono a sparare ». 

«L'azione del 28 fu indubbiamente una delle più importanti che si ebbero qui a Napoli sia per la intensità del combattimento e sia per lo scopo che raggiungemmo, cioè quello di evitare che venisse minato il ponte della Sanità. Già i tedeschi avevano scaricato queste due cassette e si accingevano, appunto, a metterle sotto una parte laterale del ponte, precisamente in quella zona lì dove c'è una birreria. Ci fu uno scontro violentissimo: mentre noi sparavamo e avanzavamo contro i tedeschi in campo scoperto, loro avevano il grande vantaggio non solo di sparare con armi automatiche ma di essere assolutamente riparati. L'azione fu felice, riuscì. Infatti riuscimmo a neutralizzare i tedeschi: ci furono naturalmente dei feriti, altri scappavano e così riuscimmo a togliere le cassette dove erano già le micce non ancora accese, per la verità, e a evitare la distruzione del ponte della Sanità». 

«E allora il giorno appresso quando sono scesi con i carri armati hanno sparato alla loggia delle suore filippine, e so' morte nove, dieci persone. Quindi noi perciò anche la notte e il giorno abbiamo tenuto sempre fermi questi uomini credendoci quindi che loro ci assalissero. Dopo scesero i carri armati e durante questa sortita vi furono diversi morti perché i carri armati spararono non solo con mitraglie ma spararono anche con dei cannoni che avevano sia il primo sia il secondo carro». 

«E anche qui alla discesa morirono, anche al Reparto, alla Salute, alla Duchessa, all'Ascesa, è vero, di via Pessina. Hanno colpito parecchia gente e sono morte parecchie persone. Non so se rendo l’idea ... È logico che se noi non avessimo fatto questo chi lo sa che cosa sarebbe successo». 

La mattina del 29, quando sono arrivato, qui, nella zona di Santa Teresa, ho già trovato molti uomini organizzati più o meno così, sommariamente, e immediatamente io mi recai verso Capodimonte: la dove si trovavano i tedeschi asserragliati nel bosco di Capodimonte. Intanto man mano dalle varie zone sia della via Fonseca, che dalla Stella che da Mater Dei, venivano giù gruppi di uomini, sì, gruppi di uomini armati più o meno nel migliore dei modi perchè armi erano state reclutate sia presso la caserma dei carabinieri che presso un deposito della marina che si trovava giù alle fontanelle di Mater Dei.

Allora si pensò di costruire una barricata e a tal uopo ci servimmo di una vettura tramviaria che era rimasta ferma proprio in quella zona; quindi si rese necessario far scendere giù da Mater Dei un mezzo dei vigili del fuoco che ci potesse aiutare con delle corde a capovolgere questa vettura tramviaria. Capovolta la vettura tramviaria il resto della strada fu coperto da carrettini della nettezza urbana e da mattoni e da basoli che furono divelti proprio dalla strada in modo che si creò addirittura uno sbarramento su via Santa Teresa. E questo durò per tutta la giornata fino alle quattro, quattro e un quarto del pomeriggio quando venne segnalata la presenza di carri armati che scendevano giù da Capodimonte. Allora fu veramente difficile soprattutto allontanare le donne e i bambini che si trovavano al centro della strada». 

«Mio figlio aveva 17 anni. È uscito verso le quattro e mezza da casa. Si è unito al tenente Falda che comandava questi ragazzini, erano una cinquantina di ragazzi. Allora il tenente disse: - chi è che vuole uscire in mezzo per i tedeschi a bruciare quel carro armato? - Allora il ragazzo si è levato le scarpe e ha detto, dice: vado io - il più audace! È uscito in mezzo 'a strada, teneva un bottiglione di benzina e poi ha buttato la bomba sul carro armato e ha incendiato il carro armato. Il ragazzo stava scappanno per salvarsi. Allora tutti insieme per via Roma, via Toledo, venivano delle camionette con i tedeschi con le mitragliatrici e mi hanno mitragliato il ragazzo, mi hanno levato le gambe al ragazzo. Il ragazzo è andato a terra e buttava sangue; chiamava aiuto, il ragazzo, ma non c'era nessuno che lo poteva aiutare. La mattina so' venuti verso le sette al balcone, mi hanno venuto a chiamare: - Pasquale sta ferito sotto a nu' palazzo. Jamme, venite, venite! - 'I dice: - Nunziatina, hanno ferito a Pasquale! -. Figurate, io ero la madre, no! Scappai, scappai, e in mezzo alla strada di via Roma ci sta un'altra strada, e in terra stavano tutti figli tutti ammazzati! Figurarsi, io corsi, io e mia nuora, e lo vedetti di sotto a 'nu palazzo 'n coppa a 'na sedia a sdraio, già muorto, 'o figlio mio. Ma se non so' morta chillu giorno nun more chiù, vedenno un figlio accussì bello, buono, tutte teneva tutte le qualità 'sto figlio mio, tutto, tutto buono era! » . 

«Alla discesa di questi carri armati si tentò di fermarli, ma invano, con delle bombe a mano, con delle bottiglie di benzina, insomma con delle armi rudimentali che si preparavano stesso sul posto, armi che venivano man mano rifornite da una ragazza, da una certa Maddalena Cerasuolo che allora aveva diciotto, diciannove anni, se ben ricordo, e che è stata veramente di aiuto a tutti quanti ». 

«Sì, il primo giorno delle bombe facemmo un posto di guardia, qui, un po' più avanti del ponte, ed ero io, mio padre ed altri diciassette uomini che facemmo una nottata intera dove stavano i tedeschi. La mattina dissi: - voglio sparare anch'io. - Un ragazzo disse: - questo è un 91, lo sai sparare? - Disse mio fratello: - adesso glielo insegno io! - E così il primo colpo che ho tirato sono andato a finire con la testa al muro».

«Le azioni naturalmente continuarono con maggiore violenza il 29 mattina, perché il 28 eravamo in pochi, pochissimi. Con noi parteciparono all'azione i carabinieri. Ci suddividemmo qua sulle diverse terrazze: questa terrazza, l'altra terrazza che c'è là vicino. Alcuni sparavano, è vero, dai ponti Rossi, e naturalmente, questa azione fece sì che i tedeschi cominciarono ad allontanarsi».

«Il primo gruppo di ostaggi che io ho visto trasportare al campo sportivo sono stati quelli di via Bernini, circa due camion, portandoli qua, sistemandoli dove ci sono attualmente quelle tribune. Allora decidemmo di attaccare il campo sportivo. Noi partigiani del Vomero, combattenti vomeresi, siamo fieri e molto di una sola cosa: quella che possiamo avere il vanto che la prima bandiera sventolata dai tedeschi è stata da quella finestra, perché è stato qua che loro alle due di notte si sono arresi con un trucco che usammo. Essendo restati solamente in otto o nove partigiani a presidiare il campo con i tedeschi dentro, facemmo finta di essere circa otto compagnie chiamando dalla prima all'ottava compagnia; contemporaneamente facemmo uscire i vecchi e le donne dai ricoveri con i bambini che facevano rumore con latte e pentole gridando: - abbasso i tedeschi, assaltiamoli, ammazziamoli, non ne lasciamo scappare uno - tanto che il capitano Sakan, con tutto il suo decantato coraggio, a un certo punto sentì il bisogno di parlamentare».

«Quando finì l'azione al campo sportivo, ché i tedeschi che erano nel campo sportivo si arresero, fecero un accordo, pare la sera del 30, che avrebbero rilasciato subito gli ostaggi che avevano, pare che erano in numero di quarantasette, qualche cosa del genere, e che avrebbero lasciato tra la notte e il mattino, è vero, dal 30 al 1° ottobre, la città senza colpo ferire ma senza neppure essere disturbati o offesi dai partigiani.

L'accordo in città fu mantenuto alla lettera e dagli uni e dagli altri, però i tedeschi, appena arrivati sulle colline di Capodimonte, cioè fuori dalla cerchia della città, vennero meno a quella parola che avevano dato, piazzarono le batterie e le autoblinde, adesso non so con certezza, e incominciarono a sparare indiscriminatamente sulla città mietendo moltissime vittime ». 

All'alba del 1° ottobre gli Alleati partirono per compiere l'ultimo tratto di strada che li separava da Napoli. Potevano avanzare liberamente senza bisogno di esploratori. L'unico ostacolo era rappresentato dalla folla che si riversava nelle strade a salutarli.

L'entrata in città avvenne alle nove e mezza, mentre nei quartieri alti si combatteva ancora contro i franchi tiratori. Ecco la testimonianza di Maddalena Cerasuolo la giovane che abbiamo già saputo essere stata di grande aiuto per i combattenti napoletani: 

«I tedeschi andarono via ma i fascisti ci diedero filo da torcere. Sparavano dai balconi, dalle finestre, dalle terrazze, nascosti però, non a faccia a faccia. Gli americani già erano entrati da giù verso Santa Teresa... Noi sparavamo allora contro una finestra e io stavo inginocchiata a terra, quando vedo un pezzo di colosso così e non li conoscevo gli inglesi, gli americani, non li avevo mai visti. Mi guardò perché avevo le giberne, l'elmetto e compagnia bella disse: - okey! - Non posso mai dimenticarlo. Agli altri gli prendeva il fucile e lo spezzava; a me disse: - presto, tu passa! - perché io feci cenno di volerlo tenere per me stessa, per ricordo. Feci così, lui mi capì e mi disse: - presto, tu casa, okey, okey! - Poi facemmo un grande corteo e andammo per via Roma: c'era la musica, si cantava il "Piave". A me una crocerossina mi diede un fascio di fiori. E pe' tutta via Roma si cantava. Andammo a palazzo reale; lì c'erano le avanguardie, c'era Montgomery, un certo generale Hunt. Allora mi fecero cenno di salire e io con i fiori non sapevo come parlare, non li avevo mai visti. Uscii anch'io al balcone. Dissi: - vi porto questi fiori a nome di Napoli e che voi siate i benvenuti. - E lui mi diede un bacio qui e un bacio qui. Mi baciò ... Montgomery».

Napoli era libera: ma mentre l'euforia della liberazione a poco a poco si spegneva, apparivano, con accresciuta evidenza, tutte le sue piaghe.

L'amministrazione alleata doveva affrontare i problemi di una città di oltre un milione di abitanti, privi di viveri, di lavoro, di risorse. Crollata la vita economica non c'erano altre possibilità che quelle offerte dagli Alleati. Fuori degli uffici le file dei disoccupati erano lunghissime, e chi poteva cercava di arrangiarsi.

Intanto nel porto, miracolosamente riattivato in appena 72 ore, le prime navi attraccavano a banchine improvvisate, scaricando materiale, munizioni e anche viveri per la città.

1944 agosto aiuti Alleati

Da qualche mese Napoli era affamata. In settembre la razione giornaliera di pane era scesa a 100 grammi. Negli ultimi giorni pane e farina erano scomparsi del tutto. Era inevitabile che si ripetessero le scene cui gli Alleati avevano già assistito più a Sud; a Napoli di nuovo, c'erano le proporzioni: una fame molto più grande, perché accumulata, nei giorni, nelle settimane, nei mesi, e una popolazione vastissima.

I problemi di ogni giorno, che lo slancio della lotta contro i tedeschi aveva accantonato, si riproponevano drammaticamente. Nelle quattro giornate c'erano il furore e la speranza. Ora si avvertiva un'inquietudine nuova mentre si annunciava un inverno lungo e grigio.

 

 

Bibliografia:

Manlio Cancogni in AA.VV - Dal 25 luglio alla Repubblica - ERI 1966

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Settembre 1943, la Milano del dopo armistizio

3 Septembre 2017 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Settembre 1943, gli stracci sono sempre i primi a volare. La Milano del dopo armistizio si presenta come una città devastata dalle incursioni aeree dell'agosto precedente.
   

Degli oltre duecentomila abitanti rimasti senza tetto la maggior parte sono operai: alloggiavano in «abitazioni malsane e carissime» e ora, dopo che i bombardamenti alleati hanno infierito sui quartieri popolari di Porta Genova, Porta Ticinese, Porta Garibaldi e sull' area a nord dell'Arena, non hanno più nemmeno quelle.

Diverso il discorso per i ceti abbienti, i quali, a quest'epoca, sono già sfollati trovando riparo nelle campagne e nelle valli lombarde. Le autorità municipali, di fronte a tale situazione, ventilano sì un progetto di accertamento e di requisizione dei vani disponibili, ma basta il coro di proteste del sindacato proprietari di fabbricato perché tutto si areni e la proverbiale solidarietà meneghina, il "gran coeur de Milan ", si blocchi di fronte all'inviolabilità della proprietà privata.

Adesso, dopo l '8 settembre, il problema degli alloggi è aggravato anche dalle requisizioni operate dai tedeschi. Trovare casa, anche un buco in cui accalcarsi, diventa impresa sempre più ardua, almeno per chi non possiede un reddito superiore.

Non meno drammatica si presenta la situazione alimentare: le razioni assegnate a prezzi controllati - per ammissione degli stessi repubblichini - forniscono «meno di un terzo del fabbisogno minimo».

Il ricorso al mercato nero è, dunque, un fatto scontato e indispensabile, senonché i prezzi vanno registrando un'impennata vertiginosa. Anche qui, accanto alle disastrose conseguenze di un'economia di guerra di per sé asfittica e sempre più corrosa dalla speculazione, accanto alla rarefazione dei prodotti e alle difficoltà di approvvigionamento dovute al dissesto dei trasporti e al dominio dei cieli da parte dell' aviazione alleata, si aggiunge il peso dell'occupazione germanica.

La fissazione del cambio lira-marco nel rapporto 1 a 10, incoraggia l'accaparramento di beni di consumo da parte dei militari e dei cittadini tedeschi e concorre alla progressiva lievitazione dei prezzi della borsa nera, peraltro già inaccessibili alle classi più povere.

Con lo scorrere delle settimane la situazione generale peggiora sempre più. Il costo della vita ascende a livelli impensati: il capitolo alimentazione del settembre 1943 registra un aumento di 50 punti rispetto ai 14 dell'anno precedente e quello del vestiario un aumento di 74 punti (8 nel 1942).

Nei mesi successivi, da ottobre a dicembre, la Militärkommandantur 1013 segnala l'inadeguatezza del rifornimento dei grassi (destinati prevalentemente al fabbisogno della Wehrmacht), la deficiente disponibilità di zucchero, la scarsità di scarpe e la minaccia della totale scomparsa del sale. Buon ultimo anche la produzione risicola lombarda è destinata all'esportazione verso il Reich e, pertanto, alla popolazione italiana non potranno essere distribuiti che esigui quantitativi.

A completare il quadro già drammatico c'è anche la mancanza di combustibile e di legna da ardere per affrontare i rigori dell'inverno ormai prossimo: a fine anno l'indice relativo al capitolo riscaldamento e luce segna un aumento di ben 84 punti. Va da sé che, in una simile situazione, la difesa del salario e del posto di lavoro si identifichi come non mai con le possibilità di sopravvivenza, tanto più che la classe operaia si trova ora a dover fronteggiare anche i provvedimenti adottati dal padronato nella nuova congiuntura economico-politica.

Dall'agosto all'ottobre del 1943 in previsione della smobilitazione dell'industria bellica e, poi, per la scarsità di materie prime, il numero degli operai occupati diminuisce dell'8,8%, mentre l'indice delle ore lavorative eseguite cala di quasi 11 punti in settembre e di 17,2 in ottobre.

Le cifre statistiche relative all'intera Italia settentrionale trovano conferma in ciò che accade nel capoluogo lombardo. Tra settembre e ottobre si scatena una massiccia ondata di licenziamenti: la Caproni (6.000 dipendenti) ne espelle 2.000, la Lagomarsino (4.000) ne caccia 3.000, la Brown Boveri 2.000 su un totale di 5.000, la Safar (3.000 dipendenti) ne allontana 1.500, la Olap 500, le Rubinetterie riunite 1.300, la Montecatini 700, la Rizzoli riduce il personale da 200 a 70 unità, la Magni chiude, l'Innocenti non licenzia ma sospende 1.500 lavoratori. A nessuno viene corrisposto il previsto pagamento del 75% del salario da parte della cassa integrazione e i licenziamenti sono accompagnati dalla contrazione delle ore lavorative e dal mancato rispetto di accordi aziendali: alla Montecatini la settimana è ridotta a cinque giorni lavorativi, alla Safar si scende a due e inoltre si eludono gli impegni presi in merito alla concordata distribuzione di carbone e di biciclette per gli operai e se ne sospendono altri 300; all' Alfa Romeo di Melzo non vengono pagate le 35 lire pattuite per la trasferta né si provvede, come promesso, agli alloggi per i lavoratori; alla Grazioli si rifiuta il pagamento del 75% del salario ai sospesi e, in novembre, alla Caproni vengono ridotte le tariffe preventive del cottimo. 

 

Novembre 1943, l'angoscia grava sulla città come la sua proverbiale nebbia. Le forniture di gas e energia elettrica sono limitate a alcune ore della giornata, la gente va a dormire al buio e al freddo con l'incubo dei bombardamenti: una valigia ai piedi del letto e la torcia elettrica a dinamo sul comodino, per essere pronti al primo allarme a precipitarsi nelle cantine trasformate in malsicuri rifugi antiaerei.
 

C'è poco da mangiare: a chi possiede una tessera annonaria, in ottobre, sono stati distribuiti un chilo di patate, 100 gr. di fagioli, 50 gr. di salumi, 80 gr. di carne suina, un decilitro di olio, 200 gr. di burro e 100 gr. di grassi di maiale. Riso e pasta si aggirano attorno al chilo, di carne di manzo neanche parlarne, la verdura è introvabile. Una saponetta da bagno da 100 gr. deve durare due mesi e tra poco sparirà dal mercato. Per chi fuma la razione giornaliera è di tre sigarette.

 

Ma non esiste solo una Milano operaia che fa la fame, ne esiste anche un' altra: una Milano che sembra non voler pensare a quanto sta succedendo, una Milano che vuole stordirsi, che vuole o finge di illudersi che tutto stia tornando alla normalità. E i tedeschi, che di questa pseudonormalità hanno bisogno, ne incoraggiano gli aspetti più frivoli concedendo a tutto spiano autorizzazioni alla riapertura di cinema e teatri. I sette cinematografi rimasti aperti nei giorni dell'armistizio diventano ventotto alla fine di ottobre, più quattro teatri.

Bombardata la Scala, la stagione lirica si riapre al Nuovo con il Rigoletto e, se proprio non va bene a chi ha dello spettacolo un gusto un po' più grasso, al Mediolanum c'è Gambe al vento, con la compagnia di quel Nuto Navarrini che vanterà intime amicizie tra gli assassini della Legione autonoma Ettore Muti e che spesso si mostrerà in pubblico indossandone la divisa: negli anni cinquanta troverà benevola accoglienza nei palinsesti televisivi della Rai. Per chi ha denaro, invece, da sabato 29 ottobre è ripreso il galoppo all'ippodromo di San Siro.

È anche contro questa falsa normalità che i gappisti devono battersi per impedire che dilaghi e invischi le coscienze nell'accettazione passiva dell'occupazione straniera e del rigurgito squadrista.
da “Due inverni un’estate e la rossa primavera” di Luigi Borgomaneri


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Firenze è libera

31 Juillet 2017 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

      I segni della rotta tedesca illudevano le truppe alleate di una rapida conclusione della guerra.

Per quasi 200 chilometri a nord di Roma non ci furono combattimenti.

L'VIII Armata avanzava al centro, tra la via Cassia e la Flaminia, risalendo la valle del Tevere verso Perugia e Orvieto.

Gli americani procedevano invece lungo la costa tirrenica. Civitavecchia fu oltrepassata: il suo porto era stato completamente distrutto dai tedeschi. Ma l'impeto delle Armate alleate andava diminuendo.

Proprio allora il comando supremo aveva disposto che alcune Divisioni fossero ritirate per l'operazione «Anvil», lo sbarco nel sud della Francia, previsto per il mese di agosto.

Nello stesso tempo la resistenza tedesca s'irrigidiva. Verso la fine di giugno, sulle rive famose del Trasimeno, ci fu battaglia.

Per guadagnar tempo, Kesselring era riuscito a imbastire con le retroguardie una provvisoria linea di resistenza da Grosseto ad Ancona, mentre le sue Armate si attestavano più indietro, verso la linea «Gotica ».

L'estate era splendida.

I vecchi contadini, che non si rassegnavano ad abbandonare il raccolto, lavoravano accanto ai soldati che combattevano, mietendo e ammucchiando i covoni in mezzo alla battaglia.

Mentre inglesi e americani puntavano verso la linea dell'Arno, il Corpo italiano di liberazione si impegnava a fondo nel settore adriatico.

CIL-avanzata.jpg 

La «spettacolosa avanzata» di cui parlavano i giornali era cominciata un mese prima nella zona delle Mainarde, con alcune riuscite azioni su San Biagio Saracinisco, Monte Mare, Monte La Meta e verso Alfedèna.

Ai primi di giugno il Comando alleato, non desiderando che gli italiani partecipassero alla liberazione di Roma e all'avanzata su Firenze, ne ordinò il trasferimento nel settore adriatico (alle dipendenze del V Corpo britannico), e l'impiego contro le forze tedesche in movimento.

Il 9 giugno i bersaglieri della I Brigata liberarono Chieti e inviarono in direzione dell'Aquila una Compagnia di motociclisti che entrò in città il 13 giugno.

Il castello di Crecchio, dove il 9 settembre dell'anno prima il re e il suo seguito avevano fatto tappa durante la fuga da Roma, era sulla strada degli italiani. La guerra l'aveva ridotto a un ammasso di rovine. Venne lasciato subito alle spalle: cominciava la seconda fase dell'offensiva, l'inseguimento del nemico in ritirata.

Nel settore costiero alle truppe inglesi subentravano i polacchi del II Corpo, e l'avanzata riprese agli ordini del generale Anders.

generale Wladyslaw Anders

Il 15 giugno gli italiani entrarono a Teramo.

La loro marcia era ostacolata dalle interruzioni stradali e dai campi minati.

Il 18 giugno la Divisione «Nembo» liberò Ascoli Piceno abbandonata all'alba dai tedeschi, mentre i polacchi avanzavano lungo la strada costiera puntando su Ancona.

La resistenza nemica sul fiume Chienti durò qualche giorno, poi la marcia riprese, e il Corpo di liberazione entrò a Macerata il 30 giugno accolto anche qui dall'entusiasmo popolare.

Il nuovo obiettivo era il paese di Filottrano che i tedeschi avevano trasformato in un fortino.

L'8 luglio l'artiglieria italiana cominciò i tiri di preparazione, quindi i paracadutisti della Divisione «Nembo» attaccarono con impeto riuscendo a penetrare nell'abitato.

Intorno all'ospedale la lotta fu particolarmente accanita. I tedeschi contrattaccarono con l'appoggio di carri armati, ma nella notte sgombrarono il paese che venne occupato all'alba del giorno dopo.

Filottrano, come il lago Trasimeno nel settore centrale, era un caposaldo della provvisoria linea di resistenza tedesca: la sua conquista aprì ai polacchi le porte di Ancona e valse ai soldati italiani l'elogio del comandante d'Armata.

Lo stesso giorno il generale Anders ordinava l'attacco finale. L'azione fu appoggiata sulla sinistra dalle truppe italiane che impegnarono battaglia sui fiumi Musone ed Esino, liberando Jesi il 20 luglio.

I soldati di Anders entrarono ad Ancona.

La città era molto provata per la durezza dei combattimenti, ma il porto fu riattivato in breve tempo. Polacchi e italiani affiancati continuarono l'avanzata giungendo in agosto sulla linea del Metauro, in vista degli avamposti della «Gotica».

La marcia degli Alleati nell'Italia Centrale fu facilitata dall'opera fiancheggiatrice delle formazioni partigiane dei raggruppamenti «Monte Amiata» e «Gran Sasso».

Nel settore adriatico si distinse in particolare la brigata «Majella», al comando dell'avvocato Ettore Troilo, la quale combatterà per mesi a fianco del Corpo polacco meritando la medaglia d'oro.

Così venne liberata Arezzo, il 16 luglio.

Così qualche giorno prima era avvenuto a Siena, dove il Corpo francese arrivando trovò la città già in mano dei partigiani della Brigata «Lavagnini».

Poco più tardi anche le truppe algerine e marocchine lasciarono l'Italia per l'operazione «Anvil». Il coraggio che avevano dimostrato da Cassino a Siena non cancellava la traccia amara della loro permanenza in Italia.

Con 7 Divisioni in meno, le Armate alleate avanzavano cautamente verso l'Arno, che segnava il limite meridionale delle nuove linee tedesche.

A parte alcune distruzioni in periferia e attorno agli scali ferroviari, il 10 agosto Firenze era quasi intatta, e intatti erano i ponti sull'Arno.

Il giorno prima la fascia intorno al fiume era stata sgomberata per ordine del colonnello Fuchs, comandante tedesco della piazza. In meno di 24 ore i profughi dovettero trovare alloggio altrove. Erano circa 150 mila.

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Il loro esodo fu una tragedia.

Alcune migliaia si rifugiarono in palazzo Pitti sperando che tutto sarebbe presto finito. Ma gli Alleati tardavano, le notizie di radio Londra erano un lento stillicidio.

Il 3 agosto venne proclamato lo stato di emergenza.

Era proibito uscire di casa, porte e finestre dovevano rimanere sbarrate giorno e notte. Le pattuglie tedesche avrebbero sparato a vista contro chiunque fosse stato sorpreso per strada.

Senz'acqua, senza pane, né luce, né telefono, la città viveva i giorni più duri della sua storia dall'epoca del famoso assedio nel '500.

La sera del 3 agosto i tedeschi avevano finito di sgomberare i quartieri Sud dell' Arno e di minare i ponti.

La prima esplosione si ebbe alle 10 di notte; poi seguirono le altre, a lunghi intervalli, fino all'alba.

Al mattino Firenze apparve irreparabilmente sfregiata.

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I tedeschi avevano risparmiato soltanto Ponte Vecchio, credendo in questo modo di pagare il loro debito verso la civiltà; in cambio avevano fatto saltare da una parte e dall'altra palazzi e torri medievali per bloccare gli accessi.

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Da Porta Romana le avanguardie dell'VIII Armata entrarono nella parte meridionale della città all'alba del 4 agosto. Scendevano dalle colline le prime formazioni partigiane e insieme, Alleati e patrioti, cominciarono il rastrellamento dei rioni d'Oltrarno.

I tedeschi avevano lasciato dietro di sé forti nuclei di franchi tiratori e numerose pattuglie erano state tagliate fuori dalla distruzione dei ponti. La liberazione coincise con l'inizio di una battaglia per le strade e dentro le case che si protrasse a lungo.

Il grosso delle truppe inglesi giunse più tardi, mentre la battaglia continuava, e a nord dell'Arno, nella parte occupata ancora dai tedeschi, si preparava l'insurrezione.

Il movimento partigiano era forte e organizzato a Firenze e i suoi capi volevano mostrare agli Alleati che la città era in grado di liberarsi e governarsi da sola.

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Alcuni rappresentanti del CLN riassumono la storia di quei giorni drammatici.

Parla Enriques Agnoletti: 

«I nostri piani prevedevano la convergenza su Firenze delle formazioni partigiane che operavano nei dintorni della città; questo anche per il significato non solo militare, ma politico, che doveva avere la liberazione di Firenze, e prevedevano l'assunzione del Governo provvisorio.

Per questo, non appena proclamato lo stato di emergenza, il Comitato toscano di Liberazione Nazionale si riunì sedendo in permanenza in un piccolo appartamento di via Condotta.

Il 5 agosto inviò una delegazione agli Alleati per poter concordare il prosieguo dell'azione militare». 

Parla Ragghianti:

«Un nostro partigiano, il tenente Fischer, trovò fra le mine, nel corridoio che collega la Galleria degli Uffizi a Pitti una strada. Avvertì il comando e allora noi decidemmo di andare incontro agli Alleati nella parte liberata traversando le linee per affermare il nostro diritto di essere riconosciuti come governo provvisorio e riconosciuti dagli Alleati come unica autorità politica nel territorio liberato». 

Ancora Enriques Agnoletti: 

«Noi avevamo prestabilito già da tempo l'organizzazione della città, non soltanto creando un comando militare unico, ma designando i membri della Giunta Comunale e il Sindaco che si installarono in Palazzo Vecchio al momento della insurrezione creando gli organi tecnici, l'organizzazione ospedaliera, la provincia, la camera di commercio, in modo che gli Alleati si trovassero di fronte a una città già organizzata e si potesse effettivamente esercitare questi poteri di governo provvisorio». 

La notte fra il 10 e l'11 agosto i tedeschi si ritirarono verso la periferia nord della città ponendo dei caposaldi lungo i viali di circonvallazione.

La manovra di sganciamento, che lasciava intuire una imminente iniziativa alleata, fece scattare il piano militare. La prima insurrezione organizzata in un grande centro, e la più lunga, aveva inizio.

Il segnale venne dato all'alba dalla Martinella di Palazzo Vecchio, e la campana del Bargello le rispose. Poco dopo, da Palazzo Riccardi, il Comitato di Liberazione chiamava i cittadini alla lotta e assumeva i poteri di governo provvisorio.

Era venuta l'ora di combattere per la libertà.

Parla il colonnello Niccoli capo delle formazioni militari: 

«Alle 6 di mattina dell'11 agosto detti l'ordine di insurrezione. Durante la notte i tedeschi si erano ritirati al di là del Mugnone lasciando dei caposaldi a Porta Prato, alla fortezza Dabbasso, in Piazza Cavour e al ponte del Pino».

La battaglia s'accese subito violenta perché i tedeschi erano ancora a ridosso della città e tentavano dei ritorni offensivi verso il centro.

Soli, di fronte all'avversario, male armati, i partigiani si battevano con impegno, mentre gli Alleati indugiavano Oltrarno, limitandosi a sminare le macerie e i passaggi di Ponte Vecchio.

Le vittime delle esplosioni erano ancora insepolte, e s'aggiungevano ai numerosi caduti dell'insurrezione.

I «fratelli della misericordia» andavano a raccoglierli e li seppellivano in cimiteri di fortuna, nei giardini e negli orti.

Un'atmosfera di morte incombeva sulla città. Attraverso il fiume, fra le macerie dei ponti giungevano ogni tanto dei rifornimenti. La città era stremata, anche i partigiani avevano fame. Gli Alleati non si muovevano e la battaglia in città continuava.

Prosegue Niccoli: 

«Qui siamo nella zona di Porta Prato.

Una Compagnia di guastatori voleva far saltare il terrapieno della ferrovia. Le condizioni sono molto cambiate dal '44. Ecco, qui c'era una rampa erbosa che portava alla ferrovia. Mandammo qui una Compagnia della Brigata terza "Rosselli", la quale entrò dal sottopassaggio della ferrovia. Immediatamente appena arrivata sul viale Belfiore fu fatta segno a un forte tiro d'infilata. Fu risposto al fuoco, i tedeschi si allontanarono in modo che fu possibile impedire il seminamento delle mine nella ferrovia.

Purtroppo ci fu un ritorno di forze dei tedeschi in modo che alle 15,30 del pomeriggio i nostri partigiani dovettero ripiegare con forti perdite. La battaglia in questa zona durò circa una settimana.

Anche qui al Ponte del Pino si sono svolti dei combattimenti asprissimi. A questi combattimenti ha preso parte anche una squadra di giovanissimi tra i 14 e i 17 anni del "Fronte della Gioventù" che hanno avuto delle forti perdite.

Gli Alleati sono entrati a Firenze la mattina del 14, ma effettivamente tutta la lotta per la liberazione della città di Firenze è stata effettuata dai partigiani». 

Quando le avanguardie inglesi passarono finalmente l'Arno, già Firenze riprendeva a vivere, mentre a nord i partigiani combattevano ancora sulle colline e il grosso degli Alleati era bloccato Oltrarno dai ponti distrutti.

 

Per gettare una passerella sul fiume, fu necessario far saltare quanto restava del ponte Santa Trìnita. Un nuovo spettacolo per i fiorentini che avevano ancora negli orecchi le esplosioni della notte del 4 agosto.

La passerella era però riservata ai soldati. I civili dovevano contentarsi dei passaggi di fortuna, tavole gettate sulla corrente, sentieri aperti fra le macerie dei vecchi ponti.

Così per tutto quel mese d'agosto si videro file di gente che si agitavano sui cumuli bianchi di polvere, da una riva all'altra, cercando di ristabilire le comunicazioni fra le due parti della città che la guerra aveva diviso.

Firenze aveva sofferto molto, ma poteva dire di essersi liberata da sé.

Firenze-libera.JPG Firenze-libera-2.JPG 

I partigiani della Divisione «Arno», delle Brigate «Rosselli», delle squadre del centro, che avevano combattuto per quasi un mese praticamente da soli, avevano ben meritato la gratitudine della città.

I morti in quei giorni furono più di 200, e tre le medaglie d'oro. Alighiero Barducci detto «Potente», il comandante della Divisione «Arno», e gli altri caduti, ebbero solenni onoranze funebri.

Come diceva il manifesto dell'11 agosto, i fiorentini avevano conquistato «il diritto di essere un popolo libero combattendo e cadendo per la libertà».

 

 

Bibliografia:

Manlio Cancogni in AA.VV - Dal 25 luglio alla Repubblica - ERI 1966

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Lissone-prigionieri-II-guerra-mondiale

26 Avril 2016 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

frontespizio del fascicolo
frontespizio del fascicolo

Dagli archivi comunali: nominativi dei 670 lissonesi che sono stati prigionieri durante la seconda guerra mondiale, sia degli Alleati, prima dell'8 settembre 1943, che dei tedeschi.

Lissone-prigionieri-II-guerra-mondiale
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1943-1945: l’organizzazione per la raccolta e il trattamento dei fuggiaschi in territorio svizzero

29 Octobre 2014 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Dal libro “Oltre la rete” di Antonio Bolzani:

 

«Dopo la seconda metà del settembre 1943 l'afflusso dei fuggiaschi ai nostri confini è andato via via scemando e normalizzandosi

La fiumana divenne un rigagnolo e cambiò composizione: trenta, quaranta entrate al giorno: un terzo militari e due terzi borghesi.

Al confine fu stabilita da parte nostra una severa e fitta sorveglianza a mezzo delle truppe di frontiera aggregate alle guardie di dogana e dalla parte opposta si videro comparire soldati della difesa confinaria (Grenzschutz) militi anziani delle truppe tedesche, severi e intransigenti.

Giungere al confine e passare sul nostro territorio fu certamente più difficile, ma non impossibile, specialmente per coloro che avevano l'accortezza di farsi accompagnare dai cosiddetti «passatori» e il denaro per pagare le loro astronomiche tariffe.

La nostra organizzazione per la raccolta e il trattamento dei fuggiaschi andò man mano perfezionandosi.

Tutti, civili e militari, una volta ammessi in via provvisoria dagli organi della dogana, venivano accompagnati al lazzaretto di Chiasso o a Lugano o a Locarno e di là, per ferrovia e in vetture speciali, a Bellinzona dove, nella Casa d'Italia, fu stabilita la Centrale di raccolta, con uffici per la visita medica, gli interrogatori di polizia, la compilazione dei complessi e molteplici formulari biografici, la presa delle impronte digitali e della fotografia, il deposito dei valori. Da questa centrale, tutti passavano allo stabilimento per le docce e la disinfezione personale e del bagaglio. Quindi i rifugiati venivano trasferiti nei campi di quarantena e gli internati militari trasportati oltre Gottardo, dopo una sosta di tre o quattro giorni nelle baracche rizzate nel cortile dell'Istituto Soave.

Furono aperti campi di quarantena, per gli uomini, a Bellinzona, nell'oratorio di S. Biagio, nelle scuole di Ravecchia e di Pedemonte e nel castello d'Unterwalden; a Lugano, nella Casa d'Italia: per le donne e i bambini, nell'asilo di Bellinzona, nello stabilimento balneare di Agnuzzo e nella nuova casa di vacanze dell' Ala materna, a Rovio.

Dopo la quarantena (della durata di tre settimane) le famiglie venivano riunite nei campi dell'albergo Majestic a Lugano e della villa vescovile di Balerna.

Intanto il Dipartimento federale di polizia decideva, per i civili, in via definitiva, l'ammissione o meno delle domande per l'internamento e le richieste di messa in libertà, che venivano di regola accettate se il postulante offriva sufficienti garanzie per il proprio sostentamento e, eventualmente, per quello dei familiari.

Gli altri rifugiati che non avevano chiesto di essere liberati, passavano dai campi di quarantena ai campi di soggiorno, rispettivamente ai campi di lavoro, dove potevano godere di una certa libertà e guadagnare qualche franco.

In altri campi o ricoveri venivano raggruppati gli inabili al lavoro; in altri, ancora, i giovani studenti, come fu il caso del liceo di Trevano.

L'organizzazione e la condotta dei campi di soggiorno, di lavoro di cura .e di studi, non dipendeva più dal Comando territoriale, ma dalla Centrale dei campi di lavoro con sede a Zurigo, organismo apposito creato dal Dipartimento federale di polizia.

A tutta questa rete di campi bisogna aggiungere i ricoveri, come il «Solarium » di Gordola e l'«Immacolata» di Roveredo (Grigioni) nonchè gli ospedali di tutto il Cantone; che accolsero. complessivamente oltre duecento rifugiati vecchi o bisognosi di cure già fin dai primi giorni dell’afflusso del settembre 1943 e mantennero questa media fino all'aprile del 1945.

Il rigagnolo continuò a scorrere per tutto l'inverno 1943-1944 e fu alimentato specialmente dagli ebrei e dai fuggiaschi per ragioni politiche. I militari italiani dell'esercito smobilitato andarono via via diminuendo fino a scomparire.

Costante fu, invece, il·giornaliero arrivo di prigionieri inglesi, jugoslavi, greci, sudafricani evasi dai campi di concentramento, cui si aggiungevano, di quando in quando gruppetti di russi, polacchi e francesi che trasportati in Italia dalla Germania e addetti all'organizzazione Todt, riuscivano a tagliare la corda.

Dopo l'inverno 1943-1944 il rigagnolo cambiò ancora composizione, almeno rispetto ai militari, e si alimentò di soldati della repubblica neofascista, che si squagliavano come la neve al sol d'aprile, i quali, a loro volta, dopo la caduta del Governo della Val d'Ossola, cedettero il posto ai partigiani,.

E a tutto questo costante movimento in entrata venne ad aggiungersi, già a cominciare dal mese di dicembre 1943, un movimento di uscita, alimentato esclusivamente dai militari italiani della fiumana del settembre che, dopo qualche mese di campo, punti dalla nostalgia o d'altro, chiedevano di ritornare al loro paese.

Passavano da Bellinzona, e si avviavano verso la Casa d'Italia divenuta per antonomasia la casa della benedizione, della salvezza per avere il viatico del ritorno nella patria tormentata».

 

Bibliografia:

Antonio Bolzani, “Oltre la rete”, Società Editrice Nazionale, Milano 1946

 

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