Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

ii guerra mondiale

12 settembre 1943: il «Savoia Cavalleria» ripara in Svizzera

22 Octobre 2014 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Il Reggimento «Savoia Cavalleria» entrò in formazione chiusa la sera del 12 settembre 1943, alle ore 19.30, dal varco della Cantinetta sopra Ligornetto e fu ammesso per decisione del Consiglio federale.

Questo Reggimento, che portava un nome glorioso nella storia dell'Esercito italiano, non era, di fatto, che un Corpo di truppa di nuova formazione, destinato a sostituire il «Savoia cavalleria » che nell'agosto 1942 combattè con distinzione e cattiva fortuna a Stalingrado e fu, nel successivo inverno, completamente disperso e distrutto in terra russa.

Il Reggimento proveniva da Somma Lombardo, suo centro di istruzione, e faceva ottima impressione per disciplina e portamento. La truppa fu disarmata e poi incamminata, in colonna di marcia, su Rancate-Riva S. Vitale--Capolago-Melano, dove giunse alle ore 0030 del 13 settembre 1943. Con sé aveva 8 autocarri, fucili, mitragliatrici, munizioni, materiali vari, viveri e scorte.

Effettivi: 15 ufficiali, 642 sottufficiali e soldati, 316 cavalli, 9 muli.

Il Comandante era il ten. col. Piscicelli Pietro, classe 1897. Il Reggimento provvide alla sussistenza, con cucina e viveri propri, fino alla partenza da Melano.

Già il 13 settembre 1943 trecento uomini furono trasferiti al campo di Roveredo-Grigioni. poi al di là dal Gottardo. Il resto degli uomini e i cavalli partirono il giorno 16 settembre 1943 per Ins (Anet).

Bibliografia:

Antonio Bolzani, “Oltre la rete”, Società Editrice Nazionale, Milano 1946

 

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1943-1945: rifugiati e internati in Svizzera

20 Octobre 2014 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Dall'inizio alla fine della guerra hanno chiesto ospitalità alla Svizzera e sono stati accolti nel suo territorio 293.773 rifugiati e internati provenienti da tutti i punti cardinali.

Nella regione meridionale è stato l'episodio dei fuoriusciti italiani, ebrei e politici, braccati dalla sbrirraglia nazifascista e dei fuggiaschi militari italiani e alleati; i primi,. renitenti alle leve della repubblica di Mussolini o alla deportazione; i secondi, in cerca di scampo dopo l'evasione dai campi di concentramento.

Di questo speciale episodio Antonio Bolzani, ha dovuto occuparsi per la carica militare (colonnello) che ricopriva nell’Esercito. Scrive nella prefazione del suo libro “Oltre la rete”, pubblicato subito dopo la fine della guerra, nel 1946: «Sono state così numerose e interessanti le cose viste e vissute che mi è nata l'idea di comporre un libro di memorie e di darlo alla stampa».

Dal libro sono tratte le informazioni che sono di seguito riportate.

La fiumana (settembre 1943)

Il 9 settembre 1943, in seguito all'armistizio fra l'Italia: e gli Alleati, vi fu, nel Ticino, una mobilitazione parziale di truppe per guarnire la frontiera meridionale.

Si temevano dei contraccolpi come conseguenza del disarmo dell'esercito italiano da parte della Wehrmacht, dell'occupazione tedesca di tutte le città e i punti strategici importanti nell'Italia settentrionale, delle lotte fra fascisti e antifascisti, della caccia agli ebrei, che non era mai stata accanita anche dopo la legge razziale del 1938, ma che stava per diventare feroce sotto la pressione dei germanici e, infine, a cagione della scarsità dei viveri e delle riserve, specialmente nei centri popolosi, scarsità che si sarebbe senza dubbio accentuata per effetto delle prevedibili requisizioni da parte dell'esercito occupante.

I primi fuggiaschi apparvero l'11 settembre 1943: venti prigionieri inglesi evasi dai campi di concentramento, che erano stati aperti dagli stessi italiani alla proclamazione dell'armistizio. Il giorno dopo furono novanta senegalesi.

Il Comando territoriale fino alla mobilitazione del 9 settembre 1943 non aveva preso che ristrette misure per l'internamento, limitandosi a preparare un campo unico a Roveredo (Mesolcina).

Ma i fuggiaschi accettati dagli organi di sicurezza disseminati lungo il confine divennero di giorno in giorno più numerosi, fino a formare una vera fiumana che si sovrappose a qualsiasi controllo ordinato e straripò sul territorio svizzero, da ogni dove. Già il 14 settembre se ne contavano più di mille.

 

Nel frattempo, il Comando territoriale aveva aperto in tutta fretta e arredato sommariamente dei campi di raccolta:

-         a Melano, per le regioni del mendrisiotto, del Generoso e della Valle d'Intelvi;

-         a Lamone, per il luganese, la Val Colla, la Tresa, il Malcantone,

-         a Quartino, per il Monte Tamaro e il Gambarogno;

-         a Cugnasco, per il locarnese, la Valle Maggia, le Centovalli,

-         a Roveredo, per la Mesolcina.

Ma ben. presto anche questi campi improvvisati diventarono insufficienti e si dovette aprirne altri a Gudo, a Bellinzona, a Bodio, che a loro volta furono subito riempiti e allora venne presa la decisione di far sostare i fuggiaschi in campi di masse presso la truppa di frontiera e di organizzare dei trasporti ferroviari per l'interno della Svizzera.

Il sabato 18 settembre si contavano nei diversi campi di masse non meno di 14.000 fuggiaschi, quasi tutti italiani, la più gran parte militari.

Erano presenti circa:

-         3.000 uomini a Chiasso, accampati un po’ dappertutto: nei depositi della stazione, al campo di foot-ball, nel nuovo cinematografo, in un treno preparato per la partenza dieci ore in anticipo;

-         3.000 uomini a Mendrisio, intorno alla chiesetta del manicomio cantonale;

-         800 uomini a Stabio, nella camiceria Realini;

-         700 a Riva S. Vitale, la maggior parte nell'antico, collegio Baragiola (Istituto Canisio);

-         700 a Melano, nella ex filanda;

-         800 a Lamone, nell'asilo e nella riseria;

-         1.200 a Gudo, nella grande casa colonica dello Stato che, dopo alcune sommarie trasformazioni, aveva già ospitato nei primi anni della guerra gli internati polacchi e francesi;

-         400 a Bellinzona, nell'Istituto Soave;

-         600 a Roveredo, nel collegio S. Anna.

Benché i più si dichiarassero militari, solamente dei piccoli gruppi portavano l'uniforme. Tutti gli altri erano in abito borghese e, malgrado la buona stagione, parecchi erano muniti di soprabiti, di maglie di lana e di grosse valige, ben conoscendo i rigori dell’inverno svizzero. Fra i militari in uniforme si contavano in gran numero le guardie di finanza e i carabinieri. Le guardie di finanza di Porlezza e di Porto Ceresio si erano consegnate agli organi di frontiera con i loro motoscafi.

Una buona percentuale dei fuggitivi era composta di militari in congedo abitanti nelle città e nei borghi situati in vicinanza della frontiera, che volevano sottrarsi al reclutamento da parte dei neofascisti o all'invio in Germania per il servizio del lavoro.

 

Ospitalità da parte svizzera per tutta questa gente? Diritto di asilo?

Scrive il Bolzani:

«Per i militari il presupposto per essere accettati come internati era di avere combattuto nelle vicinanze del confine e di essere stati sospinti dalle vicende della battaglia in territorio svizzero, in cerca di scampo.

Per i civili e anche per i prigionieri evasi, entra in linea di conto il diritto d'asilo, che consiste nel diritto di uno Stato di garantire, entro i suoi confini, protezione e rifugio alle persone perseguitate per motivi politici o religiosi da parte delle autorità del loro paese.

Ogni Stato indipendente è libero di accettare o di respingere i fuggiaschi e il diritto di asilo è l'espressione di questa libertà.

Esso costituisce pertanto un diritto di fronte agli altri Stati, non rappresenta un obbligo nè di fronte a uno Stato nè di fronte ai fuggiaschi in cerca di asilo.

Si deve quindi ritenere che non esiste un diritto all'asilo e che lo Stato al quale il fuggiasco fa ricorso, è libero concedere o di rifiutare l'asilo, secondo il proprio giusto criterio.

È libero cioè, in quanto Stato sovrano, di poter dire: questi entrano e sono meritevoli di protezione e questi altri non entrano perché non corrono pericoli o sono nocivi. In conclusione, se i nostri organi di vigilanza alla frontiera (nei primi venti giorni del settembre 1943 assai deboli di numero) non fossero stati travolti dalla improvvisa fiumana e non fosse mancata la possibilità di vagliare caso per caso, almeno i nove decimi dei fuggiaschi si sarebbero dovuti respingere.

 

Formavano i nove decimi tutti i militari del disciolto esercito italiano, si trovassero in servizio o fossero in congedo, e costituivano il decimo rimanente (non più di 2000) i prigionieri evasi e i fuggiaschi civili, perseguitati politici o razziali.

Ma una volta la fiumana straripata sul nostro territorio, come fare un esame a posteriori dei fuorusciti e decidere la sorte di ognuno? La decisione spettava al Consiglio federale per i militari, e per i civili alle guardie federali di confine, rispettivamente al Comando territoriale, per delegazione del Dipartimento federale di Giustizia e Polizia. Si poteva certo pensare di respingerli in massa, senza appello; ma prevalsero, come sempre. le ragioni di umanità e fu decisa l'accettazione, nella speranza che fosse questione di poche settimane. Invece l'internamento durò quasi due anni e fu sotto ogni aspetto assai gravoso. L'accettazione, considerata al lume d'oggi, ha indubbiamente valso a salvare centinaia centinaia di giovani dalla morte e dagli orrori dei campi concentramento germanici.

Decisa l'accettazione fu necessario provvedere immediatamente alle operazioni di controllo, alle visite sanitarie e al vettovagliamento.

I Comandi di truppa si incaricarono, ognuno, delle proprie centurie di fuorusciti e il Comando territoriale, d'intesa colla direzione del II Circondario delle ferrovie federali, provvide al loro trasporto oltre Gottardo, dove furono presi in consegna dal Commissariato per l'internamento, organismo militare appositamente creato dalla Confederazione per la custodia e la reggenza di tutti gli internati.

Dal 14 al 30 settembre, i trasporti notturni con treni interessarono 19.055 persone».

Nel rapporto sugli avvenimenti della seconda quindicina di settembre ha scritto le seguenti considerazioni:

«Sono per lo più uomini validi, assai dotati intellettualmente e fisicamente, ma moralmente dei naufraghi ... Solo una piccola minoranza non mi è parsa compresa della situazione angosciosa e deprimente nella quale si trovava e ha rivelato la superficialità dell'educazione ricevuta durante i venti anni di regime fascista».

 

Bibliografia:

Antonio Bolzani, “Oltre la rete”, Società Editrice Nazionale, Milano 1946

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Milano, 16 agosto 1943: il capolavoro di Leonardo in grave pericolo

15 Août 2014 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

1943 Milano 1943 Milano Corso Vittorio Emanuele

Milano e le cittadine confinanti furono fra i luoghi italiani più colpiti durante la seconda guerra mondiale. Il primo bombardamento avvenne nella notte fra il 15 e il 16 giugno 1940 con lievi danni alle strutture pubbliche ed industriali. Ne seguirono altri, ad intervalli, fra il giugno e il dicembre 1940. Il primo massiccio bombardamento di Milano (dopo un intervallo durato tutto il 1941 e parte del 1942) si verificò il 24 ottobre 1942, in pieno giorno, ad opera dell'aviazione inglese. Nella notte del 14-15 febbraio 1943 fu il turno degli aerei americani. Fra il 7 e l'8, il 12 e il 13, il 14 e il 16 agosto 1943 gli attacchi furono più violenti e numerosi: Milano fu colpita più volte da ben 916 bombardieri. Vennero sganciate in quei giorni 2600 tonnellate di bombe. Furono distrutte migliaia di case, i servizi pubblici furono interrotti, i morti si contarono a centinaia. I bombardamenti proseguirono nel 1944 in un crescendo pesantissimo.

1943 Milano palazzo bombardato 1943 Milano Piazza Fontana bombardata

Alla fine del 1943 a Milano si contavano 250.000 senza tetto, 300.000 evacuati, 687 morti e 113 feriti. Il 65% dei monumenti era stato gravemente danneggiato o distrutto. Dei 273 edifici protetti della città, 183 avevano subito danni.

1943 Milano San Babila bombardata 1943 Milano Sant'Ambrogio bombardata 

Il 14 febbraio 1943 un raid aereo provocò qualche danno di minore entità alla chiesa di Santa Maria delle Grazie e alla volta del refettorio. Un altro attacco durante la notte fra il 13 e il 14 agosto 1943 danneggiò il convento ma non il refettorio.

1943 ospedale Maggiore Milano bombardato 

Padre Acerbi, un veterano della grande guerra, trascorse l'ennesima notte all'addiaccio in un umido rifugio antiaereo di Milano, in compagnia dei suoi confratelli domenicani. Sperava che i terrificanti eventi cui aveva assistito la notte precedente non si sarebbero ripetuti. Era domenica 15 agosto 1943. Quel giorno lui e i suoi concittadini avevano festeggiato Ferragosto, l'Assunzione di Maria Vergine, ma la celebrazione si era svolta sottotono. Acerbi aveva pregato per la cessazione dei bombardamenti, chiedendo anche solo qualche ora di tregua: i milanesi erano stanchi e avevano bisogno di dormire, così come lui e gli altri frati.

Poco dopo la mezzanotte, mentre la luna piena cominciava a riemergere da un'eclissi parziale, aveva riudito il temuto suono delle sirene antiaeree. I raid precedenti avevano già costretto centinaia di migliaia di persone a lasciare la città. Venti minuti dopo le sirene, aveva sentito il rombo dei bombardieri, poi coperto dal frastuono delle prime esplosioni. La terra aveva tremato sotto i piedi dei confratelli, con crescente violenza, a mano a mano che la prima ondata dei Lancaster della RAF britannica si avvicinava al centro. I lampi delle esplosioni avevano reso ancor più luminoso il cielo già chiaro. L’aria si era riempita dell'odore acre degli incendi. Un ordigno da quasi due tonnellate era scoppiato vicino al rifugio dei monaci, con un boato assordante.

Qualche notte prima, le schegge avevano investito la chiesa di Santa Maria delle Grazie e il refettorio. Sorprendentemente, nessuna aveva danneggiato il gioiello di Milano, l'opera che sorvegliava i pasti quotidiani dei domenicani: L'ultima cena di Leonardo. Per tradizione, da secoli i frati mangiavano di fronte alla parete su cui Leonardo aveva ritratto i dodici apostoli e Gesù in procinto di consumare la loro cena.

Quando sorse l'alba, padre Acerbi vide che l'esplosione aveva interrotto quella tradizione, forse per sempre.

Leonardo aveva scelto un approccio contemplativo quando aveva dipinto il Cenacolo. Matteo Bandello, giovane monaco e rinomato autore di novelle, osservò che Leonardo «soleva anco spesso, ed io più volte l'ho veduto e considerato, andar la matina a buon'ora e montar sul ponte, perché il cenacolo è alquanto da terra alto; soleva, dico, dal nascente sole sino a l'imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma scordatosi il mangiare e il bere, di continovo dipingere. Se ne sarebbe poi stato dui, tre e quattro di che non v'averebbe messa mano, e tuttavia dimorava talora una e due ore del giorno, e solamente contemplava, considerava, ed essaminando tra sé, le sue figure giudicava».

Quando l'affresco era stato terminato, nel 1498, tutti erano rimasti sbalorditi. Fino ad allora le rappresentazioni di quel soggetto, dai primi affreschi nelle catacombe del V e del VI secolo fino alle opere più recenti di Taddeo Gaddi (1350 ca.), Andrea del Castagno (1447 ca.), Domenico Ghirlandaio (1480 ca.) e Pietro Perugino (1493 ca.), avevano enfatizzato il tema dell'eucaristia, disponendo i dodici apostoli intorno al tavolo mentre Cristo preparava e offriva il pane e il vino consacrati. L’ambientazione di quelle opere era immaginaria, le figure erano statiche e prive di emozioni. Spesso Giuda veniva ritratto in disparte, lontano da Gesù e dagli altri apostoli.

Ma Leonardo, attento osservatore della natura e studioso del corpo umano, aveva rotto con la tradizione e fuso la cerimonia dell'eucaristia con il drammatico momento in cui Cristo annuncia ai presenti: «In verità vi dico: uno di voi mi tradirà». Avendo notato che «i movimenti dell'uomo sono altrettanto variegati delle emozioni che li attraversano», il maestro aveva ritratto la reazione di ogni apostolo a quell'annuncio sconvolgente: Filippo si porta le mani al petto come a protestare la sua innocenza, Giacomo maggiore fa un gesto di indignazione, Bartolomeo non stacca gli occhi da Gesù e si sporge in avanti, mentre Giuda, dopo avere rovesciato accidentalmente il sale, si ritrae sulla difensiva e stringe un sacchetto, forse contenente i trenta denari. L’uso del colore e l'aspetto realistico dei personaggi coinvolgono l'osservatore nella drammatica narrativa di Leonardo.

La notte di Ferragosto del 1943 il dipinto rischiò di scomparire, polverizzato. La bomba piombò al centro del chiostro dei Morti, un piccolo spazio erboso a est del refettorio e a nord della chiesa. L’esplosione distrusse il corridoio coperto che i monaci biancovestiti attraversavano quotidianamente. L’unica testimonianza rimasta della sua esistenza erano alcune colonne spezzate, che fino al giorno prima sostenevano le graziose arcate e gli affreschi del passaggio che portava alla chiesa.

La detonazione mandò in frantumi la parete orientale del refettorio, facendo crollare il tetto. Le travi maestre distrussero la fragile volta dell'edificio come un martello calato su un uovo. Nel 1940 i funzionari addetti alla tutela delle opere d'arte avevano preventivamente sistemato una protezione fatta di sacchi di sabbia, impalcature di legno e rinforzi metallici su entrambi lati della parete settentrionale. Grazie a questa precauzione, il capolavoro di Leonardo non crollò. Anche se il giorno dopo l'attacco nessuno era in grado di confermare lo stato dell'Ultima cena, padre Acerbi pensò al miracolo quando vide che, forse, l'affresco era sopravvissuto a una bomba esplosa a una ventina di metri di distanza.

Per dipingerlo, Leonardo aveva adottato una tecnica sperimentale. Invece di utilizzare il procedimento consueto, applicando i pigmenti all'intonaco fresco, aveva dipinto su una parete asciutta, sperando di ottenere una tavolozza più completa. Questo approccio si adattava bene anche al suo metodo di lavoro, lento e meditativo. Aveva impiegato circa tre anni a completarlo; una volta finito, misurava 460 cm di altezza per 880 di lunghezza, e copriva quasi l'intera larghezza del refettorio. Ma l'esperimento era fallito: dopo meno di vent'anni, la superficie pittorica mostrava già diversi segni di deterioramento. Nel 1726 c'era stato il primo di una lunga serie di interventi di restauro, alcuni documentati, altri no. Troppo spesso, però, questi sforzi riflettevano non tanto l'intenzione di far riaderire la pittura di Leonardo alla parete perpetuamente umida, quanto piuttosto il desiderio del restauratore di legare la sua attività e il suo nome al capolavoro. Come osservò un'esperta: «Non esiste al mondo un'opera d'arte che, quanto il Cenacolo, sia più venerata dal popolo e più offesa dagli intellettuali».

L’attacco aereo del 16 agosto 1943 fu solo l'ultimo e il più drammatico esempio di «intervento» invasivo.

L’umidità della parete settentrionale aveva sempre preoccupato i custodi dell'affresco, e la sua improvvisa esposizione agli elementi creò nuovi rischi. Il crollo del muro orientale infranse il delicato microclima del refettorio; la calura dell'estate milanese aumentò l'umidità della parete, provocando un rigonfiamento e quindi un distacco del materiale pittorico. L'esplosione aveva anche scaraventato alcuni sacchi di sabbia contro la superficie del dipinto: il primo temporale estivo avrebbe potuto lavarne via intere sezioni. Un edificio più basso a ridosso della parete settentrionale del refettorio aveva subito gravi danni ed era pericolante; forse sarebbe bastata una scossa, e di sicuro un'esplosione ravvicinata in seguito a un altro raid alleato, per far crollare il muro. Anche se questo fosse sopravvissuto, il capolavoro di Leonardo era in grave pericolo.

 

Bibliografia:

Guglielmo Mozzoni, La vera storia del tenente Mozzoni dal 25 luglio 1943 al 30 aprile 1945, Edizioni Arterigere 2011

Robert M. Edsel, Monuments men, Sperling & Kupfer 2013

1943 Milano galleria 1943 ospedale Maggiore Milano bombardato 2 1944 dicembre Milano La Scala 2

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Stalingrado: fine di un esercito

12 Avril 2014 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Tre grandi città segnano il destino dell’invasione tedesca in Russia: Leningrado, con il martirio dei suoi abitanti, Mosca, con la dissennata ostinazione di Hitler che non vuole essere inferiore a Napoleone, e Stalingrado che vede frantumarsi il potenziale distruttivo delle armate tedesche. Quando la città è divenuta un cumulo di macerie i sovietici cominciano a dettare le regole del gioco: lasciano avanzare i carri armati che finiranno comunque in trappola tra mucchi di mattoni e di cemento e distruggono le fanterie, attaccano di notte quando il nemico è maggiormente in difficoltà, attendono che questi concentri al massimo le sue forze per poi chiuderlo in trappola.

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Da un articolo di Enzo Biagi in La Seconda guerra mondiale – Parlano i protagonisti - Corriere della Sera 1989

Sono arrivato a Volgograd, dove non ero mai stato; si chiamava Stalingrado, e l'hanno scioccamente epurata. Mi ha detto un collega della «Pravda» che le ridaranno il nome per cui è conosciuta in tutto il mondo, ma la burocrazia è lunga e il partito prudente.

È sulla collinetta di Mamaja, sulla terribile quota 102, che Hitler ha perso la guerra, ed è cambiato anche il nostro destino. I tedeschi che combattono lo chiamano «il grande fungo» ed è un intrico di ridotte, di nidi di mitragliatrici, di postazioni di mortai. Adesso è meta di turisti e di scolaresche.

1943-2-febbraio-resa-Paulus-a-Krusciov.JPGPaulus si è rifugiato nei sotterranei dei Grandi Magazzini; una cantina di quattro metri per quattro, ricoperta di legno, riscaldata da una stufa di argilla, costruita sul posto dai soldati.

Il suo rancio è due zuppe al giorno e una fetta di pane; a un comandante di battaglione insignito della croce di ferro, pochi giorni prima della resa, ha mandato in dono una pagnotta una scatola di aringhe al pomodoro.

 

La mattina del 31 gennaio 1943, un ufficiale del corpo di guardia si affaccia all'emporio e avverte: «I russi sono alla porta». Friedrich Paulus decide di farla finita e «senza tante storie», precisa; si avvia all'uscita pallido e umiliato. Nella notte è stato promosso feldmaresciallo. Fuori, lo aspettano anche i fotografi. E un momento che va ricordato. Nella foto: Paulus, feldmaresciallo da un giorno, appare di spalle mentre va a comunicare lo resa a Nikita Krusciov.

In vetrina espongono ora giocattoli di pezza e profumi a buon mercato. In quello che era il rifugio di Vasilij Ivanovič Čujkov, l'avversario, sulla riva del Volga, dentro la roccia porosa, han sistemato un ristorante. Più in su, c'è un teatro: stasera si rappresenta Ballo al Savoy.

Quando, il 21 giugno 1941, un sabato, Hitler dà ordine di attaccare l'Unione Sovietica, al Cremlino non dovrebbe esserci sorpresa; le spie li hanno avvertiti perfino del giorno e dell'ora dell'invasione. Soltanto trenta minuti dopo mezzanotte, il commissario del popolo alla Difesa Timošenko ordina alle truppe delle regioni di confine di prepararsi a resistere. Eppure, racconta il diplomatico Berezkov, che sta in quel momento all'ambasciata di Berlino, già in febbraio un tipografo amico gli ha portato un manuale di conversazione russo-tedesco, avvertendolo che se ne stanno stampando migliaia di copie. Il frasario è di questo genere: «Dov'è il presidente del Kolchoz?», «In alto le mani, o sparo», «Arrenditi».

La dichiarazione ufficiale di guerra la fa Ribbentrop, alle tre del mattino, davanti agli operatori e ai giornalisti: ha la faccia gonfia, gli occhi appannati, le palpebre arrossate. Balbetta, ha bevuto. L'ambasciata dell'URSS nel congedarsi commenta: «Questa volta la pagherete cara».

La rapidità e la portata dei successi della Wehrmacht sbalordiscono. Le divisioni corazzate minacciano la capitale: le punte avanzate arrivano a una trentina di chilometri. Stalin non si muove. Organizza uomini e mezzi per bloccare il nemico. Telefona a Zukov, il vice capo della Stavka, l'alto comando: «Siete certo di poter tenere Mosca? Ve lo chiedo col cuore straziato, da comunista».

Risposta: «Senza alcun dubbio. Ma avremo bisogno di due armate con più di duecento carri armati».

Zukov mantiene la promessa: e l'esercito nazista non arriverà mai, come Napoleone, ad assestarsi sulla Collina dei Passeri: nella battaglia per Mosca perde più di mezzo milione di soldati, 1300 carri armati, 2500 cannoni e una quantità enorme di materiale. Viene respinto di oltre 100 chilometri verso Ovest.

Più tardi Hitler, riferisce Rahn, un suo diplomatico, ammette l'errore: «Per quanto riguarda i russi, mi sono effettivamente sbagliato, e per la prima volta. Al momento dell'invasione contavo che disponessero di 4000 carri armati, e ne avevano invece 12.000».

Eppure il conte von der Schulenburg, che nell’URSS rappresentava il Terzo Reich, non aveva nascosto il suo giudizio e le sue previsioni: «Le cose non potranno mai andar bene. Non si ha alcuna idea della potenza dell'Armata Rossa e dell'energia concentrata nell'ideologia sovietica».

Quando torna la buona stagione, Hitler lancia il «Progetto Azzurro», una larga manovra che ha come obiettivo l'occupazione del Caucaso e la conquista dei giacimenti petroliferi: Stalingrado, nei suoi piani, ha una importanza marginale. E una città industriale che, nel 1925, ha preso il nome del capo: prima si chiamava Sarizija, ma il compagno Dzugasvili nel 1918 sostò da queste parti come commissario di guerra; c'era da battere i «bianchi» del generale Krasnov. Invece, per cinque mesi, in quelle strade, si svolgono «i combattimenti più esasperati del secondo conflitto mondiale».

Alla fine di ottobre nove decimi del centro urbano sono occupati dai reparti nazisti, e la bandiera di combattimento del Reich sventola sulla piazza principale: ma Zukov, che coordina la controffensiva, avverte: «Presto avremo un giorno di festa».

Paulus vede le sue divisioni combattere e cadere disperatamente, in una lotta disumana, ma non sa ribellarsi; il chilometro, come unità di misura, scrive Paul Carell, cede il posto al metro, la carta dello Stato maggiore è sostituita da quella topografica: si spara in un vecchio mulino, tra i serbatoi d'acqua, sulla linea ferroviaria; capita che nello stesso appartamento i sovietici, riferisce il corrispondente Walter Kerr, hanno occupato la cucina e i tedeschi il soggiorno.

I rifornimenti promessi dalla Luftwaffe non arrivano, o vengono scaricati in quantità minima, o finiscono, coi lanci, tra le macerie, o nelle mani del nemico. Confessa poi Paulus: «Lottavo dentro di me, e mi chiedevo se dovevo preferire l'obbedienza che mi veniva chiesta con l'argomento perentorio che ogni ora guadagnata era di vitale importanza, oppure la compassione umana per i miei soldati. Credetti allora di dover risolvere il conflitto facendo prevalere la disciplina».

Contro di lui, Vasilij Ivanovič Čujkov, quarantadue anni, figlio di contadini, amante degli scacchi, delle letture e della buona tavola, deciso e intelligente, che sa quello che vuole: «Se rischi la pelle salvi quella di molti combattenti», dice, ed è pronto a pagare: «O terremo la città o moriremo qui».

Pensa di lui Paulus: «Non è un militare, è uno stregone». I biografi lo descrivono «ambizioso, pieno di talento strategico, intrepido e incredibilmente tenace». Comanda la LXll Armata, e ha alle spalle, come consigliere politico, un vecchio comunista, Nikita Sergeevič Chruščëv.

 

1942-fabbrica-carrarmati-URSS.JPGCambia di continuo le regole: i tedeschi preferiscono combattere durante il giorno, e lui gli impone la notte, amano lottare nelle vie, e lui le lascia deserte. Lancia nel corpo a corpo i siberiani, armati di coltelli finlandesi e di pugnali, mobilita cinquantamila civili e forma la Difesa Popolare, tremila ragazze diventano ausiliarie e infermiere, i giovanetti del Komsomol vanno al fronte, perché il fronte è ovunque. Dalla fabbrica di trattori Gerginksij escono carri armati, e vanno subito in linea, senza vernice, senza strumentazione ottica, con equipaggi formati dagli stessi operai che li hanno costruiti. Nello stabilimento «Barricata rossa» si producono cannoni: che appena fuori dai reparti, sono in postazione e sparano.

Novembre, maledetto novembre per l'Asse: quante batoste. Montgomery, a El Alamein, batte Rommel; Eisenhower sbarca in Africa occidentale e marcia su Tunisi; Hitler parla ad antichi camerati, quelli della birreria di Monaco, di ciò che sta accadendo a Stalingrado, e promette:«Nessuna potenza al mondo riuscirà a sloggiarci di là».

Immagina manovre dai simboli fascinosi e carichi di minacce: «Colpo di tuono», «Tempesta invernale», ma la pioggia, il nevischio, la nebbia ghiacciata segnano le ore della sconfitta.

Von Manstein, la mente più sottile tra gli strateghi della Wehrmacht, promette: «Faremo tutto il possibile per liberarvi», e Paulus ancora si illude di farcela; e una settimana prima della caduta ordina: «Radunare le ultime forze per resistere fino al cedimento dei russi».

Trecentomila uomini sono chiusi nella sacca: ma la fame e i proiettili li distruggono. Non si distribuisce quasi più il rancio, non ci sono bende per curare i feriti, si insegna a cucinare la carne dei pochi cavalli rimasti. Già il 22 novembre un marconigramma di Paulus informa l'Oberkommando: «Carburante quasi esaurito. Situazione munizioni precaria. Viveri solo per sei giorni».

Dagli altoparlanti arriva la voce di Ulbricht che esorta a deporre le armi, e viene diffuso un manifesto coi versi del poeta comunista Becher, uno dei rifugiati a Mosca: «Nel sogno il volantino gli parlò: non ti succederà nulla di male I Il pezzetto di carta lo prese per mano I Io conosco bene questo paese So dove andiamo».

Il 31 gennaio, la strada la imparano anche centomila soldati che hanno ubbidito agli ordini del Führer, e vanno verso la prigionia. Tra loro, quasi diecimila rumeni. Una fila senza fine di straccioni e di malati.

L'ultimo aereo ha decollato da Gurmak il 23: lo pilota il luogotenente Krause, ha undici feriti a bordo e il timone di profondità in avaria. Sul limite del campo, sono raccolti migliaia di disgraziati che vengono abbandonati al loro destino.

 

Nel cielo splendente di sole, i russi fanno sfilare una parata aerea, trentacinque bombardieri formano la stella sovietica. Hanno sbigottito con la loro caparbietà, con la loro «pazzia» il nemico; ora sentono che comincia la marcia verso Berlino «Perfino dopo morti», ricorda il colonnello Adam «restavano avvinghiati al volante dei carri armati distrutti».

1943-gennaio-prigionieri-tedeschi.JPGGli ultimi momenti del dramma dei soldati tedeschi a Stalingrado.

Dei 320.000 tedeschi di Stalingrado, 140.000 sono morti per ferite ricevute in combattimento, fame, freddo, malattie, 20.000 dispersi, 70.000 feriti evacuati prima e dopo la sacca. I superstiti 90.000 lasciano in mano ai russi 750 aerei, 1550 carri armati, 480 autoblindo, 8000 cannoni e mortai, 60.000 autocarri e 235 depositi di munizioni e partono per i campi di prigionia della Siberia.

 

Fra loro vi sono 2500 ufficiali, 23 generali ed un feldmaresciallo: torneranno in soli 5000, meno del 2 per cento. Alle 14.46 del 2 febbraio un aereo tedesco da ricognizione sorvola a grande altezza la città e trasmette questo messaggio «A Stalingrado, nessun segno di combattimento».


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Tre Italie nella bufera

7 Avril 2014 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Il confuso quadro politico del Paese nel quarto anno di guerra.

Non ha nome, né governo né Parlamento; non emette leggi, né batte moneta e non ha neppure una vera capitale. I suoi confini sono angusti, abbracciano soltanto quattro province (Bari, Brindisi, Lecce, Taranto) e due milioni di abitanti. Roosevelt l'ha definita King's Italy, l'Italia del re: eppure è proprio questo piccolo regno del Sud a rappresentare, nello sfacelo seguito all’armistizio dell'8 settembre 1943, la continuità del Paese, la nascita pur timida e incerta della nuova democrazia italiana.

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Piccolo regno, quello del Sud, con nessunissimo potere, sottoposto al rigido controllo di una commissione militare alleata - presieduta dall'inglese Mac Farlane e dall'americano Maxwell Talor - che nel complesso, nutre scarsa simpatia o totale indifferenza per l'Italia in genere e per Vittorio Emanuele III in particolare.

Piccolo regno quello del Sud, con una piccola reggia (la villetta dell'Ammiragliato a Brindisi) e una piccola Corte dalla quale, con la precipitosa fuga da Roma, sono scomparsi i Gran Maestri di Palazzo, i Segretari Generali, gli Scudieri Onorari, i Prefetti, le Dame di compagnia, i Cappellani.

Un regno con un governo di quattro ministri (Badoglio, Piccardi, De Courten, Sandalli) che ha vita stentata e che governa soltanto su miseria, fame, epidemie, distruzioni. Il Sud, già tradizionalmente povero, è stato ridotto al lumicino dai bombardamenti aerei e navali, dalle requisizioni tedesche e dall’invasione alleata; adesso l'ultimo colpo glielo dà l'inflazione che si scatena con l’introduziona delle «am-lire», quei lunghi fogli rettangolari azzurrini, simili in tutto ad assegni, che recano al centro stampato con gran numeri, il loro valore.

AM Lire

Al Nord un abile ministro di Salò, Pellegrini-Giampietro, è riuscito a far ritirare ai tedeschi il marco di occupazione e a ottenere un cambio quasi equo, date le circostanze, (un marco uguale a dieci lire); nel Meridione Badoglio invano scrive, supplica protesta e si rivolge personalmente a Churchill: la gente del Sud pagherà 100 lire per un dollaro, 400 per una sterlina. Così, di colpo, il potere d'acquisto dei soldi italiani si volatilizza (un soldato semplice americano guadagna 6.000 lire al mese pagate in dollari mentre il prefetto di Taranto ne riceve 2.500 in «am-lire») e le banche vengono prese d'assalto dai risparmiatori, i capitali spariscono, la miseria nelle campagne è totale e spinge a tumulti e rivolte.

Da oltre Atlantico arrivano i divertimenti e le novità: gli eserciti alleati hanno portato il boogie-woogie e dalle navi sbarca - insieme con le tavolette di chewing-gum e con un veicolo mai visto, la jeep - anche un farmaco quasi miracoloso, la penicillina.

Con la fame diventa irrefrenabile la delinquenza dilagante. La città più tormentata è Napoli, col suo milione di abitanti assiepati nei «bassi» privi d'acqua, di luce e di fognature, fra vicoli stracolmi di spazzatura gettata dalle finestre e infestati da legioni di topi.

La metropoli vive di mille mestieri per lo più illeciti tra cui fanno spicco la prostituzione, il furto e il contrabbando.

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La promiscuità, la sporcizia, la carenza d'acqua provocano epidemie a ripetizione: dall'ottobre 1943 al luglio 1944, a Napoli, ne scoppiano due ed entrambe di tifo con un bilancio di quasi ottocento morti.

Ma altre nubi s'addensano sulla piccola reggia di Vittorio Emanuele III. Un re che, caparbio, non vuole abdicare che non sente la necessità di un Parlamento e che impiega settimane a decidersi a dichiarare guerra alla Germania quando invece, nel 1940, aveva approvato quella fascista in un baleno.

Il governo Badoglio, privo dell'aiuto dei partiti che gli negano la collaborazione se il re non se ne va, ha difficoltà a mettere in piedi un piccolo esercito che affianchi gli alleati (i generali non gli mancherebbero: da Roma, all'8 settembre, ben 57 sono fuggiti al Sud) e la frustrazione aumenta con il «lungo armistizio» che Badoglio, a Malta, è costretto a firmare quasi col coltello alla gola.

Palmiro-Togliatti.jpgMa poi, con la primavera '44, qualcosa muta nel quadro politico. Il cambiamento comincia con l'arrivo da Mosca di un signore sui cinquant'anni, occhiali da miope, piccolo, tarchiato, con un incredibile maglione a scacchi e i calzoni che gli fanno le borse sui ginocchi: quest'uomo dall'aria di professore, conosciuto nella clandestinità con nome di Ercole Ercoli, è in realtà Palmiro Togliatti (e c'è la scena di Togliatti che appena sbarcato a Napoli dalla motonave Tuscania, va a bussare a tarda sera alla porta della federazione comunista in via San Potito dove, in quel momento, sono riuniti Maurizio Valenzi, Eugenio Velio Spano e altri dirigenti del PCI. Salvatore Cacciapuoti, che lo riceve, lo scambia per un compagno bisognoso e cerca di disfarsene: «Vieni domani, ora è tardi, qui è tutto chiuso»).

Togliatti rovescia clamorosamente la strategia comunista con la «svolta di Salerno»: l'obiettivo - dice - è la liberazione dell'Italia e per l'aggiungerlo occorrono la concordia e l'unità nazionale».

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Mentre il PCI entra nel governo Badoglio - e Stalin ne rafforza subito la posizione internazionale riconoscendolo ufficialmente e costringendo così Stati Uniti e Gran Bretagna a fare altrettanto – Enrico De Nicola vince abilmente le resistenze del re sull'abdicazione, il nostro Corpo di Liberazione (CIL) si batte bene a Montelungo e finalmente, la notte fra il 4 e il 5 giugno '44, gli alleati entrano a Roma.

La Repubblica Sociale Italiana

stemma RSISul fronte opposto, cioè, sul territorio della nuova repubblica fascista (due terzi dell'Italia ventotto milioni di abitanti) non vi è alcuna autorità riconosciuta tranne Mussolini. I tedeschi, a parole «fedeli camerati e alleati», nella pratica esercitano un assoluto e ferreo controllo su ogni aspetto della vita politica e amministrativa nominando perfino i prefetti (come a Torino) o istituendo nelle singole province, un funzionario superiore dell'amministrazione militare germanica quale controfigura del prefetto italiano (rapporto Hufnagel, 20 febbraio 1944). Il governo di Mussolini non ha potere anche perché privo di adesioni concrete e di uomini di rilievo. Gli iscritti al Partito Fascista Repubblicano sono pochissimi (circa 250.000) e non si sa bene da dove provengano, ideologicamente, che cosa cioè li abbia mossi, che cosa si attendano dal futuro.

Fra gli aderenti al Partito Fascista Repubblicano c'è un solo nome veramente noto nella cultura, il filosofo Giovanni Gentile, e uno altrettanto noto della casta militare, il maresciallo d'Italia Rodolfo Graziani. Sessantototto anni, nativo di Castelvetrano (Trapani), liberale di destra, ministro della Pubblica Istruzione nel primo governo Mussolini e poi senatore del regno, Gentile - il filosofo dell' «atto puro» e l'autore di una fondamentale riforma della scuola - ha dato il suo appoggio alla repubblica di Salò con un pubblico discorso a Roma: «La resurrezione di Mussolini ha detto «era necessaria come ogni evento che rientra nella logica della storia». In cambio, il duce lo nominerà presidente dell'Accademia d'Italia.

Graziani, invece, cerca nella Rsi la sua «revanche» sull'odiato Badoglio dal quale è stato diviso per anni da gelosia personale. Nato a Filettino di Frosinone, sessantunenne, e comandante di truppe coloniali in Libia e in Somalia ex viceré d'Etiopia ed ex capo di Stato Maggiore dell'esercito, il maresciallo Graziani accetta la carica di ministro delle Forze Armate.

Mancando Roma come capitale, alcuni ministeri sono sparsi lungo le sponde del lago di Garda fra Salò (Esteri e Cultura Popolare), Maderno (Interno e direzione del partito), Desenzano (Forze Armate) e Bogliaco (presidenza del Consiglio dei Ministri). Altri sono a Vicenza, Treviso, Padova, San Pellegrino, Brescia, Verona, Cremona, Venezia.

Poveri e miseri ministeri, messi su di fretta e in preda al disordine.

Villa-Feltrinelli-lago-di-Garda.JPGMussolini è invece alloggiato a villa Feltrinelli, a due chilometri da Gargnano: questo palazzetto ottocentesco, di media grandezza, con una facciata di marmo rosa e circondato da un piccolo parco in riva al lago, gli serve contemporaneamente da ufficio e da abitazione. I suoi «guardiani» non sono distanti: Rahn è a Fasano, Wolff a Gardone. La villa Feltrinelli è guardata a vista da un distaccamento della Leibstandarte «Adolf Hitler», reparto speciale di SS, che ha montato un cannone antiaereo sul tetto di un edificio vicino. Presta servizio di guardia anche la milizia fascista ma tutte le comunicazioni di Mussolini sono strettamente controllate dai tedeschi - e debitamente registrate su disco - e anche le sue telefonate personali debbono passare attraverso un centralino da campo germanico.

E ci sono anche i nuovi fascisti, arrivati alla RSI dall'estremismo inconsulto, giovani imbevuti della propaganda di un ventennio, teppisti di vecchia data reclutati fra il sottoproletariato o nelle galere che formeranno quanto prima il nerbo delle compagnie di ventura e di tortura (i Bardi, i Pollastrini, i Carità, i Koch, i Colombo, gli Spiotta. Oppure gente che ha vissuto ai margini del fascismo fino all'8 settembre e adesso è carica di rancori e di invidie. Personaggi violenti come gli uomini del federale di Como, Porta, che bastonava i passanti che non alzavano il braccio nel saluto romano al loro passaggio.

Questi sono i nuovi fascisti che faranno la storia di Salò; sono i militi in maglione nero accollato, berretto alla paracadutista, gladio al posto delle stellette e mitra in mano che a Savona, agli operai in sciopero al grido di «Pane, pane!», ritorcono con una torva minaccia: «Avrete del piombo, non del pane».

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Strage nella steppa

18 Février 2014 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

bedeschi.jpgGiulio Bedeschi, medico e scrittore, con Centomila gavette di ghiaccio, un piccolo classico della guerra, ha narrato le vicende degli alpini, dal Don al villaggio di Bol'setroikoje, dove i pochi superstiti si ritrovano. Si contano le perdite: 84.830 soldati, 3060 ufficiali.

Da un'intervista di Enzo Biagi a Giulio Bedeschi

 Che cosa scopriste quando, dopo aver attraversato la Germania, l'Europa orientale, arrivaste in Russia?

«Prima la steppa, poi le isbe, poi la popolazione. La steppa è sconcertante per la vastità, è paurosa. Gli alpini pensavano: "Di qua bisogna tornare indietro, a un certo punto".

«Le isbe, queste abitazioni così diverse dalle nostre, puzzolenti, le finestre sigillate, perché durante l'inverno non entrasse neanche uno spiffero d'aria. Una benedizione durante la ritirata La gente: noi potevamo anche essere prevenuti, ma hanno apprezzato durante l'estate il nostro comportamento umano, da soldati che non avevano l'aggressività dei tedeschi, e durante il ripiegamento si è letteralmente disfatta per noi poveracci, praticamente senza armi, togliendosi il pane e le patate di bocca per darceli».

campagna di Russia 12 campagna-di-Russia-13.jpg

Come vivevano i nostri soldati?

«D'estate senza problemi, c'era molto caldo e d'inverno nei rifugi sottoterra, con stufette che portavano la temperatura ai 25, ai 28, ai 30 gradi. Risalendo in superficie ci trovavamo anche ai 40 sotto zero. Lo sbalzo era qualcosa di opprimente, difficile da superare. I turni di guardia obbligavano a un avvicendamento di dieci minuti, di cinque minuti, se no ci si assiderava».

Che cosa mancava all' equipaggiamento dell' ARMIR?

«Prima di tutto le buone intenzioni di provvedervi con un corredo adeguato. Ci siamo trovati come in Albania, con una tenuta del tutto inadeguata. C'erano reparti che avevano ancora la divisa estiva, parlo della divisione "Vicenza". Noi alpini avevamo una attrezzatura che era già un po' migliore, nel senso che disponevamo anche di qualche cappotto a pelo, di qualche calzare, che ogni tanto arrivava in dotazione. Servivano più che altro per le sentinelle. I russi indossavano i loro giubbotti imbottiti, portavano quei famosi valenki, gli stivaloni di feltro e i tedeschi avevano provveduto a fornirsi di uniformi con l'ovatta, bianche in modo da non essere avvistati dagli aerei, e noi con i nostri cappottini, con i nostri pantaloncini e soprattutto con quelle scarpe chiodate infelici che portavano dritte al congelamento».

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Cosa voleva dire fare il medico laggiù?

«Affrontare un'esperienza diabolica, sconcertante. Io facevo parte di una batteria di artiglieria alpina e disponevo di uno zainetto di sanità che conteneva alcune garze e una pinza emostatica, dei cerotti, un disinfettante e poco più. C'era però la cosiddetta tabellina diagnostica, un foglietto cerato, in duplice copia, naturalmente, con la carta a ricalco, e sulla quale si doveva scrivere il nome e il cognome e la diagnosi e poi attaccarlo a un bottone del cappotto del soldato. E quando i tempi sono diventati duri, non più guerra di posizione sul Don, non c'era un mezzo di trasporto e non c'era l'ospedale da campo. Ma non ci si poteva fermare a medicare degli uomini, perché perdere il contatto col proprio gruppo, con la piccola unità che per elezione si era determinata, in quanto ognuno si fidava dell'altro, si finiva nella massa anonima, che ti respingeva. Dovevi tenere il passo con chi stava marciando, cercare di restare coi tuoi amici.

ritirata di Russia retrovieMentre arrancavo nella bufera, cercando anch’io di sopravvivere, mi sono trovato accanto un alpino che mi diceva: "Signor tenente, el me brasso el me lo cava". Un colpo di granata lo aveva colpito poco prima, e coi trenta gradi sotto zero si forma un coagulo e non c'è lo svenamento immediato. Ho preso il mio coltello, che mi era servito un po' per tutto, per aprire le scatolette, e ho tagliato quegli ultimi laccetti di pelle e di muscolo e io mi ricordo, e lo devo ricordare per tutta la vita, lo sguardo di questo ragazzo che aveva vent'anni e restava col braccio in mano e mi guardava e poi diceva: "E adesso che cosa ne faccio? Ciao" E lo buttava nella neve: "L'importante xe che torni a casa mia". Tre volte mi è successo questo fatto».

Di che cosa sentivate di più la mancanza?

Di qualcosa da mangiare e dell'acqua. All'inizio del ripiegamento, sul Don, ci avevano distribuito una scatoletta, due gallette, dicendoci: "Fatene buon conto, il resto lo avrete quando vi riunirete all'Armata". Per quindici giorni abbiamo vissuto di semi di girasole, trovati nelle capanne, nelle fessure dei cassetti, dei tavoli; la grande risorsa erano i letamai, perché i soldati, da contadini, andavano a frugare nel concime e tiravano fuori una rapa, una barbabietola marcia, buttate via chi sa quanto tempo prima: la salvezza».

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Quando vi siete accorti che vi avevano mandati all'avventura?

«Alcuni subito, perché erano già psicologicamente sulla difensiva, altri invece pensavano che stessimo avanzando, c'era l'inverno di mezzo, ma poi con la primavera saremmo andati a Mosca. Ma a un certo punto abbiamo avuto la sensazione concreta che qualcosa stava maturando. Dall'altra sponda del Don arrivavano rumori sempre crescenti, di ferraglie in movimento: si stava preparando qualcosa, ma da fonte ufficiale smentivano: tutto è sotto controllo. Invece l'11 dicembre del '42 Ravenna e Cosseria si sono viste attaccate dalla I e dalla VI Armata russa. Due armate contro due divisioni, settecento carri armati contro nessuno. Quattromila bocche da fuoco contro quelle poche che avevamo».

Coi prigionieri russi, come vi comportavate?

All'italiana, diventavano nostri amici. Avevamo l'ordine di consegnarli ai tedeschi: ma noi sapevamo che erano crudeli, e d'altra parte ci faceva piacere e comodo avere persone che ci aiutassero a sbrigare i nostri compiti quotidiani. Dovevamo scavare rifugi, trasportare piante, rami, materiali, e preferivamo tenerli in forza, senza però avere le razioni militari per loro, ma i soldati dividevano, alla solita maniera, il loro rancio. Facevano la fila con noi, e come noi mangiavano. Verso le 4, le 5, quando veniva buio, andavano a dormire nel loro ricovero, e rispuntavano la mattina dopo sereni e pacifici. Avrebbero potuto tranquillamente fuggire, ma nessuno lo ha mai fatto».

E coi tedeschi come andava? C'era cameratismo?

Non si può generalizzare. Arrivati sul Don abbiamo dato il cambio a una batteria della Wehrmacht, e siamo stati accolti come fratelli, andavano a riposo, ci hanno invitati a cena, avevano preparato anatre arrosto, poi ci hanno fatto la sorpresa di farci ascoltare Radio Roma, il notiziario».

Sono vere le storie dei nazisti che cacciavano i nostri dai camion battendo coi moschetti sulle mani aggrappate?

«Sì, sono vere anche queste cose. So che Adenauer li ha definiti "pecore carnivore". Va detto però che certe volte avevano delle attenuanti; le slitte erano cariche dei loro feriti e congelati, e procedevano marciando per ore, e a un dato momento il comandante della piccola colonna, un maresciallo, diceva: "Giù tutti, perché i cavalli debbono camminare per un'ora scossi": che vuol dire senza peso. E anche i malati andavano avanti come potevano, e la slitta procedeva vuota».

Come combattevano i sovietici?

«Ai limiti del fanatismo. Pareva che per loro la vita non avesse significato».

Quando cominciò la tragedia?

«Con l'attacco alla Cosseria e alla Ravenna, dalla sera alla mattina, all'improvviso, prendendo di sorpresa i comandi. Non avevamo alle spalle nessuna riserva che potesse venirci in aiuto; hanno costituito un cosiddetto reparto di pronto intervento, formato da qualche compagnia della Julia, la mia divisione, e da due batterie di artiglieria, e una era la mia, così mi sono trovato nel settore di Novaja Kalitva, dove i russi premevano, e dopo cinque giorni di resistenza, privi di munizioni, di rifornimenti, di viveri, abbiamo dovuto cedere. Avevamo già alle spalle, a cinquanta chilometri, i carri armati sovietici. Siamo stati portati nella terra di nessuno e abbandonati a noi stessi.

Ci hanno schierati nella neve, alla distanza di sette, otto metri l'uno dall'altro, protetti solo da muriccioli di ghiaccio, con trenta o quaranta gradi sotto zero. Scendeva la notte, ma guai se ti addormentavi: significava assideramento nel sonno. Si formavano gruppi di quattro, cinque compagni, si faceva cerchio e ci si accucciava, e ognuno faceva la guardia per cinque minuti, poi toccava a un altro, e così via, e questo voleva dire, in un'ora, un terzo di riposo».

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Come si spiegano quelle migliaia di morti, i dispersi di cui non si è saputo più nulla?

Questo è un dramma nato dalle cose, perché pensare di fare quattrocentocinquanta chilometri di ritirata, nelle condizioni che le ho descritte, senza cibo, senza acqua e con quel gelo, senza possibilità di dormire, perché quando si aveva la fortuna di buttarsi nelle isbe, si sapeva anche con certezza che nel giro di un'ora, due ore i partigiani che di lontano seguivano sempre la nostra colonna, sarebbero arrivati con gli sci silenziosi, un calcio alla porta e il mitra, una innaffiata di proiettili sul pavimento sul quale si erano ammucchiate le caterve di uomini al buio, e uccidevano e chi si salvava riprendeva il cammino. In queste condizioni di stanchezza e poi combattimenti quotidiani che ci falcidiavano, tutto questo faceva sì che un numero sempre crescente di soldati non ce la faceva più e si afflosciava sul terreno. Si potevano fare cento, duecento, trecento metri, reggendo il peso di un corpo sulle spalle, poi si cadeva».

Quando vi siete sentiti salvi?

«Quando il generale Nasci, comandante del corpo di Armata alpina, ci ha detto: "Ragazzi, siamo fuori dalla sacca, ma dobbiamo camminare anche più svelti, perché i russi possono avanzare". E così siamo andati avanti per un mese, per altri milleduecento chilometri».

Il poeta Svetlov dedica una lirica agli infelici combattenti:

O giovane nato a Napoli!

Che cosa cercavi sui campi della Russia? Perché non sei rimasto là, felice

 

Nel celebre tuo golfo natio?

 

Bibliografia

Enzo Biagi - la Seconda guerra mondiale – Parlano i protagonisti - Corriere della Sera 1990

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L’assedio di Leningrado

11 Février 2014 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Tre settimane dopo l'inizio dell'invasione dell’U.R.S.S. (l'Operazione Barbarossa, iniziata il 21 giugno 1941), le forze tedesche sono sul punto di conquistare una delle città più ricche e popolose dell'impero di Stalin, ma si trovano di fronte a un'improvvisa, disperata resistenza destinata a durare, in condizioni terribili, oltre ogni limite immaginabile. Lo resterà per due anni e o, i famosi «novecento giorni».

Leningrado era una metropoli con il suo centro lussuoso e le sue vetrine, quartieri periferici tutti eguali, monotoni e tristi, istituti scientifici, musei e fabbriche, spaziosi boulevards ma anche vicoli, con mille e mille problemi. Ma era circondata come da un muro, da un nemico implacabile che non permetteva l'afflusso né di viveri né di rifornimenti di alcun genere, tranne quel poco che si poté in qualche modo apportare mediante la «via d'emergenza» apprestata in fretta e furia, e sempre sotto il fuoco nemico, gettando dei binari sopra un lago ghiacciato.

 

Concerto sotto le bombe

Dmitrij SostakovichNel solo mese di Settembre l'orgogliosa città costruita da Pietro e dai suoi architetti italiani «gettando marmo sulla palude» subì bombardamenti a tappeto della Luftwaffe: 23 grandi incursioni aeree nelle quali 675 aerei tedeschi hanno sganciato 987 bombe dirompenti e 15.100 incendiarie. In uno di questi bombardamenti del settembre è stato gravemente danneggiato e incendiato l'appartamento al quinto piano di uno stabile in cui il grande compositore Dmitrij Sostakovich stava provando alcuni brani della sua Settima sinfonia: la leggenda dice che continuò a suonare come niente fosse.

La sua settima sinfonia venne eseguita per lo prima volta il 9 agosto 1942, mentre infuriavano gli attacchi tedeschi su Leningrado.

 

Da un’intervista di Enzo Biagi al musicista KSENIJA MATUSKH.

Lei ricorda la prima esecuzione della Settima sinfonia detta anche "Sinfonia di Leningrado"?

«Quando scoppiò la guerra, studiavo al Conservatorio. Nei primi mesi andavo in trincea come soldato volontario nella contraerea e ho assistito al primo bombardamento e al grande incendio dei depositi alimentari. Quella notte udii la radio che invitava tutti gli studenti residenti in città a registrarsi. Ci andai e mi fu offerto di entrare nell'orchestra sinfonica insieme ad altri musicisti. Oltre alle prove d'orchestra lavorammo, come tutti i leningradesi, a pulire le strade perché si temevano epidemie e a far funzionare i trasporti che in quel terribile inverno erano fermi».

E poi?

«Nella gelida sala del teatro Puschkin tenemmo il nostro primo concerto pubblico: suonammo indossando i cappotti e tenendo i cappelli in testa. Nel settembre '41 Sostakovich disse alla radio che stava componendo una sinfonia. A ottobre lasciò la città per terminare la sua opera e gli spartiti furono portati a Leningrado con un volo speciale».

Quando suonaste la Settima?

Il presidente della radio e il nostro direttore d'orchestra, Eliasberv, ottennero che il comando militare richiamasse dal fronte, direttamente dalle unità in battaglia quei musicisti che mancavano. Tutti furono muniti di un lasciapassare che diceva: il tal dei tali è inviato a Leningrado per l'esecuzione della Settima sinfonia di Sostakovich. Infine in città apparvero i manifesti che annunciavano che il 9 agosto 1942, nella grande sala della Filarmonica, si sarebbe tenuta l'esecuzione della Settima sinfonia».

Fu un grande spettacolo?

«Assolutamente. Eravamo felici ed entusiasti. Gli uomini si erano fatta la barba e avevano indossato i migliori vestiti, con gli indumenti invernali sotto per scaldarsi e per nascondere come erano diventati magri. Vedemmo che nella sala entrava il pubblico come in tempo di pace ma molti erano venuti direttamente dal fronte e impugnavano ancora le armi. Il direttore Eliasberv fece alzare in piedi l'orchestra e il pubblico ci salutò. Poi cominciammo».

Accadde qualcosa di particolare?

«Sì, questo. A Leningrado se suonava l'allarme nel corso di un concerto o di una recita teatrale, si interrompeva lo spettacolo e il pubblico correva nei rifugi. Quella volta, invece, sentimmo le cannonate per tutta la sinfonia, ma nessuno si mosse. Eravamo stupiti: come mai non si interrompeva l'esecuzione? Solo venti anni dopo abbiamo saputo che erano le nostre batterie a sparare contro i tedeschi per prevenire un loro eventuale attacco. Quando finì la musica vi fu una pausa di silenzio assoluto, poi scoppiarono applausi fragorosi. Molti piangevano. Una bambina si avvicinò al palcoscenico portando un mazzo di fiori e fu una cosa straordinaria: non esistevano più fiori in città; nei giardini la gente coltivava cavoli, ortica, insalata, pomodori. Per me fu una festa. Sapevamo che la radio trasmetteva la sinfonia in tutto il Paese. Sapevamo che all'estero ci stavano ascoltando. Sapevamo che attraverso i nostri altoparlanti anche i nazisti nelle loro trincee ci sentivano».

Che senso aveva allora la vita?

«Penso che la vita abbia sempre un grande senso, ma a quell'epoca ne aveva uno particolare per coloro che lottavano contro i nazisti: quel 9 agosto '42 Hitler offri un grandioso pranzo, a Berlino, all'hotel Astoria per festeggiare la sua presunta occupazione della nostra città e noi, nella Filarmonica di Leningrado, suonammo la Settima di Sostakovich».

 

L'Ermitage nella bufera

1941 Museo Ermitage bombardatoDa un’intervista di Enzo Biagi con BORIS PIOTROYSKIJ, direttore dell'Ermitage

Signor Boris Piotrovskij. che cosa accadde allo scoppio della guerra, al Museo Ermitage di Leningrado?

«Il blitz tedesco non ci colse di sorpresa. Già il 22 giugno '41 cominciarono i lavori per portare via le collezioni. I quadri furono imballati e sistemati in casse speciali che avevamo preparato apposta da tempo. Il 1° luglio partì un treno diretto a Sverdlovsk: oltre ai vagoni merci e passeggeri c'erano anche carri scoperti, sui quali erano stati sistemati cannoni antiaerei per difendere il treno contro un eventuale attacco dell'aviazione nazista. A questo enorme lavoro per salvare i valori dell'Ermitage parteciparono soldati, marinai, attori, pittori oltre, naturalmente, tutti i dipendenti del Museo. Solo la loro attività ben organizzata permise di completare in breve tempo tutti i lavori necessari».

E poi vi furono altri convogli?

«Certamente. Un secondo treno seguì il primo ma il terzo non fece in tempo: la situazione militare era diventata troppo pericolosa, la ferrovia non era più sicura».

Durante l'assedio che cosa accadde?

1941-Museo-Ermitage.JPG«L'attività dell'Ermitage fu diretta sia a difendere i valori culturali del Museo rimasti, sia a salvare la vita di quei numerosi leningradesi che trovavano rifugio nelle vecchie cantine del Palazzo d'Inverno così ben costruite dal suo connazionale Rastrelli. I ricoveri antiaerei dell'Ermitage potevano ospitare contemporaneamente circa 2.000 persone. Di questo fatto esiste una bella testimonianza dell'architetto Nikkolskie, progettista dello stadio di Leningrado, che lasciò un diario e un album di disegni sulla vita della città assediata e, in particolare, sull'Ermitage».

Ma il Museo viveva?

«Oh, sì! L'Ermitage continuava a svolgere l'attività scientifica e a organizzare le sue famose conferenze: per esempio, il 19 ottobre '41 celebrò l'anniversario della nascita del poeta Nisami e a dicembre dello stesso anno, in un periodo particolarmente grave, quando persino i tram smisero di funzionare, promosse una sessione scientifica dedicata al cinquecentesimo anniversario del poeta Navoi».

 

Morte per fame

Da un’intervista di Enzo Biagi con IVAN ANDREENKO.

Ivan Andreenko, che fu vice presidente del Comune di Leningrado durante il lungo e feroce assedio nazista, racconta come la città visse quei 900 giorni, di quando i combattenti venivano portati al fronte con i tram e la gente doveva tentare di sopravvivere con una razione giornaliera di 125 grammi di pane.

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Signor Andreenko, di quei lunghi, tremendi giorni dell'assedio di Leningrado lei ricorda un episodio di cui furono protagonisti i ragazzi?

«Sì, uno. In tutta la città la fame era acutissima, i casi di morte per edemi da denutrizione erano più che frequenti. Una mattina, nella panetteria del quartiere Nevvskij, entrò un uomo piuttosto alto con un'aspetto insolito per gli assediati. Si avvicinò agli scaffali del pane e cominciò a rovesciarli per terra gridando! Prendeteli! Prendeteli! Nessuno dei bambini presenti toccò i pani. La gente rimase immobile. Lui diede un pugno alla commessa e si diresse verso l'uscita. Ma fu fermato dagli stessi scolari».

C' era ancora la scuola?

«Sì. Le scuole funzionavano. In quel periodo avevamo più di duecentomila alunni. Dopo un ritardo iniziale l'anno scolastico incominciò regolarmente ma nel '41 e poi nel '42 le lezioni si svolsero nei rifugi perché nelle scuole era troppo pericoloso a causa dei continui attacchi aerei e di artiglieria».

Rammenta episodi di cui furono protagonisti i ragazzi di Leningrado?

«Una sera un proiettile di artiglieria colpì un camion carico di pane: l'autista fu ucciso, l'autocarro distrutto. In pochi minuti sul luogo si riunirono parecchi ragazzi della zona. Uno di loro corse a telefonare al Centro Rifornimenti e quando arrivò un altro camion i bambini raccolsero e consegnarono tutte le provviste. Nel giugno '42 una bomba incendiò un negozio di alimentari. Accorsero quattro ragazze coraggiose e cominciarono a tirar fuori casse incuranti del rischio».

Fin quando Leningrado fu affamata?

1942-donne-assedio-Leningrado.JPG«Dalla seconda metà del novembre '41 fino a tutto il gennaio '42 le riserve di grano erano quasi esaurite e la città era costretta a vivere solo con quello che vi poteva venir trasportato. Purtroppo la ferrovia era bloccata e, prima che entrasse in funzione la strada sul Ladoga ghiacciato passammo tremende settimane. Bisogna dire però che la linea del Ladoga riuscì a portarci più di 25mila tonnellate di viveri e l'aviazione ne fornì oltre cinquemila tonnellate. Era un notevole aiuto; ma in seguito si dovettero ridurre drasticamente le razioni. Per esempio: quella del pane l'abbiamo ridotta cinque volte. La più bassa si ebbe dal 20 novembre al 24 dicembre '41 quando operai e tecnici ebbero, ogni giorno 250 grammi di pane a testa mentre le altre categorie impiegati, donne, pensionati, bimbi, non più di 125 grammi. Per capire quanto erano misere le razioni in generale, le dico che una razione forniva 1087 calorie contro le 3000 indispensabili per sopravvivere. Il periodo peggiore fu nei mesi di novembre e dicembre '41 e gennaio febbraio '42: i morti per fame durante l'assedio furono 632.000».

 

Bibliografia:

     Enzo Biagi - la Seconda guerra mondiale – Parlano i protagonisti - Corriere della Sera 1990

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Aktion T4

6 Janvier 2014 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

nella foto: l'edificio di 4 Tiergartenstrasse (Via del Giardino zoologico n°4) di Berlino, sede di Aktion T4.

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Settantacinque anni fa il nazismo impose la logica della disumanizzazione, di un corpo-stato, governato da un capo, che espelle le parti malate di sé.

La scienza diede il proprio avallo, la Chiesa tacque, molti girarono lo sguardo altrove. Poi, fu troppo tardi.

Cominciarono a morire prima dei campi di concentramento, prima degli zingari, prima degli ebrei, prima degli omosessuali e degli antinazisti e continuarono a morire dopo, dopo la liberazione, dopo che il resto era finito.

 

Già prima dell’arrivo al potere di Hitler, autorevoli medici si erano pronunciati a favore dell’eliminazione dei malati mentali e più in generale dei pazienti affetti da malattie giudicate incurabili. Hitler stesso aveva affermato in modo esplicito la necessità di «purificare la razza germanica». Temendo le reazioni degli ambienti religiosi, il Führer non attuò subito il suo progetto.

Nel 1935, la promulgazione della legge sulla sterilizzazione dei malati mentali rese evidenti e fondate le loro preoccupazioni e provocò le proteste della Chiesa.

Occorreva attendere un contesto più favorevole: ciò avverrà durante la guerra. È significativo che il decreto, che ordinava di «accordare l’autorizzazione per dare la morte a malati, che, entro dati limiti di giudizio e dopo un approfondito esame medico, saranno dichiarati incurabili», sia datato 1° settembre 1939. Inoltre, basandosi su un rapporto di un teologo, Josef Meyer, che valutò la posizione delle autorità religiose sulla questione dell’eutanasia e le cui conclusioni erano assai vaghe, Hitler ritenne che poteva correre il rischio di attuare il suo piano.

Questo decreto, promulgato nel più grande segreto dalla Cancelleria e mai reso pubblico, non fu conosciuto che da una ristretta cerchia di persone; diversi ministri ne ignorarono l’esistenza per lungo tempo. Il capo della Cancelleria, Philip Bouhler e il medico personale di Hitler, Kurt Brandt, furono incaricati personalmente della sua applicazione. Per questo essi crearono diversi organismi dai nomi anodini che erano incaricati dell’operazione. Il principale si trovava a Berlino, al numero 4 di Tiergartenstrasse, da cui il nome in codice «T4» dato all’operazione. La centrale T4 si servì di un comitato di esperti costituito da circa 25 psichiatri, tra cui sette professori titolari di cattedre universitarie.

Tutti gli ospedali psichiatrici del paese dovettero presto riempire un questionario destinato a censire il numero degli ammalati presenti e a valutare la natura delle loro malattie. Qualche settimana dopo, la direzione dell’ospedale riceveva una lettera del ministero degli Interni che ordinava il trasferimento di alcuni malati per motivi militari. Una società di trasporto di malati, la GEKRAT, appositamente creata per l’operazione e costituita unicamente da SS, veniva a prendere in consegna gli ammalati per portarli negli “istituti di eutanasia”.

Dopo diverse prove, alla fine del 1939, il procedimento di asfissia con l’ossido di carbonio fu ritenuto il più efficace e, nel corso dell’anno seguente, entrarono in funzione cinque centri: i cadaveri venivano inceneriti nei forni crematori. Le famiglie venivano poi informate del decesso dei loro familiari con una lettera del ministero degli Interni che precisava che, su loro richiesta, potevano ricevere le ceneri del defunto. Poi veniva consegnato loro un certificato; il caso era chiuso: la morte del malato era legalizzata.

Nel corso dell’autunno 1939, quando i direttori degli ospedali psichiatrici compilano i questionari, non si allarmano più del normale. Li riempirono e gli automezzi della GEKRAT vennero a cercare i primi malati. Ma nel corso della primavera del 1940 quando le lettere dei decessi arrivarono ai familiari, molti capirono cosa era successo.

Coloro che si mostrarono più ostili furono generalmente coloro che dirigevano gli ospedali privati (circa il 35% degli psichiatri tedeschi), gestiti dalla Missione interna delle Chiese evangeliche. Tuttavia non sapevano come reagire. Alcuni tentarono, ad esempio, di negoziare la riduzione del 10% degli effettivi malati richiesti, ma alla visita seguente della GEKRAT, coloro che erano stati risparmiati finivano nuovamente sulla lista. Nello stesso tempo i medici, isolati, non sapevano a quale tattica ricorrere. Alcuni si rifiutarono di rispondere ai questionari, ma la centrale T4 si affrettava ad inviare una commissione di esperti per farli riempire al loro posto. Occorreva una forza considerevole per salvare qualche malato, inventando vari pretesti. Uno dei mezzi più efficaci fu semplicemente quello di invitare i parenti a ritirare i loro familiari, ma ben presto un decreto ministeriale proibì ai dirigenti degli ospedali di procedere in questo modo. Ci furono delle eccezioni. In particolare, il pastore Fritz von Bodelschwingh, direttore del grande centro per epilettici di Bethel, in Westfalia riuscì ad opporsi all’accanimento: avendo stabilito un contatto personale con il medico personale di Hitler, Kurt Brandt, salvò gli ottomila malati del suo ospedale.

Ma coloro che avevano ideato l’operazione avevano sottostimato la reazione delle famiglie. Genitori che non capendo il motivo del decesso del loro figlio, iniziavano delle azioni per scoprirne le cause, ben presto scoprivano l’orribile verità. Inoltre il servizio T4 commise degli errori grossolani: certificati di decesso indicavano, ad esempio, come causa della morte una crisi di appendicite per un malato che non era stato operato; alcune famiglie ricevettero due urne anziché una; altre un certificato di decesso quando il loro familiare era ancora in vita.

Nei necrologi della stampa locale, l’incremento dei decessi di malati negli ospedali della regione finì per insospettire; subito il T4 fece proibire la pubblicazione dei necrologi sulla stampa. Alla lunga l’andirivieni degli autocarri della GEKRAT non potevano più passare inosservati nei centri dove si recavano. Arrivavano sempre pieni e ripartivano vuoti. I fumi che uscivano dopo i loro passaggi non lasciavano più dubbi sulla loro venuta.

Progressivamente una sensazione di paura si impadronì della popolazione tedesca. La gente era spaventata dalla potenza di uno Stato che poteva così impunemente uccidere degli innocenti. Degli anziani incominciarono a pensare che dopo i malati mentali sarebbe arrivato il loro turno. A posteriori, non si può dire che il popolo tedesco non potesse reagire a una tale aggressione. Pertanto, questa forte emozione dell’opinione pubblica, già intensa in alcune regioni nel corso dell’estate del 1940, a fatica trovò dei portaparola istituzionali, capaci di fare pressione sulle pubbliche autorità.

Il programma di eutanasia provocò dei sommovimenti negli ambienti giudiziari. Hitler aveva chiesto lo studio di un disegno di legge sulla questione, ma in ultima analisi, l’idea era stata respinta.

Aktion T4 si sviluppò quindi al di fuori di tutto il quadro giuridico, cioè nella più totale illegalità. Inoltre diversi procuratori di provincia furono investiti delle querele dei familiari degli scomparsi. Essendo all’oscuro di tutto, non erano in grado di dare delle risposte a queste richieste. Con l’aumentare del numero delle querele, Bouhler e Brandt decisero di convocare i presidenti e i procuratori dei tribunali. Nel corso di questa conferenza, il 21 e 22 aprile 1941, esposero le ragioni e lo svolgimento del programma, senza incontrare una maggiore opposizione tra i magistrati.

I rapporti trasmessi dai responsabili locali del partito nazista segnalavano ugualmente l’inquietudine crescente della popolazione. Anche gli ambienti militari si sentivano coinvolti, in quanto gli invalidi di guerra, trattandosi di persone handicappate o incurabili, rientravano tra i malati da eliminare. Nacquero dei dissensi anche tra lo Stato maggiore del Reich quando ne vennero al corrente. Himmler, in particolare, non fu mai troppo convinto di questa politica. Quanto a Goebbels temeva le reazioni degli ambienti cattolici. Egli riteneva che per vincere la guerra occorresse non prendersela con le Chiese. Per Goebbels, infatti, le Chiese contribuivano a mantenere un buon morale nella popolazione, fattore fondamentale per vincere le guerre. Una volta vinta la guerra, sarebbe venuto il tempo  per regolare i conti con la «pretaglia». Goebbels aveva ragione. Le gerarchie ecclesiastiche, benché presto informate di quello che succedeva nei centri psichiatrici, non furono tra le prime a reagire. I movimenti di protesta si levarono dalla base delle Chiese. Alcuni pastori della Missione interna delle Chiese evangeliche fecero diversi passi presso le autorità. Il pastore Paul Gerhard Braune fece anche numerosi tentativi presso alti funzionari, anche dei ministeri, che gli confessavano però la loro impotenza. Decise allora di redigere un memorandum, facendo riferimento a delle prove incontestabili da lui raccolte e da diversi suoi colleghi. Questo testo, inviato alla Cancelleria il 9 giugno 1940, sottolineava le preoccupazioni dei militari e si incentrava sul problema della definizione della nozione di incurabilità: «Chi è anormale, asociale, malato senza speranza di guarire? Che cosa se ne farà dei soldati che combattendo per la patria avranno riportato dei mali incurabili? Negli ambienti militari già se ne parla». Senza accordarsi, Theophil Wurm, vescovo protestante di Wurtemberg, invia anche lui, il 5 luglio 1940, una lettera circonstanziata al ministro degli Interni; scrive anche al ministro di Giustizia. Utilizzando abilmente la fraseologia nazista e riferendosi alle dichiarazioni del Führer per una «fede cristiana positiva», il primo di questi testi circola all’insaputa del suo autore negli ambienti del partito e dell’esercito producendo un grande impatto.

Nell’autunno 1940, alcuni pastori tentano allora di suscitare una presa di posizione comune delle Chiese protestanti. Ma il pastore Ernst Wilm, che fu la colonna portante di questo progetto, dovette constatare che anche all’interno della Chiesa protestante si era divisi sulla tattica da seguire. Altri pastori prendono altre iniziative senza raggiungere alcun risultato, tranne che l’arresto e in alcuni casi la deportazione dei loro autori.

La Germania stava allora riportando dei trionfi militari. In effetti, tra il mese di aprile e il mese di giugno del 1940, le considerevoli conquiste territoriali facevano passare in secondo piano i problemi interni del paese. Nell’insieme, l’alto clero applaudì alla successione impressionante di queste vittorie e, contemporaneamente Aktion T4 continuava la sua azione infernale.

Accadde allora che alcuni prelati cattolici si decisero a prendere la parola e a protestare pubblicamente contro questa impresa di morte a cui occorreva porre fine. Nel corso dell’estate 1940, un numero crescente di sacerdoti e di religiose fecero pressione sui loro vescovi affinché reagissero apertamente. In un primo tempo i vescovi cattolici preferirono adottare gli stessi procedimenti confidenziali dei loro colleghi protestanti.

Il 1° agosto 1940, l’arcivescovo di Friburgo, Konrad Grober, autore di un’opera contro l’eutanasia pubblicata nel 1937, inviò una lettera di protesta al ministro degli Interni. Il 15 dicembre 1940, in risposta ad una lettera del vescovo di Berlino, von Preysing, deciso ad agire pubblicamente e con forza, il papa Pio XII condannò fermamente l’eutanasia e invitò i vescovi tedeschi a reagire. Ma costoro tuttavia esitavano a fare delle dichiarazioni esplicite anche per l’opposizione del presidente della Conferenza episcopale, l’arcivescovo e cardinale di Breslan, Adolf Bertram. L’11 agosto 1940, costui aveva indirizzato una lettera confidenziale alla Cancelleria per ricordare la condanna dell’eutanasia da parte della Chiesa cattolica. Ma si rifiutò di avere un confronto diretto con il regime, preoccupato di preservare i beni della Chiesa, di cui si doveva prender cura. Contemporaneamente l’uccisione dei malati «incurabili» era divenuta di pubblica notorietà.

Confortato dalla lettera di sostegno del papa, il vescovo di Berlino, von Preysing, si decise a prendere la parola. In un discorso del 9 maggio 1941, criticò apertamente le «morti per eutanasia». Il 12 luglio 1941, dopo lunghe tergiversazioni, la Conferenza episcopale inviò al governo un testo in cui si pronunciava apertamente contro l’eutanasia in termini molto generali.  Gli attacchi più forti vennero finalmente dalla Westfalia con il sermone del vescovo di Münster, Clement August von Galen. Costui non era fondamentalmente ostile al regime. Grande aristocratico, patriota convinto ed ex combattente, riteneva che l’ideologia nazista avesse degli eccessi che occorreva combattere. Con dei termini a volte molto bruschi, il 13 luglio 1941, condannò le brutalità della Gestapo. Il 20 chiamò i cristiani alla fermezza di fronte alle pratiche del regime. Poi, il 3 agosto, nel suo discorso diventato il più celebre, denunciò con forza l’assassinio dei malati mentali. Ricordò di aver fatto causa davanti ai tribunali contro i crimini commessi nella sua diocesi, facendo riferimento all’articolo 139 del codice penale che stabiliva che «colui che è a conoscenza reale di un progetto di un assassinio e omette di farne denuncia, sia alle autorità, sia alla persona minacciata, nei tempi dovuti, sarà punito». Poiché questa denuncia non ebbe alcun seguito giudiziario, egli chiamò i cristiani alla resistenza. «Con coloro che vogliono continuare a provocare la giustizia divina, che rubano e cacciano i nostri religiosi e con coloro che uccidono degli uomini innocenti, fratelli e sorelle, noi dobbiamo evitare ogni contatto. Noi vogliamo sottrarci alla loro influenza al fine di non essere contaminati dai loro pensieri e dalle loro empie azioni ... ».

Tre preti di campagna furono uccisi per aver ripreso nelle loro parrocchie il discorso di von Galen.

In seguito altri vescovi denunceranno l’eutanasia, ma furono i sermoni del «Leone di Münster» che ebbero un maggior impatto sull’opinione pubblica e sul potere. Essi furono riprodotti e diffusi in tutti i paesi e in Europa. Anche uno degli eroi dell’aviazione tedesca, Werner Molders, fervente cattolico, che Hitler aveva decorato con la “Croce di ferro”, protestò contro l’eutanasia.

Ormai le operazioni T4 non erano più segrete. Anche il capo delle SS, Himmler, era favorevole alla sua interruzione anche perché gli ambienti militari esprimevano severe critiche. Il maresciallo Keithel intervenne mettendo in evidenza che tra i malati si trovavano dei soldati della guerra del 1914-1918.  Anche il partito nazista era diviso se arrestare o no von Galen. Mentre Bormann si pronuncia per l’eliminazione fisica del vescovo, Goebbels scrive sul suo giornale che qualunque cosa capiti al vescovo di Münster può provocare la perdita del consenso alla guerra di tutta la popolazione della Westfalia.

Da due mesi ormai la Germania aveva ingaggiato una formidabile battaglia contro l’Unione Sovietica e tutte le forze della nazione erano mobilitate. Hitler riteneva che non si poteva correre il rischio della divisione all’interno del paese.

Il 24 agosto 1941, una «fuga di notizie» dalla Cancelleria lasciò intendere che Aktion T4 contro i malati era stata fermata e che si attribuiva al Führer la responsabilità di questa interruzione. Sembra che Hitler interpretò questa decisione come una sconfitta personale. Nel suo animo nutriva un sentimento di rivincita: riprenderà il dossier una volta che la guerra sarà vinta per regolare i conti con le Chiese, che odiava ferocemente. Sapeva che, per il momento, il regime aveva bisogno del loro appoggio.

In meno di due anni Aktion T4 aveva fatto tra 70.000 e 100.000 vittime tra cui 5.000 bambini. Tuttavia il programma non fu completamente fermato: entrarono in funzione i campi di sterminio in Polonia, dove il personale del T4 venne trasferito.

Il personale T4 non viene disperso, l'esperienza accumulata è considerata preziosa, saranno trasferiti oltreconfine, a oriente, saranno tra i protagonisti di quella che gli artefici chiamano soluzione finale e le vittime olocausto. Senza l'esperienza dei centri di uccisione forse non sarebbero riusciti a immaginare dei campi di sterminio.

È tuttavia vero che, per la prima volta dal suo arrivo al potere, Hitler subiva uno scacco dal suo popolo che riteneva aver sottomesso.

Il 1° settembre 1941, nello stesso momento in cui cessavano le esecuzioni dei malati mentali, gli ebrei erano costretti a portare la stella gialla. Le prime esecuzioni di massa degli ebrei iniziavano in Polonia e in URSS.

Dal 1933, in generale, né le Chiese né la pubblica opinione avevano manifestato la loro opposizione alla persecuzione degli ebrei ad eccezione di qualche caso come quello del pastore Dietrich Bonhoeffer. É un fatto che la società tedesca ha tollerato l’aggressione degli ebrei ma non quelle dei malati mentali.

Ufficialmente T4 cessa. E abbiamo anche il bilancio, perché a Hartheim,

HartheimCastle.jpg

in uno dei centri di uccisione (nella foto), dove quasi tutto è stato bruciato ma qualcosa nella fretta è sfuggito, trovano questa lista della spesa, la trovano in un armadio.

È calcolato che fino al 10 settembre 1941 sono stati disinfettati 70.273 pazienti. [ ... ]

Calcolando un costo giornaliero di 3,50 Reichsmark, abbiano fatto risparmiare:

- 4.781.339,72 kg di pane;

- 19.754.325,27 kg di patate.

Poi marmellata, margarina, caffè d'orzo, zucchero, farina, carne e salsicce, burro, legumi, pasta, prosciutto crudo, verdure di campo, sale e spezie, ricotta, formaggio per un totale di 33.733.033,40 kg.

E inoltre 2.124.568 uova.

L'allontanamento, l'eliminazione di questi pazienti dai reparti si calcola faccia risparmiare spese ospedaliere per 88.543.980,00 Reichsmark all'anno.

L'allontanamento, l'eliminazione di questi pazienti dai reparti si calcola faccia risparmiare spese ospedaliere per 88.543.980,00 Reichsmark all'anno.

E ufficialmente T4 finisce e il suo bilancio definitivo è scritto lì: 70.273 persone, ma la verità è che durante Aktion T4 sono stati uccisi e passati per il camino circa trecentomila esseri umani classificati come «vite indegne di essere vissute».

70.273 persone è un consuntivo di bilancio.

Ma non é finita. Si chiudono i centri di uccisione più chiacchierati e gli altri vengono riconvertiti, alcune camere a gas continueranno a funzionare. Non per i ricoverati dei manicomi, ma per i prigionieri dei campi di concentramento più vicini.

Diventeranno sedi distaccate di lager.

Non ci sono rallentamenti nella produzione, ma ogni filiale va per conto suo e nessuno coordina più. Ogni medico diventa arbitro del suo reparto, ha potere di tenere in vita o di concedere morte pietosa. Quasi nessuno ormai lo trova strano, si sono abituati a uccidere o a far morire di fame i pazienti.

Nel 1942, un anno dopo la fine ufficiale di Aktion T4, a Berlino, presso il ministero dell'Interno, sono convocati urgentemente tutti i direttori degli ospedali psichiatrici bavaresi. I partecipanti sono vincolati al segreto di Stato. Hanno bisogno di accelerare i decessi, liberare posti negli ospedali e ridurre i costi di gestione, e anche finire il lavoro cominciato.

Perché c'è la guerra da mandare avanti, non possiamo sfamare certe bocche, sono nutzlose Esser, mangiatori inutili, mangiatori inutili.

Il dottor Valentin Faltlhauser, consulente di Aktion T4, è lui a imprimere una svolta al lavoro di molti ospedali, di molti medici e infermieri. È lui in quella riunione a decidere la sorte di tantissimi ricoverati nei tre anni successivi.

Faltlhauser prende la parola come direttore sanitario preoccupato di contenere i costi di ricovero dei suoi pazienti, e dice: «Nella nostro ospadale applichiamo una dieta assolutamente priva di grassi. La chiamo dieta E».

Questa è una dieta assolutamente priva di grassi. Diventa la dieta ufficiale per tutti i manicomi del Sud della Germania. Secondo il dottor Faltlhauser, in un tempo variabile da sei a dieci-dodici settimane i malati muoiono, muoiono per edema da fame. Funziona, la dieta E.

Per quelli con cui non funziona, si può ricorrere a iniezioni, psicofarmaci, barbiturici. In overdose, in maniera da sospendere le funzioni vitali del malato e fare in modo che poi egli muoia da solo, dimenticandosi di vivere.

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Nel 2006 è stata siglata alle Nazioni Unite la Convenzione internazionale dei diritti delle persone con disabilità, il cui scopo è: (articolo I)

promuovere, proteggere e garantire il pieno e uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità.

Nessuno - recita l'articolo 15 - può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. In particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il proprio libero consenso, a sperimentazioni mediche o scientifiche.

Bibliografia:

Jacques Semelin, Sans armes face à Hitler, Petit Bibliothèque Payot 1998

Marco Paolini, Ausmerzen, Einaudi 2012

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Su “AKTION T4”, l’ANFASS (Associazione Famiglie di Disabili Intellettivi e Relazionali) di Modena ha curato una mostra dal titolo “Ricordiamo. Perché non accada mai più, vedere la presentazione in :

http://video.repubblica.it/edizione/bologna/giornata-memoria-modena-ricorda-lo-sterminio-dei-disabili/117494/115956?ref=search

La mostra è in Biblioteca a Lissone in occasione del "Giorno della Memoria" 2014

Lissone Memoria 2014 logoMostra AKTION T4

pieghevole mostra Aktion T4

È un percorso rivolto a tutti e in particolare ai più giovani, agli studenti, alle scuole. Un modo per onorare la memoria di quelle vittime innocenti e destare domande e riflessioni.

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La Risiera di San Sabba a Trieste

23 Octobre 2013 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Le immagini contenute nel documento sono state riprese in occasione di una recente visita.
 
Nella notte tra il 29 e il 30 aprile del 1945 si chiudeva il tragico capitolo del Polizeihaftlager (campo di detenzione di polizia) della Risiera, il suo disastroso bilancio di sofferenza e morte. Ventiquattr’ore prima, con il favore delle tenebre, si era dato alla fuga il potente Gauleiter della Carinzia, Commissario supremo (Oberste Kommissar) del Litorale Adriatico, Friedrich Rainer, seguito soltanto un giorno dopo dall'amico, Gruppenführer delle SS, Odilo Lotario Globločnik che, in Polonia, si era reso responsabile dello sterminio di circa due milioni e mezzo di ebrei e di oppositori politici, per lo più polacchi (Aktion Reinhard). La sera del 29, secondo un testimone, fu Joseph Oberhauser, mandato a Trieste alla Risiera dal campo di sterminio di Treblinka, a decidere di lasciare liberi gli «artigiani» del campo, forse trenta o quaranta persone in tutto, tra ebrei, non ebrei, italiani e iugoslavi. Il piccolo gruppo di donne legate in qualche modo agli aguzzini SS non sopravvisse e, a parte Federica Teich, addetta alla farmacia e all'amministrazione, che si suicidò l'ultimo giorno, è rimasto non identificato .
 
Nel corso della stessa notte, le SS fecero saltare il forno crematorio che secondo alcune testimonianze era entrato in funzione già nel febbraio-marzo del 1944. In seguito, dopo la liberazione, tra le macerie e la cenere del forno vennero ritrovate ossa e indumenti umani.
 
 
Storia di un’ex Pilatura di riso
 
Risiera.JPGLa Prima Pilatura Triestina di riso raggiunge, a sedici mesi dallo scoppio della prima guerra mondiale un capitale azionario di sei milioni di corone austriache. E proprio nel 1913 viene completato a San Sabba il complesso degli edifici, sede del nuovo stabilimento. È il ventesimo anno di vita dell'industria e la gestione chiude con un deficit di 399.698 corone. La concorrenza sta all'erta, la gestione del complesso diventa sempre più gravosa. Una rozza pianificazione prevedeva la pilatura di un milione di quintali di risone all'anno - mercato principale la Boemia. Si raggiungono invece i cinquecentomila quintali: è l'inizio della fine.
 
Gli edifici a più piani erano adibiti alla lavorazione del prodotto e magazzinaggio. Ad un grande essiccatoio era collegata una ciminiera alta circa quaranta metri. La ciminiera aveva eruttato un acre fumo di carbone a tutto il 1924. L'agonia continuò per alcuni anni sotto l'amministrazione italiana e procedeva di pari passo con il decadimento dell'Emporio.
 
Questa Pilatura di riso era uno squallido complesso di edifici color mattone sporco, situato in una delle zone più anonime e tetre negli immediati dintorni di Trieste, accanto al macello comunale, a circa cinque chilometri dal centro. Sorge in una vasta depressione a poche centinaia di metri dal mare, e sul suo lato sinistro scorre un torrentaccio, oggi coperto, chiamato pomposamente Rio Primario. Esso sfocia quasi subito nel mare del cosiddetto Vallone di Muggia. La zona è sovrastata a nord-ovest da un borgo, il vecchio villaggio sloveno di Servola.
 
Durante quasi vent’anni, dal 1929 al 1943, lo squallido stabilimento abbandonato della Pilatura vide crescere e ampliarsi il rione operaio di San Sabba. Inoltre, entro il perimetro della Pilatura, venne allestito un campo di transito per cavalli e cavalleggeri di un reggimento sabaudo, il Novara cavalleria. L’essiccatoio venne in un primo tempo trasformato in una specie di cucina da campo, gli edifici più alti in un ospizio di fortuna. Nelle vicinanze erano sorti i nuovi impianti della raffineria della società Aquila, un tentativo di insediamento industriale nella zona triestina operato dal fascismo.
 
Quest'area dell'estrema periferia della città di Trieste, divenuta poi luogo di pena, era cosi ben protetta da occhi indiscreti, cosi nascosta, così incredibilmente segreta che pochi vecchi triestini la conoscevano. Era probabilmente ignoto anche a James Joyce che, ispirandosi a San Sabba, aveva scritto una delle poesie più belle: I canottieri di San Sabba, tradotta poi da Eugenio Montale.
 
 
Strutture e metodi della Risiera
 
Quando nel settembre del 1943 i tedeschi occuparono l'ex Ôsterreichisches Küstenland, lo ribattezzarono Adriatisches Küstenland. Poi, nell'ottobre del 1943 - fra il 16 e il 29 ,sbarcarono a Trieste i primi novantadue «specialisti» dell'Einsatzkommando Reinhard. Era uno dei gruppo di pronto intervento, composto da personale altamente specializzato addetto a compiti particolari. Esso nulla aveva a che fare con le Waffen-SS, cioè con le unità da combattimento SS: i compiti erano essenzialmente politici, e militari soltanto nelle circostanze e nella misura in cui diremo. Inoltre il Kommando Reinhard non aveva alcuna dipendenza dai comandi della Wehrmacht, perlomeno su un piano gerarchico. Mentre in più casi, specialmente sul Carso e in Istria, collaborò ad alcune azioni di carattere militare nel senso antipartigiano, partecipando però anche a razzie, devastazioni, incendi e cattura di civili.
 
Certamente fu rilevante il fatto che a capo di tutta l'organizzazione di polizia e antiguerriglia fosse stato posto il triestino Globločnik già Brigadeführer SS nel distretto di Lublino, il quale era vissuto a Trieste fino al 1923 poi trasferitosi a Klagenfurt e che spesso era ritornato negli anni Trenta «in visita» nella sua città e in generale nel Veneto.
 
Operativamente era necessario trovare un punto di appoggio militare e tale base logistica, all'inizio Polizeilager e centro di partenza e di rifornimento per i capisaldi tedeschi in Istria, fu la ex Pilatura di riso di San Sabba. Si trattava di un comprensorio vasto circa settemila metri quadrati con altri quattromila metri quadrati aggiunti a sud, verso il mare, dove, fra l'ottobre e il dicembre 1943, venne stabilita la base operativa di questo gruppo di specialisti. Il comando venne assunto dal Kriminalkommissär, Christian Wirth. Fu Wirth a definire la Risiera di San Sabba Polizeilager, probabilmente perché la sua mentalità di poliziotto non gli faceva balenare subito l'idea che questo centro militare potesse e «dovesse» trasformarsi rapidamente in un campo di concentramento, di transito e, dall’inizio del 1944 in un Vernichtungslager, un luogo di sterminio sistematico di una parte dei prigionieri catturati a Fiume, a Trieste, nel Friuli, nel Veneto, sul Carso e in Istria.
 
Le notizie che riguardano la struttura e la vita quotidiana della Risiera sono frammentarie; è difficile riuscire a tracciare una ricostruzione articolata della sua vita quotidiana perché il campo si trasformò rapidamente in caserma per le SS provenienti dalla Polonia, ma non per tutte, per gli ucraini e i ruteni che avevano seguito l'Einsatzkommando Reinhard (e alcuni di loro avevano con sé le proprie donne); perché, per ordine di Globločnik, si dovette procedere all'addestramento militare di quello che impropriamente venne chiamato il battaglione David, un battaglione di camicie nere e di altre formazioni della Repubblica mussoliniana; perché il campo cominciò a venir impiegato come punto di transito degli ebrei catturati dai sottufficiali . Suchomel e Hackenholt, prima nella zona di Fiume, poi nell'area del Friuli orientale; perché vi si costituì e organizzò un grande magazzino dei beni razziati; perché, infine, il problema della guerriglia stava diventando nel settore del Carso goriziano-triestino-fiumano uno scottante problema militare. Fu dunque la situazione obiettiva dell'occupatore tedesco a indurlo a creare un fortilizio militare nel perimetro urbano, anche se alla periferia - anzi, allora, all'estrema periferia - della città.
 
ingresso.JPGCarlo Schiffrer, storico e uno dei maggiori antifascisti di Trieste, scrisse sulla rivista «Trieste» (luglio-agosto 1961): «Gli occupatori adattarono la Risiera alle proprie necessità per farne uno strumento del cosiddetto “ordine nuovo” - e di quell'ordine essa oggi si può considerare simbolo. Essa divenne insieme caserma di occupazione e prigione, centro di srnistarnento degli infelici destinati alla deportazione e magazzino di beni saccheggiati, tribunale segreto e luogo di esecuzioni capitali. Già l'adattamento dei vecchi edifici alla nuova funzione è attuato con cura meticolosa e secondo un piano al quale non possiamo negare una sua logicità, anche se rivela l'inumanità di chi lo concepì. Subito presso l'entrata un primo cortile; a sinistra il corpo di guardia e l'abitazione del comandante; a destra gli alloggi per i sottufficiali SS germanici e ucraini e per le donne di questi ultimi. Di fronte all'entrata un edificio trasversale con o quanto si trova in una normale caserma, cioè camerate, cucina, spaccio, infermeria, uffici, armeria, depositi vari ecc. [ ... ] Il comando naturalmente è germanico ma la truppa comprende ucraini e italiani arruolati con la forza; il trattamento dei militari varia secondo la nazionalità; i peggio trattati sono proprio gli italiani ...»
 
Lo storico non era infatti al corrente che non proprio tutti questi “poveri italiani” del battaglione David e delle altre formazioni addestrate dai tedeschi erano stati arruolati con la forza; che inoltre gli ucraini a San Sabba non ebbero funzioni di secondo ordine; si trattava di persone perfettamente consapevoli della scelta fatta, i quali godevano della fiducia incondizionata dei germanici.
 
Ci sono notizie incomplete anche sui metodi di sorveglianza esterna del campo. In un primo tempo sarebbero stati incaricati della vigilanza i militi fascisti, poi i carabinieri, mentre dall'aprile 1944 la custodia sarebbe stata affidata alle SS italiane. Né il primo comandante del campo Wirth (che però aveva la più ampia qualifica di «ispettore»), né il secondo comandante, Allers (anch'egli «ispettore»), hanno mai abitato a San Sabba.
 
cortile.JPGLa descrizione del lager fatta dallo Schiffrer continua: «Un sottopassaggio a volta ricavato nel pianterreno porta a un secondo cortile, al quale hanno accesso soltanto gli elementi più fidati: gli italiani sono sospetti e poi potrebbero avere maggiori occasioni di disertare e di mimetizzarsi nella vicina città italiana, perciò di diffondere le notizie su che cosa succede in quel luogo di morte. In fondo al cortile c'è il magazzino-deposito dei beni razziati, soprattutto agli ebrei locali. Tutto il rimanente edificio di sinistra è destinato ai reietti; ci sono alcune ampie camerate che accolgono per periodi di solito brevi i vari elementi destinati alla deportazione; ci sono, al piano terreno, le celle d'isolamento per gli inquisiti, anguste, prive di finestre e di aria: le condizioni di vita vi sono terribili e tali da schiantare in breve le tempre più forti. Di fronte all'edificio delle prigioni, sulla destra di chi entra nel cortile, c'è il forno crematorio. Riflettiamo su questo solo particolare: prigione e forno crematorio, l'una di fronte all'altro; di modo che dalla prima non si poteva non vedere o non sentire ciò che accadeva nel secondo ...».
 
All'alloggio del comandante del campo, anzi per essere più precisi del capo-esecutivo del campo si accedeva attraverso una scala esterna assai scomoda e pericolosa. Ma all'alloggio del comandante - al pianterreno era stato sistemato il posto di guardia - era possibile accedere anche da un cancelletto che dà sulla via Rio Primario. L'arredamento del posto di guardia era composto da sei brande, un tavolo e da alcune sedie, mentre l'alloggio di Oberhauser era raccogliticcio, ma con qualche comodità.
 
Nell'edificio maggiore, quello posto trasversalmente ai muri perimetrali, alloggiavano alcune SS ucraine e, alla fine del 1943, una ventina di italiani provenienti da reparti della Milizia difesa territoriale, gente più sbandata che altro, la quale non era in grado di disporre della propria vita.
 
Le cucine avevano subito una trasformazione radicale. A capo dell'organizzazione erano state poste le donne ucraine, mentre la cucina per i prigionieri in un primo tempo era stata affidata a un'ebrea di Zagabria.
 
celle.JPGDalle 17 «piccole celle» - quelle cosiddette della morte (più la cella maggiore, la cella della morte per antonomasia situata a sinistra del pianterreno) si passava nella camera a gas mobile, o nel garage trasformato in camera a gas e poi nel forno crematorio, oppure ad una morte violenta, qualunque fosse stato il mezzo usato dai tedeschi o dagli ucraini, nel forno crematorio. All'inizio del 1944, infatti, il vecchio essiccatoio della Pilatura di riso era stato trasformato in crematorio.
 
In base ad alcune testimonianze di superstiti, tre erano i metodi di sterminio nella Risiera di San Sabba: il primo è l'uso del gas venefico (o in autofurgoni mobili, o nello stesso garage); il secondo la fucilazione; il terzo, probabilmente il più terribile, l'incatenamento del prigioniero che poi veniva trascinato a lungo per terra e alla fine era colpito più volte alla testa dalla mazza del Polizeimeister. I corpi inanimati o magari con ancora un filo di vita venivano gettati nel forno.
 
posizione-forno-crematorio.JPG forno-crematorio.JPGIl vecchio essiccatoio era stato trasformato in crematorio. Proprio lì era stato utilizzato un vano piuttosto ampio, chiamato convenzionalmente «garage». Da questo garage si passava nel crematorio attraverso una porta mascherata da un vecchio mobile. La camera a gas funzionava in modo rudimentale. Come vi veniva immesso il gas venefico? I tedeschi avevano fatto venire dalla Germania un furgone particolare. Attraverso grossi tubi di scarico il gas veniva immesso nel garage.
 
I corpi venivano bruciati sulla legna, legna che spesso veniva predisposta dagli stessi prigionieri sotto il controllo degli ucraini. Una grande quantità di legna di faggio era stata appunto accantonata già sin dall'estate del 1943 in un edificio basso in fondo al secondo cortile.
 
Il forno crematorio, il famoso garage e la ciminiera, sono stati fatti saltare in aria dai tedeschi la notte fra il 29 e il 30 aprile 1945, poco prima di lasciare il campo di San Sabba. È stato Joseph Oberhauser, il capo della manovalanza della Risiera, a provvedere a far sparire le tracce più evidenti delle apparecchiature di morte.
 
edificio-prigionieri.JPGCi si è chiesti spesso quanti prigionieri al giorno venivano uccisi; sarebbe stato cosi possibile dare una cifra attendibile sul numero delle vittime della Risiera di San Sabba. La risposta, anzi, le risposte che oggi possiamo proporre sono le seguenti: non siamo in grado di dire - se non con notevole approssimazione - quante persone furono uccise nel periodo che va dalla fine di ottobre 1943 al febbraio-marzo del 1944, quando il forno cominciò a funzionare. Si può affermare che, dal febbraio-marzo 1944, appunto perché il forno era in fase di collaudo, venivano cremate mediamente 30-40 persone alla volta. Ciò dipendeva anche dall'efficacia e dalla frequenza dei rastrellamenti compiuti sia dalla Wehrmacht, sia dall’Einsatzkommando Reinhard e dalle formazioni ad esso collegate. È invece universalmente riconosciuto che la data ufficiale dell'inizio dell'attività della (o delle) camera a gas mobile, del “garage”, e del crematorio risale al 4 aprile 1944 - anche se fonti diverse parlano del 17 o addirittura del 21 giugno. Possiamo così stabilire senza ombra di dubbio che il campo militare si è trasformato in campo sterminio con caratteristiche molto simili, pur se ridotto nella sua drammatica entità numerica, ai grandi campi di sterminio nazisti di Germania e di Polonia.
 
È probabile l'ipotesi secondo la quale la gassazione e la cremazione, o comunque l'uccisione e la cremazione dei cadaveri, avessero luogo di solito dalle due alle tre volte alla settimana. Il forno era stato attrezzato per cremare un massimo di cinquanta-sessanta cadaveri alla volta. Secondo le testimonianze degli abitanti in quella zona di San Sabba e di Servola (infatti dal versante orientale della collina di Servola si riesce a vedere il comprensorio del campo), la ciminiera eruttava un fumo giallognolo la sera, grosso modo dalle 21 alle 24, di solito nei giorni centrali della settimana. Alcuni testimoni oculari hanno detto che questo succedeva soltanto il martedì e il giovedì.
 
Il numero complessivo delle persone soppresse prima e durante il periodo di funzionamento del crematorio si avvicina ai 5000 prigionieri trucidati. Gli jugoslavi, che hanno in proposito una vasta documentazione, sono giunti anch'essi più o meno alla stessa cifra.
 
Gran parte dei libri-mastri dove gli uffici amministrativi di Oberhauser registravano il nome e cognome dei detenuti in transito è stata fatta sparire alla fine di aprile, così come quasi tutta la documentazione compromettente è stata bruciata nel crematorio il 28 aprile 1945.
 
Complessivamente, in circa diciotto mesi di esistenza, il campo di San Sabba avrebbe ospitato 25.000 persone. Almeno il 95% delle persone rinchiuse nel campo sono morte: o trucidate a San Sabba (circa il 25%), oppure nei campi dove venivano avviate, prima ad Auschwitz, poi, con l'approssimarsi dei sovietici essenzialmente a Dachau e a Buchenwald. Circa 1500 persone transitate da San Sabba sono riuscite a ritornare alle proprie case.
 
Parecchi sacchi di “cemento armato” venivano scaricati in mare a circa 150 metri di distanza dalla Risiera. Nei sacchi però non v'era cemento, ma resti umani.
 Bibliografia:
Ferruccio Folkel, La Risiera di San Sabba, BUR 2001
       
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4 giugno 1944: Roma liberata dagli Alleati

3 Juin 2013 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Roma, ultimi giorni di maggio, primi giorni di giugno. La città con il suo milione e mezzo di abitanti vive come trasognata, in apatica stanchezza, inerte sotto guai e angherie che pare non debbano mai avere fine.

 

Improvvisamente, il pomeriggio del 3 giugno, le cose precipitano. Gli abitanti delle case lungo i viali Margherita, Liegi, Parioli, lungo il Corso e la via Flaminia, vedono passare in fila ininterrotta cannoni, carri armati, autocarri che si dirigono verso settentrione. La gente guarda, assiepata sui marciapiedi, non osa pensare che sia vero. Sfilano per tutto quel pomeriggio, per tutta la notte e il giorno seguente pezzi d'artiglieria d'ogni calibro; carri colmi di roba rubata, autocarri stipati di soldati sporchi laceri molti macchiati di sangue, la faccia annerita, gli occhi perduti. Sfilano con un rumoreggiare continuo, paracadutisti, carristi della Göring, SS, granatieri, artiglieri, soldati dei servizi con una disciplina meccanica e spasmodica, le armi puntate contro la strada, contro le finestre. Sanno che traversano una città nemica.

Verso le due del pomeriggio del 4 il flusso si attenua, si arresta. Il rumore della battaglia, più chiaro ora nel silenzio delle strade, non pare avvicinarsi. Dalle terrazze si vedono i colli dei Castelli avvolti da una nebbia, da un fumo fermo. Qualche macchina tedesca qualche macchina di fascisti indugia con tracotanza, va su e giù; ma generali e gerarchi hanno cominciato a scappare da ieri sera, sono scappati i direttori dei giornali, scappa Zerbino alto commissario, scappa il questore Caruso (nella fretta della fuga l'automobile andrà a sbattere contro un albero presso Bagnoregio, Caruso si romperà una gamba, lo raccoglieranno, lo riconosceranno, sarà arrestato e giustiziato), scappa Koch, piantando in asso i minori scagnozzi, scappa Kappler con gli aguzzini di via Tasso, scappa il generale Kurt Mälzer comandante della piazza di Roma, ubriaco come al solito. Ma prima hanno avviato verso il nord i prigionieri più importanti, li han tirati fuori delle celle orribili, stivati nei carri. A un sergente affidano un autocarro con Bruno Buozzi, con il generale Dodi, con altri dodici preziosi ostaggi, non si possono lasciare indietro, bisogna portarli a Mussolini. Ma giunto alla Storta il sergente tedesco pensa che quei quattordici prendon troppo posto, si potrebbe caricare tanto buon bottino invece; e li fa scendere dal carro, li fa fucilare, tutti e quattordici, e riparte, con la coscienza leggera.

15-giugno-1944-il-partigiano-fronte.jpg 15-giugno-1944-il-partigiano-retro.jpg

 

La sera scende limpida, fresca. Il crepuscolo si è fuso col chiarore della luna che sorge. Rientrano in casa i cittadini, disciplinati, all'ora del coprifuoco; ma indugiano sulle soglie, stanno alle finestre, tendono l'orecchio al grande silenzio. Ed ecco scoppi di combattimento vicinissimo, battere di mitragliatrici, latrati di bombe. E di nuovo il silenzio, limitato da un uguale lontano brontolio di motori. Sto anch'io al balcone, con gli amici che mi ospitano. Sentiamo d'un tratto venire da via Veneto un batter di mani, grida di evviva. Scappo fuori, scappiamo fuori, corriamo verso il clamore. Davanti all'Excelsior c'è un piccolo gruppo eccitato di persone, dicono che son passati tre o quattro carri armati inglesi o americani, non sanno bene: ringraziavano degli applausi, pregavano che non gli si facesse perdere tempo, chiedevano la via per Ponte Milvio, dovevano subito buttarsi dietro ai tedeschi. Corriamo verso piazza Barberini, verso un vicino ansimare di motori. La piazza è deserta, chiara nella luce della luna. Un enorme carro armato è fermo all'angolo delle Quattro Fontane; quando ci arriviamo, vediamo una fila di altri carri su per la salita, fermi. C'è attorno un brusio, d'una piccola folla curiosa, alacre, che non grida, che non acclama. Un soldato altissimo, magro, è in piedi a terra davanti al primo carro, mastica qualcosa. La gente lo guarda, non dice niente. Chiedo; «Where do you come from?» «From Texas», risponde.

 

1944 alleati Roma

 

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Ho l'improvvisa vertigine d'una vastità sconfinata, che accoglie e dissolve la pena, le angosce di nove mesi, ove lo stesso sollievo si smarrisce. Arrivano due ragazzette con una bandiera tricolore in mano, la danno al soldato. il soldato, serio, si volge in su verso i compagni seduti in cima al carro, le gambe penzoloni: «Here is a flag».

Uno stende una mano, afferra la bandiera, la issa sulla torretta.

 

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Bibliografia:

Paolo Monelli - Roma 1943 – Einaudi 1993

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