ii guerra mondiale
Dalla tregua istituzionale alla Repubblica
Dopo il 25 aprile e la liberazione di tutto il territorio nazionale, l'Italia rimane tagliata in due ancora per qualche tempo, perché lungo la «linea Gotica» gli Alleati hanno steso un cordone di polizia, invalicabile senza un loro lasciapassare. Dicono che si tratta di un «cordone sanitario», inteso a impedire il diffondersi dal Sud al Nord del mercato nero e del disordine economico e finanziario. Ma in realtà ad essi preme soprattutto che, nell'incontro immediato, l'Italia dell'insurrezione non sollevi anche l'altra e, con un colpo di mano, si rompa la tregua istituzionale e si proclami la repubblica, col duplice rischio di una ripresa della lotta civile (nella quale le forze anglo-americane sarebbero fatalmente coinvolte, come in Grecia) e del misconoscimento della resa incondizionata e delle sue conseguenze da parte di uno Stato interamente nuovo e di un governo rivoluzionario.
Come è cominciata la tregua istituzionale? Prima ancora di essere imposta formalmente, la tregua si è instaurata di fatto, per la forza degli avvenimenti e per ragioni militari, come un compromesso tra le divergenze che dividono inglesi e americani, e che condizionano la loro condotta politica e strategica dal marzo del '43 ai primi del '44.
Il punto fondamentale della divergenza è noto. Roosevelt vuole impegnarsi esclusivamente nello sforzo decisivo contro la Germania attraverso la Manica, come insistentemente chiede anche Stalin. Churchill preferirebbe sviluppare intanto una vasta operazione dal Sud attraverso l'Italia e i Balcani.
Perciò, quando si prospettano l'eventualità di una resa dell'Italia e l'opportunità di predisporre un programma per il periodo dell'occupazione, Roosevelt dà due direttive - imposizione rigorosa della «resa incondizionata» e abolizione della monarchia - che rispondono prevalentemente a motivi morali e, almeno la seconda, anche elettorali, poiché un'attiva campagna dei fuorusciti antifascisti ha mobilitato un settore dell'opinione pubblica americana contro Vittorio Emanuele III, corresponsabile del fascismo e della guerra fascista e contro la monarchia sabauda.
Invece Churchill, che persegue tenacemente il suo piano strategico-politico, per esigenze di pratica utilità aborrisce dall'una e dall'altra direttiva rooseveltiana. Egli ha in mente una liberazione abbastanza rapida e un'occupazione poco onerosa di parte della penisola italiana, come base adatta e conveniente per ulteriori spinte in direzione dell'Austria e della Jugoslavia. Dunque è convinto che sia meglio conciliarsi gli italiani con un atteggiamento più benevolo che non quello della «resa incondizionata», e che sia essenziale tenere in piedi la monarchia per garantirsi la cooperazione delle forze armate italiane (e specialmente della flotta) e per assicurare l'ordine civile contro un periodo di caos e una probabile ondata comunista. Diversamente, il prezzo degli sbarchi in Italia risulterebbe troppo elevato e il grave peso della occupazione impegnerebbe un'aliquota troppo forte delle non numerose truppe alleate del Mediterraneo, impedendo ogni altra operazione.
Questo criterio di utilità strumentale determina, e insieme chiarisce, l'azione di Churchill assai più che non la sua inclinazione personale verso la monarchia. Al medesimo criterio dovrà assoggettarsi lo stesso Roosevelt, sia pure con riluttanza e con qualche riserva, ma abbastanza velocemente. Donde il compromesso della tregua istituzionale.
Subito dopo il 25 luglio il Presidente scrive esultando al Premier. Più conciliante sulla formula della «resa incondizionata », che difatti non figurerà come tale nel «corto armistizio», egli rammenta tuttavia che dovrà tener fermo il proprio atteggiamento nei confronti della monarchia, a causa delle pressioni che su di lui esercitano gli avversari americani della dinastia dei Savoia. Churchill risponde: «Ora che Mussolini è andato, io tratterei con qualsiasi governo italiano non fascista che sia in grado di consegnare la merce». Il 27 dice ai Comuni: «Mentre gli affari italiani sono in una condizione cosi fluida e flessibile, sarebbe un grave errore per le potenze liberatrici agire in modo da far crollare l'intera struttura e l'espressione dello Stato italiano ».
Il 30 luglio Roosevelt scrive:
«C'è qui della gente litigiosa che si prepara a far baccano se noi abbiamo l'aria di riconoscere Casa Savoia o Badoglio. Sono gli stessi che fecero tanto chiasso a proposito del Nord Africa. Oggi io ho detto alla stampa che siamo pronti a trattare con qualsiasi persona o gruppo di persone che possano darci: primo, il disarmo dell'Italia e secondo una garanzia contro il caos. Credo altresì che voi ed io, dopo un eventuale armistizio, potremmo dire qualcosa in merito all'autodeterminazione in Italia, a tempo opportuno».
Ma Churchill risponde scartando quest'ultima proposta, per il momento; egli non sente «la minima paura d'aver l'aria di riconoscere Casa Savoia o Badoglio, sempre che costoro siano gli uomini capaci di far fare agli italiani ciò che a noi serve per i nostri scopi di guerra».
Ciò che serve agli anglo-americani per i loro scopi di guerra risulta dal «lungo armistizio» e dai piani elaborati per l'AMGOT: avere il completo controllo delle forze armate italiane; assicurare il massimo sfruttamento delle risorse del Paese per lo sforzo di guerra alleato, sia come base di operazioni sia come fonte di beni di consumo e di servizi; disporre di un governo locale che sollevi il Comandante in Capo da ogni preoccupazione verso la popolazione civile e da complicazioni politiche, e al quale una commissione di controllo trasmetta gli ordini, badando che vengano effettivamente eseguiti.
Dopo l'8 settembre tutti e tre questi obbiettivi appaiono meglio ottenibili col riconoscimento del governo del re e di Badoglio, che ha firmato la resa, ha consegnato la flotta, ha con sé quel che resta delle forze armate, può garantire - con la continuità dello Stato - l'osservanza delle clausole armistiziali e disporre almeno di uno scheletro di apparato amministrativo.
da LA STAMPA del 20 settembre 1943
Il 19 settembre, quando Mussolini ha appena annunciato la formazione di un nuovo Stato fascista repubblicano nel Nord, gli Alleati si affrettano a lasciare al governo del re l'amministrazione delle quattro province di Brindisi, Lecce, Taranto e Bari, «per conservargli quel poco di dignità che gli è rimasta dopo l'ignominiosa fuga da Roma». Non gli danno di fatto alcun potere decisionale, ma creano così «l'Italia del re» o Regno del Sud.
E contemporaneamente Eisenhower propone ai capi dello Stato Maggiore congiunto questa alternativa: «O accettare e rafforzare il governo del re e di Badoglio, riconoscendolo formalmente non solo come l'unico governo legittimo d'Italia, ma anche come cobelligerante; oppure spazzarlo via e instaurare un governo militare alleato su tutta l'Italia occupata ».
Ma delle due soluzioni il Comandante raccomanda fortemente la prima per ragioni militari, facendo presente la considerevole assistenza già ottenuta in Sardegna, in Corsica e altrove dall'attiva cooperazione delle forze italiane che obbediscono al re. A suo parere il riconoscimento della legittimità e della cobelligeranza deve essere accordato alle seguenti condizioni: l'inclusione dei rappresentanti dei partiti politici nel governo, in modo da farne una coalizione nazionale; la promessa di elezioni libere per un'Assemblea Costituente, dopo la guerra; e possibilmente l'abdicazione del re in favore del figlio o del nipote, richiedendo tuttavia questo punto un ulteriore studio, «perché potrebbe dimostrarsi più popolare all'estero che tra il popolo italiano ».
Queste proposizioni, nelle quali Eisenhower cerca di accozzare tutt'insieme le sue esigenze di Comandante, le propensioni della Casa Bianca e quelle di Churchill, i pareri dei suoi servizi di Intelligence e le sollecitazioni dei fuorusciti antifascisti, sono abbastanza contraddittorie. Assai più coerenti sarebbero i suggerimenti che, negli stessi giorni, a lui manda il Segretario di Stato Cordell Hull. Hull non si fida del re né di Badoglio, e propone di formulare il «lungo armistizio» in modo da sospendere per tutta la sua durata i poteri della corona italiana e di affidare il governo ai partiti antifascisti. Con questa soluzione saremmo di fronte non soltanto al pieno riconoscimento delle responsabilità del re e del diritto degli italiani a scegliersi le loro istituzioni dopo la fine della guerra, ma anche a un rigoroso condizionamento della tregua istituzionale, nel senso che la Corona, privata dei poteri costituzionali, non potrebbe avvalersene per influire a proprio vantaggio sulla futura scelta tra monarchia e repubblica.
Tuttavia Churchill dichiara scopertamente ai Comuni:
«È necessario che il re e il maresciallo Badoglio siano sostenuti da tutti gli elementi quali si siano, liberali e di sinistra, capaci di tener testa alla combinazione nazifascista, e di creare così le condizioni che consentano di cacciare tale infame combinazione dal suolo italiano. Tutto ciò, naturalmente, senza alcun pregiudizio per l'indipendente diritto della nazione italiana di dare quella qualsiasi sistemazione che preferisce al futuro governo del Paese, nella linea democratica, quando la pace e la tranquillità saranno restaurate ».
Come Eisenhower, anche Churchill cita i combattimenti delle truppe italiane contro i tedeschi in Sardegna e in Corsica e il comportamento della popolazione civile, mettendoli in questa luce:
«La popolazione e le forze militari italiane si sono dovunque mostrate sfavorevoli o attivamente ostili ai tedeschi: esse si sono mostrate dovunque ansiose di obbedire sino ai limiti delle loro possibilità agli ordini del nuovo governo del re d'Italia».
E infine giustifica con questa versione la mancata difesa di Roma e la fuga di Pescara:
«Le divisioni tedesche corazzate, che si trovavano fuori di Roma, irruppero nella città e ne cacciarono il re e il governo, che si sono ora stabiliti dietro le nostre linee avanzate».
Le responsabilità passate e presenti del re vengono così ignorate per ragioni di convenienza militare e politica, per una contrapposizione dell'«Italia del re» alla repubblica di Mussolini, come lo stesso Churchill scrive a Stalin:
«Ora che i tedeschi hanno messo Mussolini a capo del cosiddetto governo fascista repubblicano, è importante parare questa mossa facendo tutto il possibile per rafforzare l'autorità del re e di Badoglio».
Roosevelt, i suoi consiglieri Hopkins e Hull - benché si siano piegati malvolentieri alle varie transazioni di guerra col re e Badoglio, come a espedienti transitori giustificati soltanto da vantaggi militari, e non vedano l'ora di effettuare un mutamento che trasferisca tutto il potere ad altri elementi politici non associati con Mussolini e il fascismo - debbono accettare ormai anche quest'altro compromesso indicato da Eisenhower e da Churchill: la compartecipazione al potere dei partiti antifascisti insieme col re Vittorio Emanuele, con l'intesa che questa soluzione non menomi la possibilità degli italiani di scegliere la propria forma di governo, quando la pace sarà restaurata.
La medesima formula vien fatta includere nel proclama con cui Badoglio annuncia la dichiarazione di guerra alla Germania, e si ritrova nella dichiarazione congiunta del 13 ottobre con cui Roosevelt, Churchill e Stalin accettano l'Italia come cobelligerante. Ed è una formula estremamente ambigua.
È vero che quando Badoglio ha firmato il peggiore strumento della «resa incondizionata», cioè l'armistizio lungo, la resa è già soggetta a condizioni. Roosevelt, Churchill e Eisenhower hanno già promesso che gli italiani saranno trattati umanamente e che il loro aiuto militare nella guerra contro la Germania otterrà una ricompensa; hanno loro assicurato la possibilità di riguadagnare un posto rispettato nel mondo, e di scegliersi la propria forma di governo. Ma tra queste condizioni la esplicita promessa - suggerita da Eisenhower - di libere elezioni per un'Assemblea Costituente dopo la guerra, non c'è.
Nel discorso di Churchill e nella dichiarazione tripartita si parla di scelta della forma di governo: non della forma dello Stato. La tregua istituzionale resta piuttosto sottintesa; e comunque, nelle enunci azioni degli Alleati, essa si configura nei termini più favorevoli possibili a Vittorio Emanuele e alla monarchia.
Da un lato gli Alleati definiscono «assoluto e autonomo» il diritto di scelta degli italiani, dall'altro già lo sminuiscono rimettendo nell'ombra le responsabilità del re e cercando di ottenergli il sostegno di tutte le forze politiche; e rendono questo diritto ancora più agevolmente vulnerabile nel momento in cui, caduto il suggerimento di Cordell Hull, lasciano tutti i poteri costituzionali alla Corona.
L'azione dei politici e dei partiti antifascisti del Comitato di Liberazione Nazionale, d'ora in poi, si concentrerà nello sforzo di risolvere questo problema e si estrinsecherà sia nel tenace rifiuto di collaborare col re - poiché la collaborazione equivarrebbe a un riconoscimento della sua non responsabilità - sia in una serie di tentativi e di atti intesi a svuotare i poteri e a neutralizzare gli strumenti di cui dispone la Corona, in modo che la scelta degli italiani possa avvenire, a suo tempo, senza ingerenze della dinastia e risulti davvero una scelta libera tra monarchia e repubblica.
La posizione di rifiuto caratterizza subito, per forza di circostanze, i partiti e gli uomini politici operanti nel Sud. L'altra questione invece, quella dei poteri costituzionali, vien posta con più forza - ma anche tra seri contrasti - nell'ambito del CLN a Roma.
Dei partiti del Comitato di Liberazione Nazionale alcuni sono dichiaratamente repubblicani e prendono talora - come gli azionisti, i socialisti e più tiepidamente i comunisti atteggiamenti di rigorosa intransigenza; altri sono tuttora agnostici, come la democrazia cristiana, o tendenzialmente monarchici come i liberali e i demolaburisti. Ma gli uni e gli altri concordano ben presto sulla necessità della tregua istituzionale, e anche nell'ambito del CLN i dissensi, i contrasti e perfino le crisi sorgono quando si teme che una tendenza possa avvantaggiarsi nei confronti dell'altra nel periodo della tregua.
Di fronte ai rapporti e agli accordi che si sono stabiliti tra il governo del re e gli Alleati, e alle condizioni nelle quali si è instaurata la tregua, i partiti del CLN cercano di reagire con una propria, diversa posizione. A partire dal 28 settembre il CLN riesce a riconvocarsi e a riunirsi più volte - sempre cambiando sede, e talora mutando i partecipanti, perché infuria il terrore nazista - e porta avanti un aspro dibattito. A giudizio degli uni è necessario accettare il mantenimento provvisorio della monarchia nelle sue funzioni, puro mettendola sub judice, mentre gli altri vorrebbero che essa fosse accantonata mediante una sospensione «effettiva ed evidente» delle prerogative regie. Questi ultimi riprendono insomma la tesi di Cordell Hull, pur senza conoscerla.
All'ipotesi che il re torni a Roma e si proponga di completare il ministero Badoglio col concorso dei partiti antifascisti, si oppone un rifiuto per tre motivi: la mancata dichiarazione di guerra alla Germania dopo «l'ibrido colpo di Stato del 25 luglio»; la fuga del monarca e del maresciallo senza lasciare istruzioni precise alle truppe, donde lo, sfacelo del 9 settembre; la colpevole negligenza nella custodia di Mussolini, donde la guerra civile in atto. All'ipotesi che il re, tornando nella capitale, inviti il CLN a formare un nuovo governo, si pongono due condizioni: che questo governo abbia tutti i poteri costituzionali e la monarchia sia relegata in una specie di limbo con «la sola funzione di segnare la continuità fra il passato e l'avvenire richiesta dalle Nazioni Unite a garanzia della validità e della permanenza delle gravi e durissime clausole della resa»; e che il vecchio giuramento di fedeltà al re e ai suoi reali successori sia sostituito «con una solenne dichiarazione dei ministri di astenersi, fino alla decisione popolare, da ogni atto che possa pregiudicare, in un senso o nell'altro, la soluzione del problema istituzionale rimessa alla libera volontà del Paese»
Tutto ciò è condensato in un ordine del giorno del 16 ottobre, steso da Giovanni Gronchi e approvato all'unanimità. Esso fissa in particolare due punti: il governo del re e di Badoglio non consente una operante unità spirituale del Paese per la riconquista della libertà e dell'indipendenza, e perciò deve essere sostituito da un «governo straordinario», espressione dei partiti democratici; questo governo straordinario deve assumere «tutti i poteri costituzionali dello Stato, evitando però ogni atteggiamento che possa compromettere la concordia della nazione e pregiudicare la futura decisione popolare». Più tardi, il 17 novembre, un altro ordine del giorno ribadisce la sostanza del primo e aggiunge che il problema istituzionale dovrà essere sottoposto al popolo «nella sua interezza, non pregiudicabile da sostituzioni di persona».
Con questo secondo ordine del giorno il CLN respinge l'ipotesi che una reggenza, quale è stata già ventilata nel Sud, possa mai assolvere l'istituto monarchico dalle colpe di Vittorio Emanuele. La reggenza «potrebbe far mettere in disparte, o comunque indebolire, quella richiesta di una libera decisione del Paese sulle forme istituzionali che è fondamentale e pregiudiziale e va ben oltre l'esigenza di abdicazione immediata»
L'idea della reggenza, che appare nei suggerimenti di Eisenhower, è già stata affacciata anche dal laburista Ivor Thomas. Nel corso del dibattito che si è prolungato dalla fine di luglio ai primi di agosto ai Comuni, un agguerrito gruppo di oppositori ha contrastato il programma di Churchill basato sul valore strumentale dello Stato italiano e del regime Vittorio Emanuele-Badoglio come forza da impiegare contro i tedeschi. Aneurin Bevan, in quell'occasione, ha rammentato al Premier certe sue vecchie simpatie per Mussolini; altri hanno chiesto l'incriminazione di Badoglio per la guerra d'Etiopia; sono stati fatti i nomi degli animatori della lotta antifascista, i quali non potrebbero certamente collaborare col re, corresponsabile del fascismo; e Ivor Thomas ha detto che semmai la monarchia italiana potrebbe essere salvata soltanto dall'ascesa al trono del piccolo principe di Napoli, assistito da un Consiglio di reggenza.
Qui è prevista la posizione in cui vengono appunto a trovarsi Benedetto Croce, i leaders politici del Regno del Sud e i reduci dal confino e dall'esilio, come Sforza, Cianca e Tarchiani, allorché Badoglio, premuto da Eisenhower e impegnato dalle direttive concordate a Mosca dalla conferenza dei ministri degli Esteri delle tre grandi potenze, deve adoperarsi per dare una larga base democratica al suo governo, includendovi i rappresentanti dei partiti antifascisti. La loro risposta è negativa. Vittorio Emanuele, «supremo colpevole» della rovina del Paese, non può dare coesione né vigore morale alla lotta di liberazione: perciò deve abdicare immediatamente. Questa è la tesi di Croce. I contatti del filosofo con i consiglieri di Eisenhower - l'inglese MacMillan e l'americano Robert Murphy - con alti ufficiali alleati, con inviati dei servizi di Intelligence e di autorevoli giornali inglesi e americani, valgono a riaprire e a pubblicizzare la questione della responsabilità del re. Allo stesso effetto conduce l'atteggiamento di Sforza. Vittorio Emanuele deve andarsene.
La reggenza pare a Croce «un'idea molto savia ... perché rimanda la questione di monarchia o repubblica alla decisione di tutto il popolo italiano, presa in forma legalmente corretta, cioè per mezzo di una Assemblea Costituente e di un plebiscito», e intanto elimina Vittorio Emanuele e anche Umberto, mentre il titolo di re andrà al principe di Napoli con un reggente o un Consiglio di reggenza, che consentirebbe «il risorgere di una rigenerata monarchia costituzionale con un principe educato dalla nuova Italia antifascista e liberale».
In linea di principio, Croce è un monarchico: un monarchico liberale e antifascista.
Ma anche i repubblicani (azionisti, socialisti, comunisti) debbono rendersi conto che ora niente di più si potrebbe in nessun modo ottenere dagli Alleati; e così si rimane assai al di qua delle posizioni fissate a Roma dal Comitato di Liberazione Nazionale. Né più oltre andrà il Congresso di Bari, dove si riaffermerà che, non consentendo le condizioni attuali un'immediata soluzione della questione istituzionale, l'abdicazione del re è condizione essenziale per la ricostruzione morale ed economica dell'Italia e per la formazione di un governo di larga coalizione democratica munito di «pieni poteri» (che è una formula più restrittiva di quella dell'ordine del giorno del 16 ottobre).
Benedetto Croce, il leader democristiano Rodinò e lo stesso Sforza hanno fatto in modo che, dove la risoluzione del Congresso domanda l'abdicazione del re, non si faccia menzione del principe Umberto. La ragione è che essi attendono l'esito delle conversazioni avviate da Enrico De Nicola per indurre Vittorio Emanuele non già ad abdicare, bensì a ritirarsi dalla vita pubblica dopo aver designato il principe ereditario come Luogotenente del regno, affidandogli le sue funzioni fino al momento della consultazione popolare. I partiti di sinistra non sanno nulla di tutto ciò; ma in pratica, quando avviene il Congresso di Bari, alla fine del gennaio del 1944, l'eventualità dell'abdicazione di Vittorio Emanuele è svanita da tempo. Il re vi si è rifiutato recisamente. Gli Alleati non hanno insistito, assorbiti dalle cure dell'apertura del secondo fronte e dagli altri problemi emersi nella conferenza dei tre Grandi a Teheran, e già è stata messa allo studio la formula della luogotenenza. Un «memorandum sull'abdicazione del re e l'istituto italiano della luogotenenza», redatto dall'esperto inglese Guy Hannaford per la Commissione alleata di controllo in Italia, porta la data del 21 dicembre 1943. Nove giorni più tardi De Nicola propone a Croce l'espediente della luogotenenza, «che durerebbe due o tre anni, cioè fino a quando il popolo possa essere consultato e dia il suo responso sulla forma istituzionale da adottare». Il filosofo non nasconde inizialmente la propria riluttanza: la luogotenenza «porta logicamente verso la repubblica», perché, togliendo la continuità dei poteri all'istituto monarchico, è quasi impossibile che poi la consultazione popolare o la Costituente «possano tornare alla monarchia». Perciò egli è convinto che il re non l'accetterà. Ma si arrende alla certezza manifestata da De Nicola, al quale attribuisce un «migliore intuito del carattere del re».
La decisione di Vittorio Emanuele matura il 20 febbraio del '44 a Ravello, dove ora egli risiede. Fa sapere a De Nicola che accetta la luogotenenza e ne darà subito annuncio con un proclama; ma il trapasso dei poteri avverrà alla liberazione di Roma «e questo differimento sarebbe necessario per ragioni di residenza, e simili». Il differimento delude Croce e Sforza. Tanto più che non si tratta di ragioni di residenza, si sono riaperte delle divergenze tra gli inglesi e gli americani.
Churchill continua a fidarsi più del vecchio re e di Badoglio che non dei partiti antifascisti. Il 22 febbraio pronuncia un crudo discorso ai Comuni:
«Quando si deve reggere una caffettiera bollente, è meglio non rompere il manico finché non si è sicuri di averne un altro ugualmente comodo e pratico a portata di mano. Ora non si può cambiare governo, in Italia. È da Roma che un governo italiano su più vasta base può essere formato, e io non posso dire se un tale governo sarà di aiuto agli Alleati altrettanto dell'attuale. I rappresentanti dei vari partiti italiani non hanno alcuna autorità elettiva, e certamente non avranno alcuna autorità costituzionale sino a che l'attuale re abdichi, o egli stesso e il suo successore non li invitino ad assumere quell’ufficio».
Dunque, fin dopo la presa di Roma, niente mutamenti neanche nella posizione del re, dal cui ritiro dipende unicamente la formazione di un «governo su più vasta base». Ma diverso è il parere di Roosevelt. Il Congresso di Bari ha suscitato larghi motivi di propaganda contro il re non soltanto nell'Italia del Sud, ma anche all'estero, e particolarmente negli Stati Uniti. Il lungo ritardo nell'occupazione di Roma ha già convinto il Dipartimento di Stato che non dev'esserci un ulteriore rinvio nella riorganizzazione del governo italiano e che si deve far pressione sul re perché, con la sua abdicazione, renda possibile la formazione di un governo di larga coalizione. Il nuovo Comandante in Capo, il generale inglese Maitland Wilson, ha prospettato ai capi dello Stato Maggiore congiunto questa alternativa: o premere sul re perché abdichi in favore del figlio, o informare i leaders politici italiani che gli Alleati non tollereranno alcun cambiamento nella situazione politica fino all'occupazione di Roma e che ogni tentativo di intralcio frapposto al governo Badoglio sarà rigorosamente represso. Avvertendo la pressione dei partiti e dell'opinione pubblica, Wilson raccomanda la prima soluzione e chiede che i governi alleati inducano il re ad inchinarsi alla volontà popolare.
Roosevelt dunque scrive a Churchill così:
«Nella situazione attuale il Comandante in Capo e i suoi consiglieri politici, sia britannici sia americani, hanno raccomandato di dare immediato appoggio al programma dei sei partiti di opposizione ... Non riesco assolutamente a capire perché dovremmo esitare ad appoggiare una politica che si accorda così bene con i nostri obbiettivi militari e politici. La pubblica opinione americana non potrebbe mai comprendere la nostra costante tolleranza e il nostro apparente appoggio a Vittorio Emanuele ».
Ed ecco entra in scena anche Stalin. L'8 marzo, dopo una trattativa della quale gli inglesi e gli americani non sono stati informati, si annuncia il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra l'URSS e l'Italia. Sembra che anche il maresciallo sovietico tenda la mano verso il vecchio «manico della caffettiera». La questione del re non può più restare immobile. Nel giuoco serrato di spinte e di contro spinte che ora si sviluppa, Churchill e Stalin, benché stiano dalla stessa parte, tirano in realtà in direzioni diverse; e altrettanto sta per accadere nell'ambito dei partiti.
I fatti si susseguono velocemente. Il 16 marzo il re convoca a Ravello Badoglio e i membri del governo e, sotto il vincolo del segreto, li informa che rinuncerà alle sue funzioni di capo dello Stato per dar vita alla luogotenenza, appena rioccupata la capitale. Il 27 e il 28 marzo Croce insiste con i suoi amici perché si rompano senz'altro gli indugi, «che possono riuscire dannosi e sono pericolosi», e si induca il re a pubblicare subito il proclama della luogotenenza. Il 30 un articolo delle Izvestija afferma che l'URSS «è pronta con tutti i mezzi» a fare in modo che, a prescindere dalla questione del re, l'ingresso dei partiti antifascisti nel governo Badoglio «non sia rimandato per esempio, fino alla presa di Roma». E lo stesso giorno Palmiro Togliatti, che e appena arrivato da Mosca, dice in una conferenza stampa e in un comunicato del suo partito che occorre sbloccare la situazione.
« Tutte le forze devono unirsi nella guerra contro il nazifascismo Questo è l’obiettivo fondamentale. Col contrasto tra il governo del re e i partiti si sono creati invece una confusione e un disordine che stancano e deludono le masse del popolo».
Bisogna dunque creare un governo di guerra e organizzare un forte esercito, «che si batta sul serio contro i tedeschi», rinviando il problema istituzionale. E aggiunge di non avere pregiudiziale alcuna contro il maresciallo Badoglio.
Da un punto di vista politico, l'aspetto negativo della proposta di Togliatti è messo in luce da un sostenitore del re come Agostino Degli Espinosa, quando scrive:
«Andarsene significava per il re la consegna della sua figura alla storia senza alcun tentativo di estremo miglioramento. Forse pochi mesi ancora di regno lo avrebbero assolto, anche sul piano dei sentimenti, dall’accusa che gli si muoveva, e di attendere quei mesi ormai ne aveva la forza, poiché nessuno avrebbe potuto giudicare tirannico e antidemocratico il re che introduceva nel suo governo i rappresentanti del partiti che già raccoglievano il massimo numero di seguaci»
Palesemente Togliatti equivoca fra la tregua istituzionale ormai fuori discussione, e la questione del re e ignora o misconosce, sia il valore del Congresso di Bari, sia il problema dei poteri costituzionali nei termini in cui è stato posto a Roma dal CLN; né si capisce come i partiti, mettendosi col re, siano in grado di organizzare un forte esercito.
Dopo la «svolta» di Togliatti, da un lato sembra in pericolo l'unità dei partiti antifascisti, perché gli azionisti, i democristiani, i liberali, i socialisti rifiutano di passar sopra al deliberato di Bari; dall'altro lato però si profila la possibilità che, andando i comunisti al potere con Badoglio (e il maresciallo certamente non li rifiuterebbe), dovranno finire per andarci anche socialisti e democristiani, poiché sono anch'essi partiti di massa, e ciò non solo fa insorgere i liberali, ma smuove gli Alleati stessi, i quali vogliono un governo di coalizione nazionale .
La giunta dei partiti si riunisce nella casa di Croce a Sorrento. Croce rivela anche alle sinistre i risultati a cui è pervenuto De Nicola e l'impegno preso dal re; non si deve tornare indietro: «Se i partiti che voi rappresentate manterranno salda e leale unione, potremo arrivare a un governo che abbia autorità morale sufficiente per salvare il Paese».
Mentre la disputa continua nei giorni successivi, intervengono gli anglo-americani. L'8 aprile si riunisce la Commissione alleata di controllo; e il 12 si presentano dal re, a Ravello, il capo della Commissione MacFarlane e i consiglieri politici Murphy, MacMillan e sir Noel Charles. Gli dicono che i governi inglese e americano considerano ormai l'opinione pubblica italiana decisamente contraria alla sua permanenza sul trono e ritengono perciò indispensabile la sua rinuncia alle funzioni di capo dello Stato.
Vittorio Emanuele si impunta e resiste: ottiene, come voleva, che il trapasso dei poteri al figlio avvenga soltanto il giorno della presa di Roma, ma deve darne subito l'annuncio. Le stazioni radio di Bari e di Napoli trasmettono il suo ultimo proclama agli italiani:
«Ho deciso di ritirarmi dalla vita pubblica, nominando Luogotenente generale mio figlio. Tale nomina diventerà effettiva, mediante il passaggio materiale dei poteri, lo stesso giorno in cui le truppe alleate entreranno in Roma. Questa mia decisione, che ho ferma fiducia faciliterà l’unità nazionale, è definitiva e irrevocabile».
In base a una risoluzione del Comitato consultivo degli Alleati per l'Italia, il generale MacFarlane fa sottoscrivere a Badoglio due impegni: primo, che il nuovo governo accetta tutte le obbligazioni assunte dal governo precedente verso gli Alleati; secondo, che la questione istituzionale non verrà in nessun modo riaperta fino al momento in cui tutto il popolo italiano sarà in grado di esprimere liberamente il proprio giudizio. È la prima volta che l'impegno della tregua istituzionale, e quindi della scelta elettorale, viene preso per iscritto dal governo e insieme dagli Alleati; e d'ora innanzi esso sarà ripetuto ad ogni nuova formazione di governo.
A loro volta i sei partiti nella dichiarazione programmatica affermano di volersi dedicare unitariamente alla soluzione dei «problemi vitali e urgenti dell'ora», mettendo da parte di proposito gli altri, anche se di somma importanza, «primo fra tutti quello della forma istituzionale dello Stato, che non potrà risolversi se non quando, liberato il Paese e cessata la guerra, il popolo italiano sarà stato convocato ai liberi comizi mercé un suffragio universale ed eleggerà l'Assemblea Costituente». Inoltre «il governo presenterà a suo tempo una legge elettorale ispirata a questi concetti», e si propone intanto di «dar vita, in contatto con i Comitati di Liberazione, a un sia pur ristretto corpo consultivo, simbolo del Parlamento che ci manca». Dunque: tregua istituzionale, Consulta e Costituente.
Mentre si snodano questi avvenimenti, a Roma il CLN attraversa una seria crisi, al fondo della quale sta la diversa interpretazione che i vari partiti danno all'ordine del giorno del 16 ottobre 1943, là dove esso stabilisce che la monarchia rimane sub judice sino a dopo la fine della guerra, ma «tutti» i poteri costituzionali dello Stato vengono assorbiti dal Comitato di Liberazione Nazionale. Già dopo il Congresso di Bari gli azionisti e i socialisti, in sede di CLN, hanno riaffermato l'impossibilità di collaborare in qualsiasi forma con la monarchia. Poi, dopo lo sbarco di Anzio (quando ormai sembra imminente la liberazione di Roma e il CLN discute l'applicazione pratica della formula del 16 ottobre in vista della formazione del nuovo governo), il dissidio fra i partiti si inasprisce: intransigenti gli azionisti e i socialisti, concilianti gli altri.
Ugo La Malfa, spiegando la posizione degli azionisti, ha detto:
«Noi non accettavamo compromessi (e più tardi sconfessammo anche i rappresentanti del Partito d'Azione che erano entrati nel ministero con Badoglio) e mantenevamo una posizione intransigente, perché ci riferivamo sempre all'ordine del giorno del 16 ottobre, che per noi rappresentava la Carta Costituzionale per tutto il tempo che ci separava dalla convocazione dell'Assemblea Costituente».
L'atteggiamento accomodante dei comunisti vien giustificato in questo modo dal senatore Mauro Scoccimarro:
«Gli azionisti e i socialisti con una critica aspra e dura giustamente denunciavano le manovre di spostamento a destra. Ma noi, in quel momento, vedemmo il gravissimo pericolo che si disgregasse il Comitato di Liberazione con gravi ripercussioni sulla lotta partigiana che si conduceva nel Centro-Nord. E intervenimmo per trovare un punto di accordo, avvertendo che i termini concreti in cui si sarebbe risolto il problema dei rapporti di poteri tra il Luogotenente e il CLN non poteva definirsi a priori, ma sarebbe dipeso dal modo come sarebbe stata liberata Roma e dalle condizioni e dagli atteggiamenti degli Alleati. Restava fermo tuttavia che il CLN doveva assumere su di sé la maggior parte dei poteri, anche costituzionali».
Ma in mancanza di un compromesso, il 24 marzo Bonomi si dimette dalla presidenza del CLN, il quale torna a ricomporsi soltanto dopo la costituzione del governo dell'esarchia con Badoglio.
Il giorno dopo la liberazione di Roma, Vittorio Emanuele firma a Ravello il decreto per la luogotenenza. Badoglio presenta le dimissioni al Luogotenente Umberto, che lo incarica di formare un nuovo governo. Il pomeriggio dell’8 giugno nella capitale, al Grand Hotel, si riuniscono alla presenza del generale MacFarlane, Badoglio che è il presidente del Consiglio designato da Umberto ed ha con sé i suoi ministri e Bonomi designato dal Comitato Centrale di Liberazione, i cui rappresentanti sono con lui: De Gasperi, Nenni, La Malfa, Scoccimarro, Ruini, Casati.
Nel corso della discussione Togliatti inclina dalla parte di Badoglio. Scoccimarro ha poi raccontato:
«Noi del CLN ci riunimmo il mattino e fummo tutti d'accordo nel chiedere le dimissioni di Badoglio. Quando poi ci trovammo al Grand Hotel io rividi Togliatti dopo diciassette anni e in un semplice abbraccio, in due minuti, mi chiese: "Qual'è la posizione qui?". E io gli dissi quale era la posizione nostra. Quando presero la parola gli altri rappresentanti del Comitato di Liberazione, Togliatti capì una cosa: che era stato un grave errore di Badoglio venire a Roma con una proposta di rimpasto, perché questo presupponeva un reincarico avuto dal Luogotenente, il che era in contrasto con tutta la posizione del Comitato di Liberazione. E allora fu appunto lui che dichiarò a Badoglio che non poteva appoggiarlo più; che egli era d'accordo con gli amici del CLN, e che d'altra parte Badoglio non aveva in pratica mantenuto gli impegni presi a Salerno sull'epurazione e sul resto ».
La conclusione è che Bonomi diventa presidente del Consiglio, Badoglio si ritira a vita privata. E ciò significa che non più il Capo dello Stato, bensì il CLN designa il presidente del Consiglio. I membri del governo giurano ancora nelle mani del Luogotenente, ma con la seguente formula:
«I sottoscritti ministri e sottosegretari di Stato italiani si impegnano sul loro onore di esercitare le loro funzioni per i supremi interessi della nazione e di non commettere alcun atto che possa in qualsiasi maniera pregiudicare la soluzione del problema istituzionale prima della convocazione dell'Assemblea Costituente».
E il 25 giugno il governo Bonomi, trasferito a Salerno, approva il suo primo decreto legislativo, che dice:
«Dopo la liberazione del territorio nazionale le forme istituzionali dello Stato saranno scelte dal popolo italiano che a tal fine eleggerà un'Assemblea Costituente».
A questo punto quella posizione di vantaggio nella tregua istituzionale, che per ragioni di convenienza gli Alleati avevano fatta alla monarchia, è in gran parte smantellata. Con la scomparsa della persona del sovrano dalla designazione del presidente del Consiglio e dal giuramento dei ministri; con l'eliminazione dai decreti del preambolo sulla regalità di fonte divina e popolare; con i poteri legislativi attribuiti al governo e con la definizione dei compiti della futura Costituente siamo di fronte a un ordinamento nuovo che ha quasi rotto ogni continuità costituzionale col regime precedente. E tutto ciò si è raggiunto senza colpi di testa, senza velleità né conati insurrezionali che - date le circostanze - sarebbero stati follia.
Se ora si guarda in retrospettiva alle vicende della questione istituzionale e della tregua, come si giustificano il «cordone sanitario», stabilito dagli Alleati tra Nord e Sud dopo il 25 aprile 1945, e il motivo di fondo che li ha indotti a stenderlo? Diremo che la loro preoccupazione e la loro decisione possono apparire comprensibili, se si tiene a mente non solo il clima arroventato di quelle giornate, ma anche il fatto che, quando l'Italia del Nord si ricongiunge finalmente con quella del Centro e del Sud, rimane una sorta di frattura, politica e psicologica, che il corso stesso degli avvenimenti ha provocata. Una frattura che può apparire seria e preoccupante. A Roma c'è un governo e ci sono dei leaders politici che hanno dovuto fare i conti con delle difficoltà indomabili. Hanno dovuto imparare a destreggiarsi tra mille ostacoli, a far valere dei diritti elementari presso i vincitori. Hanno cercato di giocare vantaggiosamente con gli Alleati le carte offerte dalla Resistenza, dalla partecipazione alla guerra contro i tedeschi, dal ritorno verso la democrazia, dalla leale osservanza degli impegni presi.
Al Nord ci sono i Comitati di Liberazione, che trattano direttamente con gli Alleati, nominano prefetti e sindaci, organizzano la vita civile; ci sono le forze che escono dalla crudele guerriglia di un anno e mezzo e sono ben consapevoli che l'unità e la libertà si sono riconquistate anche con loro inestimabile sacrificio. Perciò nel Nord fervono accese speranze; si sono prodotte delle spinte violentemente innovatrici o, per qualche aspetto, confusamente rivoluzionarie.
E se questo stato di cose spiega il tormento della crisi politica, che va dal 25 aprile alla formazione del governo Parri, spiega altresì la dichiarazione resa nota il 13 luglio dagli Alleati, per rammentare i loro poteri e i loro diritti di vincitori, di occupanti e, in certo modo, di tutori:
«La Commissione alleata, in seguito alla crisi ministeriale, ha comunicato il testo degli impegni che i membri del nuovo Gabinetto dovranno - come è prescrizione precisa - dichiarare di rispettare. Immutato rimane l'obbligo per tutti i ministri di accettare la tregua istituzionale finché il popolo italiano non abbia avuto l'opportunità di fare esso stesso la propria scelta ».
Ma anche dopo il superamento di quei mesi tempestosi dell'incontro fra le due Italie il cammino verso la consultazione popolare attraverserà altre fasi ardue e tormentose.
«L'attrito più grave all'interno dei partiti della coalizione - dice Pietro Nenni - si manifestò nei primi due mesi del '46 e rischiò di mettere in crisi il governo De Gasperi». È il momento in cui si tratta ormai di decidere il tempo e il metodo per effettuare la scelta tra monarchia e repubblica: due questioni che possono avere una forte incidenza sulla presa elettorale di ogni singolo partito.
Quanto al metodo, il decreto di Salerno prevedeva che le forme istituzionali sarebbero state determinate dalla Costituente. Ma ora, mentre Nenni e Togliatti, la maggioranza dei ministri e inizialmente lo stesso De Gasperi sono fermi a quel deliberato, il ministro liberale Cattani sostiene che la scelta tra monarchia e repubblica dev'essere affidata alla diretta consultazione popolare mediante un referendum.
Cattani ha allegato in seguito due ragioni a sostegno della sua tesi. Prima di tutto, bisognava domandarsi se non fosse più utile risolvere il problema istituzionale mediante un voto diretto e contemporaneo con l'elezione della Costituente, in modo che l'Assemblea cominciasse i suoi lavori non già in una condizione di passioni scatenate, che fatalmente avrebbero avuto il loro teatro nel Parlamento ma piuttosto in un ambiente già rasserenato e tranquillo, quando quella questione, che aveva turbato gli animi al punto di far rasentare al Paese una lotta civile, fosse già risolta direttamente dal popolo. In secondo luogo, poiché c'erano repubblicani e monarchici nel partito liberale - come ce n'erano in quello democristiano - è ovvio che se il quesito sulle sorti della monarchia fosse stato sciolto separatamente da quello sui partiti, non vi sarebbero state fratture né dispersioni fra gli iscritti e i simpatizzanti. «Era nostra opinione che la questione istituzionale, per importante che fosse, non dovesse sminuire o rompere le nostre forze quando si trattava di affrontare, con la Costituente, tutta la serie dei problemi più essenziali della nazione».
In questo senso si orienta poi anche De Gasperi, poi Togliatti: si adotta il referendum. Ma ancora si discute se esso debba effettuarsi prima, dopo o durante la Costituente, o se contestualmente.
Le dispute sul modo e sul tempo della scelta istituzionale occupano cinque lunghe sedute del Consiglio dei ministri dal 19 al 28 febbraio del '46, con fasi talora drammatiche, con polemiche acute. Racconta Nenni:
«In quella disputa, che mi mise sovente alle prese con i liberali, io ero il legalitario, perché, essendo ministro per la Costituente, mi attenevo strettamente alle norme del decreto del 25 giugno 1944, il quale prevedeva la Costituente e non il referendum prima, durante o dopo. Tuttavia il corso delle discussioni al Consiglio dei Ministri - assai accese e anche pericolose - fece sì che io assumessi su di me, a un certo momento, la responsabilità di accettare la proposta del referendum da tenersi contestualmente con l'elezione della Costituente. Perché era sorto il problema del referendum? Da parte di alcune forze del Paese e da parte della dinastia l'idea del referendum era suggerita, molto probabilmente, dal ricordo dei plebisciti dell'epoca del Risorgimento. Le nostre diffidenze invece nascevano dal convincimento che la Costituente dovesse avere poteri sovrani, che fosse essa a decidere la forma dello Stato e che la sua decisione fosse inappellabile. Comunque, nel contrasto delle opinioni, e davanti al rischio di una crisi che poteva far perdere al governo il controllo della piazza, e anche determinare delle gravissime complicazioni con le forze di liberazione e di occupazione anglo-americane, io preferii correre l'alea del referendum, anche perché avevo la profonda convinzione che, sia mediante il referendum, sia per deliberazione della Assemblea Costituente, il risultato sarebbe stato in ogni modo la repubblica »
Rammenta Cattani:
«Il legalismo dell'on. Nenni noi allora lo qualificavamo giacobinismo e dicevamo che in esso c'era una nostalgia di rivoluzione francese, di processo al re fatto da una Assemblea Costituente. Nenni parlava di Costituente sovrana, il che era perfettamente corretto, ma l'insistenza sulla delega di tutti i poteri dello Stato all'Assemblea richiamava certe lontane reminiscenze scolastiche, come la Convenzione o i Decemviri. Di qui la nostra diffidenza. Ma, in realtà, in quello che poi decidemmo non ci fu niente di illegale».
Altrettanto importante è la valutazione del tempo. Deve adeguarsi al termometro degli umori dell' opinione pubblica e ai fatti della realtà obbiettiva. Qual'è la realtà, e che cosa segna il termometro? Si affaccia lo spettro della fame, e c'è penuria di carbone. Nenni annota nel suo diario: «Ci si trova davanti alla necessità di ridurre a 150 grammi la razione di pane. È una misura penosa e drammatica. Alla vigilia delle elezioni la minaccia della carestia può essere un fattore di decomposizione sociale e di provocazione». Tuttavia Nenni, come De Gasperi e a differenza di Togliatti, è convinto che si debba «arrivare il più sollecitamente possibile» allo scioglimento di questo grosso problema, in modo da «trovare un nuovo equilibrio e, sulla base di questo, ricostituire la vita democratica e costituzionale del Paese». Infine, il 16 marzo, il Consiglio dei ministri fissa la data del 2 giugno per l'elezione della Costituente e per il referendum.
Il ministro dell'Interno Romita scrive: «L'apparato statale tutto monarchico, la polizia influenzata dai monarchici, l'instabilità dell'ordine pubblico, la preponderanza dei monarchici nel Sud sono altrettanti elementi atti a compromettere la soluzione repubblicana».
Dunque la monarchia è in forte ripresa. Ma gli statali, la polizia, i meridionali - e così via - non sono monarchici naturaliter. Oltre ai sentimenti, entrano nel giuoco le suggestioni e i motivi reali. Nel 1944, quando si è fatto il decreto di Salerno, i simpatizzanti della monarchia sono pochi. Poi la monarchia ha ripreso quota via via, con le vicende dell'epurazione, col gonfiarsi delle agitazioni sociali, con certe affermazioni estremistiche dei partiti di sinistra. «La repubblica è un salto nel buio»: questo slogan fa presa abbastanza largamente tra i conservatori, tra i moderati, tra gli scontenti, tra quanti paventano l'imprevisto e il disordine, anche a prescindere dai partiti nei quali militano o per cui propendono. E in questo senso è valida la tesi di Cattani.
I partiti della sinistra sono sempre stati dichiaratamente repubblicani. I liberali si professano agnostici, ma sono in larghissima parte monarchici. La democrazia cristiana getta ora il suo peso determinante sulla bilancia. Dopo un referendum tra i suoi iscritti, la democrazia cristiana si pronuncia per la repubblica con 740 mila voti contro 254 mila; ai singoli si lascia libertà di scelta.
Eppure, vi è molta incertezza nell'aria. Nenni scrive nel diario: «Per il referendum De Gasperi considera sicura la vittoria repubblicana. Togliatti non esclude che noi si rimanga un poco al di sotto del 50 per cento. Io sono di avviso contrario».
Il 9 maggio Vittorio Emanuele III di Savoia abdica alla corona d'Italia in favore del figlio, che diventa re Umberto II, il «re di maggio» lo chiameranno i repubblicani. «Con l'abdicazione - dice il vecchio monarca al generale Puntoni - la posizione di mio figlio e della dinastia ne risulteranno consolidate»: è una mossa elettorale, intesa ad avvantaggiare Umberto, non coinvolto come il padre nelle responsabilità del fascismo e della guerra. In ogni modo il nuovo re scrive subito a De Gasperi che questo atto non modifica «in alcuna maniera l'impegno da me assunto nei confronti del referendum e della Costituzione». Egli conferma insomma quanto ha già detto nella lettera con la quale ha restituito a De Gasperi, debitamente firmati, i decreti sul referendum e la Costituente:
«Per assicurare la massima libertà degli individui e delle coscienze, ho dato libertà di voto a quanti sono legati dal giuramento. Io, profondamente unito alle vicende del Paese, rispetterò come ogni Italiano le libere determinazioni del popolo, che, ne sono certo, saranno ispirate al migliore avvenire della patria».
Ma le cose non andranno così lisce.
Le consultazioni elettorali del 2 giugno 1946 sono certamente tra le più tranquille e le più libere di quante se ne svolgano in quell’anno in tutta l'Europa liberata. Gli elettori vanno compatti alle urne e affollano i seggi; ma, nonostante le tensioni di quei giorni, il ministro dell'Interno Romita, che sta come accampato al Viminale non ha di che preoccuparsi, almeno per la disciplina dei votanti. È assai vivido e quasi pittoresco il suo racconto delle ansie di quella notte tra il 3 e il 4, quando un blocco di voti monarchici del Sud manda in vantaggio per qualche ora la monarchia. Tuttavia la mattina la repubblica ha vinto, e il ministro si affretta a darne pubblica notizia.
Lo scrutinio dei voti e la «proclamazione ufficiale dei risultati spettano alla Corte di Cassazione. Ma già dopo l’annuncio di Romita il re Umberto appare convinto che il responso popolare gli è stato sfavorevole, e ordina la partenza immediata per il Portogallo della regina con i figli: egli aspetterà soltanto la «proclamazione ufficiale». I monarchici invece, col «ricorso Selvaggi», pongono una prima obbiezione di carattere giuridico: per la vittoria della repubblica ci vorrà una maggioranza assoluta, cioè un numero di voti repubblicani che superi i voti monarchici e quelli nulli sommati insieme. Gli altri ribattono che i voti nulli non entrano nel quorum. Dovrà decidere la Cassazione.
Il 10 giugno la Corte di Cassazione si riunisce in seduta pubblica nel Salone della Lupa a Montecitorio e il suo primo Presidente Giuseppe Pagano, al termine dei conteggi, dichiara:
«Repubblica, totale dei voti 12.672.767 (54,3 per cento); monarchia, totale dei voti 10.688.905 (45,7 per cento). La Corte, a norma dell'art. 19 del decreto-legge luogotenenziale 23 aprile 1946, emetterà in altra adunanza il giudizio definitivo sulle contestazioni, le proteste, i reclami presentati agli uffici delle singole sezioni, o agli uffici centrali circoscrizionali o alla stessa Corte, concernenti lo svolgimento delle operazioni relative al referendum; integrerà i risultati con i dati delle sezioni ancora mancanti; e indicherà il numero complessivo degli elettori votanti e quello dei voti nulli».
Di nuovo è evidente che la repubblica ha vinto, ma la dichiarazione della Corte è interlocutoria. In attesa della «proclamazione ufficiale», rinviata vagamente ad altra seduta, Umberto rifiuta di trasferire i suoi poteri al presidente del Consiglio (come prevede la legge). Dice Nenni:
«E a quel punto si apre una crisi che durò fino al 13 ed apparve estremamente grave, poiché entrarono in conflitto due posizioni opposte. Da un lato c'era la pressione di una parte del Consiglio dei ministri (e io con quella) che non intendeva in nessun modo che si perdessero altri giorni, e voleva che il risultato elettorale fosse considerato tale da determinare ope legis il trapasso dei poteri dalla monarchia alla repubblica; dall'altra parte c'era la pressione di alcune forze politiche e la resistenza opposta dal re, e soprattutto dai suoi consiglieri, i quali pretendevano che si aspettasse fino alla nuova riunione della Corte suprema. Conflitto molto aspro, molto difficile, in cui cozzarono due mentalità: la mentalità dei giacobini come allora si disse e quella dei moderati; un conflitto nel quale il presidente del Consiglio De Gasperi dimostrò molto tatto, molta saggezza, sicché molto si dovette a lui se le cose non si inasprirono fino a una clamorosa rottura, di cui nessuno era in grado di prevedere le conseguenze».
Per tre giorni il Consiglio dei ministri rimane riunito quasi in permanenza al Viminale. Al Quirinale Orlando, Nitti, Bonomi confortano la resistenza del re sul piano giuridico, altri la inaspriscono sul piano della fazione. Il conflitto tra Corona e Governo si è trasferito nel Paese; a Roma si vedono forti schieramenti di polizia e di truppa: spira aria di insurrezione. Il risultato del referendum ha mostrato, che l'Italia è nettamente divisa in due: fortemente repubblicana dall'Umbria in su e fortemente monarchica dal Lazio, in giù. De Gasperi fa pazientemente la spola fra i due palazzi: assorbe mortificazioni da un lato e pressioni dall'altro. L'ambasciatore inglese Sir Noel Charles lo informa che il governo di Sua Maestà interpreta come non definitiva la pronuncia della Cassazione; il Capo della Commissione alleata di controllo, l'americano Stone, lo avverte che il governo italiano non può assumere una posizione diversa da quella della Suprema Corte. Nel Consiglio dei ministri si manifestano ipotesi estreme. Qualcuno dei colleghi di partito accusa De Gasperi di debolezza, quasi di non saper fronteggiare la situazione.
Qual'è dunque la posizione di De Gasperi? Nel giudizio, di Giulio Andreotti, egli mira - pur nella fermezza - ad assicurare soprattutto che una svolta così importante, come è la scelta istituzionale, si possa compiere in modo da non offrire in seguito motivi o pretesti di dubitare che essa non abbia un'assoluta validità morale, prima ancora che politica. Vuole altresì che fra i partiti della coalizione non si cristallizzi una frattura, che impedisca poi il più ampio schieramento in seno all'Assemblea Costituente. E infine non ha dubbio che il re, nonostante i consiglieri, nonostante i cavilli e le divergenze giuridiche, finirà per mantenere l'impegno di lealtà verso il responso popolare.
La notte del 12 giugno si rompono gli indugi. Il governo approva unanime quest'ordine del giorno:
«Il Consiglio dei ministri riafferma che la proclamazione dei risultati del referendum fatta il 10 giugno dalla Corte di Cassazione ha portato automaticamente alla instaurazione di un regime transitorio durante il quale, fino a quando l'Assemblea Costituente non abbia nominato il Capo provvisorio dello Stato, l'esercizio delle funzioni di capo dello Stato spetti ope legis al presidente del Consiglio in carica».
Nel primo pomeriggio del 13, Umberto parte in volo per l'esilio col nome di conte di Sarre. Ha lasciato dietro di sé un proclama piuttosto acrimonioso, in cui dice che «in spregio alle leggi e al potere indipendente e sovrano, della magistratura, il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo con atto unilaterale e arbitrario poteri che non gli spettano» e ha posto il re «nell'alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza». Ma gli elettori che hanno votato per la monarchia accettano democraticamente il volere della maggioranza.
Il 18 giugno, ancora a Montecitorio, la Corte di Cassazione pronuncia finalmente il suo giudizio definitivo. «Ma ormai - ricorda Andreotti - tanto erano prive di interesse per tutti le conclusioni, che nella sala eravamo forse una ventina di giornalisti, e di più non ne erano venuti proprio perché il risultato era dato per scontato, come è scontato il linguaggio dei fatti».
Bibliografia
AA. VV. - Dal 25 luglio alla Repubblica 1943 – 1946 – ERI 1966
10 giugno 1940: l’attacco alla Francia
"Il colpo di pugnale nella schiena" lo chiamerà il presidente americano Roosevelt.
Nel giugno 1940 l’esercito italiano attacca la Francia sul confine alpino: i francesi sono già prostrati dalla disfatta appena subita a opera dei tedeschi, ma i fanti italiani avanzano con enorme fatica. L’equipaggiamento inadatto miete più vittime per assideramento delle pallottole nemiche. “Alla prova della montagna il fascismo era già finito”.
Ha scritto Giorgio Bocca:
«Quello che capimmo in quei frenetici, straccioni, deludenti anni trenta, fu che la guerra era persa prima di cominciare. Dai richiami del 1938, dal Vallo Littorio del 1939 fino all'intervento contro la Francia del 1940, uno spettacolo sconsolante di incuria, di impreparazione, di azzardo e di stupidità. Non eravamo antifascisti, ma il fascismo se ne stava andando da solo con quella sua pretesa di essere un gigante mentre era un nano, con il suo bluff scoperto, con quel suo confrontarsi con le grandi nazioni. Se ne stava andando e non potevi far finta di non vederlo, di non capirlo. Il peggio furono i richiami alle armi di un esercito senza mezzi, senza un vero comando. Ti svegli un mattino nella tua piccola città alpina Cuneo, indossi abiti pesanti perché ha già nevicato sull'incombente montagna, esci per andare a scuola al ginnasio, liceo Silvio Pellico, che sta nella città vecchia vicino al collegio dei Salesiani, dove c'è la piazzetta in cui Garibaldi riunì i primi Cacciatori delle Alpi che solo l'armistizio di Villafranca poté fermare mentre stavano marciando su Trento. Esci di casa e vedi che è in corso uno strano esodo, una lunga fila di poveracci vestiti da poveracci, con il vestito brutto che indossi quando vai sotto le armi e con le valigie di cartone che tiri giù dal solaio quando ti arriva la cartolina rossa, la cartolina precetto del richiamo alle armi, e arrivato in piazza Vittorio, fra la città nuova e quella vecchia, ti chiedi: ma questi dove vanno? Perché le caserme stanno nella città nuova e questi invece si dirigono sui portici di quella vecchia. E quando, come ogni mattino, stai per entrare nei portici li trovi occupati dai poveracci. Le caserme non sono pronte, le brande e i materassi non sono arrivati, hanno buttato uno strato di paglia sotto i portici e lì i richiamati devono dormire. Non si sa neppure come dare loro da mangiare. I mulini privati non hanno scorte sufficienti, quelli dell'esercito sono lontani, fra Piacenza e Alessandria, bisogna aggiustarsi con i panettieri borghesi, pagare i prezzi che chiedono, oppure lasciare che i richiamati si arrangino; vendano ai civili i farsetti a maglia o i teli tenda che hanno appena ricevuto. Quello fu il primo inverecondo spettacolo di un regime che voleva conquistare il mondo avendo le toppe ai pantaloni. Poi arrivò il caos cementifero del Vallo Littorio, che vedevamo sbalorditi con i nostri occhi, noi ragazzi che ogni domenica continuavamo ad andare in montagna. I francesi avevano fin dalla Prima guerra mondiale, da quando l'Italia faceva parte della Triplice, l'alleanza con gli imperi centrali, una linea fortificata che copriva l'intero confine dal mare al Monte Dolent in Valle d'Aosta.
L’ordine di costruire il Vallo Littorio arriva tardi, nel 1938, ed è una corsa disordinata agli appalti di quattrocento aziende senza un preciso piano, con fortificazioni distribuite a caso. I lavori prendono un ritmo frenetico, arrivano dal biellese e dalla bergamasca impresari famelici, alcuni con mezzi ridicoli, un camion e qualche badile, saltano tutti i controlli. Alcune fortificazioni sono prive degli impianti di aerazione, appena si spara i locali si riempiono di gas, i soldati svengono, alcuni si arrangiano mettendo le maschere antigas; in altre mancano i rivestimenti ai muri, l'acqua della neve filtra e può arrivare a metà gamba. I fossati anticarro sono poco profondi.
Anche in montagna le cucine da campo non funzionano, il rancio non arriva. I soldati rimediano come possono, sparano sui camosci delle riserve reali, pescano nei laghi Sella con le bombe a mano, un boato e le trote morte vengono a galla. Camminiamo per le nostre montagne e vediamo come si disfa un regime che si pretende militare e imperiale. Al Colle della Maddalena stanno stendendo i reticolati e il maggiore che dirige i lavori telefona al comando che sta a Bra: "Mi mancano i paletti". Dal comando rispondono: "Cercheremo di farteli avere. Intanto possiamo dire che li state mettendo?". Un giorno mentre siamo al Colle di Tenda, vediamo una lenta carovana militare salire sul colle. Non può usare il traforo: troppo stretto e basso per farci passare i camion giganti da 420 presi agli austriaci nella guerra del 1915-18. Li portano in Val Ruja per una rivista del principe del Piemonte che comanda pro forma la nostra armata. Uno dei cannoni giganti sparerà un unico colpo, sfasciando la canna. La posta non funziona, gli alpini ci danno delle lettere da imbucare giù in pianura. Mancano le pile per i telefoni da campo, le radio sono pesanti, intrasportabili in alta montagna. Gli alpini che incontriamo ci dicono che il loro battaglione conta più muli che soldati. Gli autieri del Genio che devono percorrere tratturi impervi hanno trovato un modo per cavarsela: fingono un incidente, fanno uscire di strada la camionetta.
Come funzioni il comando dell'armata lo vediamo con i nostri occhi. Il comando sta a Bra, sistemato in alcuni vagoni letto delle ferrovie e nei locali del ristorante Alli due buoi rossi; le comunicazioni non funzionano e allora ogni comando di divisione spedisce i suoi al fronte per vedere quel che succede. Succede che le auto si bloccano negli ingorghi all'imbocco delle valli, dove le salmerie non riescono a proseguire e i reparti avanzati non ricevono i rifornimenti.
Due nostre armate sono schierate lungo le Alpi, ventidue divisioni, trecentomila uomini con tremila pezzi di artiglieria. E nessuno capisce perché si debba fare la guerra alla Francia dove lavorano un milione di nostri immigrati. L’eccidio di lavoratori italiani ad Aigues-Mortes è stato dimenticato, i nostri sono accolti fraternamente. Perché fare guerra a un paese già vinto, perché "il colpo di pugnale nella schiena" come lo chiamerà Roosevelt? Lo schieramento francese è ormai ridotto al minimo, dai cinquecentomila uomini dell'inizio della guerra con la Germania si è scesi ai pochi del 10 maggio, quando le ultime riserve sono state mandate al Nord per fronteggiare l'offensiva della Wehrmacht. Restano quarantasei battaglioni per complessivi ottantatremila soldati, ma il morale di questi pochi è ancora buono; la linea fortificata è ottima, e come ha scritto lo stratega Clausewitz: "Attaccare la Francia sulle Alpi è come pretendere di alzare un fucile afferrandolo per la punta di una baionetta". Il nostro comando lo sa: anche in caso di sfondamento, dato lo stato delle strade e il numero dei valichi, non potremo avanzare che per pochi chilometri mentre lo spazio alpino francese è di centinaia di chilometri.
Quando il 10 giugno 1940 entriamo in guerra, la tacita intenzione del nostro comando affidato al maresciallo Badoglio è di aspettare che i tedeschi abbiano sconfitto le armate franco-inglesi, cioè il tacito "se io non attacco, voi non attaccate". Ma si può star fermi se a Roma c'è un Mussolini che vuole a ogni costo "qualche migliaio di morti per sedersi al tavolo della pace"? Bisogna attaccare, costi quel che costi. Il prezzo è ancora alto, ce ne accorgiamo noi che stiamo nelle immediate retrovie, gli ospedali non bastano ad accogliere le migliaia di soldati congelati perché mancano le divise invernali di lana e si combatte con quelle estive di tela, perché gli scarponi sono spesso di cartone e non di cuoio e nella notte del 21 c'è stata un'abbondante nevicata. Le notizie che arrivano dal fronte sono catastrofiche: le divisioni che attaccano il valico del Piccolo San Bernardo finiscono in un intasamento generale, è bastata una frana sulla strada e la resistenza di una compagnia di chasseurs des Alpes perché si formasse una colonna di chilometri, impossibile risalirla con le autoambulanze e con le cucine da campo. I reparti che attaccano in direzione di Briançon sono inchiodati dalle artiglierie del fronte Chaberton, i nostri carri leggeri, le "scatole di sardine" come li chiamano i soldati, si fermano nei reticolati o per avarie al motore; in un vallone un battaglione di fanteria finisce sotto una postazione di mitragliatrici francese. Il massacro è evitato dal comandante francese, il maggiore Renard, che scende a farli prigionieri: trecentotrentacinque che si arrendono senza colpo ferire. Ma sono le notizie che arrivano da Genova e da Torino a farci capire che da questa guerra siamo in pratica già usciti, se ci staremo fino al settembre del 1943 sarà solo perché tenuti in piedi dai tedeschi. Quali notizie da Genova e da Torino? Nel mare di Genova in pieno giorno è comparsa una squadra francese con quattro incrociatori pesanti e venti caccia e si è messa a cannoneggiare indisturbata le fabbriche di Sestri e di Vado, ritirandosi solo nel tardo pomeriggio: la nostra aviazione non si è vista, i piloti dormivano e nessuno ha pensato a svegliarli. E il 15 giugno l'aviazione inglese arriva su Torino, bombarda la Fiat senza che la nostra contraerea intervenga. E non interviene perché non c'è. Nel Mar Ligure la nostra flotta è arrivata tre giorni dopo l'attacco. Mussolini telefona a Hitler perché gli mandi delle batterie, un Hitler generoso e paziente ritarderà l'armistizio con la Francia fino a quando non sarà accettato anche quello con l'Italia. Dicono che all'ingresso dei plenipotenziari francesi il maresciallo Badoglio trattenesse a stento le lacrime della vergogna. Ma il Vallo Littorio avrà almeno una parte preziosa nella guerra partigiana, ci troveremo le centinaia di mitragliatrici abbandonate dal regio esercito.
In Val d'Aosta invece di preparare la guerra il regime si era preoccupato di italianizzare i valdostani, cambiando i nomi dei paesi: al posto di Morgex, Valdigna, di Courmayeur, Cormaiore, di La Thuile, Porta Littoria. Cambio insensato come e più della guerra. I valdostani non erano italianizzabili per la semplice ragione che, nel corso millenario della loro storia, l'Italia in Val d'Aosta non esisteva. Prima che arrivassero i romani diretti in Gallia, nella valle abitavano i celti che erano avanzati fino al Canavese e oltre. Finché erano stati tranquilli e non avevano ostacolato l'avanzata dei romani, li avevano lasciati campare; una volta ribellatisi un console li aveva fatti prigionieri e venduti in gran parte come schiavi sul mercato d'Ivrea; allora Eporedium. Quelli rimasti in valle si erano mescolati con i coloni romani, che poi erano in gran parte legionari arrivati da chi sa dove o patrizi come Aimus e Avilius, impadronitisi delle terre migliori con una fattoria all'inizio della Val di Cogne, precisamente ad Aimaville, come li ricorda il nome. Insomma, la solita mescolanza di stirpi e di storie. La Val d'Aosta aveva seguito per un migliaio di anni i Savoia partecipando alle loro guerre al di qua come al di là delle Alpi, ed è impossibile dire se fossero pro o contro l'attuale Francia. Possiamo solo affermare che la parte più alta della valle attorno al Monte Bianco si chiamava Harpitania dalla parola Harp che significa "montagna" nella lingua parlata dagli indigeni, un patois simile a quelli occitani, derivanti dalla langue d'oc.
Fare una guerra sulle Alpi era un'idea balorda, ma farla sul massiccio del Bianco pura follia. Si era nella catena più alta d'Europa, con montagne sopra i quattromila metri, con nevi eterne, e ghiacciai che portavano ad altri ghiacciai. Per la Val d'Aosta si arrivava nell'Alta Savoia, cioè in villaggi lontani dalla valle del Rodano per un'ipotetica riunione con i tedeschi che scendevano dal Nord. Per fare quella guerra assurda, cioè per simularla, si pensò di usare gli alpini che stavano in valle, del III reggimento e della Scuola alpina. Divisi in quattro gruppi operativi. Uno che per la Val Veny puntava al Col de la Seigne, da cui scendere a Bourg Saint Maurice, altri tre sul Bianco, cioè su un territorio proibitivo anche per dei buoni alpinisti. Quello del Col du Bonhomme era affidato agli uomini della scuola alpina di Aosta comandati da Giusto Gervasutti detto "il fortissimo". Il gruppo di assalto era comandato dal capitano Fabre e dal tenente Lamberti. Alla loro destra un battaglione alpino sul Colle del Gigante, al comando dell'accademico del Club alpino Renato Chabod, famoso scalatore. Nella zona delle Grandes Jorasses c'era la compagnia dell'accademico Boccalatte e all'estrema destra, al Col Ferret, al confine con la Svizzera, i reparti comandati dall'alpinista torinese Emanuele Andreis. Più che un esercito è un raduno dei migliori alpinisti e sciatori italiani. Non esiste un piano militare per la ragione che non esistono veri obiettivi militari, ma dei villaggi che una volta conquistati restano lontanissimi dai nodi strategici. L'obiettivo del gruppo Gervasutti è il villaggio di Les Contamines sotto il Col du Bonhomme da cui si può arrivare a Megève, una stazione elegante di sci. Dal Colle del Gigante per arrivare a Chamonix bisognerebbe scendere per i quattordici chilometri della Mer de Glace e per i suoi crepacci. Così gli altri due settori. E allora perché mandare su quelle rocce, su quei ghiacciai la crème dei nostri alpini se lì la guerra è impossibile?
La ragione di uso comune nel regime di cartapesta: se non ci sono, se non posso, devo almeno far finta di esserci.
Gli alpini del resto sono abituati alle assurdità dell'esercito, hanno inventato la parola "naja" che vuol dire: questo è il nostro destino, di sacrifici, di fame, di freddo, di morte, il destino che non si discute dei montanari poveri. Non ha senso fare una guerra per la quale non si è preparati nei luoghi dove farla è una follia. Ma bisogna farla. È naja. Anche in Val d'Aosta i magazzini sono vuoti. Il reparto d'assalto della Scuola alpina non ha una radio da campo e neppure un eliografo, cioè una bandiera a lampo di colore. Per i collegamenti dovrebbe usare una muta di cani lupo addestrati al traino di slitte inutilizzabili sui ghiacciai del Bianco. I nostri arrivano in Val Veny e finalmente vengono informati del loro obiettivo insensato. Hanno gallette e carne in scatola per due giorni, non hanno un medico da campo, solo un infermiere improvvisato con uno zainetto con qualche pastiglia di aspirina, della garza, delle bende e una bottiglietta scura con su scritto "veleno" che è tintura di iodio. Finché si sale per le pietre del cono di deiezione la fatica è sopportabile, ma dove comincia il ghiacciaio e bisogna portare a spalle il treppiede della mitragliatrice Beretta che pesa una ventina di chili, bisogna darsi il cambio ogni cento metri di dislivello. Gli uomini si muovono in un silenzio surreale per una guerra, rotto solo dalle scariche di pietre e dalle piccole slavine. Nell'opposto vallone della Lex Blanche salgono gli alpini del battaglione Duca degli Abruzzi, anche loro diretti al nulla del ghiacciaio di Lechaud. E tutti sanno che se arriveranno sul tetto di ghiaccio non troveranno dei nemici veri, ma i loro simili, i chasseurs des Alpes, incontrati ogni anno nei rifugi, con i quali si è gareggiato ogni anno sugli sci e magari festeggiato, come la volta che gli alpini del sergente Prenn, ribattezzato Perenni, hanno vinto la gara di pattuglie alle Olimpiadi di Garmisch. Gli amici diventati nemici sono pochi, quello che resta dell'armata francese delle Alpi, ma ci sono; sono armati e hanno dei buoni binocoli con cui osservano le nostre mosse, dal Col du Bonhomme, dal rifugio del Col du Midi.
L'ordine di operazione è come i discorsi dei gerarchi e dei generali: euforico e ineseguibile, i nostri reparti dovrebbero superare il tetto del Bianco, le sue calotte di ghiaccio, le sue guglie di roccia per tagliare la ritirata a una difesa francese che si è già sciolta da sola, lasciando solo un velo di retroguardia. Nel silenzio che perdura mentre il gruppo di Lamberti si avvicina al colle, qualcuno pensa che non esista più il nemico, che i francesi siano tornati a casa quando hanno saputo della disfatta del fronte nord. Ma non sono tornati tutti a casa. Sul Col du Bonhomme è rimasto con i suoi éclaireurs-skieurs il tenente Jean Bulle, lui con il suo binocolo segue tutto ciò che si muove dal Col de la Seigne al Bianco; e quando vede che gli alpini stanno affondando fino al ginocchio nella neve marcita dalla nebbia apre il fuoco. Le raffiche zampillano davanti ai nostri, ma bisogna defilarsi. Lamberti, che ha una memoria buona, annoterà nel suo diario: "Finché le pallottole fischiano sulla tua testa non sono pericolose. Quella che ti uccide non la senti". Arrivano anche dei colpi di artiglieria che partono da postazioni in caverna, nei pressi di Bourg Saint Maurice. Il capitano Fabre si salva per miracolo da una slavina, Lamberti che è più alto lo vede appeso alla piccozza.
Il tenente Bulle e la sua pattuglia hanno fatto il loro dovere fino alla fine, scendono a Les Contamines e finalmente i nostri dal colle possono vedere sotto di loro le quattro case per cui hanno rischiato la vita, per cui alcuni sono morti, come un fratello di Zeno Colò. Il gruppo di assalto viene sciolto, Lamberti e Fabre tornano ad Aosta. Lamberti annota: "È stata una prima esperienza di guerra. Il meno che se ne possa dire: demoralizzante".
l nostri hanno conquistato Bourg Saint Maurice, che dista dal confine una decina di chilometri. Mentre la banda .suona per festeggiare la vittoria arrivano dei colpi di artiglieria. Li hanno sparati i francesi del forte di Traversette. Anche loro tornano a casa. Almeno non facciamo prigionieri.
Verso il mare nella Val Roya l'avanzata della divisione Modena è stata subito bloccata, la divisione Cosseria si è praticamente persa nell'entro terra di Sospel, i soldati hanno camminato per trenta ore e al primo contatto con i francesi si sono fermati sfiniti. "Sono giorni," osserva il ministro Bottai, "di combattimenti tentati più che compiuti". Il treno armato con quattro cannoni da 152 esce dalla galleria sotto i giardini Hambury e viene subito centrato dalle batterie francesi di Cap Saint Martin e retrocedendo s'incastra con un cannone nella muraglia. Il generale Gambara, comandante del XV corpo di armata, ha deciso di fare due sbarchi a Mentone. I mezzi da sbarco stanno nel porto di Sanremo, sono dei barconi con motori fuoribordo. Dopo una prova ne rimangono utilizzabili solo otto, e mentre nella notte navigano verso Mentone vengono sospinti dal mare grosso sul promontorio della Mortola. Si rinuncia allo sbarco, nessuno capisce perché si siano impiegati dei reparti della Milizia senza addestramento quando c'è a Imperia il Battaglione san Marco, fanteria di marina. Forse Gambara ha voluto crearsi dei meriti presso il partito. Il giorno 23 una colonna scesa dalle montagne occupa Mentone. Osserva un ufficiale dello stato maggiore: "Solo venendo a contatto con la linea difensiva francese ci sarebbe stata una vera battaglia di rottura, la quale invece non ci fu né poteva esserci". Come a dire: non abbiamo fatto una guerra vera perché non eravamo in grado di farla.
Abbiamo avuto seicentotrentuno morti e seicento sedici dispersi. Chi sono questi dispersi, se il campo di battaglia è tutto percorso da strade e ferrovie? Sono dei disertori, a migliaia come ce ne furono in tutte le guerre. I francesi hanno perso trentasette uomini e quarantadue feriti.
Già la mattina del 17 giugno il plenipotenziario Baudoin (gli stessi nomi appena aggiustati da una parte come dall'altra di un confine inventato: Baudoin è Baudino, Giraud è Giraudo, Serrat è Serrati) ha presentato al nunzio apostolico monsignor Valeri le proposte francesi. Due le condizioni: l'impossibilità di consegnare la flotta che è già pronta ad autoaffondarsi e "la ricerca comune di una pace durevole" cioè che la Francia venga trattata come una grande potenza. Gli italiani accettano pur di fare in fretta. Giunge a Roma per concludere il generale Hutzinger, gli italiani chiedono di poter presidiare il territorio conquistato, praticamente nulla. Mai nella storia si sono visti dei vincitori così pieni di vergogna di fronte ai vinti. I delegati francesi non hanno ancora finito la lettura, che i nostri gli vanno incontro per stringer loro le mani; Ciano, Badoglio, Pricolo e Roatta sono turbati e affettuosi. Hutzinger ha ancora da chiedere se possiamo lasciargli i pochi aerei rimasti, Badoglio acconsente. Poi c'è da risolvere la spinosa questione dei fuoriusciti antifascisti, i francesi chiedono che si capisca il loro stato d'animo: non possono consegnarci persone cui hanno dato ospitalità. In nessuna clausola dell'armistizio si parlerà dei fuoriusciti. All'Italia fascista va bene che se ne taccia, l'opinione pubblica scoprirebbe che migliaia d'italiani sono riparati all'estero. La firma avviene alle 19:16, Hutzinger si congratula con Badoglio "per l'alto stile con cui ha diretto le trattative", Badoglio risponde: "La Francia è una grande nazione con una grande storia e sono sicuro che non le potrà mancare l'avvenire". Già appare la trama della grande alleanza conservatrice che si formerà nell'Europa occupata dai nazisti, la Francia è pronta al petainismo, l'Italia ha già rinunciato alla Tunisia e alle altre colonie francesi dimostrando di non avere in mente alcuna strategia: nei giorni che seguiranno tenterà timidamente in Libia un'offensiva contro gli inglesi, che sono comunque un osso duro, e lascerà tranquilla la Tunisia praticamente indifesa, che ci assicurerebbe il controllo del Canale di Sicilia e delle comunicazioni fra il Mediterraneo orientale e quello occidentale, che poi dovremo difendere con perdite pesantissime. Non sappiamo vincere neppure per finta, il Duce ha la pessima idea di visitare i campi di battaglia. Hitler si fa fotografare sotto l'Arc de Triomphe e alla tomba di Napoleone, e Mussolini va su e giù per le valli alpine dove non c'è quasi traccia della battaglia. Che pensano gli italiani di questa guerra? Si rendono conto che sono bastati quei pochi giorni a segnare il nostro declassamento sullo scenario mondiale, la fine della nostra propaganda imperiale? Molti capiscono, ma si adattano; dopotutto ci siamo schierati dalla parte del vincitore tedesco, raccoglieremo le briciole della sua vittoria, comunque sempre meglio che niente».
Bibliografia:
Giorgio Bocca - Le mie montagne. Gli anni della neve e del fuoco – Feltrinelli 2006
la liberazione della Sicilia
15 maggio 1943
Da due giorni la guerra in Africa è finita: gli Alleati vittoriosi celebrano la conclusione della campagna con una grande parata.
Sfilano sul lungomare di Tunisi i soldati di cinque continenti: sono l'avanguardia di un grande esercito che, presa finalmente l'iniziativa, è riuscito a ottenere un primo successo decisivo.
Dal novembre 1942 al maggio 1943 la situazione militare in Europa e in Africa s'è capovolta. Gli Alleati sono dappertutto all'offensiva. In Russia l'armata sovietica, sconfitti i tedeschi a Stalingrado, si prepara a cacciarli dall'Ucraina e a liberare l'intero territorio nazionale.
Nel Nord Africa l'VIII Armata britannica del generale Montgomery, sfondate le linee italo-tedesche a El Alamein, ha avanzato in pochi mesi fin dentro la Tunisia collegandosi agli americani sbarcati in Algeria, al comando di Eisenhower, ai quali si sono aggiunti i contingenti della Francia libera.
Tunisi è caduta il 13 maggio.
Gli eserciti dell'“asse” sono sconfitti. Centocinquantamila prigionieri tedeschi, centomila italiani. Per i tedeschi è una replica di Stalingrado: per gli italiani è qualcosa di peggio, è la fine di ogni speranza. Per gli Alleati è semplicemente la prima fase di un'operazione più vasta che mira ad un attacco diretto alla fortezza europea.
L'obiettivo più prossimo e naturale è l'Italia.
È il terzo anniversario della dichiarazione di guerra.
L'attacco all'Italia comincia dal punto più meridionale. Siccome le isole di Pantelleria e di Lampedusa sbarrano il canale di Sicilia, gli Alleati hanno deciso di occuparle.
Dal 15 maggio Pantelleria è assediata; il rifornimento di viveri e d'acqua è quasi impossibile. Massicci attacchi aerei sconvolgono le difese dell'isola.
Lo sbarco è affidato ad una Divisione di fanteria inglese, ma l'ideatore dell'operazione è il generale Eisenhower che vuole Pantelleria per il suo aeroporto, per le aviorimesse, e i ricoveri scavati nella roccia.
Le poche batterie italiane ancora in grado di sparare sono ridotte in breve al silenzio.
Finora gli italiani hanno creduto alla propaganda fascista che dipingeva Pantelleria come una fortezza imprendibile. Non conoscevano la potenza distruttiva dei bombardamenti aerei e navali.
Il mattino dell'11 giugno, quando i primi soldati inglesi sbarcarono sull'isola, non trovarono opposizione. Giudicata impossibile ogni resistenza l'ammiraglio Pavesi, comandante della piazzaforte, aveva chiesto a Roma il permesso di capitolare. Mussolini l'aveva concesso subito. Così lo sbarco avvenne senza perdite. L'unica vittima da parte alleata, disse più tardi il generale Bradley, fu un soldato inglese morso da un asino.
Come in Tunisia, gli italiani si arrendevano non soltanto perché soverchiati dalla potenza militare avversaria, ma perché sapevano che ogni resistenza sarebbe stata priva di senso. Civili e militari, e non solo a Pantelleria, non consideravano più gli anglosassoni come nemici.
Dopo Pantelleria fu la volta di Lampedusa.
Attaccata dal mare, il mattino del giorno 12, l'isola si arrese poco prima di sera. La sua rapida caduta era attesa. Quando si è sulla china della disfatta, tutto ciò che abbrevia i tempi della sofferenza è accettato con sollievo.
Salvo pochi fanatici che parlarono di tradimento, nessuno osò criticare l'ammiraglio Pavesi per la sua condotta.
Più rapidamente del previsto gli Alleati avevano concluso le operazioni preliminari dell'attacco all'Italia.
Pantelleria ne era stata la prova generale. Era il momento di attuare il piano già approvato in gennaio alla conferenza di Casablanca. La Sicilia doveva essere il primo obiettivo dell'invasione, ma intanto occorreva colpire direttamente tutta l'Italia per indurla ad uscire dalla guerra. Furono sei mesi molto duri per il nostro Paese.
Gli italiani non possono ripensare a quel periodo senza riudire il segnale d'allarme delle sirene che annunciavano l'arrivo incontrastato dei bombardieri. Gli obiettivi preferiti erano le città del Mezzogiorno.
Erano attacchi sufficienti a disorganizzare la vita di un Paese già provato, e ad abbatterne il morale. Gli italiani non avevano un ideale politico che li aiutasse a sopportare. Vedendo crollare le loro case avevano la sensazione della fine e si chiedevano: «perché?».
Più gravi, agli effetti della continuazione della guerra, erano le distruzioni degli impianti: industrie, porti, stazioni ferroviarie, vie di comunicazione. Distruzioni che paralizzavano la macchina militare. In mezzo a tante rovine i vecchi “slogan” della propaganda fascista suonavano falsi.
Il terrore spingeva decine di migliaia di persone a sgomberare le città maggiormente esposte agli attacchi. La situazione alimentare era gravissima, accentuata dalla crisi dei rifornimenti e dall'aumento dei prezzi. Gli stessi gerarchi fascisti ammettevano che i salari coprivano poco più di metà della spesa quotidiana. D'altra parte le razioni assicurate dal tesseramento si rivelavano sempre più insufficienti.
La fame inaspriva il malcontento. Questo tra l'altro spiega il successo degli scioperi scoppiati in quei mesi nell'Italia settentrionale, che coinvolsero (solo a Torino) oltre centomila operai. Erano scioperi economici, che però avevano un fine politico.
A vedere i soldati reduci dai fronti, specie da quello russo, si provava non ammirazione, ma pietà. Ci si chiedeva, ormai ad alta voce, che cosa si aspettasse a farli tornare tutti in patria e a por fine alla guerra.
A fine giugno rimanevano all'Italia 59 Divisioni efficienti, 32 delle quali erano dislocate nei Balcani e nell'Egeo, cinque in Provenza, due in Corsica e quattro in Sardegna. Sulla penisola si trovavano soltanto 12 Divisioni. Sei erano nell'Italia settentrionale, assai disperse e lontane dai valichi alpini comunicanti con la Germania. Attorno a Roma erano concentrate 4 Divisioni. Due erano dislocate nel meridione.
La VI Armata di Sicilia, che solo da pochi giorni aveva un nuovo comando, era formata da 4 Divisioni, mescolate e spesso in contrasto con i tedeschi. L'invasione era imminente, eppure la propaganda fascista ostentava ottimismo. Anche i cinegiornali ne traboccavano. Gran rilievo fu dato all'ultima visita del re in Sicilia. Ecco il commento del presentatore:
«Il Re Imperatore sbarca in un porto della Sicilia iniziando il lungo ed interessante viaggio nell'isola, viaggio durato otto giorni durante i quali il Sovrano ha visitato gli apprestamenti bellici ed ha vissuto tra le truppe e la popolazione, trovando le une e l'altra animate da uno spirito altissimo e da un'indomita volontà di vittoria.
Il Sovrano ispeziona delle opere di difesa; visita un aeroporto che ospita reparti italiani e germanici. Ispeziona unità di camicie nere. Torna dal lungo e laborioso viaggio nell'isola tra le sue truppe, nell'atmosfera ardente d'entusiasmo e di spirito bellico in cui vivono i soldati di terra, di mare e del cielo che presidiano il territorio della Sicilia».
Gli italiani si chiedevano perché si mettesse tanto in mostra quel re che aveva trascorso gli anni della guerra in un completo isolamento.
Ma qual'era la reale situazione delle difese dell'isola?
Cediamo la parola a uno storico che fu testimone diretto, il generale Emilio Faldella, capo di S.M. della VI Armata.
«Alla vigilia dello sbarco c'erano per modo di dire delle fortificazioni in Sicilia; cioè c'erano delle piazze marittime, quelle di Augusta e Siracusa e di Trapani che erano fortificate con delle opere sufficienti, ma tutto il rimanente non si può dire che fosse effettivamente fortificato: vi erano delle postazioni in cemento per mitragliatrici, c'erano dei fossi anticarro, c'era un po' di reticolati, c'era qualche zona minata, ma era stato impossibile fare un'organizzazione anche lontanamente paragonabile a quella del Vallo Atlantico perché mancava il cemento, mancava il ferro, mancavano le cupole corazzate. Queste organizzazioni difensive erano più che altro organizzazioni per la osservazione e per la difesa immediata delle coste contro gli attacchi di "commandos". Parlare di artiglierie e di difesa costiera è molto improprio perché o erano delle artiglierie da campagna, che sparavano a tre, quattro chilometri, cinque, sei al massimo; oppure erano delle batterie antiquate che sparavano a nove, dieci chilometri; quindi nulla di paragonabile alle artiglierie navali. Le truppe, poi, destinate a questa difesa, erano: sulla linea costiera le Divisioni costiere le quali davano una sicurezza molto relativa sia per entità numerica dei reparti (il battaglione contava circa seicento uomini) sia per l'armamento, sia per la mancanza assoluta di mobilità sia della fanteria sia dell'artiglieria. Per dire poi quale fosse l'effettiva efficienza di queste Divisioni basta pensare che su un chilometro di fronte c'erano schierati trentasei uomini e due mitragliatrici. Ogni nove chilometri si aveva una batteria di quattro pezzi».
La situazione economica, sociale e morale della Sicilia era ancor più triste di quella militare. Tutti i mali di cui soffriva allora l'Italia, - miseria, carestia, disorganizzazione della vita civile -, qui erano inaspriti dallo stato di grave isolamento e dal martellamento massiccio dell'aviazione alleata. Il malcontento dei siciliani era aggravato dalla presenza dei tedeschi, che si abbandonavano frequentemente a violenze e ruberie. Era vivo il desiderio di uscire comunque dalla guerra.
Di abbondante in Sicilia, a quell'epoca, c'erano solo le scritte inneggianti al duce e al regime, dipinte sui muri molto tempo prima.
Sembrava che in tutti quegli anni il fascismo fosse stato capace di produrre soltanto parole. Anche i manifesti della propaganda che parlavano di «Sicilia eroica e fedele, trincea della civiltà europea» apparivano come una derisione.
Realtà quotidiana erano le sanguinose indisturbate incursioni dell'aviazione alleata. Il 19 maggio l'offensiva aerea s'intensificò. Palermo fu la prima città ad essere colpita sistematicamente, soprattutto nel porto.
In giugno cominciarono gli attacchi agli aeroporti. Fu una strage. Alla vigilia dello sbarco, soltanto 49 apparecchi italiani efficienti rimanevano in Sicilia. Anche l'aviazione tedesca subì perdite gravissime.
Per ingannare i comandi dell'“asse” sulle loro intenzioni, gli Alleati concentravano gli attacchi ora su un settore ora sull'altro. Si colpivano le città e i porti contemplati dai piani di sbarco, ma anche quelli che ne erano fuori. Alla fine di giugno non c'era ormai un centro abitato di qualche importanza che non avesse sofferto.
In ultimo la rovina si abbatté su Messina. Tutte le navi traghetto, meno una, vennero affondate; i rifornimenti si ridussero ancora e crebbe nell'isola la sensazione d'essere completamente abbandonati dal resto d'Italia.
Il governo fascista continuava a nascondere la verità.
Il 5 luglio, quando la flotta d'invasione era ormai pronta a salpare, i giornali pubblicarono il testo del discorso che Mussolini, già perfettamente al corrente della situazione in Sicilia, aveva tenuto qualche giorno prima ai gerarchi fascisti.
Mussolini fra l'altro dichiarò:
«Il nemico deve giocare una carta. Ha troppo proclamato che bisogna invadere il continente. Lo dovrà tentare, questo, perché altrimenti sarebbe sconfitto prima ancora di avere combattuto.
Bisogna che non appena il nemico tenterà di sbarcare sia congelato su quella linea che i marinai chiamano del "bagnasciuga", la linea della sabbia. dove l'acqua finisce e comincia la terra. Se per avventura dovessero penetrare, bisogna che le forze di riserva, che ci sono, si precipitino sugli sbarcati, annientandoli fino all'ultimo uomo. Di modo che si possa dire che essi hanno occupato un lembo della nostra patria, ma l'hanno occupata rimanendo per sempre in una posizione orizzontale, non verticale».
La più grande flotta che avesse mai solcato le acque del Mediterraneo si era data appuntamento nello stretto di Sicilia. A destra il convoglio che portava l'VIII Armata inglese del generale Montgomery puntava sulle coste sud-orientali dell'isola. A sinistra, diretto verso le coste meridionali, il convoglio che trasportava la VII Armata americana.
Erano complessivamente quasi 1.500 navi da trasporto e oltre 1.800 mezzi da sbarco. 280 navi da guerra facevano da scorta ai due convogli che portavano 160.000 uomini, 14.000 veicoli, 600 carri armati, 1.800 cannoni; 4.000 aerei erano allineati nelle basi nordafricane.
Comandava la VII Armata americana il generale Patton, una delle figure più caratteristiche della guerra.
Il 9 luglio mattina, improvvisamente si levò un vento fortissimo e una violenta bufera sconvolse il Mediterraneo. Qualcuno propose di tornare indietro, ma l'operazione ormai era scattata.
Quella sera, nonostante il maltempo, dagli aeroporti del Nord Africa, decollò l'LXXXII Divisione aviotrasportata americana.
Nel settore della VII Armata i paracadutisti dovevano atterrare fra Niscemi e Gela per preparare una testa di sbarco alla fanteria. Ma la bufera, l'oscurità e una generale confusione dispersero i paracadutisti su un fronte di 100 chilometri.
Nel settore inglese soltanto dodici alianti atterrarono vicino agli obiettivi di Siracusa e Pachino. Quarantasette caddero in mare e molti paracadutisti finirono sotto il fuoco dei difensori.
L'operazione si risolse in un disastro. I paracadutisti furono in gran parte eliminati prima del mattino.
Il mare intanto si era inaspettatamente placato e nel settore orientale le navi da guerra aprirono il fuoco.
Gli inglesi dell'VIII Armata furono i primi a prendere terra. Un'ora dopo che le navi erano entrate in azione, le avanguardie del XXX Corpo sbarcavano dai mezzi d'assalto sulla penisola di Pachino. Seguivano a ritmo accelerato, fra Avola e le spiagge a sud di Siracusa, le prime ondate del XIII Corpo britannico.
Ciò che stupiva gli invasori era la quiete che regnava su quelle coste. Le due o tre batterie che in certi punti avevano risposto al fuoco, erano subito state ridotte al silenzio dai tiri combinati delle navi.
Perciò gli sbarchi avvenivano quasi ovunque senza combattere. Nelle prime ore del mattino, mentre sulle spiagge era un riversarsi continuo di automezzi, carri armati, cannoni, i reparti più avanzati marciavano già sulle strade dell'isola, diretti verso i paesi dell'interno.
Intanto sulle coste sud-occidentali avvenivano gli sbarchi degli americani. All'alba presero terra, a Scoglitti, i fanti della XLV Divisione. Non trovarono alcuna resistenza. Il nome della prima città incontrata, Vittoria, era come un augurio.
Ma sulla sinistra la flotta americana, che s'era avvicinata senza sparare per sorprendere i difensori, fu avvistata alle prime luci dell'alba e le batterie italiane aprirono il fuoco.
Sotto i colpi delle artiglierie navali, le postazioni italiane resistettero tenacemente fino all'esaurimento delle munizioni.
Davanti a Gela gli sbarchi della I Divisione americana continuarono al riparo di cortine fumogene ma, stranamente, senza alcuna protezione aerea.
Nelle deboli e isolate trincee, i reparti costieri italiani non potevano resistere a lungo. Presto la battaglia s'accese nelle strade della città, dove un contrattacco italiano fu respinto a fatica. Alle otto del mattino gli “Stukas” tedeschi piombarono sulla testa di ponte.
Senza l'appoggio dell'aviazione e privi di mezzi corazzati e di artiglieria pesante, ancora a bordo delle navi, gli americani vennero a trovarsi in una situazione critica che peggiorò nel pomeriggio.
La flotta subì gravi perdite, ma verso sera finalmente cominciarono a sbarcare i primi carri armati e i primi cannoni.
Intanto le forze italo-germaniche si raggruppavano a nord di Gela per convergere sulla testa di ponte e ricacciare in mare gli americani.
La Divisione “Livorno” attaccò il mattino dell' 11 luglio. Allo scoperto, sotto il fuoco degli americani trincerati alla periferia della città, gli italiani avanzarono fin quasi alla spiaggia.
La Divisione “Goering” partì più tardi, su tre colonne, con 60 carri armati.
Quando gli americani ne udirono rombare i motori e sferragliare i cingoli, si sentirono tremare il cuore. Così confessarono loro stessi dopo la battaglia.
Alle undici e mezzo la situazione era così critica che il comando della VII Armata americana mandò alla I Divisione l'ordine di tenersi pronti per il reimbarco.
Il fuoco di sbarramento dell'artiglieria navale arrestò gli attaccanti. Quando il generale Patton scese a terra dopo il mezzogiorno, il momento critico era passato. Prima di sera italiani e tedeschi si ritirarono sulle colline dell'interno.
Il generale Von Senger, futuro comandante dei tedeschi a Cassino, che aveva assistito alla battaglia da un'altura a 8 chilometri dalla città, si rese conto che la Sicilia era perduta.
Quarantotto ore dopo lo sbarco, le teste di ponte dell'VIII Armata inglese, da Pozzallo a Capo Murro di Porco, e della VII Armata americana, da Scoglitti a Licata, erano ormai saldamente organizzate.
Respinto a Gela il contrattacco delle Divisioni “Livorno” e “Goering”, la VII Armata si congiunse presso Ragusa con l'VIII, che nel settore orientale continuava ad avanzare senza difficoltà.
Il generale Montgomery aveva due obiettivi: proseguire a ovest, d'intesa con gli americani, e avanzare a nord-est per impadronirsi dei porti della costa ionica, fino a Catania.
Ad Avola gli inglesi incontrarono un gruppo di soldati americani col viso sporco di nerofumo. Erano i paracadutisti del lancio avvenuto la notte fra il 9 e il 10. Qui gli italiani avevano fatto un tentativo di resistenza, poi molti s'erano nascosti nelle case, altri erano stati fatti prigionieri.
Andarono ad ingrossare le file dei loro commilitoni catturati nei primi due giorni. Tutti venivano condotti ai porti e imbarcati sugli stessi mezzi serviti all'invasione. Nel Nord Africa li attendevano i campi di concentramento.
Avanzando sulla sinistra verso la testa di ponte americana, gli inglesi occuparono Noto. In ogni città conquistata issavano la bandiera della vittoria e non avevano rapporti con gli abitanti. Le strade che vedevano passare le colonne di un esercito famoso erano quasi vuote. I siciliani stavano chiusi in casa, dietro le porte e le finestre sbarrate. Diffidavano di quegli sconosciuti e per il momento stavano a vedere.
Siracusa era già stata occupata la sera del dieci. Prima che gli inglesi attaccassero la città, gli italiani avevano fatto saltare le batterie costiere e contraeree e incendiato i depositi di carburante. Poi s'erano arresi.
La rapida conquista di Siracusa fu decisiva agli effetti delle operazioni perché gli Alleati poterono subito utilizzare il grande porto e le sue banchine.
Anche ad Augusta il porto rimase pressoché intatto.
Non appena le avanguardie della V Divisione inglese si avvicinarono alla piazzaforte, l'ammiraglio Leonardi fece saltare le difese, i magazzini e l'arsenale.
Tutto diviene assurdo e confuso quando le cose volgono al peggio. Le catastrofi militari, sotto questo punto di vista, si somigliano.
Il quarto giorno dell'invasione segnò l'inizio del disgelo fra soldati e popolazione. A Palazzolo Acreide gli inglesi della LI Divisione catturarono un treno carico di farina, che i tedeschi avevano razziato dai magazzini comunali e dalle fattorie, e che nella fretta della ritirata avevano dovuto abbandonare. Il comando ordinò di distribuirla alla popolazione.
Per gli Alleati fu un colpo propagandistico. Da allora i siciliani cominciarono a mostrarsi meno diffidenti. Aspettavano l'arrivo delle truppe all'ingresso dei paesi, si raccoglievano in gruppi ai lati delle strade osservandone il passaggio, e quando una colonna si fermava in mezzo all'abitato, la circondavano con applausi e sorrisi. L'accoglienza era ancora più calorosa dove arrivavano gli americani, forse per il fascino del mondo nuovo che li accompagnava.
Il 13 luglio, sulla strada di Augusta, il generale Gotti-Porcinari, comandante della Divisione “Napoli”, cadde con il suo Stato Maggiore nelle mani degli inglesi. Proprio quel giorno la Divisione aveva ricevuto l'ordine di contrattaccare nel settore di Augusta. Il Comando d'Armata si trovò quindi costretto a ritirarla prima che gli inglesi l'accerchiassero.
I prigionieri furono ugualmente molti, ma il generale Guzzoni riuscì tuttavia nella manovra di raccogliere su una linea più ristretta le forze rimastegli. Così nella seconda metà di luglio, alle soglie della piana di Catania, l'impeto offensivo dell'VIII Armata urtò contro una resistenza inaspettata. Intorno al ponte di Primosole, sul fiume Simeto, fu combattuta la battaglia più violenta di tutta la campagna di Sicilia.
Paracadutisti inglesi e tedeschi se ne disputarono per qualche giorno il possesso. Il ponte passò più volte di mano. I tedeschi non riuscirono a farlo saltare e infine dovettero abbandonarlo.
I famosi “diavoli verdi” che Hitler aveva mandato sul fronte siciliano per ricacciare in mare gli Alleati, si avviavano in gran numero verso i porti d'imbarco e i campi di prigionia.
Catania non distava ora che 10 chilometri, ma per vari giorni il XIII Corpo dell'VIII Armata inglese non avrebbe fatto grandi progressi oltre il fiume Simeto. Sulla sinistra, intanto, il XXX Corpo britannico occupava Caltagirone e Piazza Armerina, mentre la VII Armata americana, vinta la resistenza delle truppe italiane davanti ad Agrigento, iniziava una rapida avanzata nella Sicilia occidentale.
Il generale Truscott riassume così questa operazione:
«Dopo che venne presa Licata ed Agrigento si decise che la VII Armata avrebbe protetto il fianco sinistro dell'VIII Armata inglese che stava facendo lo sforzo maggiore, ma avrebbe anche conquistato Palermo.
Mentre la I Divisione americana occupava Caltanissetta il 18 luglio e l'LXXXII proseguiva lungo la costa sud-occidentale verso Trapani, la III Divisione di fanteria che io comandavo iniziava la marcia verso Nord.
Credo che a noi tutti abbia fatto impressione l'evidente miseria dei villaggi siciliani, ma nessuno di noi dimenticherà le affettuose accoglienze che ricevevamo al nostro passaggio. I genitori e i nonni di molti dei nostri soldati erano emigrati dalla Sicilia negli Stati Uniti. Apparve evidente a tutti noi il sollievo dei siciliani all'idea che per loro la guerra era finita.
Il generale Patton era ansioso di prendere Palermo dopo aver spazzato la Sicilia occidentale con i mezzi corazzati. In quel momento, tedeschi e italiani si stavano ritirando dalla zona, per cui il principale ostacolo incontrato dai reparti corazzati erano le zone minate sulle strade che dovevano essere percorse dai carri armati. Fu per questo che la mia Divisione, procedendo per cento miglia da Agrigento verso nord a marce forzate, poté arrivare a Palermo in meno di cinque giorni e prima dei mezzi corazzati».
Il 22 luglio il comandante territoriale di Palermo, generale Molinero, andò incontro al generale Keys che era in testa alla colonna americana e offrì la resa della città chiedendo alcune garanzie per i suoi soldati. Keys insistette per la resa incondizionata. Una città vuota, stremata, accolse gli alleati.
Palermo era la prima grande città europea conquistata dagli Alleati. E per la prima volta degli italiani li chiamavano «liberatori» nonostante l'occupazione formale.
La visita del generale Patton al cardinale Lavitrano contribuì a rafforzare i rapporti amichevoli che scavalcavano quelli ufficiali dei due governi ancora in guerra.
Qualche giorno dopo Patton diede ordine di liberare i prigionieri siciliani. Fu un gesto umano e nello stesso tempo di buona politica. La popolarità degli Alleati si accresceva. E dalla gioia dei siciliani si poteva misurare quanto scarsa fosse ormai la presa che il fascismo aveva sul popolo.
La rapida avanzata della VII Armata americana verso Trapani e Palermo non isolò completamente le truppe italiane che si trovavano nella Sicilia occidentale. Sfilando davanti alle avanguardie del generale Patton, reparti delle Divisioni “Aosta” e “Assietta” riuscirono infatti a congiungersi con le rimanenti forze italo-germaniche, che si ritiravano ordinatamente. Si poté così costituire, da Santo Stefano di Camastra alla piana di Catania, una prima linea di resistenza che per alcuni giorni rallentò l'avanzata angloamericana.
Aerei italiani e tedeschi, dopo l’arresto di Mussolini del 25 luglio e il nuovo governo Badoglio, bombardarono il porto di Pantelleria che gli Alleati utilizzavano per i rifornimenti alla Sicilia. Doveva essere una prova che l'Italia teneva fede alle alleanze.
In Sicilia la guerra continuava sul fronte di Catania. La manovra ritardatrice di Guzzoni sembrava riuscita. Ora gli inglesi attaccavano verso sinistra. Attorno alla stazione di Sferro, caposaldo della linea che sbarrava l'accesso alla piana di Catania, la battaglia durò 48 ore.
Gli attacchi dell'VIII Armata britannica continuarono fino alla fine di luglio. Poi Montgomery decise di intensificare l'offensiva sulla sinistra, nel tentativo di prendere Catania per aggiramento. Il paese di Regalbuto alle falde dell'Etna venne occupato dai canadesi il 10 agosto.
Centùripe era considerata il perno della linea di difesa per la sua posizione elevata. Cadde il 3 agosto.
Dopo due giorni fu presa Paternò.
La situazione dei difensori diventava sempre più insostenibile. Il 25 luglio aveva aggravato la crisi dei reparti superstiti della VI Armata italiana, mentre i tedeschi avevano avuto l'ordine di passare al più presto sul continente.
Misterbianco era l'ultimo caposaldo a ovest di Catania: cadde senza resistenza.
Crollato il fascismo, i siciliani ormai consideravano gli invasori come degli amici.
In Sicilia era difficile credere alle parole di Badoglio sulla continuazione della guerra. Tutti capivano che si trattava di una frase dietro la quale c'era la volontà di far la pace. Nei paesi liberati la gente cominciava a manifestare le proprie opinioni.
Superate le ultime resistenze, il 5 agosto le avanguardie del XIII Corpo britannico entrarono a Catania da ovest e da sud. Per oltre venti giorni la città era stata la retrovia del fronte e ora, partite le truppe che la difendevano, le autorità aspettavano gli Alleati chiuse nella caserma dei carabinieri. Così a differenza di Palermo, Catania era in uno stato di grave disordine. La popolazione era esasperata dalle privazioni e dalla miseria. Mancava tutto: la carne, il latte, il pane. Il saccheggio era cominciato già prima della partenza dei tedeschi, e in molti casi erano stati i soldati della “Goering” a dar l'esempio rubando persino i materassi degli alberghi. Molte strade, fino a poco prima deserte, d'un tratto si riempivano di una folla vociante che dava l'assalto ai negozi e ai magazzini.
Con Catania gli Alleati disponevano di un nuovo grande porto, ma per il momento esso serviva soprattutto per lo sgombero dei feriti, ch'erano stati numerosi tra le rive del Simeto e l'Etna.
La campagna di Sicilia era praticamente chiusa. Entrambi gli eserciti ne uscirono molto provati. In 38 giorni gli italiani avevano perso 140.000 uomini, in gran parte prigionieri; i tedeschi 37.000, in gran parte morti e feriti, gli alleati 31.000. Contrariamente a quella che divenne un'opinione diffusa, la campagna di Sicilia non fu una passeggiata militare.
La battaglia di Catania era stata risolta dall'offensiva alla sinistra dello schieramento di Montgomery che aveva portato alla rottura anche della seconda linea di resistenza. Nello stesso tempo forti attacchi americani verso Troina e S. Agata di Militello avevano operato lo sfondamento a nord. Non c'erano più ostacoli sulla strada di Messina.
Ormai il comando italo-germanico si preoccupava solo di riportare sul continente il maggior numero di truppe.
Nel pomeriggio dell'11 agosto ebbe inizio la fase finale dello sgombero dell'isola.
Su motozattere, traghetti e imbarcazioni di fortuna, sotto le bombe dell'aviazione alleata e il tiro dell' artiglieria, i resti delle Divisioni italiane e tedesche riuscirono a riparare in Calabria.
Ora per gli alleati arrivare a Messina era soltanto una questione di velocità. Il generale americano Truscott ci ricorda i particolari di quella corsa:
«La presa di Messina avrebbe segnato la fine della Campagna di Sicilia, per cui era naturale che sia gli inglesi che gli americani tenessero molto ad avere il merito della conquista della città. Il generale Patton mi aveva detto un giorno che gli sarebbe proprio piaciuto arrivare a Messina prima di Montgomery, e non dubito che eguali fossero i sentimenti del generale Montgomery».
Così si accese tra i due alleati una gara singolare. Lungo la strada costiera taorminese, stretta fra l'Etna e il mare, gli inglesi avanzavano con la prudenza che era propria della strategia di Montgomery, spesso tenendo in testa reparti di suonatori scozzesi.
Il comandante inglese ci teneva ad entrare per primo a Messina e ordinò anche uno sbarco strategico a sud della città; ma il ritmo delle cornamuse non è il più adatto a una marcia veloce.
Gli americani, a nord, ci misero uno spirito più sportivo. Pur incontrando distruzioni e intralci come gli inglesi, cercarono di spingere al massimo i loro mezzi corazzati. Avevano assimilato le idee sulla guerra mobile del loro comandante, il generale Patton, audace e spericolato come un “cow-boy”.
Truscott ancora racconta:
«Compiendo sforzi terribili, la III Divisione di fanteria riuscì a superare gli ostacoli delle demolizioni e l'opera di disturbo dei tedeschi lungo la costa settentrionale della Sicilia, e prese Messina parecchie ore prima dell'arrivo delle avanguardie britanniche. Il generale Patton ed io, con i componenti dei nostri Stati Maggiori, percorremmo la strada tortuosa che porta alla città il mattino del 17 agosto; ci accompagnò per tutta la strada il fuoco d'artiglieria tedesco, proveniente dall'altra riva dello stretto. Mentre conversavamo con le autorità civili nella piazza municipale, davanti al Palazzo di città, arrivò una pattuglia corazzata britannica che era sbarcata sulla costa, a qualche chilometro di distanza. Naturalmente, furono delusi di trovare che gli americani erano arrivati prima di loro».
La città sembrava in piedi ma in realtà dietro le facciate delle case c'era il vuoto. Come i garibaldini nel 1860, gli Alleati si trovavano ora in faccia alla penisola. E come loro, sapevano ben poco di ciò che li attendeva.
Bibliografia:
Manlio Cancogni in AA.VV - Dal 25 luglio alla Repubblica - ERI 1966
I cimiteri di guerra alleati in Sicilia e tedeschi in Italia
da «Patria indipendente» rivista dell’ANPI del 21 maggio 2006
Forze Armate degli StatiUniti d’America
Dal luglio 1943 al maggio 1945 le Forze Armate Americane hanno perduto circa 32.000 uomini in Italia tra morti in combattimento e morti a causa della guerra. La “American Battle Monuments Commission” ha provveduto alla raccolta e sistemazione delle salme rimaste in Italia in due grandi cimiteri monumentali di guerra, uno a Nettuno ed uno a Firenze.
In Italia le tombe sono 12.264 ma altri 4.053 Caduti sono ricordati a parte perché le salme non sono state ritrovate o non è stato possibile identificarle. Per l’edificazione dei suddetti cimiteri lo Stato italiano ha concesso il libero uso delle aree di terreno.
Regno Unito e Impero Britannico
Nella campagna d’Italia il Regno Unito e le forze dell’Impero Britannico dal luglio 1943 al maggio 1945 persero 45.469 militari. L’Italia ha stabilito una convenzione con la Commissione Imperiale per le Tombe di Guerra (The Imperial War Graves Commission), la quale ha provveduto alla raccolta e sistemazione dei Caduti in 41 Cimiteri di Guerra. Occorre ricordare che oltre ai britannici, combattevano sotto la bandiera inglese le truppe dell’Impero, poi Commonwealth, (canadesi, indiani, sudafricani, australiani, neozelandesi, ecc.) e soldati di Paesi occupati dalla Germania, come polacchi, norvegesi, danesi, olandesi, belgi. Le aree di terreno sono state concesse gratuitamente dal Governo italiano. Il totale delle tombe è di 39.948; in alcuni cimiteri sono ricordati anche i Caduti non ritrovati e non identificati che ammontano a 5.511.
Cimitero di Guerra Canadese di Agira
Accoglie 490 tombe. Dopo la conquista della Sicilia, le tombe di tutti i canadesi morti durante le operazioni furono raccolte ad Agira, provincia di Enna. Questo posto fu scelto dal Comando canadese nel settembre 1943.
Cimitero di Guerra di Catania
Accoglie 2.135 Caduti. In questo cimitero sono raccolte le salme dei Caduti dell’ultima fase della campagna di Sicilia, soprattutto nei pesanti combattimenti condotti attorno a Catania e nella battaglia per la testa di ponte del fiume Simeto.
Cimitero di Guerra di Siracusa
Accoglie 1.060 Caduti. Il luogo in cui si trova fu scelto nel 1943 durante le fasi della conquista dell’Isola.
La maggior parte di coloro che sono qui sepolti persero la vita negli sbarchi in Sicilia dal 10 luglio 1943 e nelle fasi della campagna della Sicilia. Un gran numero di tombe appartiene al personale aviotrasportato inglese che atterrò nei dintorni della città nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1943.
I dati sono stati ricavati dal volume di Livio Massarotti “Sintesi storica della Guerra di Liberazione 1943-1945. I Cimiteri di Guerra. Sacrari Militari della 2a Guerra Mondiale”, edito dalla Associazione Nazionale Combattenti della Guerra di Liberazione, Sezione di Udine, nel 2006.
Forze Armate Germaniche
La follia nazista ha travolto anche la Germania. Al di là di ogni considerazione, la Germania ed il popolo tedesco hanno pagato duramente questa follia e le violenze e distruzioni causate a tutti i Paesi dell’Europa.
Dovrà passare molto tempo prima che tutto questo sia assorbito dalle coscienze europee.
Le forze armate germaniche in Italia hanno avuto 120.000 Caduti. Di questi 100.043 sono stati raccolti in quattro cimiteri militari maggiori, che sono a Cassino, Costermano, Passo della Futa e Pomezia. I rimanenti 7.199 sono stati ripartiti in Cimiteri minori già esistenti in quanto raccoglievano i Caduti germanici della Prima Guerra Mondiale: Bolzano, Bressanone, Brunico, Cagliari, Feltre, Merano, Milis (Sardegna), Motta S. Anastasia (Sicilia), Pordoi, Quero.
Agosto 1943: il convegno di Tarvisio
Agosto 1943. Il convegno di Tarvisio pone fine della collaborazione fra italiani e tedeschi.
Churchill e Roosevelt, riuniti in Quebec, stabiliscono le future operazioni in Europa.
Dopo il 25 luglio 1943 la sola ed esclusiva preoccupazione del re era che si verificasse una sollevazione di popolo che avrebbe ostacolato il pacifico trapasso dei poteri dal governo fascista al governo militare di Badoglio e quindi messo in pericolo le sorti della corona. Avvenne perciò che, alla folla in tripudio si rispose con lo stato di assedio. Vigeva la legge marziale. L'ordine venne mantenuto al prezzo di 83 morti, 308 feriti e 1554 arrestati, per la quasi totalità operai scioperanti e dimostranti.
Questo rigore mascherava una profonda incertezza. Il maresciallo Badoglio, che col governo era passato al Viminale, circondava di mistero le sue intenzioni. Per le cose essenziali e la condotta della guerra, la liquidazione del fascismo, i rapporti con i tedeschi, agiva all'insaputa dei suoi ministri. La sua condotta era ambigua, anche nei confronti dei partiti antifascisti usciti dalla clandestinità.
Lo stato d'assedio ch'egli aveva imposto al Paese, con tutto il seguito di misure eccezionali e severissime, era una novità nella storia d'Italia degli ultimi trent'anni.
Inutilmente i rappresentanti dei partiti, riuniti nel Comitato delle opposizioni presieduto da Ivanhoe Bonomi, avevano chiesto una maggiore libertà di stampa. I nuovi giornali continuavano ad essere vietati e i vecchi sottoposti a una severa censura.
E tuttavia gli antifascisti non avrebbero desiderato di meglio che collaborare, a patto che il governo avesse affrontato francamente il problema della pace. Su questo punto, pur comprendendo le difficoltà del maresciallo, erano irremovibili: volevano finirla con la guerra.
Badoglio si dichiarava d'accordo. Ma continuava a far da solo. Sembrava che non si fidasse di nessuno.
Dal canto suo il re aveva deciso di insistere (almeno per il momento) nell'alleanza con i tedeschi avendone bisogno per tenere il fronte quel tanto che fosse bastato - egli credeva - a negoziare l'armistizio.
Al Viminale l'inquietudine cresceva. Mentre spediva diplomatici in Vaticano, a Lisbona, a Tangeri per conoscere le intenzioni degli Alleati, Badoglio si preoccupava dei tedeschi. Una sua richiesta a Hitler per un convegno, presente il re al fine di studiare amichevolmente l'uscita dell'Italia dalla guerra, fu respinta. Allora, per non rivelare il suo animo, fu costretto ad accettare la controproposta del Führer per una conferenza fra i ministri e i capi militari.
L'incontro avvenne in zona di confine.
La scelta dimostrava la reciproca diffidenza dei due alleati. In realtà il convegno di Tarvisio segnò la fine della collaborazione fra italiani e tedeschi.
Ribbentrop e Guariglia, nuovo ministro degli Esteri italiano, guidavano le due delegazioni. Li accompagnavano il maresciallo Keitel e il generale Ambrosio. Ribbentrop chiese se il governo italiano avesse avviato i preliminari d'armistizio con gli anglo-americani. Guariglia rispose di no ed effettivamente i suoi tentativi di trattare con gli Alleati erano fino a quel momento falliti.
A sua volta Guariglia chiese il perché dei movimenti tedeschi in Italia; Keitel assicurò che le truppe inviate dovevano creare una riserva strategica. Più insolentemente, Ribbentrop aggiunse che le Divisioni tedesche servivano solo per combattere.
Tutte le speranze di Badoglio si riponevano ora sul generale Castellano, partito per Lisbona il 12 agosto per un altro incontro con gli Alleati. Ma questi, messi in sospetto da tanti indugi, dettero ordine di riprendere i bombardamenti sulla penisola.
Su Milano la notte dal 12 al 13 agosto cadde una pioggia di bombe e di spezzoni incendiari che trasformarono il centro storico in un braciere.
La Galleria e palazzo Marino furono semidistrutti.
Anche la Scala andò in rovina. Si dovette al sipario metallico se il palcoscenico non fu devastato dalle fiamme.
Torino fu anch'essa colpita nel centro, nei suoi quartieri più belli, carichi di ricordi e di storia.
Il 13 agosto toccò di nuovo a Roma, che per fortuna subì danni soltanto nella periferia sud, adiacente alla zona degli scali ferroviari.
Gli Alleati erano decisi a finirla. A Quebec, dove in quei giorni si riunivano per stabilire le future operazioni in Europa, Churchill e Roosevelt insistettero per l'Italia sulla resa senza condizioni. Anche Stalin, che non partecipava alla conferenza, fece pervenire il suo benestare.
Alla fine d'agosto l'operazione «Alarico» era ultimata.
Fino a un mese prima le Divisioni tedesche in Italia erano 8, quasi tutte concentrate al sud e nelle isole. Le Divisioni italiane erano 23, delle quali 10 in via di ricostituzione e perciò inutilizzabili. C'erano inoltre 14 Divisioni costiere disperse e male armate, quindi anch'esse inservibili. Ma dal 26 luglio 9 Divisioni e 1 Brigata germaniche si dislocarono nell'Italia settentrionale, in forma di vera e propria occupazione, disponendosi a ridosso dei reparti italiani. Un'altra scese presso Roma e le quattro che erano in Sicilia si unirono a quelle dell'Italia meridionale. La situazione si era così capovolta. Le 13 Divisioni italiane efficienti, più le 3 rientrate all'ultimo momento, col permesso dei tedeschi, ma ancora in viaggio, erano ora controllate da 18 Divisioni e una brigata germaniche, divise in due Gruppi di Armate.
A nord il Gruppo d'Armata B fu affidato al Feldmaresciallo Rommel, mentre il comando supremo per il Sud andò al Feldmaresciallo Kesselring. Si ritrovavano in Italia due comandanti che gravi contrasti avevano diviso al tempo della campagna d'Africa.
La conquista della Sicilia e la nuova situazione interna italiana consigliavano l'attacco diretto alla penisola. Perciò gli Stati Maggiori alleati dettero ordine al comandante supremo del Mediterraneo di raccogliere tutte le forze disponibili per l'invasione.
L'VIII Armata del generale Montgomery doveva effettuare la prima operazione, lo sbarco in Calabria. La seconda, lo sbarco a Salerno, era affidata alla V Armata del generale Clark ed era fissata per il 9 settembre.
Eisenhower e Montgomery erano scettici. Quale accoglienza avrebbe riservato la terra che si stendeva con le sue coste brulle al di là dello stretto?
Il governo italiano, è vero, si disponeva a capitolare.
Ma l'atteggiamento dell'Italia appariva ai militari alleati confuso e contraddittorio. In tutto ciò che stava accadendo in quell'incomprensibile Paese c'era qualcosa di misterioso.
Bibliografia:
Manlio Cancogni in AA.VV - Dal 25 luglio alla Repubblica - ERI 1966
Luglio 1943: dalla Sicilia, l'attacco alla penisola
Dalla Sicilia attraverso lo stretto inizia l'attacco alla penisola.
Il pomeriggio e la notte della vigilia un intenso bombardamento aereo e terrestre sconvolge l'estrema punta della Calabria.
Dall'altra sponda dello stretto nessuno ha risposto al fuoco di 600 pezzi d'artiglieria piazzati sulla costa siciliana. Dove sono i difensori? All'alba, quando le fanterie dell'VIII Armata sbarcano fra Reggio e Villa San Giovanni, non trovano resistenza. I tedeschi sono già in ritirata verso nord e hanno lasciato soltanto deboli retroguardie.
Lo sbarco si svolge in tutta tranquillità. È ancora più facile del 10 luglio in Sicilia. Montgomery continua ad essere assistito dalla fortuna.
La stessa mattina del 3 settembre gli inglesi entrano a Reggio e attraversano la città come in un giorno di manovre. Essi non hanno più il volto dell'invasore. La gente intuisce che un armistizio è imminente, che il nemico sarà d'ora in poi un altro. Calabresi e soldati dell'VIII Armata hanno già fatto la pace.
Nei giorni successivi l'operazione del XIII Corpo britannico in Calabria si sviluppò con due altri facili sbarchi a Bagnara, l'alba del 4 settembre, e a Pizzo, la notte dal 7 all'8, ma senza riuscire a intralciare la ritirata tedesca. Così la V Divisione inglese e la I canadese, ostacolate da numerose interruzioni stradali e dal terreno impervio, poterono giungere il 10 settembre alla linea Catanzaro-Nicastro, facendovi una breve sosta necessaria per il riposo e la riorganizzazione.
Lo stesso giorno dell'attacco alla penisola venne concluso l'armistizio fra l'Italia e gli Alleati. La cerimonia della firma si svolse al quartier generale di Alexander a Cassibile, vicino a Siracusa. Fra i capi alleati c'erano anche Eisenhower e Clark, comandante della V Armata ormai pronta a salpare per Salerno.
Prima di giungere a Cassibile il Governo italiano aveva esitato. Badoglio credeva di poter negoziare l'armistizio, ma di fronte alla ripetuta richiesta di resa incondizionata dovette rassegnarsi.
Il generale Castellano, delegato del Comando Supremo italiano, era entrato in contatto con i rappresentanti Alleati fin dalla metà di agosto. Poi era tornato a Roma con le loro proposte, consapevole che l'unica possibilità che restava al nostro governo era di accettarle. Soltanto dopo aver compiuto quel passo l'Italia avrebbe potuto sperare in un trattamento più equo di quello che si riserva ai vinti.
Il luogo dove si firmò l'armistizio era nel cuore di un vecchio uliveto appartenente a privati che non s'immaginavano di entrare per un giorno nella storia. Dopo quella breve parentesi, esso ha ripreso la fisionomia di sempre.
Il generale Castellano, che rappresentava l'Italia, ricorda:
«Il giorno 2 settembre ritornai a Cassibile nella località nella quale mi attendevano gli ufficiali alleati: il generale Bedell Smith, Capo di Stato Maggiore del generale Eisenhower, il generale Strong, capo dell' "Intelligence Service" presso il comando in capo alleato. Là, sotto una tenda, in un uliveto, riprendemmo la discussione. E mi chiesero se avevo pieni poteri, cioè se avevo la delega per firmare le condizioni dell'armistizio. Risposi che non avevo questa delega. Dovetti fare due telegrammi, tutt'e due pressanti, e attendere la risposta la quale mi venne ventiquattr'ore dopo. Queste ventiquattr'ore furono molto tristi per me perché vedevo gli Alleati in un atteggiamento ostile, forse perché ritenevano che noi avessimo ricorso ad un tranello e non volessimo poi, all'ultimo, firmare come convenuto. Il giorno 3 venne la delega da parte del maresciallo Badoglio e alle 17,30 firmai il documento».
Il testo dell'armistizio firmato, per la parte americana, dal generale Bedell Smith, consisteva in dodici articoli dei quali alcuni particolarmente duri. Altri erano contraddittori. Per esempio, mentre esigevano che l'Italia s'impegnasse con le armi contro i tedeschi, gli Alleati ci disarmavano, e si rifiutavano di informare per tempo dello sbarco le autorità italiane. Fu così che si arrivò al disastro dell'8 settembre.
In realtà, gli anglo-americani non si fidavano ancora del governo italiano; dopo tre anni di guerra non potevano d'un tratto considerare l'Italia come un'alleata.
Nella nostra memoria il 3 settembre con tutte le sue incongruenze resta una data fondamentale: quella che segnò la fine di un'avventura nella quale l'Italia era entrata senza seri motivi, irrazionalmente, e con forze impari. Per i nostalgici di quell'epoca che allora si chiuse, l'armistizio del 3 settembre è un'onta. E infatti hanno distrutto la lapide che ricordava la data. Ma non è sopprimendo le parole che si distrugge il fatto ch'esse rievocano.
Il contadino dell'uliveto conserva un tavolo ch'egli sostiene sia quello su cui Bedell Smith e Castellana firmarono l'armistizio. Le fotografie dell'avvenimento sembrano contraddire l'autenticità del cimelio. Comunque l'orgoglio con cui il nostro contadino lo custodisce e lo fa vedere ai visitatori dimostra che anch'egli ricorda il 3 settembre come un giorno di speranza e di pace.
Non curandosi di quanto sta accadendo in Italia, il giorno stabilito gli Alleati fanno scattare l'operazione «Valanga». La V Armata di Clark naviga verso il golfo di Salerno, punto di partenza, secondo i piani, della successiva rapida avanzata su Napoli e Roma.
Alle 18,30 mentre i convogli sono in mare, giunge da Radio Algeri la voce di Eisenhower:
«Qui è il generale Dwight D. Eisenhower, comandante in capo delle Forze Alleate. Le Forze Armate italiane si sono arrese senza condizioni. Come comandante in capo alleato ho concesso un armistizio militare, i cui termini sono stati approvati dai Governi del Regno Unito, degli Stati Uniti, dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche; agisco pertanto nell'interesse delle Nazioni Unite. Il Governo italiano si è impegnato ad attenersi a queste condizioni senza alcuna riserva.
L'armistizio è stato firmato dai miei rappresentanti e dai rappresentanti del maresciallo Badoglio e diviene immediatamente effettivo. Le ostilità tra le Forze Armate delle Nazioni Unite e quelle dell'Italia cessano in questo momento. Tutti gli italiani che operino per respingere l'invasore tedesco dal suolo italiano, avranno l'assistenza e l'appoggio delle Nazioni Unite».
Mentre a Roma l'annuncio provocava un grave stato di incertezza, sulle navi favorì un'atmosfera di pericoloso rilassamento. I soldati alleati immaginavano che dopo lo sbarco li avrebbe attesi una lunga passeggiata fra le bellezze storiche della penisola. Il comando sperava nella sorpresa.
I tedeschi aspettavano lo sbarco proprio in quel punto, e all'alba passarono all'attacco con l'aviazione.
Decollando dagli aeroporti di Napoli gli «Stukas» piombarono sulle navi all'ancora nel golfo. Per due ore gli aerei con la croce nera furono padroni del cielo. Poi, con l'arrivo dell'aviazione alleata, praticamente scomparvero.
Mentre gli sbarchi alleati continuavano, Kesselring attuava le prime contromisure per contenere la testa di ponte alleata. Egli aveva disposto le sue difese sulla spiaggia. La costa era disseminata di mine per una profondità di cento metri. Dalle colline le artiglierie tenevano sotto il tiro tutto l'arco costiero; gruppi di carri armati erano nelle vicinanze pronti ad intervenire.
La battaglia fu subito aspra; sullo slancio, inglesi e americani travolsero le prime difese spingendosi verso l'interno. 48 ore dopo lo sbarco, le prospettive, per gli Alleati, erano favorevoli. L'ottimismo di Clark, sceso a terra in ispezione, sembrava dunque giustificato.
Ma l'11 settembre la situazione mutò. Nel settore settentrionale «rangers» e «commandos», che erano sbarcati a Maiori e Vietri, s'imbattevano sulle alture soprastanti in una crescente resistenza. Le altre due Divisioni del X Corpo britannico occupavano l'aeroporto di Montecorvino, ma erano costrette a lasciare Battipaglia. A sud, il VI Corpo americano si spingeva verso Persano e Altavilla, incontrando, su tutto il fronte, difficoltà sempre maggiori. Al centro, presso la foce del fiume Sele, rimaneva fra i due Corpi alleati, una pericolosa breccia di 16 chilometri.
Il mattino del 9 i romani si svegliarono presto, dopo una notte agitata. La sera prima, dai microfoni della radio, la voce impersonale di Badoglio aveva comunicato l'avvenuto armistizio. Ma i romani non sapevano nulla di come erano andate le cose.
La prima notizia era stata data dall'agenzia Reuter alle cinque e mezza del pomeriggio. Poco dopo era arrivato un telegramma in cui Eisenhower intimava a Badoglio di rompere gli indugi e di dare l'annuncio al Paese entro le ore 8 della sera stessa. Allora si era riunito frettolosamente al Quirinale il Consiglio della Corona. Gli avvenimenti precipitavano. Bisognava far presto. D'altra parte non esistevano serie alternative all'accettazione del fatto compiuto: la ragione consigliava di piegarsi. Alla fine Badoglio s'era avviato verso la sede della radio, già pensando di lasciare Roma. Che cosa succederà ora? Le truppe che presidiano la capitale, ma non hanno ordini precisi, saranno capaci di resistere ai tedeschi?
L'8 settembre sei grandi unità italiane erano schierate intorno a Roma.
A Sud la Divisione autotrasportata «Piacenza» e la Divisione di fanteria «Granatieri di Sardegna»; nella zona di Tivoli la Divisione corazzata «Centauro» incompleta e poco fidata; in città la «Sassari », adibita a servizi d'ordine pubblico; a Nord la Divisione motorizzata «Piave» tra la via Cassia e la Tiburtina, e la Divisione corazzata «Ariete» attorno al lago di Bracciano.
I tedeschi avevano due Divisioni rinforzate, una a sud di Roma attorno a Pratica di Mare e l'altra a nord, nel Viterbese. Circa 60.000 uomini con 650 mezzi corazzati.
Il 9 settembre alle 5 di mattina l'«Ariete», al comando del generale Raffaele Cadorna, ebbe l'ordine di trasferirsi a Tivoli.
La Divisione stava già combattendo in questa zona, fra Monterosi e il vicino laghetto, contro le avanguardie corazzate tedesche che scendevano per la via Cassia.
Più tardi violenti scontri avvennero fra Manziana e Bracciano sulla via Claudia per sbarrare ad altre colonne della III «Panzer Grenadiere» la strada di Roma. I tedeschi persero alcune centinaia di uomini, venti carri armati e diversi automezzi.
Intanto, mentre le Divisioni «Piacenza» e «Sassari» si dissolvono, anche la «Piave» riceve l'ordine di trasferirsi a Tivoli. Tuttavia il generale Tabellini, che comanda la Divisione, guadagna tempo.
Alle 7 un battaglione di paracadutisti tedeschi viene lanciato nella zona di Monterotondo, sulla sinistra del Tevere, per catturare lo Stato Maggiore italiano, che, però, non è più sul posto. La «Piave» reagisce: all'Osteria del Grillo, nei pressi del ponte, un caposaldo resiste per varie ore. Nel pomeriggio, 600 paracadutisti asserragliati nel castello di Monterotondo avviano trattative di resa. A Mentana, tre chilometri più a Est, reparti tedeschi penetrati nell'abitato ne vengono cacciati dai cittadini armati al comando di un tenente dei carabinieri.
Il trasferimento dell'«Ariete» e della «Piave» nella zona di Tivoli si completa la sera del 9. L'operazione è avvenuta in conseguenza della decisione presa dal governo di rinunciare alla difesa di Roma. Il Comando Supremo ha impartito l'ordine per mano del generale Roatta alle cinque di mattina mentre la famiglia reale, Badoglio e lo Stato Maggiore si accingevano ad abbandonare la capitale.
Dall'edificio del Ministero della Guerra in via XX Settembre, dove Vittorio Emanuele e il suo seguito hanno trascorso la notte, percorrendo le strade che conducono alla via Tiburtina, il corteo regio ha lasciato di buon'ora la città, diretto verso l'Abruzzo e la costa adriatica.
Perché questa grave risoluzione che agli occhi degli italiani sembra una fuga? La verità è che Roma non poteva essere difesa. Se i tedeschi fossero entrati in città, catturando il re e Badoglio, l'Italia non avrebbe più avuto un governo legittimo per trattare con gli Alleati e rendere esecutive le clausole dell'armistizio. La fuga era dunque una necessità politica. Però fu attuata nel peggiore dei modi, confusamente, senza lasciare ordini ai soldati che rimanevano.
Per tutta la giornata del 9 settembre si combatté accanitamente a sud di Roma, nel settore della «Granatieri di Sardegna», già attaccata la sera prima da forti autocolonne tedesche; ai caposaldi di Valleranello sulla via Ardeatina, e allo sbocco della via Ostiense presso il Tevere, fra la Magliana e l'EUR. In questa zona gli attacchi tedeschi sono particolarmente violenti: ma i granatieri, appoggiati dal reggimento «Lancieri di Montebello», riescono a tenere le posizioni. I tedeschi allora parlamentano: chiedono di attraversare il Tevere sul ponte della Magliana per poi proseguire a nord evitando Roma. Verso sera riprendono gli attacchi all'improvviso, in direzione della città, e i difensori devono organizzare una nuova linea fra la Garbatella e la Basilica di San Paolo.
La resistenza è ormai disperata. Lo squilibrio delle forze fa sentire il suo peso, gli ordini sono confusi e contraddittori, c'è in giro aria di disfatta. L'ultimo capitolo della lotta fu scritto il 10 settembre a Porta San Paolo.
L'esercito quel giorno a Roma divenne a un tratto popolare. Soldati e cittadini davanti al comune nemico si riconobbero.
I tedeschi avevano vinto grazie alla superiorità di armamento e alla tempestività con cui avevano condotto l'azione. Ma la lotta anche se breve, era stata dura. Alla fine fu raggiunto un accordo; le truppe italiane impegnate nella difesa della capitale, deponevano le armi, e i tedeschi si impegnavano a riconoscere Roma come città aperta. Nel tardo pomeriggio del 10 settembre alcuni reparti germanici entravano in città, ponendo i loro presidi nei punti di vitale interesse.
Cominciava l'occupazione, una delle più terribili in Italia. Sarebbe durata nove mesi. Sottoposta alle leggi di guerra tedesche, Roma avrebbe visto ogni giorno sui muri gli ordini dello straniero.
Quello stesso giorno l'esercito italiano finiva di dissolversi. I soldati lasciavano le caserme e si disperdevano, come per una colossale libera uscita, senza più ritorno.
Un solo desiderio: andare a casa. S'avviavano a piedi fuori delle strade, per non incontrare i tedeschi, affollavano gli scali ferroviari sperando di trovar posto su un carro merci. All'inizio andavano ancora a gruppi per la paura di trovarsi soli. Il regio esercito italiano, che aveva combattuto per tre anni con sacrificio e con alterna fortuna, in quarantotto ore era finito.
Intanto, il mattino del 9, obbedendo agli ordini, le navi della squadra di La Spezia si dirigevano verso Malta per andare a consegnarsi agli Alleati.
Alle tre del pomeriggio la squadra fu avvistata nel golfo dell'Asinara a nord-ovest della Sardegna da una formazione di caccia bombardieri tedeschi.
Colpita in pieno da due bombe la corazzata «Roma» affondò con 1.350 marinai, ma il resto della squadra poté proseguire.
Fuori d'Italia il nostro esercito si difese ovunque. A Corfù la resistenza si protrasse fino al 25 settembre.
Anche a Cefalonia, presidiata dalla Divisione «Acqui», le ostilità cominciarono con violenti attacchi aerei.
I difensori dell'isola votarono all'unanimità la resistenza ad oltranza, mentre rinforzi tedeschi arrivavano dalla Grecia. Un'intimazione di resa venne respinta e la battaglia continuò fino al 24 settembre, quando la Divisione dovette arrendersi.
Cefalonia vide uno dei più spaventosi massacri della seconda guerra mondiale. Furono fucilati insieme con il Comandante, 400 ufficiali e 5.000 soldati. In quei giorni l'esercito italiano nei Balcani e in Egeo ebbe 32.000 morti e 8.000 feriti.
Dappertutto infuriò la repressione. Quanti sfuggivano alla rappresaglia immediata erano avviati ai campi nazisti di raccolta, e di qui nei «Lager» della Germania e della Polonia. Privi del riconoscimento giuridico di prigionieri di guerra, erano considerati «internati civili», in balia di un nemico spietato. In due anni ne morirono circa 50.000.
Non tutti i nostri soldati sorpresi dall'armistizio nei territori occupati furono uccisi o fatti prigionieri. Dove esisteva un movimento di resistenza, molti superstiti delle nostre Divisioni vi si unirono, per continuare insieme la lotta. Così in Jugoslavia con i partigiani di Tito, in Albania, in Grecia. Dalle rovine dell'esercito regio cominciava la Resistenza.
Dunque non tutto è crollato. C'è un'Italia, di cui si conosceva appena l'esistenza, che sta emergendo ovunque, anche a Roma, proprio nel mezzo della disfatta. A Roma, il pomeriggio del 9 settembre, in una via silenziosa, al secondo piano di una casa dall'apparenza anonima, si riunirono alcuni uomini, diversi per origini e idee.
C'erano, fra gli altri, De Gasperi, Scoccimarro, Casati, Nenni, La Malfa, Ruini, rappresentanti dei sei partiti del Comitato delle opposizioni. Mentre in lontananza si udiva il cannone, essi stilarono questo breve comunicato:
«Nel momento in cui il nazismo tenta di restaurare in Roma e in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di Liberazione Nazionale per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza e per riconquistare all'Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni ».
Parri riassume così il travaglio di quei giorni:
«La lotta di liberazione può trovare le sue origini nei giorni immediatamente successivi all'8 settembre, quando crolla la impalcatura politica e militare dello stato fascista, si apre un vuoto tremendo, drammatico nella vita del Paese e questo vuoto è riempito dalla esplosione simultanea di un movimento che porta giovani di tutte le classi, da tutti i centri e anche dall'università, in montagna. Non sono forse molti, direi alcune centinaia, ma tutti con le stesse decisioni.
Chi sono questi giovani? Di dove vengono? In parte sono dei militari, sono ufficiali che sentono la necessità, l'impegno di vendicare l'onore militare; sono professionisti, sono operai. Vorrei dire che l'unico ordine che essi eseguono è quello che viene dalla loro coscienza. Era la coscienza che maturava la sua formazione già dalle lotte dell'antifascismo. Sono gli eredi e i prosecutori della disfatta della democrazia italiana nel '22 e forse ancor più dopo il delitto Matteotti. E c'è una preparazione più vicina, ed è la preparazione del 1943, quando si manifestano le prime convergenze politiche importanti: ricordiamo gli scioperi del marzo.
Trasformare questo movimento spontaneo di ribellione in una insurrezione organizzata, questo fu il problema grave dei primi mesi. L'incertezza derivava dal fatto della immediata, violenta repressione che si scatenava da parte dei nazisti e dei fascisti, contro ogni accenno di ribellione. Questi gruppi disarmati e disorganizzati avrebbero potuto resistere? E ricordo ancora, vorrei dire con gioia, il giorno in cui ho potuto dare assicurazioni al Comitato CLN di Milano, e s'era a metà di dicembre del '43, che io mi sentivo ormai sicuro che questa lotta aveva messo radici, si era radicata, e non sarebbe stata più estirpata».
Bibliografia:
Manlio Cancogni in AA.VV - Dal 25 luglio alla Repubblica - ERI 1966
11 settembre 1943: il regno del Sud cominciava a vivere
30.000 abitanti, un porto famoso nell'antichità, ma ora ridotto a piccoli commerci, un entroterra poverissimo: ecco cos'era Brindisi il 10 settembre del '43, quando vi ormeggiò la corvetta che trasportava da Ortona Vittorio Emanuele e il suo seguito. Il re e Badoglio scesero a terra nelle prime ore del pomeriggio, e presero alloggio nel vecchio castello svèvo, sede dell'Ammiragliato.
A Brindisi Badoglio si rese conto che lo attendevano enormi difficoltà. L'appello che egli rivolse agli italiani il giorno successivo all'arrivo, rivelava l'abbattimento e la confusione del suo animo. A rasserenarlo giunse qualche giorno dopo il messaggio di Churchill e di Roosevelt, cordiale e incoraggiante.
Si può ricominciare a sperare anche se tutto indica ancora lo sfacelo, anche se le truppe raccolte intorno alla nuova capitale del regno hanno solo l'apparenza di un esercito. Più lontano da Brindisi la situazione peggiora. Gli sbandati che si raccolgono nelle città della costa pugliese, demoralizzati dal disastro, creano un'atmosfera di disordine. C'è il timore che tutto precipiti nell'anarchia.
È a questi soldati che la sera dell' 11 settembre il re si rivolse da radio Bari, con la sua voce da vecchio, facendo appello alla buona volontà di tutti, e invocando la protezione di Dio sull'Italia.
Il regno del Sud cominciava a vivere. Gli Alleati lo riconoscevano; il giorno 13 inviarono a Brindisi il generale Mac-Farlane a capo di una missione militare col compito di trasmettere a Badoglio le istruzioni di Eisenhower e di persuaderlo a dichiarare guerra alla Germania.
L'armistizio firmato a Cassibile il 3 settembre (l'armistizio corto), andava perfezionato in un testo definitivo che stabilisse i futuri rapporti tra l'Italia e gli Alleati. I termini del nuovo documento si rivelarono assai più duri del previsto perché sancivano il principio della resa senza condizioni.
Per la firma i rappresentanti italiani e alleati s'incontrarono a Malta. Il generale Eisenhower, che a Cassibile s'era tenuto in disparte, a Malta ebbe il ruolo di protagonista. L'incontro avvenne a bordo della corazzata «Nelson», dove anche Badoglio ricevette gli onori militari.
Dopo la firma, Eisenhower e Badoglio ebbero un colloquio nel quale il comandante supremo americano insistette sul problema della dichiarazione di guerra alla Germania.
Badoglio s'impegnò di riferirne al re e di vincere la sua indecisione persuadendolo a compiere quel passo necessario.
Il sovrano indugiava, e intanto andava riprendendo le sue funzioni rappresentative di capo dello Stato.
A Trani, il 9 ottobre, Vittorio Emanuele passò in rassegna alcuni reparti della VII Armata italiana sfuggiti al disastro, e decorò il Vescovo della città per il suo contegno coraggioso di fronte ai tedeschi nei giorni di settembre.
La posizione del re si faceva di giorno in giorno più difficile. Egli non voleva rinunciare al trono e non si decideva a dichiarare guerra alla Germania. Ma era troppo tardi perché potesse sperare con quella tattica d'indurre gli Alleati ad attenuare i termini dell'armistizio. D'altra parte gli italiani, in pratica, combattevano già contro i tedeschi, e con la dichiarazione di guerra potevano sperare di accelerare i tempi di un'effettiva cobelligeranza con gli Alleati, e quindi della ripresa nazionale.
Badoglio era già orientato a schierarsi a fianco degli Alleati, e dopo l'incontro con Eisenhower rinnovò le pressioni sul re, che finalmente si decise.
Il 13 ottobre il maresciallo fu così in grado di comunicare ai corrispondenti esteri l'avvenuta dichiarazione di guerra affermando che la liberazione dell'Italia dall'oppressione tedesca sarebbe stata d'ora in poi lo scopo principale del suo governo. Gli Alleati avevano raggiunto il loro obiettivo, che era poi quello di tutti gli italiani che credevano nella libertà. Ora si trattava di passare alla realizzazione di questi propositi.
Il nerbo della nostra forza militare a quell'epoca era pur sempre la marina. Essa non aveva atteso la dichiarazione di guerra per collaborare attivamente con gli Alleati.
A Salerno, durante lo sbarco, nostre unità avevano già combattuto contro i tedeschi. In Corsica avevano dato appoggio alle truppe italiane e francesi; in Dalmazia erano riuscite a imbarcare e riportare in patria 25.000 soldati che i tedeschi volevano far prigionieri.
Il 14 settembre una parte della nostra flotta era salpata da Malta diretta ad Alessandria. In quella rada, due giorni dopo, avvenne la cerimonia della consegna delle nostre navi agli ex-nemici. L'ammiraglio Romeo Oliva ne firmava l'atto. In seguito ai nuovi accordi le unità della nostra marina furono assegnate alla scorta dei convogli nel Mediterraneo, e in Atlantico alla caccia delle navi corsare tedesche. 529 unità parteciperanno alle operazioni: 143 di esse andranno perdute con 5.000 marinai.
Anche l'aeronautica si andava rapidamente riorganizzando. Dopo l'armistizio 1.900 aviatori con 200 aerei avevano raggiunto gli aeroporti del Sud obbedendo agli ordini ricevuti. Una settimana dopo i nostri apparecchi compivano la prima missione bellica. Da allora l'aeronautica eseguì un'intensa attività di ricognizione e di bombardamento e fiancheggiò le operazioni dei partigiani in Grecia, in Albania e in Jugoslavia.
Nel settembre del '43 l'aviazione italiana non aveva più di 300 apparecchi efficienti: quanto restava dei 10.350 ch'erano stati impiegati durante la guerra. Ma utilizzando il materiale di scarto dei depositi i nostri avieri riuscirono a montarne altri 600. Insieme a quelli forniti dagli Alleati compiranno fino alla fine delle ostilità oltre 4.000 azioni di guerra.
Delle tre armi, l'esercito era stato il più colpito dall'armistizio. C'erano nel Sud circa 450.000 uomini che bisognava inquadrare di nuovo se si voleva partecipare attivamente alla guerra collaborando sul serio con gli Alleati. C'era da questa parte molta diffidenza, ma Badoglio ottenne alla fine di poter costituire un'unità da mandare in campo e ne iniziò l'addestramento. Fu il I raggruppamento motorizzato: 5.000 volontari che avevano risposto all'appello del governo e che presto entreranno in battaglia a fianco degli Alleati.
Circa la situazione militare in quello scorcio di tempo, ecco in sintesi il giudizio del generale Luigi Vismara, capo di Stato Maggiore del generale Dapino, comandante il I Raggruppamento Motorizzato:
«Per comprendere lo stato d'animo di questi soldati bisogna pensare che essi erano stati testimoni del disastro in cui l'Italia era stata trascinata dalla guerra. Erano incerti sull'avvenire riservato al proprio Paese, erano guardati con diffidenza e con punte di malanimo, comprensibili, del resto, da parte dei soldati alleati. Anche la popolazione certe volte li considerava con un sorriso di benevolo compatimento. Quelli, ed erano molti, che avevano le loro famiglie al Nord, pensavano che prima di vederle libere, queste, dovevano subire ancora tutte le conseguenze della guerra. In tali condizioni non si può dire che i soldati fossero animati da entusiasmo. I loro sentimenti erano diversi; capivano tutti che bisognava fare qualche cosa qualunque fosse il destino che ci era riservato, che le popolazioni che man mano sarebbero state raggiunte dalla linea di combattimento che si spostava verso il nord, dovevano vedere anche qualche soldato italiano. Essi in un momento oscuro e triste, certo forse il più oscuro e più triste della storia recente del nostro Paese, hanno compiuto il loro dovere quando il non compierlo era facile e senza pericolo».
E così anche l'esercito ricominciava a vivere. Era un esercito minuscolo: ma sufficiente per provare anche a Sud la nuova volontà degli italiani.
Bibliografia:
Manlio Cancogni in AA.VV - Dal 25 luglio alla Repubblica - ERI 1966
18 settembre 1943: Mussolini da radio Monaco
Mussolini, liberato dal Gran Sasso ad opera di un reparto di paracadutisti tedeschi, mentre partiva sul piccolo aereo verso quelli che sarebbero stati i suoi 600 giorni, dava l'impressione di sentirsi un uomo stanco, insicuro, ormai un sopravvissuto.
L'incontro con Hitler avvenne al quartier generale di Rastenburg: l'amico, che aveva retto i fili dell'impresa, sarebbe presto divenuto esigente e intrattabile, al di là delle affettuose manifestazioni esteriori. A Rastenburg c'era anche il figlio Vittorio, che con tutta la famiglia aveva preceduto il duce in Germania.
Il 18 settembre, da radio Monaco, Mussolini si rivolse agli italiani. Le sue parole sembrava venissero da un mondo di defunti:
«Italiani e italiane, dopo un lungo silenzio ecco che nuovamente vi giunge la mia voce e sono sicuro che voi la riconoscete. È la voce che vi ha chiamato a raccolta in momenti difficili, che ha celebrato con voi le giornate trionfali della Patria. Ho tardato qualche giorno prima di indirizzarmi a voi perché dopo un periodo di isolamento morale era necessario che riprendessi contatto col mondo».
Mussolini intendeva ricostruire il partito fascista, e nello stesso tempo creare un nuovo esercito per riprendere la guerra a fianco della Germania. Il 23 settembre tornò in Italia per stabilirsi alla Rocca delle Caminate, in provincia di Forlì (la sua dimora privata di un tempo), dove s'incontrò con l'ambasciatore tedesco Rahn e quattro giorni dopo presiedette il primo Consiglio dei ministri.
Il problema più spinoso nella formazione del nuovo governo fascista era stata la nomina del ministro della Guerra. In mancanza di altra candidatura, la scelta era caduta sul generale Graziani, che dopo la disfatta da lui subìta nell'inverno 1940-'41 in Libia, era stato posto sotto inchiesta. (Il Gen. Rodolfo Graziani era stato comandante di tutte le forze nell’Africa Settentrionale. Dopo la conquista del villaggio egiziano di Sidi El Barrani, da parte delle truppe italiane al suo comando, in una prima controffensiva britannica, che si era conclusa il 7 febbraio 1941 alle porte di Bengasi, erano cadute Tobruk, Bardia, Derna e gran parte della Cirenaica. Il generale Graziani, l’8 febbraio 1941 aveva inviato al duce il seguente messaggio, decriptato dai servizi segreti inglesi: «Duce, gli ultimi avvenimenti mi hanno depresso al punto di impedirmi di assumere il comando nella pienezza delle mie facoltà. Per questo vi chiedo di richiamarmi e di sostituirmi».
Graziani era sempre stato contrario a Badoglio, quindi non gli dispiaceva la prospettiva di diventarne pubblicamente l'antagonista e alla fine accettò il dicastero.
La ricostituzione del nuovo esercito provocò varie polemiche all'interno del governo, mentre i tedeschi erano decisi a subordinare sia le forze armate che la milizia ai loro programmi.
I primi ordini di presentazione e i bandi di reclutamento cadevano nel vuoto. In pratica il generale Graziani non poteva offrire nessun concreto aiuto al feldmaresciallo Kesselring, il quale, dopo la battaglia di Salerno, era sempre più deciso a resistere da solo nell'Italia centro-meridionale.
Bibliografia:
Manlio Cancogni in AA.VV - Dal 25 luglio alla Repubblica - ERI 1966
La difficile avanzata degli Alleati verso Roma
La difficile avanzata degli Alleati verso Roma e la nostra guerra al loro fianco.
Per gli Alleati le prospettive militari stanno schiarendosi. Con Foggia presa il 28 settembre, è caduto nelle loro mani il più importante gruppo di aeroporti dell’Italia centro-meridionale. Da qui i bombardieri alleati potranno raggiungere la Baviera, l’Austria, la Boemia con le sue fabbriche d’armi, i campi petroliferi della Romania che forniscono tutto il carburante di cui la Germania ha bisogno.
L’avanzata del Nord è già ripresa nel settore tirrenico, anche perché gli Alleati non hanno dovuto combattere per le strade di Napoli liberata dai suoi concittadini.
Ogni giorno Clark veniva in città dal suo Quartier generale per seguire più da vicino i movimenti della V Armata verso la linea del Volturno. Il lungomare Caracciolo era il suo aeroporto personale.
I tedeschi ritirandosi lasciavano il segno del loro passaggio.
I danni più gravi riguardavano le linee ferroviarie interrotte in più punti e sconvolte da un colossale artiglio d'acciaio che spezzava le traversine.
Anche le strade erano interrotte nei tratti dove il passaggio si presentava più difficile. Quando gli inglesi del X Corpo e gli americani del VI Corpo raggiunsero il Volturno trovarono tutti i ponti distrutti. Dalle colline a nord del fiume i tedeschi tenevano sotto controllo le truppe che si avvicinavano.
Dopo la battaglia di Salerno, le Armate alleate si erano divise i settori d'operazione: l'VIII ad Est verso l'Adriatico, la V ad Ovest verso il Tirreno.
Alla fine di settembre, con la conquista di Foggia e di Napoli, si era conclusa la prima fase dell'attacco all'Italia, iniziata con gli sbarchi in Calabria, a Salerno e a Taranto. Ma meno di due settimane più tardi, anche per l'esito favorevole di uno sbarco tattico a Termoli, sopra il promontorio del Gargano, gli Alleati che avanzavano facilmente a nord delle Puglie e in Campania erano già attestati su una linea che seguiva il corso dei fiumi Biferno, Calore e Volturno.
Su quest'ultimo, che sbarrava la strada alla V Armata del generale Clark, alle prime luci del 13 ottobre ebbe inizio il nuovo attacco.
Il Volturno era gonfio per le piogge autunnali e freddo come in pieno inverno. All'alba i battaglioni di punta iniziarono il passaggio del fiume, su piccoli battelli e su zattere.
I tedeschi reagirono subito con l'artiglieria. Occupavano sull'altra riva ottime posizioni. La traversata fu compiuta sotto il fuoco dei cannoni nemici cui le artiglierie inglesi davano la replica con grande vigore.
La battaglia divampò su tutto il corso inferiore e medio del fiume. Lungo il basso Volturno il Corpo britannico del generale Mc Creery costituì rapidamente oltre il fiume una buona testa di ponte; tuttavia fra le macerie dei villaggi e dei casolari le retroguardie tedesche si battevano con decisione, e per espugnare quei caposaldi era necessario attaccarli uno a uno.
I prigionieri erano scarsi, segno che i tedeschi, pur cedendo, controllavano la situazione. Erano infatti riusciti ad attuare l'ordine di Kesselring di tenere il Volturno fino a metà ottobre per dar modo al grosso delle forze di attestarsi più indietro, sulla «linea d'inverno».
Quando i genieri americani poterono gettare un ponte al varco del Triflisco sulla via Casilina, le truppe cominciarono a passare più fitte. Passarono gli americani della III Divisione e gli inglesi della LVI. Furono questi che il 14 ottobre entrarono a Capua.
Lungo la costa tirrenica, le divisioni di Mc Creery avanzavano a fatica. Per le strade di Mondragone, il 31 ottobre la battaglia durò alcune ore.
Il terreno diventava sempre più accidentato e difficile.
Ai primi di novembre ecco apparire in fondo il Monte Camino, uno dei bastioni che precedevano la temuta «linea d'inverno».
Nel settore ad est della via Casilina, gli americani del VI Corpo continuavano intanto ad avanzare sui monti del Sannio e nell'alta Valle del Volturno, fino a Venafro, occupata il 4 novembre. Avanzarono di paese in paese, di torrente in torrente, spesso disturbati dalle retroguardie tedesche, per circa quaranta chilometri. Più oltre c'erano le montagne della «linea d'inverno»: un nome che cominciava a suggestionare l'animo dei soldati.
In questo paesaggio, e in questo clima così diverso da quello immaginato, inglesi e americani dovevano adattarsi.
Se gli automezzi non marciavano bisognava contentarsi delle bestie da soma, comperandole al mercato come in una fiera di paese. I soldati dell'esercito più meccanizzato del mondo, salivano sui sentieri di montagna, ciascuno col suo mulo, come nella prima guerra mondiale.
Sempre in quell'autunno piovoso fecero la loro prima comparsa al fronte i marocchini. Gli Alleati li avevano chiesti al governo di Algeri. Erano uomini che si trovavano a loro agio su quei monti brulli, e che contentandosi di poco non avevano bisogno di grandi servizi logistici. Per ora si tratta di una Divisione; era l'avanguardia del corpo di spedizione francese che si sarebbe particolarmente distinto a Cassino.
Sul fronte adriatico l'VIII Armata conduceva la sua guerra, mentre i tedeschi si ritiravano verso il Sangro, schierandosi alla fine sulla sua riva settentrionale. Il 10 novembre canadesi ed inglesi giunsero anch' essi in vista del fiume. L'avanzata era lenta: in un mese Montgomery era riuscito a guadagnare meno di cinquanta chilometri.
Continuava a piovere. Per via del maltempo Montgomery fu costretto a sospendere l'offensiva contro il settore adriatico della «linea d'inverno», fissata per il 20 novembre. Dall'Adriatico al Tirreno era lo stesso spettacolo; soldati che si muovevano su piste fangose, allagamenti che obbligavano a deviazioni, strade impraticabili, e fango, fango, fango: nessuno di questi soldati era abituato a vederne tanto. Gli Alleati erano partiti con l'idea di conquistare Roma prima di Natale: ora quell'obiettivo s'allontanava sempre più.
In queste condizioni non si poteva pensare a una grande offensiva. Con i fiumi in piena, c'era il pericolo che le truppe, avanzando, restassero tagliate fuori dalle retrovie. Il ponte sul Volturno che a metà ottobre aveva permesso a Clark di passare il fiume e conquistare Capua, venne spazzato via dalla furia delle acque.
Decisioni di eccezionale importanza per il futuro della guerra erano prese dai capi delle potenze alleate. Alla conferenza di Teheran essi ribadirono l'assoluta priorità dello sbarco in Normandia da effettuarsi tra maggio e giugno del '44 in concomitanza con un'operazione d'appoggio sulle coste della Francia meridionale. Ciò avrebbe garantito la permanenza nel Mediterraneo dei mezzi anfibi necessari al proseguimento della campagna in Italia fino alla conquista di Roma, ma voleva anche dire che il fronte italiano era destinato a perdere d'importanza nel quadro generale della guerra. Churchill avrebbe preferito una offensiva su Vienna attraverso l'Italia settentrionale ma Stalin non voleva essere preceduto nei Balcani dagli Alleati occidentali, e insistette per lo sbarco in Provenza. Roosevelt ne rimase convinto: la sorte della campagna d'Italia era decisa.
Nello stesso momento gli eserciti alleati si preparavano al primo attacco alla temuta «linea d'inverno» tedesca dall'Adriatico al Tirreno, di fronte alla quale erano arrivati verso la metà di novembre. L'VIII Armata, vinta la resistenza germanica sul Trigno e a Vinchiaturo, si era arrestata sopra Isernia e davanti al Sangro. Pochi giorni dopo anche la V Armata, superata la linea degli avamposti, era giunta a contatto con le posizioni difensive tedesche. Sul versante tirrenico, alla vigilia della battaglia, erano schierate quasi nove Divisioni alleate contro sette Divisioni germaniche. In questo settore la «linea d'inverno» partiva dalle foci del Garigliano passando per Minturno, Monte Camino, Montelungo, stretta di Mignano sulla via Casilina, Monte Sammucro, Monte Corno. L'offensiva ebbe inizio il 2 dicembre contro il massiccio di Monte Camino.
Questo caposaldo aveva già respinto tre volte gli attacchi inglesi. Alle 4,30 del pomeriggio del 2 dicembre 925 pezzi d'artiglieria e mortai aprirono il fuoco sulle pendici nude e rocciose del monte. La marcia di avvicinamento fu effettuata sotto una pioggia torrenziale.
Poi cominciò la scalata lungo un erto ciglione sul quale reparti speciali s'arrampicarono fino a quota 960. La lotta per il possesso della cima si concluse il 6 dicembre.
La conquista di Monte Camino costituiva un notevole passo avanti verso l'accesso alla valle del Liri, dove correva la via Casilina, ma a sbarrarla rimaneva Montelungo. Quella cresta chiara, di forma allungata, brulla, senza un albero, ricordava le quote del Carso, su cui s'era dissanguata la fanteria italiana nella guerra '15-'18. Di qui passava la «linea d'inverno» e nei loro «Bunker» i tedeschi dei reparti corazzati attendevano che la V Armata attaccasse per aprirsi la strada verso Roma.
Anche gli italiani erano della partita questa volta.
Erano i bersaglieri e i fanti del I Raggruppamento motorizzato: cinquemila volontari con l'idea fissa che bisogna combattere per liberare l'Italia dai tedeschi. Erano armati alla meglio, i giornali di Londra e di New York li chiamavano «l'esercito dei cinquemila ». Li comandava il generale Dapino: il loro obiettivo era la conquista di Montelungo.
Gli italiani arrivarono solo alla vigilia del giorno stabilito per l'attacco, appena il tempo per fraternizzare con gli americani, nei ranghi, come fra i capi. La visita del generale Clark, che aveva il comando a ridosso della prima linea, è cordiale come tra vecchi camerati.
L'attacco a Montelungo era fissato per le ore 6,20 dell'8 dicembre; in concomitanza con azioni laterali della fanteria americana verso San Pietro.
Sulle pendici di Monte Maggiore, due battaglioni di fanteria dovevano attaccare frontalmente Montelungo, mentre a una compagnia di bersaglieri era affidata un'azione sussidiaria nella valle del Peccia. La nostra artiglieria doveva effettuare il tiro di preparazione, con l'appoggio di quella americana.
«La notte prima dell'attacco - scrive Clark nelle sue memorie - alcuni soldati italiani si avvicinarono alle linee tedesche e gridarono minacce e insulti, giurando vendetta per il comportamento dei nazisti nella ritirata d'Africa. Così i tedeschi furono purtroppo avvertiti dell'attacco imminente».
All'alba le batterie del raggruppamento aprirono il fuoco.
Il cannoneggiamento non procurò molti danni alle solide postazioni tedesche. Per conquistare le quote era necessario sloggiarne gli occupanti con i fucili e le baionette. Nell'incerta luce del mattino i fanti del 67° reggimento andarono all'assalto della «linea d'inverno».
All'improvviso i tedeschi aprirono un fuoco micidiale, costringendo gli italiani a ripiegare sulle posizioni di partenza. Ma il 16 dicembre, superato l'abbattimento provocato dal primo insuccesso e raggiunta una maggiore intesa con gli americani, fanti e bersaglieri parteciparono alla definitiva conquista della terribile quota 351.
È giusto che il cimitero dei caduti del Corpo di liberazione sia stato messo a Montelungo. La nostra guerra a fianco degli Alleati cominciò infatti in quei giorni del '43.
I giovanissimi allievi ufficiali del 67° Fanteria sono diventati uomini.
Nelle due battaglie si ebbero molti atti di valore.
Montelungo era il pilastro di sinistra della valle dove passava la strada per Cassino. Sull'altro versante, alle pendici di Monte Sammucro che era il pilastro di destra, si trovava il paese di San Pietro Infine.
Lo stesso giorno in cui gli italiani conquistavano Montelungo, gli americani della XXXVI Divisione si battevano davanti a San Pietro che resisteva da una settimana.
San Pietro dopo la guerra è stato rifatto più in basso.
È una sorte capitata a molti paesi dell'Italia centrale.
Alcuni vennero così distrutti che non si pensò nemmeno di ricostruirli sulla vecchia pianta. Meglio rifarli da capo in un altro luogo.
La giornata del 16 dicembre fu particolarmente dura e sanguinosa. I tedeschi s'erano trincerati dentro il paese e il fuoco delle artiglierie e dei mortai non riusciva a sloggiarli. Un reggimento fu mandato all'attacco attraverso gli oliveti, ma venne respinto.
Nel pomeriggio l'attacco fu ripreso da tutti i lati. Si usarono la baionetta e la bomba a mano.
Non era possibile prendere San Pietro se prima non cadeva il sovrastante Monte Sammucro. Mentre un reggimento teneva le posizioni nel fondo valle, altri reparti scalarono il monte combattendo. Finalmente la cresta fu raggiunta e dall'alto le avanguardie americane poterono disporsi per l'attacco finale. Ora i tedeschi rimasti in San Pietro erano come dentro una scatola. Prima di sera cominciarono a ritirarsi. Gli americani entrarono in paese con ogni cautela, temendo agguati e contrattacchi. Ma anche il nemico era stanco. E i difensori rimasti fra le rovine si arresero.
La popolazione di San Pietro s'era nascosta nelle grotte della Valle dell'Inferno, vivendo per settimane in condizioni indescrivibili e ascoltando la battaglia che distruggeva giorno per giorno il paese. Quando i sampietrini uscirono fuori dai loro antri, erano mezzo inebetiti dalle sofferenze e dalla paura. Anche per loro la guerra era finita.
Mentre la V Armata si andava avvicinando a Cassino l'VIII concentrava i suoi sforzi sull'Adriatico. L'attacco alla «linea d'inverno» era iniziato il 28 novembre con una massiccia offensiva aerea. Due giorni dopo il fronte tedesco era infranto e gli inglesi avevano passato il Sangro.
Ora Montgomery avrebbe voluto puntare su Chieti e Pescara, deviando quindi verso ovest in direzione di Roma. Una Divisione neozelandese al comando del generale Freyberg era venuta a dare man forte agli inglesi nel loro piano ambizioso.
Ma la strada dell'VIII Armata era sbarrata da Ortona.
Montgomery non aveva saputo approfittare del successo iniziale. Conquistata Lanciano il 4 dicembre egli si era dedicato a gettare ponti sul Sangro anziché inseguire decisamente il nemico sconfitto. Quando le avanguardie britanniche giunsero a Ortona, i tedeschi avevano già chiuso la falla del loro fronte. Il 20 dicembre toccò ai canadesi d'impegnare battaglia strada per strada, casa per casa.
Per vari giorni la lotta tra canadesi e paracadutisti della I Divisione si svolse con una violenza senza precedenti.
Sulle pendici della Majella, i tedeschi avevano trasformato Orsogna in un fortino.
La Divisione neozelandese, andata all'attacco con l'appoggio dell'aviazione venne respinta quattro volte. Gli assalti cessarono solamente alla mezzanotte del 24 dicembre.
Il giorno dopo, quinto Natale di guerra, su tutta la «linea d'inverno» la battaglia si quietò e la promessa di non far mancare a nessuno, nemmeno in zona avanzata, la sua porzione di tacchino, venne mantenuta.
Soltanto a Ortona si era combattuto anche il giorno di Natale, ed erano stati anzi gli scontri più violenti di tutta la battaglia. Finalmente il 28 dicembre i paracadutisti tedeschi lasciarono la città. Ormai lo slancio dell'VIII Armata si era spento. Montgomery dovette rinunciare alla sua grande manovra attraverso l'Abruzzo e sospese l'offensiva su tutto il fronte.
L'ultimo dell'anno Montgomery lasciò il fronte e l'Italia, chiamato in Inghilterra dove lo aspettavano Eisenhower e i piani per lo sbarco in Normandia. Egli avrebbe voluto concludere a Roma l'avanzata cominciata un anno prima ad El Alamein, ma non c'era riuscito. Colpa in parte delle difficoltà del terreno e della resistenza dell'avversario, e anche della sua mancanza di decisione. Il messaggio d'addio ai soldati e il commiato dai corrispondenti di guerra ebbero toni quasi patetici per un uomo del suo carattere.
Montgomery lasciava comunque il ricordo di una non comune personalità, anche se non sempre gradevole per i collaboratori e i subalterni.
Bibliografia:
Manlio Cancogni in AA.VV - Dal 25 luglio alla Repubblica - ERI 1966
La repubblica di Mussolini
Il «nuovo corso» del fascismo sboccava nella vendetta
Nel Nord, mentre il movimento partigiano si allargava, la repubblica di Mussolini aveva iniziato la sua vita precaria all'ombra dell'occupazione germanica. I tedeschi avevano insediato i ministeri in un gruppo di ville sparse sulla costa occidentale del Garda e in qualche città vicina. Tutta la zona era sottoposta a rigida sorveglianza da parte dei tedeschi che controllavano ogni atto del duce e dei suoi collaboratori. In quest'atmosfera di sospetto, di paura e di intrigo, Mussolini si sforzava di dare un fondamento al nuovo stato fascista.
L'Assemblea costituente, che fin dai primi giorni i gerarchi fascisti avevano promesso di convocare con solennità, si ridusse in pratica a un congresso di delegati provinciali che si riunì il 14 novembre a Castelvecchio di Verona approvando i 18 punti di un manifesto programmatico elaborato dal governo, sotto il controllo dell'ambasciatore tedesco Rahn. Era un documento confuso, che conteneva affermazioni velleitarie e contraddittorie e sembrava ignorare del tutto la guerra che si combatteva sul territorio nazionale.
Quel giorno Mussolini non si recò a Verona. Col pretesto di lasciar più libera la discussione, preferì rimanere nella villa Feltrinelli di Gargnano, dove viveva, e a proposito dell'Assemblea disse più tardi: «È stata una bolgia vera e propria. Molte chiacchiere confuse, poche idee chiare e precise». Altre cose premevano al governo di Salò: in primo luogo il processo ai responsabili del 25 luglio.
L'8 gennaio del '44, nella stessa sala di Castelvecchio dove s'era tenuta la costituente fascista, il processo cominciò. Dei 19 imputati solo 6 erano presenti: De Bono, Gottardi, Ciano, Pareschi, Marinelli, Cianetti. La loro condanna era stata già segnata prima del dibattito. Solo per Cianetti ci fu clemenza.
Il «nuovo corso» del fascismo sboccava nella vendetta.
I cinque condannati furono condotti al poligono di tiro nella fortezza di San Procolo, a Verona, e fucilati.
Erano le nove di mattina del 12 gennaio.
Mussolini commentò la notizia laconicamente: «Gli italiani amano dimostrarsi in ogni occasione o feroci o buffoni ». Egli non aveva fatto nulla per impedire la feroce buffonata.
In seguito altri condannati furono condotti al palo nello stesso punto. Erano combattenti per la libertà, il cui sacrificio è ricordato da un magro ciuffo di verde.
Bibliografia:
Manlio Cancogni in AA.VV - Dal 25 luglio alla Repubblica - ERI 1966
L'attacco alla linea Gustav
Quando la guerra è passata i bollettini militari non si occupano più dei paesi e delle città dove c'è stata la battaglia. Il fronte è più avanti. Tocca ai civili che ritornano fare l'inventario delle rovine. A volte resta molto poco. Sono paesi vecchi, quelli del Sud: due o tre salve d'artiglieria bastano per distruggerli. Mura decrepite, case povere. Inutile cercare fra le macerie: non si ritrova quasi nulla.
Tuttavia la vita riprende, anche quella politica. Alcune provincie, Bari, Brindisi, Taranto, Lecce, sono già rientrate sotto l'amministrazione italiana. Le altre rimangono sottoposte al controllo degli Alleati, che preparano il ritorno all'autogoverno locale. Si tratta di rimuovere le vecchie autorità, legate al fascismo, e sostituirle con persone che godano la fiducia popolare e non siano compromesse col passato regime. Il podestà viene rimosso e ricompare il sindaco.
Al Sud però l'atmosfera politica non era tranquilla.
L'ostinazione del re a restare sul trono provocava malumore negli stessi monarchici, che vedevano compromessa la loro causa, e irritazione negli antimonarchici che non distinguevano fra il re e l'istituzione e rifiutavano l'uno e l'altra.
Benedetto Croce non era diventato repubblicano. Ma considerava il re corresponsabile del fascismo e riteneva necessario il suo allontanamento.
Il conte Sforza invece era antimonarchico, tuttavia sarebbe stato disposto a collaborare col re su un piano decisamente antifascista. Il re non era chiaro su questo punto, e così tutti gli esponenti dell'antifascismo si rifiutarono di entrare nel governo Badoglio.
I rappresentanti dei Comitati di Liberazione Nazionale che il 28 e il 29 gennaio si riunirono, al teatro «Piccinni» di Bari, erano invece apertamente repubblicani. Accanto a Sforza e Croce parteciparono al congresso uomini politici d'ogni tendenza.
C'erano il democristiano Rodinò, Zaniboni (l'attentatore di Mussolini che con Cianca presiedette i lavori), Spano per il Partito Comunista, il socialista Lizzadri giunto avventurosamente da Roma, Omodeo per il Partito d'Azione. Il governo di Brindisi, che non aveva potuto impedire il congresso, lo sottopose a un rigido controllo di polizia. Non voleva cedere il potere agli uomini che più legittimamente avrebbero rappresentato l'Italia democratica.
Al Congresso di Bari si chiese, in nome del popolo italiano, l'immediata abdicazione del re, vennero poste le premesse del futuro governo a base antifascista e si auspicò l’intensificazione della lotta contro i tedeschi a fianco degli Alleati.
La guerra non era lontana e si fece sentire anche a Sud. Proprio a Bari che era la grande base di rifornimento dell'VIII Armata, qualche settimana prima i tedeschi avevano sferrato un duro colpo. Una rapida incursione aerea sul porto: i danni furono enormi. 17 navi affondate, 1.000 uomini perduti. Ed enorme fu anche l'impressione nella gente che da settembre s'illudeva che la guerra fosse finita.
Sulle montagne, al fango era subentrata la neve. Proprio in questa stagione gli italiani cominciarono ad affluire al fronte numerosi. Per ora erano utilizzati nei servizi di retrovia. Era stato l'autunno più piovoso degli ultimi anni; s'annunciava un inverno rigidissimo. Gli Alleati non avevano immaginato che nel «paese del sole» facesse tanto freddo, ci fosse tanto ghiaccio.
I più sorpresi erano i marocchini mandati a raggiungere le posizioni in alta montagna sul fronte della V Armata. I soldati francesi, provenienti in gran parte dal Nord Africa, formavano un Corpo di spedizione al comando del generale Juin.
Anche i polacchi affluivano al fronte, nel settore dell'VIII Armata. Avevano percorso migliaia di chilometri per arrivare, dai campi di prigionia della Russia, ad incontrarsi col nemico che da più di quattro anni occupava la loro patria. Erano pieni di ardore e di odio. Li comandava un eroe della guerra, il generale Wladyslaw Anders, e appena in linea ricevettero la visita del generale Oliver Leese che aveva sostituito Montgomery nel comando d'Armata.
Sul fronte adriatico, dopo lo sfondamento della «linea d'inverno» e l'occupazione di Lanciano e Ortona, l'offensiva alleata si era arrestata davanti ad Orsogna e al massiccio della Majella, e avrebbe ripreso soltanto in primavera. In un mese l'VIII Armata era riuscita ad avanzare oltre il Sangro appena pochi chilometri.
Infine i tedeschi erano arretrati ordinatamente sulla linea «Gustav», costruita in precedenza lungo i fiumi Rapido, Gari e Garigliano. Era una posizione fortemente organizzata e collegata ai lati con il preesistente sistema difensivo, che aveva come cardine Cassino con il colle del Monastero.
I soldati della V Armata potevano vederlo distintamente: alto, massiccio, bianco, il Monastero era lì, in cima alla collina che dominava l'accesso alla valle del Liri, da quindici secoli.
Intorno, appena fuori del sacro recinto, il monte brulicava di tedeschi, di fortini, trincee, armi da fuoco.
Ecco la linea «Gustav» su cui Kesselring ha schierato il suo esercito. Dal quartier generale Hitler ha fatto giungere il suo ordine: «Il Führer chiede che ciascuno tenga la linea "Gustav" fino all'estremo e fa assegnamento sulla più accanita difesa di ogni metro di terreno ».
Gli americani sanno che il nemico sta osservando con mille occhi il lento strisciare delle loro Divisioni nel fondo della valle. È la vigilia della grande battaglia che durerà fino alla fine di maggio.
Il piano alleato per superare la linea «Gustav» e decidere della battaglia di Roma prevedeva lo sbarco ad Anzio di due Divisioni e di reparti d'assalto, allo scopo di sorprendere alle spalle il nemico e di puntare sulla via Appia e sulla Casilina tagliandogli possibilmente la ritirata. L'operazione doveva essere preceduta da un attacco della V Armata sulla linea «Gustav» per attirarvi il maggior numero di forze tedesche distogliendole così dalla testa di sbarco. L'offensiva ebbe inizio il 12 gennaio con attacchi del Corpo di spedizione francese a nord dello schieramento e, qualche giorno dopo, del X Corpo britannico a sud, presso la foce del Garigliano. Malgrado la violenza degli scontri i risultati furono scarsi. Al centro, lungo il basso corso del fiume Rapido, la sera del 20 gennaio il II Corpo americano doveva sferrare l'attacco principale.
L'azione fu affidata agli uomini della XXXVI Divisione, la Divisione «Texas». L'obiettivo, dall'altra parte del fiume, era il villaggio di Sant'Angelo.
Di sera, con un tempo nebbioso, i giovanotti del Texas si gettarono attraverso il Rapido sui loro fragili battelli mentre i tedeschi sparavano senza requie.
All'alba del 21 solo poche compagnie erano riuscite a passare il fiume. Si avanzava a sbalzi: per pochi metri di terreno conquistato cadevano decine di uomini.
Il 21 e il 22 gennaio furono giornate dure per i soldati rimasti al di là del Rapido. Poi i tedeschi contrattaccarono. I texani si difesero con le spalle alla corrente che portava via le loro speranze. Solo una quarantina di uomini tornarono sulla riva americana.
Più a destra, nella zona montagnosa, gli Alleati ebbero maggiore fortuna. Qui l'attacco fu sferrato insieme dal corpo di spedizione francese e dalla XXXIV Divisione americana. Si trattava di aggirare Montecassino e di conquistare l'Abbazia scendendo dall'alto.
Le fanterie francesi realizzarono nel nuovo attacco progressi molto modesti.
Anche gli americani incontrarono una resistenza accanita. Riuscirono tuttavia a gettare un ponte di barche sul Rapido a nord di Cassino e a costituire al di là piccole teste di ponte. La penetrazione entro le linee tedesche fu arrestata dal fuoco dei difensori e si limitò alla conquista del villaggio di Caira. La prima battaglia di Cassino volgeva alla fine. Per la prima volta da El Alamein i tedeschi avevano tenuto duro.
Mentre a Cassino i combattimenti infuriavano avveniva lo sbarco di Anzio.
Erano i due momenti della stessa operazione. In quel modo la linea «Gustav» sarebbe stata presa come una noce fra le due morse di una tenaglia. La navigazione non fu disturbata. I tedeschi avevano mandato a Cassino tutte le riserve e non vigilavano le coste del Lazio.
Inglesi e americani presero terra sulle brevi spiagge ai lati della città. Calcolavano di dover combattere per impadronirsene. Ma Anzio e il suo porto caddero senza resistenza. In tutta la zona c'erano poche centinaia di tedeschi. Mai un'operazione era cominciata così favorevolmente.
Gli ordini erano di avanzare il più rapidamente possibile nell'interno perché la testa di ponte potesse vivere con i suoi mezzi, liberando la flotta per altri impieghi. Ma i capi sembravano perplessi, come se la mancata reazione tedesca li insospettisse. Invece di lanciare avanti le sue Divisioni, il generale Lucas si preoccupava soltanto di sbarcare sulle spiagge quanti più uomini e materiali fosse possibile, perdendo del tempo prezioso.
Al termine della prima giornata la testa di ponte era profonda otto chilometri, con gli americani a destra e gli inglesi a sinistra. I tedeschi ancora non si vedevano. La strada di Roma era aperta, sarebbe bastato approfittarne.
Quel grande concentramento di navi e di spiagge coperte di materiale erano un magnifico bersaglio per gli «Stukas». Hitler aveva ordinato personalmente il contrattacco. Aveva bisogno di un grande successo, e intravedeva la possibilità di ottenerlo.
Da tutte le parti i tedeschi facevano affluire i rinforzi: dall'alta Italia, dal fronte Adriatico, persino dalla «Gustav» e dal Garigliano. In tal modo, approfittando della lentezza e dei dubbi di Lucas, riuscirono a contenere la testa di sbarco. In pochi giorni gli Alleati ebbero di fronte un esercito di 70.000 uomini.
In quei giorni Alexander volle vedere con i suoi occhi i motivi del ritardo che minacciava di far fallire l'impresa. Non approvava la tattica di Lucas. Anche Clark, sebbene cercasse di scusare il comandante del corpo di sbarco, cominciava ad essere preoccupato, e lo invitò ad attaccare. Lucas non seppe fare di meglio che accumulare altro materiale sulla spiaggia esponendosi all'osservazione dei ricognitori tedeschi, a nuovi colpi e a nuove disavventure.
In questa circostanza i tedeschi misero in azione il più lungo cannone mai comparso in Italia. Si chiamava «Leopoldo»; gli Alleati lo avevano battezzato «Anzio Express». Dalla linea ferroviaria che correva ai piedi dei colli Albani i suoi colpi arrivavano fino al mare.
Compiuto il lavoro, prima che gli Alleati lo potessero individuare, veniva ritirato e nascosto in una galleria.
Era un mostro: costituiva da solo uno spettacolo di grande effetto, ma di scarsa utilità.
Finalmente il 30 gennaio Lucas si sentì in grado di sferrare l'offensiva. Mentre a sinistra gli inglesi puntavano sui colli Albani ma erano presto fermati, gli americani attaccarono verso Cisterna. La battaglia fu accanita.
Due battaglioni di «rangers» che si erano spinti troppo avanti vennero tagliati fuori e catturati in blocco. I tedeschi celebrarono vistosamente i loro successi. Era più di un anno che non facevano tanti prigionieri. Bisognava mostrarli: persuadere i romani, i quali attendevano l'arrivo degli Alleati, che la Germania era sempre la più forte. E così i prigionieri furono fatti sfilare per le vie di Roma prima di essere avviati ai campi di concentramento.
In realtà ad Anzio i tedeschi avevano ottenuto solo una vittoria tattica, pagandola molto cara. E quanto ai prigionieri il conto era almeno pari. Dopo gli ultimi scontri nemmeno le minacce di Hitler avrebbero potuto far avanzare di un metro i reparti sfiniti della Wehrmacht.
La spedizione che avrebbe dovuto risolvere il problema di Cassino, era fallita. Anche sul fronte di Anzio cominciava la guerra di posizione. Deluso, Churchill disse: «Avevo sperato di lanciare contro la terra ferma un gatto selvaggio e ora ci trovavamo sulla riva con una balena arenata ».
Fino a maggio il canale Mussolini, principale opera della tanto reclamizzata bonifica pontina, segnò il limite sud-occidentale della testa di ponte.
I colli Albani, l'obiettivo iniziale, sembravano a portata di mano come il primo giorno, ma per arrivarci sarebbero occorsi quattro mesi.
Bibliografia:
Manlio Cancogni in AA.VV - Dal 25 luglio alla Repubblica - ERI 1966