ii guerra mondiale
Il massacro di Katyn
Katyn si trova a 14 chilometri da Smolensk (città della Russia, 362 chilometri a sudovest di Mosca). Nella primavera del 1940 le truppe dell'NKVD (Narodny Kommisariat Vnutrennikh Del, Commissariato del popolo agli affari interni, la polizia segreta sovietica) uccisero oltre 4000 ufficiali polacchi internati nel 1939 nell'URSS (dopo l'attacco simultaneo della Germania e dell'Unione Sovietica alla Polonia).
Il 23 agosto 1939 fu firmato a Mosca il tristemente celebre patto Ribbentrop-Molotov; Ribbentrop era ministro degli Esteri tedesco, Molotov era il capo del Governo sovietico.
Il 1° settembre, la III armata tedesca, venuta da nord, si ricongiunge ad est di Varsavia con la X, venuta dalla Slesia. La capitale polacca è messa sotto assedio. Tre giorni dopo, anche l’Armata Rossa di Stalin entra in Polonia, senza dichiarazione di guerra, in virtù del Patto di non aggressione concordato con Hitler, che prevedeva una divisione dello sfortunato Paese. Varsavia cade il 27 settembre, dopo una eroica resistenza.
Con la divisione della Polonia, l’URSS ricevette il 52% del territorio e un terzo degli abitanti del Paese, di cui circa 250.000 soldati e ufficiali dell’esercito polacco.
A differenza dei semplici soldati, gli ufficiali dell’esercito polacco, gli agenti di polizia, gli agenti dei servizi segreti e così pure i dipendenti e i funzionari dei tribunali furono internati nei campi di concentramento nei pressi di Kozielsk, Starobielsk e Ostachkov.
Oltre 15.000 furono i prigionieri di guerra polacchi uccisi nell’aprile del 1940 per fucilazione da parte di truppe speciali del NKVD.
Nell’Europa del 1940, quando l’URSS stalinista, dopo aver spartito la Polonia, invase e sconfisse la Finlandia, annesse i Paesi Baltici, e mentre la Germania nazista occupava i Paesi dell’Europa del Nord, costringendo la Francia a capitolare, e preparava l’invasione dell’Inghilterra, il destino dei prigionieri di guerra polacchi finì pressoché dimenticato dalla pubblica opinione. Solo alcune famiglie di ufficiali polacchi detenuti, che fortunatamente non erano state deportate, notarono che, nel marzo-aprile 1940, la corrispondenza con i loro parenti internati nei campi sovietici s’interruppe bruscamente e che le lettere ritornavano ai mittenti con un timbro postale “destinatario trasferito”.
Da un rapporto di Beria, ritrovato negli archivi segreti sovietici, «gli ufficiali prigionieri di guerra e gli agenti di polizia che si trovano nei campi tentano di continuare l’attività controrivoluzionaria, conducendo delle agitazioni antisovietiche ...». Il capo del NKVD dichiarò che «gli ufficiali dell’esercito polacco, gli agenti di polizia erano tutti nemici giurati del potere sovietico, pieni di odio verso il sistema sovietico»
La conclusione logica era che lasciarli in vita avrebbe gravemente nuociuto alla sicurezza dello Stato e che la loro eliminazione era la sola soluzione possibile.
Oltre a queste considerazioni riguardanti la sicurezza dello Stato, il massacro di Katyn è un caso di imperialismo e rientra nei tentativi secolari da parte dei russi di dominare la Polonia. L’URSS stava per invadere più della metà del territorio polacco e i dirigenti sovietici erano determinati a eliminare quei membri della nazione che, in futuro, avrebbero potuto condurre la lotta per la resurrezione della loro patria. Inoltre, non si deve sottovalutare un fattore psicologico: secondo diversi indizi, Stalin nutriva una avversione e una diffidenza particolare verso i Polacchi, ricordando l’umiliante sconfitta subita dall’Armata Rossa vicino a Varsavia nel 1920, nella quale egli aveva avuto una responsabilità diretta.
Il 22 giugno 1941, la Germania invase l’Unione Sovietica e, nel luglio e agosto dello stesso anno, i territori in cui si trovavano i campi degli ufficiali polacchi furono occupati dai tedeschi.
Il massacro di Katyn è esemplare per due caratteristiche comuni a tutti i sistemi totalitari moderni del XX secolo: l’utilizzo sistematico del terrore di massa come mezzo di ordinaria amministrazione e il ruolo dell’ideologia come guida del terrore.
I sistemi totalitari tentano, così di creare una nuova società, utilizzando i metodi «scientifici» dell’igiene sociale e della «purificazione» dal «contagio borghese».
Il terrore ideologico, fondato sull’idea della purificazione della società dai corpi estranei e nocivi, dei parassiti sociali, definiti in base all’appartenenza di classe sociale antagonista o al gruppo etnico nemico, e l’uso della violenza rappresentano il denominatore comune del regime nazista e del regime stalinista. Ai loro inizi, si posero come obiettivo l’eliminazione fisica non solamente degli oppositori politici, ma anche di intere categorie di cittadini, considerati come avversari per la loro stessa esistenza: la distruzione di «nemici oggettivi» o dei «nemici del popolo», gli uni individuati in base alla loro provenienza etnica, gli altri dallo loro classe di provenienza.
Nel dibattito ancora aperto sui totalitarismi, il massacro di Katyn rappresenta un caso emblematico della politica di «pulizia di classe» come Auschwitz fu una «pulizia etnica».
Nella primavera del 1943, una commissione tecnica della Croce Rossa polacca giunse alla conclusione che il massacro era avvenuto nella primavera del 1940. La commissione polacca decise comunque di non pubblicare le sue conclusioni per non fare il gioco della propaganda nazista. L’unica copia del rapporto fu trasmesso al governo inglese che dichiarò il documento ultrasegreto e lo tenne nascosto per quarantacinque anni. Il rapporto venne pubblicato solamente nel 1989.
Dopo la guerra, a Norimberga, la corte, composta da giudici delle forze alleate vincitrici, decretò che, tenendo conto che il crimine non era stato eseguito dai tedeschi (il pubblico ministero sovietico si trovò di fronte una difesa agguerrita, capace di provare che il massacro di Katyn non era opera dei tedeschi), non aveva il mandato per eseguire una nuova inchiesta. Inoltre, il governo sovietico non riuscì a chiudere l’affare di Katyn, perché il tribunale lo escluse dalla sentenza finale per mancanza di prove.
Solamente nel 1990 Mikhail Gorbachev ammise la responsabilità sovietica del massacro.
Cronologia: settembre 1939 - giugno 1940
La non belligeranza (settembre 1939-giugno 1940)
Le prime reazioni alla notizia del non intervento dell'Italia furono di impetuoso ottimismo. Non solo e non tanto per il momentaneo scampato pericolo, ma anche perché si riprodussero vecchie, impenitenti illusioni: sulla rottura probabile (già in atto, anzi) dell'odiata alleanza con Hitler; l'aprirsi di' nuove prospettive "democratiche" per il regime; l'eventualità auspicata dai piu ardimentosi, di un futuro intervento a fianco delle potenze democratiche, con il duplice vantaggio di contribuire a eliminare dal cuore dell'Europa il cancro del nazismo e di "condizionare" il fascismo in rapporto alle mutate alleanze.
Tali illusioni si propalarono, durante alcune settimane, non solo in larga parte dell'opinione pubblica, ma anche in ambienti fascisti, dove i partigiani dell'intervento al fianco della Germania si ridussero una minoranza esigua e ben individuata: segnatamente i due gruppi che si raccoglievano attorno al Regime fascista di Farinacci e all'altro quotidiano razzista Il Tevere, di Roma.
Difficile è dire se fosse frutto di ottimismo (oppure di una chiaroveggenza di segno opposto) il forte movimento al rialzo che si verificò nelle borse a partire dal 4 settembre.
Gli ambienti finanziari erano, forse, i meglio informati e, sia che puntassero sui vantaggi della non-belligeranza, sia che facessero affidamento sulle commesse belliche, certo è che "comprarono" per tutto settembre.
L'unico che parve non partecipare alla generale euforia fu Mussolini che, per tre settimane, non si fece sentire.
Presero, così, a correre voci secondo cui era ormai stato "accantonato" dai maggiori gerarchi e dal re, che la sua fortuna - legata, da più di tre anni, all'altro dittatore - fosse al tramonto.
I primi sintomi allarmanti
A spezzare questo strano incanto, che neppure il pauroso sviluppo degli eventi bellici (Varsavia era caduta l'8 settembre, una settimana dopo l'invasione) era riuscito a dissipare, intervennero, nel giro di un mese, tre avvenimenti significativi.
Il 23 settembre '39, il duce ruppe il silenzio e, parlando ai gerarchi della "X Legio", li avvertì che era ora di liberarsi della "zavorra" dei "disfattisti, "dei" massoni," degli "ebrei," degli " esterofili" e di "ripulire gli angolini", ove questi "rottami" avevano trovato rifugio: in buona sostanza, coloro che avessero puntato sulla pace avevano fatto un gioco sbagliato.
Seconda doccia fredda: il 1° ottobre Ciano si recò a Berlino, per conferire con Hitler; negli ambienti "bene informati" si disse che quella nuova missione mirava a trovare una via d'intesa per arrestare la guerra. La Polonia era ormai spacciata, dopo che l'URSS, il 17 settembre, ne aveva varcato le frontiere dall'altra parte, ma sul fronte d'Occidente si susseguivano le "notti calme ", le ostilità tra tedeschi e franco-inglesi non avevano, praticamente, ancora avuto inizio.
Si confidò, quindi, in una mediazione italiana, ma due settimane dopo apparve chiaro che Hitler non intendeva fermarsi.
Il 31 ottobre '39 si ebbe un repentino cambio della guardia nelle gerarchie del regime. Starace fu sostituito da Ettore Muti, al partito; Alessandro Pavolini rimpiazzò Alfieri alla Cultura Popolare; Renato Ricci andò alle Corporazioni al posto di Lantini, ecc.
Le prime voci, fondate sui rapporti d'amicizia o di vera e propria sudditanza che legavano alcuni dei nuovi ministri a Galeazzo Ciano, fecero pensare che le cose volgevano al meglio: si parlò di "gabinetto Ciano" e, al solito, le speranze sostituirono il ragionamento.
La realtà era diversa: anche se alcuni dei nuovi ministri erano amici di Ciano, essi erano, prima ancora, uomini del partito, di provata fede, di sicura disciplina (ottusi, magari, e faziosi, più di quelli che erano chiamati a sostituire); proprio per questo, ubbidienti e adatti alla bisogna e la bisogna, anche se Ciano stesso s'illudeva, era la guerra.
Un altro brutto indizio - o presagio - fece pensare al peggio (quelli che pensavano). Il 9 novembre '39 fu data notizia che la polizia tedesca aveva sventato a Monaco un attentato contro Hitler predisposto in occasione dell'annuale riunione nella storica birreria.
Non occorreva troppo acume per indovinare che la storia era un pretesto per togliere di mezzo, anche in Germania, eventuali oppositori alla prosecuzione della guerra. Già si era appreso che il gen. Fritsch, il capo della Reichswehr allontanato dal comando alla vigilia dell'Anschluss, era "caduto in battaglia" al fianco dei suoi soldati, dei quali aveva rivestito la semplice divisa. Ora, alla notizia del presunto attentato (diramata con tono quasi trionfale da Berlino) erano seguite quelle di repressioni, arresti, esecuzioni sommarie: di pari passo con la perfetta macchina militare, era scattata la spietata macchina della Gestapo.
Si indovinò anche (lo si era imparato, ormai) che un fatto del genere avrebbe trovato a Roma immediata anche se, per certi aspetti, goffa risonanza. Si ebbe notizia, infatti, di un certo "giro di vite". Ma, soprattutto, si seppe che, sul finire dell'anno e agli inizi del '40, numerosi arresti di "sovversivi" erano stati compiuti anche in Italia.
Impressioni contrastanti
Ma la speranza era dura a morire. Una nuova ondata euforica si verificò nel dicembre '39. Il 16, alla Camera, Ciano espose le ragioni della non-belligeranza italiana e trapelò dal discorso che questo atteggiamento era dovuto a qualcosa come una violazione degli accordi da parte della Germania: l'Italia non si trovava quasi più impegnata dal patto d'acciaio. Comunque, la pace avrebbe dovuto essere garantita per altri tre anni. In un'epoca in cui la sopravvivenza si misurava a giorni, questo lasso di tempo parve immenso.
Poco dopo, il 21 dicembre, il re e la regina si recarono a far visita al Papa e, dall'insieme delle cerimonie, dei comunicati, delle voci, anche questo avvenimento diede motivo di fiducia. Fu detto che Papa e re erano d'accordo che l'Italia passasse dalla non-belligeranza alla neutralità. Nelle borse si ebbero altri rialzi: la grossa borghesia continuava a comprare. Buono o cattivo indizio?
Ognuno lo interpretò a suo modo. Ma il più strano era che ogni giorno, intanto, si muovevano attacchi allo "spirito borghese": i borghesi italiani (anche se mai individuati personalmente) erano raffrontati, in quelle polemiche, notoriamente promosse dal partito, agli stranieri democratici o, addirittura, additati all'odio popolare.
In realtà, il disegno della propaganda fascista non era né troppo misterioso né peregrino: si mirava a persuadere il popolo che la guerra sarebbe stata, così come antiplutocratica all'esterno, anche antiborghese all'interno.
A febbraio, l'allarme divenne più pronunciato: la stampa metteva particolare cura a dimostrare le vessazioni che l'Italia stava subendo per via del blocco navale anglo-francese, che rarefaceva i rifornimenti, causava aumenti nei prezzi, ci rendeva, insomma, prigionieri nel nostro mare. Furono "sensibilizzati" diversi incidenti: navi italiane fermate o dirottate, minacce di "embargo" da parte francese. L'Inghilterra si avviava a meritarsi il titolo di "perfida Albione."
Una strana manovra venne effettuata dal Giornale d'Italia, sul finire del febbraio '40: Virginio Gayda pubblicò due o tre articoli in cui s'illustravano i pregi di un'eventuale alleanza contro le democrazie plutocratiche dei "tre regimi totalitari", fascismo, nazismo e bolscevismo, di cui si ponevano in luce, insolitamente, le pretese "affinità".
Il 18 marzo '40, Mussolini s'incontrò con Hitler al Brennero.
Corsero voci contrastanti. Gli inguaribili ottimisti dissero che il duce era andato a prospettare al Führer certe proposte di accomodamento che il segretario di Stato americano Sumner Welles, venuto nei giorni precedenti due volte a Roma, aveva recato. Ma la maggioranza degli italiani non condivideva ormai più queste illusioni e, poiché la stampa si manteneva nel generico, fermenti di malumore serpeggiarono un po' ovunque.
La polizia, sempre attentissima, evitò che il rientro di Mussolini avvenisse con troppo clamore, temendo che il giochetto di gridare "pace - pace". in luogo di "duce - duce", fosse ripetuto. A "fare folla" vennero comandate alcune centinaia d'agenti in borghese, pochi scalmanati dei gruppi rionali e gli uscieri della federazione romana e della direzione del partito.
Verso la guerra
Che le cose volgessero ormai al peggio si capi, nel marzo-aprile da certi inasprimenti della polemica di stampa contro Inghilterra e Francia, dal fatto che la lotta contro l'esterofilia fu intensificata e anche da taluni sintomi che si notarono negli ambienti fascisti: quei gerarchi che non avevano dissimulato, anche con i più periferici collaboratori il proprio neutralismo facevano adesso macchina indietro.
Agli inizi di aprile, Hitler attaccò proditoriamente Danimarca e Norvegia e l'esito folgorante delle due operazioni fu Il primo concreto segnale d'allarme, anche per noi: la guerra, a quel modo, era una bellezza; non prendere parte al bottino era da idioti.
Questo, purtroppo, lo stato d'animo che si diffuse, non solo tra i gerarchi, ma in ambienti borghesi che, poc'anzi, si erano mostrati scettici e malcontenti, e perfino tra certi intellettuali che, in verità, erano sempre stati assai ligi verso il regime ma, ultimamente, avevano dato a credere in un ravvedimento. Sulla scorta di notizie sufficientemente indicative, la stragrande maggioranza della gente semplice non si lasciò prendere da queste infatuazioni. Fu colpita, sgomenta, ammirata magari per la precisione e l'efficacia dei colpi nazisti. E, semmai, proprio per questo, cadde in una cupa desolazione, si disanimò: prevedendo ormai
il peggio, rimase passiva.
Non era ancora uscita, questa parte prevalente dell'opinione pubblica, dall'impressione provocata dai tremendi colpi hitleriani in Danimarca e Norvegia, che seguirono, del pari folgoranti, il 10 maggio '40, l'invasione dell'Olanda e del Belgio e la sconcertante disfatta francese.
Le "notti calme" erano finite sulla Maginot. A fine maggio, tutte le forze capaci di difendere la “Francia eterna" erano chiuse a Dunkerque
e non riuscivano- neppure a salvarsi con la fuga. (Nel corso dell’offensiva tedesca in Francia, il 20 maggio 1940, la Wehrmacht riuscì a dividere in due le armate alleate che tentavano di attraversare la manica. Questa manovra costrinse le 45 divisioni franco-britanniche a ripiegare sulla regione di Dunkerque. Circa un milione di uomini si trovarono accerchiati dalle divisioni tedesche. Le forze franco-britanniche riuscirono ad aprirsi un varco di un centinaio di chilometri di lunghezza e di una trentina di larghezza per consentire il trasferimento delle truppe.
L’operazione “Dynamo”, sotto il comando del vice-ammiraglio Bertram Ramsey, durò dal 26 maggio al 4 giugno e consentì la salvezza di circa 338.000 soldati, di cui 123.000 francesi. La Wehrmacht fece 35.000 prigionieri).
Mussolini - ogni italiano ormai lo sapeva - non stava più nella pelle. Il resto è noto ...
Bibliografia:
Ruggero Zangrandi - Il lungo viaggio attraverso il fascismo - Garzanti 1971
Cronologia: giugno 1940 - giugno 1942
I primi due anni di guerra (giugno 1940-giugno 1942)
Con l'intervento dell'Italia nel conflitto, un elemento appare subito chiaro, sconcertante e, per molti aspetti, mortificante: che, mentre la Germania, per due anni ancora proseguì nei suoi strabilianti successi militari accentuando l'impressione d'invincibilità, l'Italia subì invece fin dall'inizio e quasi ininterrottamente, rovesci altrettanto sensazionali e venne .così ad assumere ben presto, malgrado l’originaria alleanza, il ruolo di un Paese quanto meno "protetto”, praticamente dominato come tutti gli altri dell'Europa continentale, dal padrone nazista.
È questo un dato storico che contribuì a rendere, se altri motivi non vi fossero stati, assurda e impopolare (oltreché sciagurata) una guerra che, nonostante le menzognere parole d’ordine della propaganda ufficiale, non aveva altre. prospettive, se non quella, in caso di vittoria, di una servitù anche più trista delle altre, in quanto voluta e accettata dalla classe dirigente del tempo.
E ciò spiega - credo -, tra l'altro, non solo la crescente opposizione delle masse popolari, ma anche lo scarso impegno “combattentistico" dei richiamati che, pur battendosi con valore individuale (tanto maggiore, perché sempre in condizioni d’impreparazione e d'inferiorità) quando si trattò di difendere, in singoli episodi, l'onore del Paese, non poterono, certo, essere sorretti dallo spirito volontaristico che anima un popolo quando si trova a dover sostenere una guerra giusta e sentita.
E vengo all'arida cronaca.
10 giugno '40. Lo schieramento delle forze italiane al comando del principe di Piemonte sull'arco alpino è formato di 22. divisioni, 3 raggruppamenti alpini, 2 raggruppamenti celeri per circa 350.000 uomini. Armamento mediocre; situazione militare notoriamente infelice, di fronte alle posizioni e le fortificazioni francesi.
18 giugno '40. Incontro Mussolini-Hitler a Monaco: poche notizie ufficiali; si dice sia avvenuto per concordare l'armistizio con la Francia. (I tedeschi hanno raggiunto Parigi il 14).
Voci che Mussolini vuole attaccare i francesi, nonostante la palese inutilità.
22 giugno '40. I tedeschi firmano l'armistizio col governo francese di Pétain.
21-24 giugno '40. Per cinque giorni le forze italiane conducono una assurda offensiva sul fronte occidentale, raggiungendo Mentone, sulla costa, e gli avamposti alpini nella regione Ligure-Piemontese. 39 ufficiali morti, 187 feriti, 592 soldati morti, 5311 feriti, di cui 2125 congelati.
24 giugno '40, sera. A Villa Incisa, a Roma, Badoglio e Hutzinger firmano l'armistizio franco-italiano.
29 giugno '40. A Tripoli, Balbo è abbattuto dalla contraerea. Lo sostituisce Graziani.
Giugno-luglio '40. Fin dalle prime settimane, le forze italiane subiscono rovesci in Cirenaica. Si parla di migliaia di prigionieri, tra cui un generale. Nel Mediterraneo i bollettini annunciano “grandi successi”. Le battaglie navali di Punta Stilo (9 luglio) e Capo Spada (19 luglio) si sono risolte con lievi vantaggi italiani. Si sa di contrasti tra marina e aviazione. Si dice che, in un mese, l'aviazione italiana avrebbe perso 250 apparecchi. Si parla di un attacco tedesco contro l'Inghilterra, la cui attuazione è però rinviata di settimana in settimana.
Agosto '40. Violenti bombardamenti tedeschi sulle città inglesi.
Stasi sui fronti italiani, salvo che per il Mediterraneo.
14 settembre '40. Inizia l'offensiva italiana in Libia, voluta da Mussolini per ragioni di prestigio, contro il parere di Graziani. Ripiegamento inglese; occupazione di Sidi-el-Barrani.
27 settembre '40. Ciano firma a Berlino il “patto tripartito" tra Germania, Italia e Giappone. La stampa non nasconde il disegno di dominazione mondiale che ne è alla base.
4 ottobre '40. Incontro Mussolini-Hitler al Brennero. Scarse notizie ufficiali. Si dice sia stato esaminato l'abbandono del piano tedesco di invasione dell'Inghilterra, La guerra si farà più lunga e dura.
Metà ottobre '40. I tedeschi occupano la Romania. In Italia voci di attacco alla Grecia.
29 ottobre '40. Comincia l'attacco alla Grecia.
Inizi novembre '40. Notizie nere dalla Grecia. Da fonte radio si apprende che già il 5 novembre le nostre forze hanno dovuto ripiegare. Specialmente provati i contingenti alpini.
10 novembre '40. A conferma delle sconfitte subite il gen. Visconti Prasca è sostituito dal gen. Soddu in Albania.
12 novembre '40. Aereo-siluranti inglesi attaccano la flotta alla fonda a Taranto: colpite le corazzate "Littorio" Duilio” e "Cavour”.
Metà novembre '40. Continuano i rovesci in Albania. Mussolini annuncia che "spezzeremo le reni alla Grecia”.
18 novembre '40. Incontro Hitler-Ciano a Salisburgo: si parla di un grave rabbuffo del Führer per l'iniziativa italiana nei Balcani.
24 novembre '40. Farinacci attacca duramente, sul Regime fascista, Badoglio .
Inizio dicembre '40. Prosegue la rovinosa ritirata in Albania. Gli attacchi a Badoglio s'intensificano, anche da parte degli ambienti nel partito. Si dice che Mussolini abbia criticato il capo di S.M. accusandolo di aver approvato l'attacco alla Grecia, pur conoscendo la nostra impreparazione. Il maresciallo si sarebbe ritirato in Piemonte. Conflitti si sarebbero verificati tra ufficiali dell'esercito e fascisti a Torino; Asti e Roma.
Metà dicembre '40. Ripiegamento generale in Albania.
Le direttive ormai ufficiali del partito sono di dare tutta la colpa dei disastri militari a Badoglio e alla casta dei generali. Gli inglesi contrattaccano in Libia costringendo le forze italiane a ripiegare su Bardia. Si parla di migliaia di prigionieri, cinque divisioni fuori combattimento, generali arresisi senza battersi.
Ondate di critiche nell'opinione pubblica. Si parla di reazioni anche nell'ambiente militare e della corte. Mussolini, furibondo, avrebbe espresso l'intendimento di "mettere a posto" tutti: il re e i generali. Risbucano gli squadristi, a dare lezioni agli ascoltatori delle radio nemiche ma solo nelle grandi città e sotto la protezione della polizia. Nei centri minori e nel paesi i fascisti non si fanno vedere.
Fine dicembre '40. Anche Soddu è stato richiamato dall’Albania, sostituito da Cavallero. Ordine di Cavallero alle truppe: "Morire sul posto”.
Inizi gennaio '41. Continua la disfatta in Libia: cadono Bardia e, poi, Tobruk; si parla di oltre centomila prigionieri.
L’opinione pubblica è esterrefatta. Si parla di gravi dissensi nelle alte sfere del regime: Grandi, Bottai, Federzoni, Delcroix contro Farinacci, Pavolini, Sforza. Si dice che Mussolini intenda reagire con estrema energia: contro il re i generali la borghesia, il Vaticano, il popolo stesso che considera tutti "traditori".
7 gennaio '41. Al Consiglio dei ministri Mussolini legge l'elenco dei generali e dei colonnelli sostituiti e, in un comunicato pubblico, si fa appello "alle masse profonde dell'Italia proletaria fascista".
18 gennaio '41. Mussolini decide la mobilitazione di gerarchi, ministri, deputati, membri del Gran Consiglio, federali: tutto lo stato maggiore - e minore - del regime dovrà andare al fronte con l'inizio di febbraio.
22 gennaio '41. Incontro Mussolini-Hitler a Salisburgo.
Via radio si apprende che è stato comunicato l'abbandono definitivo del progetto di sbarco in Inghilterra, nonostante la feroce offensiva aerea compiuta fino a questo momento. Hitler avrebbe anche promesso l'intervento tedesco nei Balcani e in Libia. Mussolini dovrebbe intercedere presso Franco per indurre anche la Spagna a intervenire a fianco dell'asse.
12 febbraio '41. Incontro Mussolini-Franco a Bordighera. Nulla di fatto.
Metà febbraio '41. Rommel arriva in Libia, di dove Graziani è venuto via alla chetichella sostituito da Gariboldi.
1° marzo '41. Ha inizio l'intervento tedesco nei Balcani, con l'occupazione della Bulgaria.
1°-20 marzo '41. Mussolini si trasferisce in Albania per presenziare alla "grande controffensiva”.
Aprile '41. In concomitanza con l'intervento tedesco contro la Jugoslavia e la Grecia, Cavallero attacca dall'Albania e Ambrosio occupa Lubiana, la Dalmazia fino ai confini del Montenegro. Il 13 aprile i tedeschi occupano Belgrado, il 27 Atene. Rispettivamente il 18 e il 24 sono firmati gli armistizi con la Jugoslavia e la Grecia.
Giungono notizie, a fine aprile, delle sopraffazioni che, ovunque, i tedeschi compiono, mortificando i militari italiani e imperversando contro le popolazioni locali. Notizie analoghe giungono dalla Libia, dove l'arroganza tedesca si verifica al livello degli alti comandi.
Inizi maggio '41. Dopo una progressiva ritirata su tutti i fronti dell'Impero le forze italiane in Africa orientale abbandonano la resistenza. Il 19 maggio la resa dell'ultimo presidio comandato dal duca d'Aosta segna la fine dell'Impero.
18 maggio '41. Dallo smembramento della Jugoslavia, è creato il regno di Croazia, cui Vittorio Emanuele destina come sovrano Aimone, duca di Spoleto.
Seconda metà maggio '41. Si ha notizia che il numero due del nazismo, Hess, è fuggito in Inghilterra.
10 giugno '41. Mussolini pronuncia alla Camera un penoso discorso nel quale dà per sicure imminenti vittorie e definisce il suo recente soggiorno. in Albania "un premio per le truppe".
22 giugno '41. Inizia l'aggressione tedesca contro l'URSS.
Fine giugno '41. Mussolini decide (sembra contro la stessa resistenza di Hitler) di mandare subito sul nuovo fronte orientale un contingente italiano, che passa in rassegna a Verona il 26 giugno.
La stampa cattolica, finora dimostratasi distaccata, ravvisa nella nuova offensiva un valore ideologico che la porta a un palese avvicinamento al regime. Riserve e "distinguo" si notano invece sulla stampa fascista di sinistra, perfino. su periodici nati come Critica Fascista e Civiltà Fascista.
Luglio '41. Inizio della rivolta in Montenegro. L'attività partigiana si sviluppa in tutta la regione jugoslavo-greco-albanese, fino alla Venezia Giulia.
Settembre '41. L'avanzata tedesca in URSS si sviluppa fino alla occupazione di Kiev e all'assedio di Leningrado. I reparti italiani raggiungano. Stalino.
Le condizioni alimentari in Italia si aggravano sensibilmente.
Circolano, voci di una "occupazione segreta" di agenti tedeschi insediati nelle principali città. Ufficialmente s'installa nella Penisola un comando tedesco diretta da Kesselring.
Ottobre '41. I tedeschi conquistano Karkov e Odessa. Si accentuano in Italia le manifestazioni di fanatismo di Mussolini: il 4 ottobre decide l'allontanamento dalla Sicilia di tutti i funzionari siciliani; a metà mese si apprende che intende inviare in URSS, nonostante le difficoltà prospettate negli ambienti militari, almeno venti divisioni.
è promossa una inchiesta a carico di Graziani; voci attendibili riferiscano sull'intensificazione della sorveglianza di polizia e dell'attività del Tribunale speciale.
Novembre '41. Dopo che negli ultimi mesi i convogli avviati in Libia subiscono affondamenti con ritmo pauroso, ha inizio l'offensiva inglese che costringe le forze italo-tedesche a profondi ripiegamenti.
8 dicembre '41. A seguito dell'attacco giapponese a Pearl Harbour,
gli Stati Uniti entrano in guerra contro il Tripartito.
21 dicembre '41. Si ha notizia di una crisi militare in Germania: il capo di S.M. Brautchisch è liquidato. Nella seconda metà di dicembre cominciano seri ripiegamenti tedeschi in URSS.
Gennaio' '42. Rommel tenta in Libia una controffensiva riconquistando Bengasi e Derna. Notizie di gravi contrasti tra il maresciallo tedesco e i generali italiani Gambara e Bastico culminano con il siluramento di questi ultimi.
Le restrizioni alimentari in Italia si aggravano: è introdotto, nei pubblici locali, il "rancio unico".
Febbraio '42. S'inasprisce in Italia la polemica fascista "anti-borghese" e contro il Vaticano, "Giri di vite" sono annunziati o effettuati in tutte le direzioni. Il 26 febbraio è decretata la "mobilitazione civile" di tutti gli uomini dai 18 ai 55 anni, che non si comprende bene cosa significhi. Con il 1° marzo la razione del pane è ridotta a 150 grammi.
Marzo '42. La situazione interna italiana si fa particolarmente tesa. Si ha notizia di dimostrazioni di donne avanti ai forni a Venezia, Matera, Piombino e numerosi altri centri. Corre voce che Mussolini intende colpire i ceti abbienti e commercianti cui attribuisce le condizioni di disagio del Paese.
Sembra che le autorità di P.S. abbiano. denunciato circa 120 mila esercenti per infrazioni annonarie.
Maggio '42. Ha inizio l'offensiva di Rommel in Marmarica che porta, il 21 giugno, alla riconquista di Tobruk, con la cattura di 25 mila prigionieri inglesi. Anche in URSS i tedeschi sono alla controffensiva.
29 giugno '42. Mussolini parte per la Libia per partecipare all'auspicato ingresso delle truppe italo-tedesche in Alessandria d'Egitto.
Bibliografia:
Ruggero Zangrandi - Il lungo viaggio attraverso il fascismo - Garzanti 1971
cronologia essenziale 1943 - 1945
11 giugno 1943
Sbarco degli Alleati, Inglesi e Americani, in Sicilia.
25 luglio 1943
Destituzione e arresto di Mussolini. Il re Vittorio Emanuele III nomina Badoglio a Capo del Governo.
8 settembre 1943
Annuncio dell'armistizio tra Italia e Alleati.
9 settembre 1943
I partiti antifascisti danno vita al Comitato di Liberazione Nazionale, chiamando «gli italiani alla lotta e alla resistenza per riconquistare all'Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni».
10 settembre 1943
I tedeschi occupano Roma dopo brevi scontri con le truppe italiane. Nel giro di pochi giorni tutte le principali città del nord e del centro Italia vengono occupate. I nazisti disarmano le truppe italiane nei vari scenari di guerra. Inizia la deportazione in Germania di 700.000 soldati italiani da utilizzare come schiavi nelle industrie del Reich. Re Vittorio Emanuele III con la famiglia e il seguito fugge da Roma e giunge a Brindisi.
12 settembre 1943
Mussolini, prigioniero sul Gran Sasso, viene liberato da un Commando tedesco e raggiunge Monaco.
20 settembre 1943
Hitler cambia lo status dei 700.000 italiani “prigionieri di guerra” in Internati Militari. Per questa decisione del Führer gli italiani nei lager tedeschi non godranno dell’assistenza della Croce Rossa internazionale.
23 settembre 1943
Ridotto a un fantoccio nelle mani di Hitler, Mussolini proclama la Repubblica Sociale Italiana, formando un nuovo governo fascista la cui autorità si estende sul territorio della penisola occupato dai tedeschi.
fine settembre 1943: iniziano le prime forme di resistenza armata contro l’occupazione nazista dell’Italia e contro i fascisti della Repubblica sociale italiana. Si formano i primi nuclei partigiani sulle montagne del nord Italia.
13 ottobre 1943
Il governo del Sud, con a capo il Maresciallo Pietro Badoglio, dichiara guerra alla Germania.
4 Giugno 1944
Gli Alleati entrano in Roma.
6 Giugno 1944
Sbarco alleato in Normandia.
20 luglio 1944
A Rastenburg, nella Prussia orientale, fallisce l’attentato del colonnello Stauffenberg alla vita di Hitler e svanisce il progettato Putsch per rovesciare il nazismo.
Estate e autunno 1944
Intensificazione delle azioni partigiane in Italia: i tedeschi in ritirata si abbandonano a stragi di civili (Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto, ...)
Avanzata delle truppe alleate su tre fronti: russo, italiano e francese; bombardamenti a tappeto sulle città tedesche.
25 aprile 1945
Insurrezione delle città del nord Italia e Liberazione.
2 maggio 1945
L’Armata rossa entra a Berlino.
7 maggio 1945
Resa senza condizioni della Germania.
8 maggio 1945
Fine della guerra in Europa.
In Estremo Oriente la guerra prosegue tra Giappone e Stati Uniti.
6 agosto 1945
Bomba atomica su Hiroshima.
9 agosto 1945
Bomba atomica su Nagasaki.
2 settembre 1945
Resa del Giappone.
Russia, l’inferno bianco
La ritirata di Russia: dal racconto di Mario Rigoni Stern
(Asiago, 1º novembre 1921 – Asiago, 16 giugno 2008)
L'autore dell'articolo, protagonista della disastrosa spedizione dell'Armir, rievoca il dramma della ritirata e della disperata battaglia nella grande ansa del Don per sfuggire ai russi. In un solo giorno, la sua compagnia fu decimata: di 200 alpini ne restarono soltanto 36.
“In questi giorni di febbraio (n.d.r. 1943) andavamo camminando da villaggio in villaggio cercando evitare le strade dove manovravano le divisioni corazzate tedesche per fermare l'offensiva invernale dell'Armata Rossa. Già la VI Armata tedesca si era arresa a Stalingrado, ma noi non lo sapevamo. Dopo il combattimento del 26 gennaio eravamo rimasti in pochi; della mia compagnia, escluso il sergente dei conducenti, ero l'unico sottufficiale: il capitano, i cinque ufficiali, i sergenti o erano caduti in combattimento o nella neve per sfinimento. Solamente quattro erano stati raccolti sulle slitte e poi ricoverati a Kharkov. Usciti dall'accerchiamento, dopo combattimenti e marce infinite, ci contammo una trentina. Mancava il 90 per cento dei nostri compagni. Un sottotenente venne a prendere il comando di questi resti. E noi si andava verso occidente. Ci avevano indicato una direzione verso Kiev in Ucraina, poi verso Gomel in Bielorussia. Vennero ancora giorni molto freddi e una notte di tormenta quasi perdevo le mani per congelamento: a Nikolajevka, per manovrare meglio la mitragliatrice, i guanti me li ero levati senza più trovarli. Ora facevo il cane da pastore in coda al piccolo gruppo; con noi c'erano dei feriti leggeri e degli ammalati che avevano rifiutato il ricovero perché temevano di essere abbandonati ...
L'avventura degli italiani era incominciata nell'estate del 1941. L'aggressione all'Urss da parte delle armate di Hitler era avvenuta alle prime luci dell' alba del 22 giugno. Quella mattina l'avvampare di seimila cannoni frantumò l'alba. Migliaia di carri armati e di aerei, milioni di soldati varcarono le frontiere con la Russia, travolgendo ogni difesa. Incominciò così la più grande campagna di tutte le guerre, che costò decine di milioni di vite umane. Gli obiettivi erano Mosca, la distruzione della Russia come Stato; il tempo otto settimane.
In quella primavera anche in Italia si stava segretamente preparando un Corpo di spedizione autotrasportabile (cioè che si sarebbe potuto anche autotrasportare). Erano le divisioni Pasubio, Torino, Celere e il gruppo camicie nere Tagliamento con i relativi servizi di Corpo d'Armata. Il trasferimento verso il fronte incominciò il 10 luglio e fu lungo e faticoso attraverso i Carpazi, l'Ungheria e la Romania. Soltanto l'11 agosto l'avanguardia della Pasubio prese contatto con i russi nel villaggio ucraino di Nikolajev. Tra i nostri vi furono due morti e tre feriti: i primi di una lunga fila.
Quell'estate era molto calda, la campagna ucraina rigogliosa di grani e di girasoli in fiore. In principio pareva che le otto settimane previste dal Comando Supremo fossero un tempo attuabile: gli scontri erano rapidi e violenti; le armate russe si ritiravano lasciando centinaia di migliaia di prigionieri. Ma dopo due mesi nelle retrovie si era organizzata la guerra partigiana, nelle ritirate i russi sgomberavano le fabbriche e facevano metodicamente saltare i binari ferroviari; e quando decidevano di combattere lottavano fino all'ultimo uomo.
Le otto settimane erano passate. Arrivarono sì, le armate di Hitler, a vedere le torri del Cremlino, ma venne pure quel grande freddo che nessuna memoria ricordava e, dall'Estremo Oriente, dopo che i giapponesi avevano assicurato il non intervento, le diciotto divisioni siberiane comandate da Zukov.
I tedeschi furono costretti a ritirarsi dai dintorni di Mosca per parecchi chilometri e subirono la prima sconfitta. I loro corpi congelati a decine di migliaia riempivano i treni che li riportavano in Germania; molti restavano irrigiditi dentro le trincee; i disturbi intestinali erano diventati epidemia.
Il Natale del 1941 per i nostri soldati fu un giorno di sangue e di sofferenze. Alle 6,40, dopo un violento fuoco d'artiglieria, le divisioni Torino e Celere furono attaccate da fanterie e carri armati. I combattimenti durarono fino al 31 dicembre con temperature che scendevano sotto ai meno 35°. I russi non riuscirono a sfondare, ma le nostre perdite furono gravi. A chi aveva superato un mese in linea Hitler offrì una onorificenza che i soldati chiamarono subito «l'ordine della carne congelata».
Intanto negli alti comandi si studiava l'offensiva che avrebbe definitivamente sconfitto la Russia. Gli obiettivi erano il Volga e il Caucaso e poi, attraverso il Medio Oriente, raggiungere l'Egitto «chiave dell'impero britannico». A tale proposito Mussolini, il 3 dicembre aveva scritto a Hitler « ... in relazione al Vostro colloquio con il Conte Ciano sto provvedendo a disporre di un corpo d'armata alpino composto dalle nostre migliori truppe».
I resti delle armate russe sarebbero stati spinti nell'estrema Siberia e tutti i territori conquistati sarebbero diventati «spazio vitale» del popolo germanico al cui servizio dovevano restare gli slavi rimasti, «popolo inferiore».
Nell'estate del 1942, malgrado il parere contrario del generale Messe, comandante del Csir, in tanti partimmo per il Fronte Est: le divisioni Tridentina, Giulia e Cuneense; Cosseria, Ravenna e Sforzesca; il raggruppamento camicie nere «3 Gennaio»; un'Intendenza d'Armata, un Corpo areonautico; un Corpo marittimo: 230.000 uomini, 960 cannoni, 850 mortai, 19 semoventi, 55 carri armati, 1.800 mitragliatrici, 2850 fucili mitragliatori, 16.000 automezzi, 1.130 trattori, 4.470 motociclette, 25.000 quadrupedi.
L'8 agosto Hitler scriveva al duce: « ... Vorrei ora, Duce, sottoporvi la proposta di permettere che le divisioni alpine siano impegnate accanto alle nostre divisioni di montagna e leggere sul fronte del Caucaso. Ciò tanto più in quanto il forzamento del Caucaso ci porterà in seguito in territori che non appartengono alle sfere d'interesse tedesche e pertanto, anche per motivi psicologici, si rende opportuno che ivi marcino con noi reparti italiani e, se possibile, il Corpo d'Armata alpino, che è il più adatto allo scopo ... ».
Nel mese di agosto si camminava per la sconfinata pianura. Ogni tanto alzavamo gli occhi per vedere se apparivano le montagne. Sembrava di essere sempre nel medesimo posto. Un giorno vennero a caricarci con i camion e ci portarono nella grande ansa del Don: l'Armata Rossa attaccava per cercare di tagliare i rifornimenti alla VI Armata che stava occupando Stalingrado. Il 1° settembre due battaglioni di alpini andarono al contrattacco. Quel mattino ero caposquadra, alla sera mi trovai a comandare i resti di una compagnia. Di quella compagnia di duecento restammo 36. Poi venne il resto. I caduti e i dispersi italiani in Russia furono 81.820; i feriti e i congelati 29.690”.
Bibliografia:
supplemento del “Corriere della Sera” - dicembre 1999
La folle impresa di Russia
OPERAZIONE BARBAROSSA
Senza dichiarazione di guerra, il 22 giugno 1941 la Germania attacca l'Unione Sovietica alla conquista dello «spazio vitale» a Est. È l'Operazione Barbarossa, che pone fine di fatto alla «alleanza innaturale» sancita col patto Molotov-Ribbentrop nell'agosto del 1939.
IL DUCE: «VENGO ANCH'IO»
Mussolini si offre di inviare truppe italiane in Russia, a sostegno del Corpo di spedizione tedesco. È un'offerta che Hitler fa capire di non gradire. Ma il Duce, che vuol far dimenticare i rovesci militari patiti in Grecia e in Africa, insiste. Viene così allestito il Corpo di Spedizione italiano in Russia (Csir). E così, in quello che si rivelerà lo scontro fra i più giganteschi eserciti mai affrontatisi nella storia, si trova implicata, sia pure di straforo, l'Italia. Tedeschi e alleati sono 3 milioni e 50 mila, 4 milioni e 750 mila sono i sovietici: in tutto 7 milioni e 750 mila soldati.
PARTE IL CSIR
Il Csir è composto da tre divisioni (la «Torino», la «Pasubio» e la «Celere») affidate al generale Messe. In tutto ci sono 50.000 soldati, 2.900 ufficiali, 4.600 quadrupedi, 80 aerei, artiglieria scarsa e antiquata, automezzi pochi e malfunzionanti. L'equipaggiamento è penosamente inadeguato al clima dell'inverno russo.
ITALIANI VALOROSI
Gli italiani, assegnati prima alla XI Armata di von Rundstet e poi alla I Armata di von Kleist, si comportano bene, guadagnandosi gli elogi dei generali tedeschi. A Isbuscenskij 650 uomini del Savoia Cavalleria inscenano l'ultima carica (vittoriosa) a cavallo della storia militare: un episodio eroico ma vistosamente fuori dal tempo. Gli italiani, comunque, partecipano alla grande manovra con cui le armate corazzate di von Guderian e di von Kleist prendono Kiev.
MESSE INALSCOLTATO
Le forze dell'Asse giungono in vista di Mosca, ma sono già provate dal gelo e dalla fatica. Con l'inverno le condizioni per i soldati italiani si fanno durissime. Ben presto i casi di congelamento arrivano a 3.600. A Natale resistono agli attacchi russi, nonostante le pessime condizioni di equipaggiamento, con calzature inadeguate, senza pellicce. Messe, buon generale, in disaccordo con i tedeschi, invia proteste a Roma: «Non si può andare avanti in queste condizioni». Ma non viene ascoltato.
MUSSOLINI TRIPLICA
Sordo agli appelli del generale Messe, Mussolini, spinto dalla sua smania di presenzialismo, si offre addirittura di triplicare la forza italiana operante sul fronte russo. E così, nella tarda primavera del 1942, Messe viene a sapere quasi per caso che il suo corpo di spedizione lascia il posto a una vera e propria armata, l'Ottava, con la sigla di Armir (Armata italiana in Russia) agli ordini del generale Gariboldi, che si era dimostrato mediocre in Libia.
OFFENSIVA RUSSA
Riorganizzati militarmente e forti di un equipaggiamento efficiente, i russi iniziano, il 10 dicembre 1942, la controffensiva sul fronte del Don, in concomitanza con l'assalto finale sovietico a Stalingrado. Essi concentrano l'azione contro le truppe più provate dal freddo. Le nostre erano schierate a fianco di quelle ungheresi e romene, su un fronte enorme, di 270 km. Cedettero per primi i romeni, e nel varco di infilarono i russi, che chiusero l'Armir in un'enorme sacca.
NIKOLAJEVKA
Le truppe italiane si trovarono accerchiate da forze enormemente superiori e iniziarono la grande ritirata dal Don sotto i continui assalti dei carri armati russi, nell'imperversare della tormenta. A Nikolajevka gli alpini della «Tridentina», che avevano trascinato in salvo migliaia di sbandati (non solo italiani) riescono a sfondare l'accerchiamento e a farsi strada verso il ritorno in patria.
CIFRE PAUROSE
Erano occorsi 200 treni per portare gli alpini in Russia, ne bastano 15 per rimpatriare i superstiti. Un bollettino speciale russo conclude così: «Solo il Corpo alpino italiano deve ritenersi invitto in terra di Russia». Ma a quale prezzo: la sciagurata campagna voluta da Mussolini era costata 26.115 morti, 63.184 dispersi, 43.116 feriti.
LA TRAGEDIA DEI DISPERSI
La tragedia dell'Armir non finisce con la guerra. Cala il silenzio sulla sorte dei dispersi, una tortura che durerà anni per le famiglie che li aspettano in Italia. Dalle carte emerse dal Kgb, dopo il crollo dell'Urss, si sa che i russi avrebbero fatto 48.957 prigionieri, di cui molti sarebbero morti nei campi e nei gulag.
Bibliografia:
supplemento del “Corriere della Sera” - dicembre 1999
* * *
La testimonianza di un soldato del Savoia Cavalleria
Ettore Sarti, novant'anni, ha partecipato ha partecipato alla battaglia di Isbuschenskij, quando per l'ultima volta nella sua storia la cavalleria italiana si lanciò alla carica, come in guerra ottocentesca, per rompere l'accerchiamento nemico.
L' avventura russa di Ettore Sarti era iniziata il 29 novembre 1941. Figlio di un calzolaio romano, Sarti si ritrova a Milano, nella caserma del Savoia Cavalleria. «Partimmo per il fronte russo con 5 squadroni e 1300 cavalli stipati in 25 vagoni ferroviari. Giunti a Timisoara, in Romania, ci venne ordinato di abbandonare le carrozze merci, perché i treni dovevano essere utilizzati dall' esercito tedesco. E così proseguimmo a cavallo: nella neve e nel ghiaccio cavalcammo 20 giorni consecutivi, 1200 chilometri nel cuore dell'impero Sovietico». Il momento della verità arriva all'alba del 24 agosto 1942. È estate, ma le temperature nella campagna di Isbuschenskij, un villaggio in un' ansa del fiume Don, sono sotto lo zero.
«Alle prime luci del giorno giunse per il secondo e terzo squadrone l'ordine di attacco» racconta Sarti. «In formazione a scacchiera, con le sciabole sguainate, ci lanciammo al galoppo contro l'artiglieria russa. Moltissimi di noi furono falciati dai proiettili. Ma riuscimmo a conquistare le trincee nemiche e a prendere prigionieri centinaia di soldati russi. Fu l'ultima, vittoriosa carica del reggimento Savoia Cavalleria».
Ma nell' autunno del 1942 i russi scatenarono la controffensiva che avrebbe annientato le forze nazi-fasciste sul Fronte Orientale. «Un mese dopo la carica di Isbuschenskij, venni fatto prigioniero insieme ai commilitoni sopravvissuti. E per noi tutti, giovani trai 18 e i 20 anni, iniziò un viaggio allucinante. Prima 225 chilometri a piedi, con 20 gradi sotto zero. Poi il trasferimento su vagoni merci fino ai confini della Siberia: a centinaia, in condizioni disumane, morirono assiderati su quel treno. A Kyrof, ottocento chilometri a nord-est di Mosca, venimmo ricoverati in un ospedale militare. Pesavo 39 chili, avevo la pellagra e un inizio di congelamento alla gamba destra. Si diffuse il colera e, dopo qualche mese, di noi italiani eravamo rimasti in vita solo una ventina.
da una intervista di Luca Fraioli e Giuseppe Serao
da “La Repubblica” del 17 gennaio 2011
La propaganda nella scuola elementare francese durante il governo di Vichy
La tecnica di base di ogni dittatura è quella di cominciare con i giovani: inquadrarli, non permettere di decidere in proprio, imbottirli di ideali nazionalistici, infiammarli co i racconti eroici, manipolare in senso autoritario la loro istruzione, impedire loro di avere a disposizione tempo libero, impegnarli nell’emulazione premiando i più fedeli, limitare al massimo il confronto con il mondo esterno, approfittare per l’imbonimento dei cervelli di quanto la tecnica della comunicazione di massa mette a disposizione. È la ricetta adottata dal regime fascista per vent’anni in Italia. Un metodo simile fu usato nei quattro anni, dal luglio 1940 al luglio 1944, dalla repubblica di Vichy del Maresciallo Pétain.
«La Francia ha perso la guerra, sì, ma ha avuto il Maresciallo Pétain». Questo grido esprime molto bene l’atmosfera che si era venuta a creare con l’avvento del Governo di Vichy.
Pétain, l’uomo degli ammutinamenti del 1917 (comandante in capo delle truppe francesi, nel maggio 1917, riuscì a contenere il fenomeno degli ammutinamenti nei reparti di prima linea), il vincitore di Verdun, riunisce in sè tutti gli attributi di soldato, di capo, di vincitore e di salvatore che si sacrifica sull’altare della sconfitta per salvare l’onore di una Francia profondamente umiliata. L’abito e i gradi militari, il Képi (copricapo militare cilindrico munito di visiera) con i fiori di giglio (simboli della monarchia francese), i bei baffi bianchi, uno sguardo blu profondo, l’aria marziale, il tono di voce di vecchio padre di famiglia, i discorsi cesellati, contribuiscono a farne un mito mediante una propaganda quotidiana.
Anche gli adulti sono sottoposti ad una propaganda martellante, dove l’iconografia conta molto, che esalta l’immagine paterna e salvatrice del Maresciallo, mediante l’uso di volantini, di manifesti, della radio, del cinema, dei giornali, di gadget (fermacarte, pipe): il Maresciallo è dappertutto. Buste, ritratti, discorsi diffusi via radio o al cinema, dipinti, perfino la sua immagine riprodotta sulle tovaglie, tutto per glorificare il capo. Il Maresciallo si fa vedere, è sui manifesti, si spende dappertutto e sotto varie forme: come padre, come uomo o come santo.
Questa presenza di un salvatore che caratterizza la Francia vinta alla ricerca di un carisma viene esaltata da un Maresciallo, paternalista, buon bambino lui stesso, che visita le scuole. Il 13 ottobre 1941, nella scuola comunale di Perigny, si rivolge agli alunni (il discorso viene trasmesso per radio) per far conoscere il suo stato d’animo verso gli scolari che non rispettano le regole di buona condotta.
Per gli scolari, la scuola è prima di tutto quella di «Maresciallo, nous voilà!»; nelle aule si canta a squarciagola: «Davanti a te salvatore della Francia, / Noi giuriamo, noi tuoi figli, / di servire e di seguire i tuoi passi». La «pedagogia del canto» serve per glorificare il maresciallo, per salutare il tricolore o per esaltare i sentimenti patriottici, indotti da un regime che vuole fare della scuola l’anticamera dell’esaltazione nazionale.
Quasi due milioni di lettere vengono inviate a Pétain nell’anno 1941. Scatoloni pieni di lettere con poesie, auguri, arrivano sia delle scuole private che da quelle pubbliche. Certe poesie sono commoventi, piene di grazia infantile, come quella inviatagli da uno scolaro: «Signor Maresciallo, nostro amato capo». Pétain è glorificato in diversi testi. Degli opuscoli, dei “messaggi” del Maresciallo sono venduti agli scolari come supporto per i corsi di educazione civica. Alcuni sillabari riportano: F come francisque (ascia),
K come Képi (quello del Maresciallo), P come paysan (contadino) e Pétain, etc.
Le penne «bastone del maresciallo», i ritratti, le carte geografiche con l’effigie del Maresciallo sono i nuovi strumenti pedagogici.
Il busto del Maresciallo sostituisce negli edifici pubblici quello della Marianne. Edifici scolastici cambiano di nome, come a Marsiglia dove il liceo Périer diventa liceo Pétain. Gli scolari di Francia accrescono il loro entusiasmo naif verso questo «qualcuno da amare». Inviano al Maresciallo regali, disegni, poesie. Colette, una piccola scolara rimasta anonima, invia (come migliaia di altri) una lettera commovente con i suoi errori di bambina: «Signor Maresciallo, io lavoro molto bene, vi amerò molto bene, mi comporterò bene in classe, ascolterò la mia maestra, ho ascoltato i vostri discorsi». I bambini chiedono degli autografi, partecipano a dei concorsi su “Giovanna d’Arco”: i vincitori vengono ricompensati.
La «figura del padre», spesso raffigurato da una vecchia quercia solida e maestosa, che gli artefici della Rivoluzione nazionale
usano a profusione, aleggia ormai su dei ragazzi studiosi, onesti, virtuosi. Il bello sguardo, severo ma giusto, è paternamente posato su una popolazione scolastica tutta intenta ad assolvere il proprio dovere. «Il capo dagli occhi color del cielo» esalta una gioventù succube di una propaganda massiccia e apologetica.
Bibliografia:
Jean-Michel Barreau - Vichy contre l’école de la République - Ed. Flammarion - 2000
Elena D’Ambrosio - A scuola col duce - Istituto di Storia Contemporanea “Pier Amato Perretta” di Como - 2001
Le rovine del "Bel Paese"
Dopo le prime azioni che mirano a colpire obiettivi importanti e d'interesse strategico la pioggia di bombe continua, falcidiando vite umane e distruggendo opere d'arte
Le sirene dell'allarme aereo suonarono a Torino otto minuti dopo la mezzanotte di martedì 11 giugno 1940: !'Italia era entrata in guerra il giorno prima. Cominciò la sirena di Mirafiori e subito la seguì quella della Maddalena, poi le altre. L'urlo lamentoso, della durata di quindici secondi, si ripeté sei volte: aerei sconosciuti, varcate le Alpi sulla verticale del Moncenisio, si dirigevano su Torino.
Era una serata afosa ma non troppo calda. Malgrado l'oscuramento parecchia gente sostava nelle strade; i locali della collina, verso Cavoretto, erano affollati. I cinema - dove ancora si proiettavano film americani come «L'amaro tè del generale Yen» e, in terza visione, «Seguendo la flotta» con Fred Astaire e Ginger Rogers - avevano chiuso i battenti alle 23. La «Manon» di Massenet, in scena dal Teatro della Moda, era terminata alle 24 in punto: l'urlo delle sirene accolse gli spettatori che per ultimi lasciavano la sala. Nel silenzio che seguì si poté udire il ronron degli aerei, alti nel cielo senza luna. Alle 0.47 i cannoni da 75/35 della Dicat iniziarono un tiro di sbarramento, accompagnato da raffiche di mitragliera. Nello stesso istante le luci accecanti dei bengala si accesero sopra Stupinigi e sopra San Mauro; quasi contemporaneamente, con un fischio lacerante caddero 40 bombe da 500 libbre. L'indomani parecchia gente si precipitò alle edicole per cercare nei giornali le notizie dell'attacco aereo della notte prima ma fu delusa: non trovò neppure una riga. La stampa cittadina e nazionale tacque sui 14 morti e i 39 feriti anche il giorno dopo, 12 giugno, e soltanto il 13 il bollettino dell'una pomeridiana parlò di «velivoli nemici, probabilmente inglesi» che avevano attaccato Torino provocando «pochi danni e qualche perdita fra la popolazione civile».
Il bombardamento di Torino fu la prima di una lunga serie di incursioni (oltre 7.000) sulle città italiane durante i cinquantotto mesi e mezzo della guerra: l'ultima avvenne a Gemona del Friuli nella tarda serata del 30 aprile 1945. Complessivamente, secondo i dati dell'Istituto centrale di statistica, le vittime civili ammontarono a 59.796 persone (32.082 di sesso maschile; 27.714 di sesso femminile), pari all'intera popolazione di una città come Asti, o Mantova, o Caltanissetta. L'attacco a Torino rappresentò un vero e proprio raid mai tentato prima ma fu anche un prezioso test per gli esperti degli stati maggiori britannici: duemila chilometri di volo fra andata e ritorno con la necessità di attraversare due volte le Alpi a una quota fra i 5.000 e i 6.000 metri, prima col carico delle bombe e poi col carburante contato. I torinesi che in quella seconda notte di guerra trepidarono sotto lo scoppio delle bombe non sanno che, dei trentasei bimotori Whitley partiti dallo Yorkshire e diretti alla loro città, ventidue furono costretti ad abbandonare l'impresa a causa delle violente bufere sulle Alpi. Dei rimanenti, soltanto dodici giunsero nel cielo del Piemonte (gli altri due si diressero su Genova senza riuscire nella missione) ma non ebbero egualmente un compito facile. L'obiettivo primario degli Whitley era la Fiat Mirafiori, quello secondario lo scalo delle ferrovie. I bengala caddero fra Pinerolo e Stupinigi, alcuni andarono anche a nord del Po; tuttavia la loro luce abbagliante non rivelò la città ai piloti: tre quattro Whitley, infatti, proseguirono nella rotta fin quasi ad Asti prima di accorgersi di aver sbagliato obiettivo. Le quaranta bombe (e non trenta, come affermò il reticente bollettino italiano del 13 giugno) furono sganciate sia sulla Fiat sia su Porta Nuova ma fecero effettivamente fiasco.
Nei mesi che seguirono questi primi attacchi avvenne, in campo britannico, un fondamentale mutamento dal punto di vista tattico: l'arma aerea inglese, sotto la direzione di sir Arthur Harris, che non proprio a torto fu chiamato «il macellaio», sviluppò i tipo di velivoli adatti a lunghi percorsi e a notevoli quote e perfezionò gli strumenti di rilevazione e di puntamento. Più tardi, sul finire del 1942, dopo l'entrata in guerra degli Stati Uniti e lo sbarco anglo-americano nel Nord Africa, non un solo lembo del nostro Paese riuscì a sottrarsi all'offesa aerea, diurna e notturna.
In generale, nella fase iniziale del conflitto, cioè fra il giugno 1940 e l'inverno-primavera 1941, a far le maggiori spese dei bombardamenti inglesi furono le città del Meridione, più vicine alle basi britanniche di Malta e di Gibilterra.
Poi la guerra aerea degenerò e, nei suoi orrori, furono coinvolti i civili, senza discriminazione. Di fronte agli sviluppi e all'estensione del conflitto gli inglesi non tardarono, infatti, a sostituire all'indirizzo strategico dell'obiettivo unico e preciso (come la Fiat di Torino, o l'Ansaldo di Genova, o le acciaierie Breda di Milano) il concetto più generico di un bombardamento a zone («area-bombing») che aveva per scopo la progressiva distruzione e lo sconvolgimento del sistema militare, industriale ed economico nemico.
Si vive alla giornata, con coraggio e spirito di adattamento, nella Milano dell'agosto 1943. Millequattrocento edifici sono distrutti. Subiscono danni anche la Scala, la Villa Reale, il Castello Sforzesco, la biblioteca Braidense
Tutti i più pesanti bombardamenti delle grandi città del Nord furono compiuti dalla Raf con aerei (Stirling, Lancaster, Halifax) partiti da aeroporti dell'Inghilterra meridionale: a cominciare da quelli dell'ottobre-novembre '42, i più disastrosi,· a quelli di Torino del 3 luglio '43 e di Arquata Scrivia, Savona, San Paolo d'Enza del 15 luglio '43 (ma in questo caso i bombardieri inglesi non tornarono indietro e dopo l'incursione proseguirono verso sud atterrando ad Algeri). Anche i bombardieri che attaccarono Milano a Ferragosto del '43 (e l'indomani Torino) arrivavano dalla Gran Bretagna su una rotta che li portava ad attraversare le Alpi svizzere. Gli americani e la Raf di stanza a Malta attaccavano invece le città del Sud e Centro Italia, come Roma.
Uno degli esempi della tattica dell' «area bombing» fu l'incursione aeronavale scatenata su Genova nell'alba della domenica 9 febbraio 1941. Una squadra della flotta britannica di base a Gibilterra, composta dall'Ark Royal, delle corazzate Renown e Malaya, scortata da incrociatori e da cacciatorpediniere, penetrò nel golfo ligure con una puntata di sorpresa. Favorite dalla foschia di quella grigia mattina festiva e dalla inspiegabile assenza della nostra ricognizione, le navi inglesi giunsero a 15 chilometri dalla costa e rovesciarono sulla città 273 colpi da 381 e 1.182 proiettili di minor calibro: il bilancio fu di 72 morti e 230 feriti.
Ma due anni e mezzo più tardi, quando ormai l'Italia, stremata, stava per uscire dal conflitto (e, caduto il fascismo, già si iniziavano le trattative per l'armistizio dell'8 settembre) i bombardamenti aerei sulle città aumentarono, inspiegabilmente, sia per il ritmo sia per la durezza. All'inizio dell'agosto 1943 Terni venne attaccata. L'obiettivo dichiarato era la stazione ferroviaria ma le bombe, invece, finirono sui quartieri di abitazione: la città fu semidistrutta, i morti accertati ammontarono a 564. La domenica 8 agosto, all'una del mattino, Milano venne attaccata da oltre 600 Stirling e Lancaster che demolirono, con i «block-buster», interi gruppi di case a Porta Venezia, a Porta Nuova, a Porta Garibaldi.
Il venerdì 13 agosto, all'una e un quarto di quella notte afosa, i bombardieri tornarono con altre distruzioni; tornarono anche la mattina di Ferragosto e poi il 16, per la terza volta consecutiva, Milano fu di nuovo duramente colpita. Nessuno dubitava che quelle azioni fossero «puro terrorismo». L'indomani della tragica «tre giorni» milanese il bilancio era terrificante: la città mancava di gas, acqua e luce; 1.400 edifici erano stati distrutti; 11.000 avevano riportato danni così gravi da essere considerati perduti, le comunicazioni ferroviarie e telefoniche erano interrotte e sarebbe occorsa almeno una settimana per riattivarle. « ... Non avevo visto niente di più grandiosamente orribile - disse un pilota inglese al ritorno dalla terza incursione su Milano, eppure aveva partecipato agli attacchi su Essen e su Norimberga - ... Mi chiesi perché eravamo lì a bombardare. Secondo me non c'era più niente da bombardare».
Bibliografia:
Giuseppe Mayda in La seconda guerra mondiale di Enzo Biagi – Ed. Corriere della Sera
I bombardamenti aerei nel Mezzogiorno d’Italia
«La morte che viene dal cielo»
Nel periodo 1940-45, i bombardamenti sono la causa principale di morte nel Mezzogiorno. Ma non solo: a causa dei bombardamenti, il numero delle vittime civili è molto elevato, coerentemente con quanto avviene nel secondo conflitto mondiale preso nel suo insieme.
Le incursioni dell' aviazione furono una costante del secondo conflitto mondiale. Già con la guerra di Spagna erano state massicciamente sperimentate contro i civili. Il 26 aprile 1937 il bombardamento nazista di Guernica provocò la morte di 1.654 civili e la cittadina basca divenne il simbolo della guerra di Spagna, fissato per sempre nell'omonimo quadro di Picasso.
Poi fu la volta della Gran Bretagna che, a partire dal 10 luglio 1940, venne bombardata incessantemente. Di straordinaria intensità furono i bombardamenti sulla capitale, che si susseguirono dall'inizio di agosto a metà settembre. In particolare fu il quartiere di East End a essere colpito e devastato.
A loro volta le città tedesche, incessantemente colpite dall'aviazione anglo-americana e da quella sovietica, diventarono il simbolo della sconfitta della Germania nazista: Dresda, città d'arte, completamente rasa al suolo.
In Italia, incursioni rovinose si susseguirono a partire dall'inizio del conflitto. I primi raids si ebbero su Torino", Napoli, Palermo e Catania, Cagliari, per opera dei bombardieri della RAF, nei giorni immediatamente successivi al 10 giugno 1940, data d'inizio del conflitto per l'Italia.
In questa fase i bombardamenti erano di precisione ed erano effettuati su obiettivi logistico-militari: nodi ferroviari, porti e aeroporti. Va detto inoltre che, dai porti del Sud, in particolare da Napoli, partivano truppe e rifornimenti per l'Africa settentrionale e nordorientale, dove esisteva un altro fronte di guerra tra italiani e inglesi.
I bombardamenti nel Mezzogiorno, ebbero un' escalation nella seconda metà del 1941. Il 6 luglio, e poi ancora il 28, fu colpita Palermo e venne bombardato a tappeto tutto il sistema aeroportuale siciliano. A Napoli, il 10 luglio 1941, si ebbe una violentissima incursione aerea. Qualche tempo dopo fu la volta di Brindisi dove, il 7 novembre, vennero distrutti porto e rete ferroviaria.
Nel 1942 i bombardamenti continuarono: a Messina, durante le incursioni del 25, 26 e 30 maggio, vennero colpiti il porto e l'ospedale civile Principe di Piemonte. Cagliari fu bombardata nella notte tra il 7 e l'8 giugno 1942 e Taranto venne nuovamente attaccata tra il 9 e il 10 giugno. Nel frattempo si intensificava la collaborazione tra inglesi e americani e quindi tra RAF e USAAF.
Di lì a poco iniziarono le incursioni americane con bombardieri potentissimi: nella memoria collettiva sarebbe rimasto a lungo l'incubo delle "fortezze volanti".
A inizio novembre 1942 fu avviata l'operazione Torch, lo sbarco anglo-americano in Nord Africa, preceduto dalla vittoria di El Alamein, dove l'VIII armata inglese, comandata dal generale Montgomery, sconfisse le truppe di Rommel, che si ritirarono in Tunisia.
Sul finire dello stesso anno, con il bombardamento di Napoli del 4 dicembre 1942, le incursioni aeree americane, da allora anche diurne, si collocavano in una precisa strategia, tesa a produrre effetti destabilizzanti tra la popolazione civile delle grandi aree urbane. Il bombardamento diurno, infatti, sconvolgeva il ritmo della vita quotidiana perché costringeva a interrompere il lavoro, le attività scolastiche, le funzioni religiose. Le incursioni colpivano sempre più frequentemente obiettivi civili: treni, tram, fabbriche, chiese, alla fine persino ospedali.
Nel Mezzogiorno pertanto, come del resto nell'intero paese, i bombardamenti, a partire dalla seconda metà del 1942 e soprattutto nel 1943, diventarono esperienza quotidiana.
Reggio Calabria il 31 gennaio 1943, Palermo il 3 febbraio; a Palermo le incursioni si ripeterono il 5, l'8, il 20, il 22 e il 28 dello stesso mese. Devastanti le incursioni del 17,26 e 28 febbraio 1943 in Sardegna, che colpirono in particolar modo Cagliari e le città portuali di Olbia, Porto Torres, La Maddalena e Alghero. Da Malta partirono, tra il 22 e il 24 aprile, attacchi durissimi contro Siracusa, Cassibile, Ragusa e Lampedusa.
Nel frattempo, l'8 maggio 1943, in Tunisia si arresero i reparti tedeschi. Ciò permise a inglesi e americani di ottenere un risultato logisticamente importante, vale a dire la possibilità di entrare nel Mediterraneo.
L'8 maggio iniziò l'offensiva aerea contro Pantelleria, cui si aggiunse il cannoneggiamento navale. Le incursioni s'intensificarono in previsione dello sbarco in Sicilia. Nel maggio 1943 vi furono 45 incursioni aeree a Catania, 43 a Palermo, 32 a Messina e vennero bombardate anche colonne di profughi.
L'incursione del 6 maggio 1943 a Reggio Calabria fu effettuata in pieno giorno e, da allora fino al 3 settembre, quando entrò in città l'esercito angloamericano, i raids effettuati furono 24.
In Sardegna, i bombardamenti si intensificarono nel luglio. In Puglia i bombardamenti colpirono Brindisi, Taranto e soprattutto Foggia. La città, evacuata dalla popolazione, rimase di fatto terra di nessuno fino all'arrivo delle truppe inglesi dell'VIII armata, il 27 settembre 1943.
I bombardamenti colpirono pesantemente anche l'Abruzzo e in particolare le città di Sulmona e Pescara, entrambe importanti nodi ferroviari e stradali. A Pescara, nell'incursione del 27 agosto 1943, morirono 1.600 civili, a Sulmona, nella stessa giornata, persero la vita 300 persone. Avezzano in pochi mesi subì ben 83 incursioni.
Le città venivano distrutte dai raids per poi essere minate dai tedeschi.
In Campania, Napoli fu la città dei 101 bombardamenti. In un primo tempo essi vennero effettuati di notte e colpirono obiettivi militari e industriali, ma, a partire dall’incursione del 4 dicembre 1942, diventarono sempre più spesso diurni e colpirono indiscriminatamente obiettivi civili.
Altre città campane, quali Avellino, Benevento, Capua non furono risparmiate.
Salerno fu bombardata il 21 giugno 1943. Seguirono numerose ricognizioni in preparazione dello sbarco previsto nell'operazione Avalanche.
Il Sud subì anche alcuni bombardamenti tedeschi: Napoli il 23 ottobre e il l° novembre 1943 e, ancora, il 15 marzo 1944; Bari, il 2 dicembre 1943.
I bombardamenti furono un elemento centrale nella percezione del conflitto come guerra totale che attraversa e devasta il quotidiano: contro la morte per bombardamento si può fare ben poco, non si può attivare nessuna delle strategie di sopravvivenza che, invece, sono praticate per fronteggiare gli altri disagi della guerra, in primo luogo la fame.
Bibliografia:
Gloria Chianese -"Quando uscimmo dai rifugi". Il Mezzogiorno tra guerra e dopoguerra (1943-46)
Ed. Carocci - settembre 2004
Lo sbarco alleato in Sicilia e la fine del regime fascista
L'11 giugno 1943, dopo un forte bombardamento aereo, viene espugnata l'isola di Pantelleria e il giorno dopo cade anche anche Lampedusa. Il primo lembo di territorio nazionale è in mano alleata.
Il 24 giugno, ricevendo un gruppo di gerarchi, Mussolini ostenta un'incredibile sicurezza. Nessuna preoccupazione desta in lui, nemmeno la minaccia d'invasione che già pesa sulla Sicilia. «Bisogna che non appena il nemico tenterà di sbarcare sia congelato su quella linea che i marinai chiamano del bagnasciuga».
Il 10 luglio, la sterminata flotta alleata (280 navi da guerra, 2275 navi da trasporto, e 1800 mezzi da sbarco) riversa sulla costa dell'isola l'armata d'invasione, la cui prima ondata d'attacco è costituita da 160.000 uomini: la VII armata americana al comando del generale Patton fra Licata e Pozzallo, l'VIII armata britannica al comando del generale Montgomery fra Capo Passero e Siracusa.
Sotto l'urto massiccio cadono le difese dell'isola, dove l'esercito italiano è privo d'ogni mezzo moderno di guerra e ha un unico reparto, la «Livorno », dotato d'artiglieria motorizzata: gli unici reparti efficienti o capaci di manovra sono due divisioni tedesche inviate da Hitler in seguito alle pressanti richieste di Mussolini. La campagna, dopo un aspro scontro nella piana di Gela, diventa una lunga rincorsa dell'armata di Patton verso Palermo e lo stretto, mentre l'armata di Montgomery arriva alle falde dell'Etna.
Vittorio Emanuele III autorizza il generale Ambrosio a preparare l'arresto di Mussolini e la dittatura militare da affidare a Badoglio. Contemporaneamente i gerarchi fascisti riescono ad ottenere la convocazione del Gran Consiglio con l'intento, ormai abbastanza esplicito, di togliere ogni potere a Mussolini.
La monarchia intende servirsi ancora di lui per ottenere lo «sganciamento dai tedeschi» in modo pacifico e col consenso stesso di Hitler. Nel convegno di Feltre col dittatore tedesco, Mussolini non osa nemmeno accennare alle questioni della «pace separata». È il 19 luglio e nello stesso giorno, in un'incursione massiccia dell'aviazione angloamericana, muoiono a Roma migliaia di persone.
Si recano a visitare il quartiere di San Lorenzo, semidistrutto dal bombardamento, Pio XII e anche Vittorio Emanuele III. L'automobile di quest'ultimo è presa a sassate dalla gente infuriata che grida: «E mandaci quell'altro!»
Il 24 aprile alle ore 17 si raduna il Gran Consiglio. Vi sono i gerarchi dissidenti capeggiati da Grandi, Ciano e Bottai che illustrano con abbondanza d'argomenti giuridici la necessità «del ritorno alla legalità», cioè il ripristino delle prerogative della Corona.
Vi sono i fanatici ad oltranza che come Galbiati e Scorza confermano invece la propria fedeltà al duce. Fra queste due ali estreme ondeggiano i minori gerarchi del regime che non sanno ancora da quale parte battersi. Il solo Farinacci è fermo sulle sue posizioni e vuole anche lui l'allontanamento del dittatore per condurre la guerra a fondo, sotto la guida dei suoi camerati tedeschi.
Mussolini, dopo aver illustrato in termini quanto mai vaghi la situazione militare, cerca a un certo momento di far rinviare la riunione del Gran Consiglio.
Alle due del mattino del 25 luglio viene messo in votazione l'ordine del giorno Bottai-Grandi-Ciano che raccoglie 19 si, 7 no, 1 astenuto.
È la fine ma Mussolini ancora cerca nelle ore seguenti d'illudersi sul valore non impegnativo del voto del Gran Consiglio. Con questa speranza si reca dal re nel pomeriggio alle ore 17 e cerca di perorare la sua causa. Il re gli ricorda che: «Così non si va più avanti. L'Italia è in tocchi. L'esercito è moralmente a terra. I soldati non vogliono più battersi. Gli alpini cantano una canzone nella quale dicono di non voler più fare la guerra per conto di Mussolini». Poi il re gli annuncia seccamente che ha già provveduto per sostituirlo con Badoglio.
Mussolini, mentre esce da villa Savoia, viene arrestato da un capitano dei carabinieri ed entra nell'autoambulanza che lo condurrà in prigionia.
I cimiteri di guerra alleati in Sicilia e tedeschi in Italia
da «Patria indipendente» rivista dell’ANPI del 21 maggio 2006
Forze Armate degli StatiUniti d’America
Dal luglio 1943 al maggio 1945 le Forze Armate Americane hanno perduto circa 32.000 uomini in Italia tra morti in combattimento e morti a causa della guerra. La “American Battle Monuments Commission” ha provveduto alla raccolta e sistemazione delle salme rimaste in Italia in due grandi cimiteri monumentali di guerra, uno a Nettuno ed uno a Firenze.
In Italia le tombe sono 12.264 ma altri 4.053 Caduti sono ricordati a parte perché le salme non sono state ritrovate o non è stato possibile identificarle. Per l’edificazione dei suddetti cimiteri lo Stato italiano ha concesso il libero uso delle aree di terreno.
Regno Unito e Impero Britannico
Nella campagna d’Italia il Regno Unito e le forze dell’Impero Britannico dal luglio 1943 al maggio 1945 persero 45.469 militari. L’Italia ha stabilito una convenzione con la Commissione Imperiale per le Tombe di Guerra (The Imperial War Graves Commission), la quale ha provveduto alla raccolta e sistemazione dei Caduti in 41 Cimiteri di Guerra. Occorre ricordare che oltre ai britannici, combattevano sotto la bandiera inglese le truppe dell’Impero, poi Commonwealth, (canadesi, indiani, sudafricani, australiani, neozelandesi, ecc.) e soldati di Paesi occupati dalla Germania, come polacchi, norvegesi, danesi, olandesi, belgi. Le aree di terreno sono state concesse gratuitamente dal Governo italiano. Il totale delle tombe è di 39.948; in alcuni cimiteri sono ricordati anche i Caduti non ritrovati e non identificati che ammontano a 5.511.
Cimitero di Guerra Canadese di Agira
Accoglie 490 tombe. Dopo la conquista della Sicilia, le tombe di tutti i canadesi morti durante le operazioni furono raccolte ad Agira, provincia di Enna. Questo posto fu scelto dal Comando canadese nel settembre 1943.
Cimitero di Guerra di Catania
Accoglie 2.135 Caduti. In questo cimitero sono raccolte le salme dei Caduti dell’ultima fase della campagna di Sicilia, soprattutto nei pesanti combattimenti condotti attorno a Catania e nella battaglia per la testa di ponte del fiume Simeto.
Cimitero di Guerra di Siracusa
Accoglie 1.060 Caduti. Il luogo in cui si trova fu scelto nel 1943 durante le fasi della conquista dell’Isola.
La maggior parte di coloro che sono qui sepolti persero la vita negli sbarchi in Sicilia dal 10 luglio 1943 e nelle fasi della campagna della Sicilia. Un gran numero di tombe appartiene al personale aviotrasportato inglese che atterrò nei dintorni della città nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1943.
I dati sono stati ricavati dal volume di Livio Massarotti “Sintesi storica della Guerra di Liberazione 1943-1945. I Cimiteri di Guerra. Sacrari Militari della 2a Guerra Mondiale”, edito dalla Associazione Nazionale Combattenti della Guerra di Liberazione, Sezione di Udine, nel 2006.
Forze Armate Germaniche
La follia nazista ha travolto anche la Germania. Al di là di ogni considerazione, la Germania ed il popolo tedesco hanno pagato duramente questa follia e le violenze e distruzioni causate a tutti i Paesi dell’Europa.
Dovrà passare molto tempo prima che tutto questo sia assorbito dalle coscienze europee.
Le forze armate germaniche in Italia hanno avuto 120.000 Caduti. Di questi 100.043 sono stati raccolti in quattro cimiteri militari maggiori, che sono a Cassino, Costermano, Passo della Futa e Pomezia. I rimanenti 7.199 sono stati ripartiti in Cimiteri minori già esistenti in quanto raccoglievano i Caduti germanici della Prima Guerra Mondiale: Bolzano, Bressanone, Brunico, Cagliari, Feltre, Merano, Milis (Sardegna), Motta S. Anastasia (Sicilia), Pordoi, Quero.