il fascismo
Milano in mano ai nazisti
L’agonia di Milano.
Gaetano Afeltra, dalla fine del 1942 giornalista del “Corriere della Sera”, racconta gli avvenimenti di quei giorni del settembre 1943, visti dall’ ”osservatorio di un grande giornale”.
Giovedì 9 settembre 1943.
I cronisti del «Corriere» vengono sguinzagliati per la città a raccogliere informazioni. Bisogna avere un quadro attendibile della situazione. Prima di tutto cercare di conoscere le intenzioni dei tedeschi. Si sente sparare. I telefoni suonano all'impazzata. La gente vuole sapere cosa succede. I corridoi si riempiono di persone a cui è facile accedere al giornale: sono i nomi grossi dell'antifascismo, ansiosi di notizie. In poco tempo via Solferino è diventato un centro di raccolta. L'ufficio intercettazioni capta una notizia da una radio non ben precisata secondo la quale si starebbe raggiungendo un accordo con i tedeschi per il loro pacifico ritiro dalla Penisola. Janni scuote le spalle (Ettore Janni, vecchio redattore del “Corriere”, antifascista, era uscito dal giornale all’avvento di Mussolini: a lui i Crespi, proprietari del “Corriere”, avevano deciso di affidare la direzione all’indomani del 25 luglio 1943). Non ci crede. A .lui risulta che la Wehrmacht in questi quarantacinque giorni è entrata in forze dal Brennero ed è convinto che le misure naziste saranno molto dure. Si parla di diciotto divisioni dell'esercito e di una di SS alle porte di Roma.
La Reuter conferma lo sbarco della Quinta armata americana nei pressi di Salerno. Un pilota canadese di ritorno da un volo su Napoli ha dichiarato che 250 chilometri di mare rigurgitano di unità alleate, dalle navi da sbarco alle corazzate. Da Roma informazioni contraddittorie. All'ambasciata tedesca bruciano documenti. Cosa vuol dire? Che vanno via? Il direttore è sempre più pessimista. «Legga questa piuttosto» dice al collega che gli ha portato il breve dispaccio. È una D.N.B. l'agenzia ufficiale tedesca: «Hitler ha riunito al Quartler generale un consiglio di guerra al quale hanno partecipato Goering, Himmler, von Ribbentrop, Keitel, l'ammiraglio Doenitz e il ministro degli armamenti Speer. Per quanto nulla si sappia ufficialmente del temi trattati, si dà per certo che il consiglio si sia occupato dell'Italia dopo la richiesta di armistizio».
«È il segno che il pazzo si scatena» commenta Janni.
Arrivano notizie di incidenti a Milano. Un giornale svizzero pubblica che nel pomeriggio di ieri, alle prime indiscrezioni delle radio straniere, l'ambasciatore di Germania a Roma si è precipitato dal re. Erano le ore 18, quasi due ore prima dell'annuncio di Badoglio. Quando lo informano della visita il sovrano scatta: «Per carità, ditegli che non ci sono». L'ambasciatore capisce e prima di andarsene pronuncia con rabbia una frase in tedesco. Nell'udienza concessagli lo stesso giorno, sei ore prima, Vittorio Emanuele l'aveva rassicurato: «L'Italia non capitolerà mai».
Alcuni redattori chiedono di parlare con il direttore.
Propongono di portare la testata del “Corriere” a Bari con tutta la redazione. Potrebbe essere un'idea. Colto di sorpresa Janni prima riflette, poi dice: «Avremmo due "Corriere": uno a Bari e l'altro nazifascista a Milano. Il "Corriere" è in via Solferino».
Gli incidenti avvenuti nel corso di manifestazioni antinaziste, alcune delle quali davanti alle fabbriche, hanno avuto tragiche conseguenze: a Sesto due tedeschi uccisi e tre operai caduti; a Milano, nei pressi della stazione, un morto da entrambe le parti. I feriti ricoverati sono varie decine. Al comando militare di via del Carmine si, temono rappresaglie.
E tardi. Bisogna stringere per la prima pagina. Su nove colonne: «Perché l'Italia è stata costretta a chiedere l'armistizio. Una nota di Badoglio a Berlino e a Tokyo». Il fondo ha per tltolo «Una sera di battaglia» e così viene stampato per circa dieci mila copie. Poi sorge il dubbio che la «sera di battaglia» possa equivocarsi con quella di Milano, con morti e feriti, e il titolo è subito cambiato con un altro più esplicito: «Nella bufera»...
Intanto tornano i cronisti. Gli incidenti sono molto gravi. Le SS hanno prelevato degli ebrei, non si sa dove li abbiano portati. Molti altri episodi suscitano seria inquietudine. Janni telefona a casa avvertendo di non stare ·in pensiero perché resta a Milano. Invece c'è da stare molto in pensiero. Il generale Ruggero, comandante della piazza di Milano, fa sapere che sta trattando con il comando .tedesco per un'occupazione della città senza spargimento di sangue. Nelle caserme regna il caos. Si sentono aerei volare: è il terrore. Cala la sera. Gli operai del “Corriere” chiedono armi per difendere lo stabilimento. C'è un'aria di battaglia. Tutto può accadere.
Nei corridoi del giornale il brusio via via diminuisce.
Anche i redattori se ne vanno. C'è già chi pensa alle valigie ...
L'alba di venerdì 10 settembre sorgeva lenta e angosciante. Dalle finestre spalancate donne in vestaglia e uomini spettinati e in maglietta si sporgevano per vedere cos'era quel calpestio nelle strade in un'ora così mattiniera. Il cielo era terso, la città prendeva luce ma tutto intorno era spettrale e-triste. Nelle vie, soldati sparsi e a gruppi camminavano in fretta rasentando i muri come fuggiaschi. Qualcuno senza giubba, chi se l'era messa sul braccio, chi stringeva la sua valigia di fibra e faceva fatica a tenere il passo con gli altri, tutti però scalcinati, affannati, gioventù improvvisamente immiserita. Corrono verso la stazione per prendere i primi treni e tornarsene a casa, nascondersi: poi si vedrà. Le corriere vengono prese d'assalto. Altri invece sono alla disperata ricerca di un abito borghese: una giacca, un paio di pantaloni, che sia vecchio, stinto, non importa, pur di non farsi riconoscere in divisa. Un tenente chiede se è prudente andare alle Ferrovie Nord attraverso il parco. Per carità, c'è una caserma tedesca a cento metri. Passano camion carichi di SS. Arrivano colpi lontani di artiglieria, ma non si riesce a capire da dove vengano; c'è chi dice che il fragore delle fucilerie viene dalla parte di viale Monza, alle porte di Sesto.
Al «Corriere» ...
«Bisogna far sparire subito il direttore, se no lo prendono», dice Arturo Lanocita, capocronista. ... I tedeschi sanno tutto. Ricordano bene gli articoli del direttore: e poi sono aiutati da quei fascisti che si erano nascosti e che adesso escono dalle tane. Un ufficiale delle SS ha chiesto alla prefettura l'elenco dei redattori. Per fortuna hanno risposto di non averlo. Ce l'hanno a morte col "Corriere" e non solo con Janni ...».
Alle undici e un quarto di venerdì 10 settembre, a distanza di diciotto anni, Janni lasciava per la seconda volta il “Corriere”: ma lo lasciava per esserci stato, sia pure solo quarantacinque giorni, da uomo libero e coraggioso.
Una cupa atmosfera si avverte in redazione. Tutti sono taciturni e pensierosi. Ognuno cerca di capire il proprio destino. L'idea dominante è: adesso cosa accadrà di me? Solo Alonzi, De Vita e Montanelli hanno uno strano contegno. Escono poi ritornano, sono cercati al telefono, parlano in un certo modo, si capisce che sono già in azione. Come mai? Immaginando quello che sarebbe fatalmente accaduto dopo il 25 luglio si erano preparati per la resistenza e la clandestinità, ognuno con il proprio gruppo, il giorno in cui l'Italia avrebbe dichiarato l'armistizio, predisponendo anche la difesa del “Corriere”. Alonzi incontrava il suo vecchio amico Ferruccio Parri, del quale doveva diventare poi il luogotenente nella guerra di Liberazione: si erano conosciuti al “Corriere” dove Parri rimase fino all'uscita di Albertini; De Vita si trovava con Negarville e Li Causi; e Montanelli si vedeva con Poldo Gasparotto e Martinelli (entrambi fucilati poi a Fossoli).
Si sa che i tedeschi hanno occupato Pavia, Piacenza, Parma, Reggio, Brescia e Bergamo e tutte le località minori. Milano è circondata da mezzi corazzati, pronti a entrare in città. Le voci sono sempre più drammatiche. Gli operai chiedono armi. Si parla di morti. Il servizio intercettazioni informa che il re, la regina, Umberto e Badoglio stanno per raggiungere una località sicura. Radius e io ci guardiamo in faccia. E noi, che facciamo?
Saranno state le sei quando improvvisamente dalla radio lo speaker dice: «Attenzione, attenzione, fra qualche minuto verrà data una grande notizia». Scompiglio generale. Che sarà? Squilla il telefono. E il Comando generale che chiede di parlare con il direttore. Il direttore non c'è. Il redattore-capo nemmeno. Informano il generale Ruggero della situazione. Ruggero fa dire: «Mandino un redattore qualificato con cui parlare, e tengano fermo il giornale perché c'è un lungo comunicato da pubblicare, con una grande notizia». Intanto la radio ripeteva ogni quarto d'ora il suo «Attenzione, attenzione ... ». I minuti diventavano ore. Noi, mancando il direttore responsabile, avevamo un buon motivo per non fare uscire il giornale. Radius, Rizzini e Francavilla mi dissero: «Vai tu». Andai. Il Comando del Corpo d'Armata rigurgitava di ufficiali e di voci. Quando arrivai dissi solo: «Corriere». Fui subito introdotto nella stanza del comandante.
Il generale Ruggero mi accolse con grande cordialità. Ricordo che un'enorme carta della Lombardia piena di cerchietti rossi era spiegata sul tavolo: «Queste» mi disse, «sono città già occupate dai tedeschi». Poi, mostrandomi i telefoni, aggiunse: «Vede questi apparecchi? Ci crede lei che dalla notte dell'otto non è più giunta una chiamata? Sono muti. A Roma non c'è anima viva con cui parlare. Nessuno che ci dia una direttiva. Al ministero della Guerra nemmeno il centralino risponde. Ebbene, la responsabilità per la Lombardia me l'assumo io. Questo è il comunicato che fra poco leggerò alla radio. Milano non sarà occupata. Abbiamo raggiunto un accordo per cui i tedeschi si fermeranno a dieci chilometri da Milano e i nodi più importanti della città saranno presidiati da reparti misti tedeschi e italiani. Siccome il loro armamento è superiore al nostro, ho ottenuto che in questi reparti misti il numero dei soldati italiani sia il doppio. Cosa ne pensa lei?».
Capii che il generale Ruggero parlava con me più da uomo che da comandante, che voleva più sfogarsi che avere un parere. Mi offrì una sigaretta (Serraglio, ricordo) e si appoggiò all'angolo della scrivania. «Che ne pensa? Lo legga e mi dica la sua opinione.» Lo lessi. Mi colpì una frase al principio: «Nei contatti che il Comandante tedesco ha preso con me ho dichiarato che in base agli ultimi ordini avuti nella notte tra l'8 e il 9 dai miei superiori non debbo fare la guerra ai germanici, ma debbo resistere all'impiego della forza da qualunque parte venga e non cedere le armi in nessun caso. Rendendosi conto della fermezza della mia decisione, il comandante tedesco ha accettato di non pretendere di disarmare le mie truppe, fidandosi della mia parola che non avrei attaccato». Seguiva poi il testo dell'accordo.
Finito di leggere, mi sentii estremamente imbarazzato. Stetti zitto. Il generale ruppe il mio silenzio: «Allora, che ne dice?». Scuotendo la testa gli rispondo: «Bisognerebbe credere all'impegno dei tedeschi, ma a me pare impossibile». Il generale però ci credeva o voleva credervi e aggiunse: «Senta: questa mattina tutti chiedevano armi. Io stesso sono stato nelle fabbriche per placare gli operai. Ho chiesto ventiquattr'ore di tempo per tentare un accordo. Ci sono riuscito e sa perché? Perché con i generali con cui ho trattato, da camerata a camerata, si era stabilita una buona amicizia nata·al tavolo della mensa comune. Uno mi ha detto: "Firmando l'accordo, rinunziamo a vendicare i quattordici tedeschi uccisi oggi negli scontri a Milano e a Sesto San Giovanni". Ci siamo stretti la mano. Fra noi soldati, l'onore è tutto».
Il generale mi chiese di farlo accompagnare alla sede della radio con la macchina del giornale. Qui lesse il suo proclama concludendo: «Ho accettato quest'accordo con animo straziato per evitare a Milano ancora atroci sofferenze». Il generale era ossessionato dall'idea che la città potesse essere bombardata.
Poco dopo le otto tornai al “Corriere” per completare il giornale che avrebbe avuto in prima pagina il proclama di Ruggero. Ma verso le ventitré, il generale fece chiamare ancora il “Corriere” e l'ufficiale incaricato disse: «Fermate il comunicato e mandate il giornalista che è venuto prima». Confesso che ebbi paura. La situazione giustificava ogni timore. Chiesi a Radius di accompagnarmi. Lo scenario di via Brera era, nello spazio di poco più di due ore, mutato: carri armati tedeschi riempivano la strada, c'era un gran movimento di truppe. Salimmo nell'ufficio del generale. Si spalancò una porta e ne uscirono due alti ufficiali tedeschi: poi si affacciò Ruggero stesso, mi vide, fece un segno con la mano chiamandomi seccamente: «"Corriere"!». Radius e io entrammo nel suo ufficio. Ruggero appariva distrutto. Disse solo: «Domani i milanesi mi sputeranno in faccia. I tedeschi si sono rimangiati l'accordo, occuperanno la città». Gli alti ufficiali che avevamo visto uscire erano i due generali firmatari dell'accordo. Gli avevano detto che, per ordine del Führer, l'accordo era stato sconfessato, e che le truppe tedesche stavano già occupando Milano.
Ruggero aveva le lacrime agli occhi, la voce non era più quella. Ci chiese di togliere dalla prima pagina il suo proclama; purtroppo non era più possibile. Ormai il “Corriere” era stampato e in parte diffuso. Così l'indomani uscimmo con il testo dell'accordo “rinnegato”. La gente vide i carri armati tedeschi sotto casa e non a dieci chilometri, come gli era stato promesso.
Il generale Ruggero si consegnò prigioniero ai tedeschi e fu deportato in Germania. Corse la voce che si fosse tolto la vita per l'inganno e l'umiliazione subiti. In realtà Ruggero poté tornare dalla prigionia e morì a Roma nel 1970.
Con quel numero il “Corriere” cessava le pubblicazioni. Milano era in mano ai nazisti. Gli operai fremevano. Le armi erano arrivate. Certo con i «Tigre» di Hitler non si poteva resistere a lungo. Ma l'animus c'era. Tacchini, Fraschini, Zacchetti, Dall'Olio e altri operai, notte e giorno, a turno, erano sui tetti pronti a dare l' allarme per difendere il loro giornale. Via Solferino divenne per qualche giorno l'Alcazar del giornalismo.
Bibliografia:
Gaetano Afeltra – I 45 giorni che sconvolsero l’Italia. 25 luglio – 8 settembre 1943. Dall’osservatorio di un grande giornale – Rizzoli Ed. 1993
25 luglio 1943: i tre proclami
L'ANNUNCIO ALLA NAZIONE. Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato, presentate da Sua Eccellenza il cavaliere Benito Mussolini e ha nominato Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato Sua Eccellenza il cavaliere Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio.
Il secondo:
LA PAROLA DI VITTORIO EMANUELE: Sua Maestà il Re e Imperatore ha rivolto agli italiani il seguente proclama:
Italiani! Assumo da oggi il comando di tutte le Forze Armate. Nell'ora solenne che incombe sui destini della Patria ognuno riprenda il suo posto di dovere, di fede e di combattimento: nessuna deviazione deve essere tollerata, nessuna recriminazione può essere consentita. Ogni italiano si inchini dinanzi alle gravi ferite che hanno lacerato il sacro suolo della Patria. L'Italia, per il valore delle sue Forze Armate, per la decisa volontà di tutti i cittadini, ritroverà nel rispetto delle istituzioni che ne hanno sempre confortata l'ascesa, la via della riscossa. Italiani! Sono più che mai indissolubilmente unito a voi dalla incrollabile fede nell'immortalità della Patria. Firmato: Vittorio Emanuele. Controfirmato: Badoglio.
Il terzo:
PROCLAMA DI BADOGLIO: PRECISA E CHIARA CONSEGNA.
Italiani! Per ordine di Sua Maestà il Re e Imperatore assumo il Governo militare del Paese, con pieni poteri. La guerra continua. L'Italia, duramente colpita nelle sue provincie invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni. Si serrino le file attorno a Sua Maestà il Re e Imperatore, immagine vivente della Patria, esempio per tutti. La consegna ricevuta è chiara e precisa: sarà scrupolosamente eseguita, e chiunque si illuda di poterne intralciare il normale svolgimento, o tenti turbare l’ordine pubblico, sarà inesorabilmente colpito. Viva l'Italia. Viva il Re. Firmato: Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio.
1922-1923 la violenza fascista
Il 25 aprile 1945, giorno della liberazione, segnò la fine della guerra in Italia e l'inizio di una nuova storia nazionale. Le forze della Resistenza, dopo due anni di lotta contro l'esercito nazista e i fascisti della repubblica di Salò, avevano vinto. La loro azione aveva liberato intere regioni, facilitato l'avanzata delle truppe alleate e del ricostituito esercito italiano lungo la valle padana, salvato porti e impianti industriali. Grandi e piccoli centri erano insorti gli uni dopo gli altri ma il momento decisivo fu l'insurrezione delle grandi città del Nord, Genova, Milano, Venezia, dove gli uomini armati delle montagne si congiunsero ai gruppi che già operavano per le vie e per le piazze; la vittoria era l'atto finale della Resistenza iniziata all'indomani dell'8 settembre 1943 ed era costata un largo tributo di sangue: 46.000 morti e 21.000 feriti. «L'Italia - scrisse Churchill- deve la propria libertà ai suoi caduti partigiani, perché solo combattendo si conquista la libertà».
Il 25 aprile il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia assunse i poteri di governo, mentre Mussolini in uniforme tedesca cercava di fuggire oltre confine. Il fascismo finiva a Milano dove era nato. Ma l'azione armata, la lotta partigiana non erano stati uno scatto di rivolta, un capovolgimento improvviso, una sommossa imprevedibile. Quel 25 aprile maturava da più di vent'anni, dapprima nell'animo di pochi che poi coraggiosamente avevano condotto molti all'opposizione e alla lotta. Quella giornata segnava il culmine degli anni oscuri e difficili dell'opposizione politica e morale al fascismo, la fine vittoriosa di una lotta per la libertà cominciata molto tempo prima.
1922-1923 la violenza fascista
La lotta era cominciata il 28 ottobre 1922 all'epoca della cosiddetta «marcia su Roma».
Allora solo pochi capirono il pericolo e si opposero all'avvento del fascismo al potere. In realtà non fu un vero colpo di Stato; il re, il Parlamento, l'esercito avrebbero potuto facilmente impedirlo. Infatti le colonne fasciste che si avvicinavano alla capitale erano state agevolmente fermate da un pugno di soldati e di carabinieri, da alcuni blocchi ferroviari, da qualche acquazzone autunnale. Il loro capo, Benito Mussolini, era a Milano, chiuso nella sede del suo giornale, in attesa degli eventi. Arrivò a Roma solo più tardi, in vagone letto, quando il re lo convocò al Quirinale. E solo allora, dopo che i più alti organi dello Stato gli avevano aperto le porte, i fascisti poterono sfilare per le vie della città. Ma quella parata disordinata dinanzi ad una popolazione muta ed incerta segnò la fine di un'epoca e l'inizio della conquista del potere da parte di una minoranza aggressiva. Gli uomini che allora si impadronirono del Paese, sia pure con una vernice di legalità, erano infatti una minoranza, sconfitti in tutte le elezioni fin da quando si erano organizzati in partito nel 1919.
Le cause di quella facile vittoria erano molte. La fine del primo conflitto mondiale aveva aperto in Italia, a differenza degli altri Paesi vincitori, una crisi economica, morale e sociale. Le deboli strutture del Paese non avevano resistito ad una guerra che gli interventisti, contrariamente alla opinione di Giolitti, dei socialisti e dei cattolici, avevano ritenuto breve e vittoriosa. Poi, nonostante la vittoria, una profonda delusione aveva afferrato gli animi; le classi smobilitate, i reduci dal fronte portavano aspirazioni nuove, insoddisfatte; si diffondevano l'inquietudine e lo spirito di protesta. Le organizzazioni degli ex combattenti accusavano lo Stato di debolezza; serpeggiavano rivendicazioni di carattere nazionalistico e l'avventura dannunziana di Fiume aveva fornito un pessimo esempio di rivolta contro lo Stato.
La crisi economica era gravissima, il costo della vita s'era moltiplicato di cinque volte. La presenza delle grandi fortune accumulate in pochi anni e il modello della rivoluzione russa inducevano gli operai a manifestazioni di insofferenza e di protesta, e i contadini a reclamare le terre che erano state loro promesse negli anni difficili. Gli scioperi, l'occupazione delle fabbriche e delle terre erano frequenti, e avevano fatto insorgere nelle classi abbienti uno spirito di reazione e nei ceti medi un desiderio d'ordine imposto anche con la forza. La classe politica dirigente si dimostrava incapace di valutare i pericoli che si profilavano, di trovare un assetto stabile basato sulla collaborazione, e usava invece le agitazioni sociali come uno strumento per dividere gli avversari, credendo di poterli poi facilmente controllare.
I partiti si frazionavano in una lotta che disperdeva le loro energie, mentre i grandi proprietari terrieri favorivano l'azione di chi sembrava proteggerli dalla sovversione e dalle richieste popolari. La democrazia liberale che per più di quarant'anni aveva governato l'Italia unita, oscillava fra una politica di concessioni e di riforme e la tentazione di repressioni autoritarie. Altri gruppi politici non intendevano sostenerla né collaborare tra loro; fu il caso dei socialisti e dei cattolici che non riuscirono a raggiungere una intesa e, cosa più grave, si rifiutarono di partecipare ad un governo presieduto da Giovanni Giolitti.
In questo quadro il fascismo, nato con un vago programma sociale, ma con precise intenzioni di potere, aveva trovato presto la propria strada, inserendosi nella crisi dello Stato. A molti sembrava promettere fermezza, decisione e i frutti della vittoria, ad altri appariva capace di reprimere i tumulti nelle piazze o nelle campagne. Sconfitto alle urne, il fascismo aveva subito scelto la strada della violenza. In tre anni le imprese degli squadristi erano state innumerevoli, avevano colpito le leghe contadine, le cooperative, le amministrazioni comunali, le sedi dei giornali di opposizione, le case degli avversari politici, uccidendo, devastando, protette dall'impunità.
Alla fine, davanti all'ultimo atto di debolezza della monarchia, e del governo, Mussolini e il suo partito, in quell'ottobre del 1922 esautorarono definitivamente lo Stato e conquistarono il potere. Il futuro duce sfruttava nella sua propaganda l'aspirazione all'ordine e i più genuini sentimenti patriottici. Basta ricordare la famosa frase pronunciata al momento di ricevere l'incarico dal re: «Maestà, vi porto l'Italia di Vittorio Veneto».
Non si può ancora, a questo punto, parlare di antifascismo. C'era chi vedeva chiaramente la minaccia, chi già combatteva o era rimasto vittima, e c'era ancora un'opposizione parlamentare. Sembrava ancora possibile frenare la corsa alla dittatura, «normalizzare», come si diceva, il movimento, opporgli armi legalitarie. Era un'illusione che cadde presto. Conquistato il governo, il terrorismo fascista non scomparve. Continuarono le «spedizioni punitive», le devastazioni dei giornali; si moltiplicarono le vendette e le persecuzioni. Gli squadristi non tolleravano che la loro «rivoluzione» fosse ancora sottoposta alle critiche o al voto parlamentare. Le squadracce sfuggivano allo stesso controllo dei dirigenti del partito.
I «ras» di provincia, tra cui si distinguevano Italo Balbo e Roberto Farinacci, imperversavano contro le organizzazioni contadine, le cooperative, i circoli di cultura, le Case del popolo, specialmente nella Valle Padana, in Emilia e in Romagna, dove la classe contadina e quella operaia erano più avanzate. È qui appunto che con l'aiuto della classe agraria sono nate le prime e più violente squadracce fasciste che aumentavano di giorno in giorno di numero e di forza soprattutto per l'aiuto delle questure di allora.
In tutta Italia la violenza fascista non aveva tregua e le repressioni costituivano un metodo di governo, mentre Mussolini in Parlamento minacciava di fare di quell'aula «sorda e grigia un bivacco di manipoli».
Furono particolarmente presi di mira alcuni centri dell'antifascismo, fra cui Molinella, un piccolo paese presso Bologna, che venne perseguitato per anni. Qui, come altrove, il fascismo s'accanì contro ogni forma d'organizzazione democratica. Una delle vittime più note di Molinella fu il sindaco socialista Giuseppe Massarenti, organizzatore di cooperative e animatore della collaborazione contadina. Per questo egli doveva poi finire al confino ad Ustica.
La strada della violenza era ormai irreversibile. E l'esempio più clamoroso si ebbe a Torino dove nel dicembre del 1922 con il pretesto di una vendetta privata, i fascisti rastrellarono la città, incendiarono i circoli e le Camere del Lavoro, devastarono la sede della rivista Ordine Nuovo, malmenarono Antonio Gramsci e i suoi compagni. Il bilancio della triste impresa fu l'assassinio di undici persone, operai e dirigenti sindacali, compiuto dagli uomini del console della milizia Piero Brandimarte. Nessuna reazione delle autorità, e solo qualche blando provvedimento del governo: la pratica fu archiviata e gli assassini rimasero impuniti.
Il 23 agosto del 1923 fu ucciso a colpi di bastone il giovane parroco di Argenta Don Minzoni, allievo di Toniolo, laureato in scienze sociali, decorato di medaglia d'argento per aver combattuto con gli arditi sul Piave. Don Minzoni era colpevole, agli occhi dei fascisti emiliani, responsabili della sua morte, di aver chiesto la distribuzione ai contadini delle terre e nuovi patti di lavoro. Anche questo delitto rimase impunito e il capo della Pubblica Sicurezza d'allora, Emilio De Bono, scrisse al fiduciario di Ferrara: «Per eventuali bastonature non si devono imbastire altri processi». La stampa di opposizione aveva ancora sufficiente autonomia da denunciare il fatto e La Voce Repubblicana, diretta dal Ferdinando Schiavetti, accusò Italo Balbo quale mandante dell'aggressione.
Il primo anno di governo fascista, fu così caratterizzato dall'imperversare dei «ras» di provincia contro ogni forma di opposizione e di vita democratica. Questo triste periodo, che vide l'agonia della libertà, si chiuse con due episodi di violenza a Roma: l'invasione della villa dell'ex Presidente del Consiglio, Saverio Nitti, e la bastonatura di Giovanni Amendola, uno dei maggiori oppositori del fascismo, approvata poi dal giornale di Mussolini. Si continuava a sperare nella normalizzazione ma l'anno successivo, il 1924, fu, in un certo senso, ancora peggiore.
Di seguito gli articoli:
Le elezioni del 1924 e il delitto Matteotti
1925: La distruzione delle strutture dello Stato di diritto
L’opposizione al fascismo, in esilio
L’attivismo di Giustizia e Libertà
Bibliografia:
Andrea Barbato e Manlio Del Bosco in AA.VV - Dal 25 luglio alla repubblica - ERI 1966
27 giugno 1924: l'Aventino
Dopo un primo periodo di incertezze e di sgomento seguìto all’uccisione di Matteotti, Mussolini cominciò a reagire passando alla controffensiva e, come primo atto, chiuse la Camera dei Deputati. Le opposizioni però, dai democratici ai popolari, dai socialisti ai comunisti, sembrarono finalmente in grado di coalizzarsi. Il 27 giugno, in una sala di Montecitorio, ricordando Matteotti, Filippo Turati pronunciò un solenne discorso. La mozione finale dell'assemblea, approvata all'unanimità, stabilì che l'opposizione non sarebbe rientrata alla Camera finché non fosse stata soppressa la milizia fascista e punita la violenza e la illegalità. Nacque così la secessione parlamentare che prese il nome di Aventino.
Col discorso del 3 gennaio 1925, Mussolini si assunse da solo la responsabilità storica, morale, politica dell’accaduto. «Dichiaro qui - egli disse - al cospetto di questa assemblea, al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica, di tutto quanto è avvenuto ... se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere».
Come reagì l'Aventino? Quali che furono le incertezze e le debolezze della secessione, con essa si affermò in maniera netta l'opposizione morale, prima ancora che politica, fra i partiti democratici da una parte e il fascismo dall'altra. Ma la controffensiva democratica, chiesta fra gli altri da Gobetti, non ci fu. In realtà i deputati aventiniani, con Amendola in testa, credevano di avere posto le condizioni costituzionali per un intervento del re. Ma Vittorio Emanuele rimase sordo ai loro appelli confermando così la sua fiducia in Mussolini. Da quel momento l'antifascismo scelse la sua strada che fu d'opposizione intransigente. A Firenze un gruppo di ex combattenti (Cristofani, De Liguori, Piani, Traquandi) fondarono un'associazione antifascista clandestina, «Italia libera», che in qualche occasione scese anche in piazza apertamente, e di cui fecero parte Carlo Rosselli e Ernesto Rossi, la medaglia d'oro Raffaele Rossetti e tanti altri. Nacque quindi, patrocinata da Amendola, la «Unione Nazionale delle Forze Liberali e Democratiche », in cui rientrarono, fra i tanti, Bonomi e Calamandrei, Cianca e De Ruggiero, Papafava e Ruini, Salvatorelli e Vinciguerra, Carlo Sforza. Erano gli ultimi sussulti di libertà.
Il regime si sentiva forte, sicuro di vincere. L'ultima trincea dell'opposizione fu la stampa. Perseguitata in tutti i modi, soffocata, sabotata, la stampa antifascista continuò ad essere una delle poche voci libere in un Paese che si avviava alla tirannia. C'erano i grandi quotidiani ancora per poco indipendenti, e accanto ad essi Il Lavoro di Genova, Il Mondo di Roma, diretto da Alberto Cianca e sul quale scriveva Amendola. E c'erano i giornali di partito: Il Popolo, La Giustizia, L’Avanti, La Voce Repubblicana, L’Unità, e qualche altro. Accanto ad essi, si allineavano i grandi periodici di battaglia: insieme a L'Ordine Nuovo, che Antonio Gramsci aveva fondato nel 1919, c'era a Torino un centro ideologico e morale che fu La Rivoluzione Liberale di Piero Gobetti. A Firenze si distingueva un periodico battagliero diffuso clandestinamente, il Non mollare, nato in casa di Carlo e Nello Rosselli e a cui collaboravano anche Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini e Nello Traquandi. A Milano, Ferruccio Parri e Riccardo Bauer, con altri, dettero vita alla rivista Il Caffé.
In realtà dopo il 3 gennaio, il giornalismo indipendente cominciò ad avere la vita sempre più difficile: sequestri, arresti di direttori (tra i quali Pietro Nenni), allontanamento e sostituzione dei giornalisti irriducibilmente avversi. Il senatore Alfredo Frassati fu costretto a cedere La Stampa e Luigi Albertini ad abbandonare il Corriere della Sera. I giornali divennero così portavoce ufficiali della politica del governo, con ordini severi o comunicati precisi da pubblicare. La stampa libera, colpita da decreti di soppressione, fu costretta a diventare clandestina.
Poche ormai erano le voci che osavano levarsi contro il regime. Tra queste, il manifesto redatto da Benedetto Croce, con il quale il filosofo napoletano rispondeva al manifesto di Giovanni Gentile e degli intellettuali fascisti. Il documento di Croce, firmato da molti degli uomini di cultura che si opponevano alla tirannia, diceva, fra l'altro, di voler essere «la protesta sollevata da alcuni liberi intellettuali contro la versione e l'interpretazione delle cose d'Italia che gli intellettuali fascisti hanno creduto di dover diffondere». Anche nelle Università, tra gli studenti, si svilupparono fermenti di opposizione al fascismo. Nella vecchia Sapienza di Roma, come negli altri atenei italiani, si formò l'«Unione Goliardica per la Libertà» fra cui si ritrovarono, allora ventenni, alcuni uomini che nel 1943 si adoperarono per la ricostruzione dei partiti: Ugo La Malfa, Lelio Basso, Rodolfo Morandi, Giorgio Amendola, Leone Cattani e tanti altri.
Nel 1925 si tennero gli ultimi congressi d'opposizione: quelli dell'Unione Nazionale e del Partito Popolare. Il congresso del Partito Socialista fu proibito e quello comunista si tenne all'estero, a Lione. Nel suo discorso congressuale Amendola disse fra l'altro: «Dobbiamo maturare nel nostro spirito quell'atteggiamento di paziente intransigenza che soltanto può richiamare intorno a noi le forze migliori del nostro Paese ... ». E De Gasperi al congresso del Partito Popolare: «Imparino tutti i democratici, liberali e socialisti, che il nostro partito, anche quando ha lottato contro di loro, ha lottato in difesa della libertà». Ma, ormai, dai fascisti, neppure le parole venivano più tollerate. Nel luglio del 1925 Amendola fu aggredito e bastonato fra Montecatini e Pistoia. In ottobre a Firenze, in una fosca notte di violenza, molte persone furono uccise o ferite. La spedizione punitiva ebbe origine in via dell' Ariento dove i fascisti stavano dando la caccia a un tipografo del Non mollare. Nei tafferugli due uomini, fra cui un fascista, rimasero uccisi e la vendetta degli squadristi fu immediata e crudele. Per una intera notte entrarono di forza in alcune case della città in cerca di antifascisti. Così furono uccisi il deputato socialista Gaetano Pilati e l'avvocato Gustavo Console, ambedue distributori del Non mollare. L'antifascismo venne braccato, in tutti i modi, costretto a nascondersi o a prendere la via dell'esilio. Eppure Piero Gobetti poteva ancora scrivere fino alla fine del 1925: «Esiste in Italia un gruppo di uomini, nei partiti e fuori dei partiti che non ha ceduto e non cederà ... Anche se pochi, rimarranno come un esempio per la classe politica di domani... Sono minoranza, numericamente poverissima, ma incutono rispetto anche al più agguerrito nemico ...». Intanto, l'esperienza aventiniana s'era consumata senza esito positivo
Bibliografia:
Andrea Barbato e Manlio Del Bosco in AA.VV - Dal 25 luglio alla repubblica - ERI 1966
1925: La distruzione delle strutture dello Stato di diritto
Nel corso del 1925 il regime provvide a consolidarsi e a mettersi al riparo con alcune leggi che cominciarono a distruggere, come avvenne decisamente poco dopo, le strutture dello Stato di diritto. Mussolini, diventato Capo del Governo, assunse i poteri esecutivi esautorando il Parlamento; i sindaci elettivi vennero sostituiti dai podestà nominati dal governo, associazioni e istituti non graditi furono sciolti, la libertà di stampa soppressa definitivamente. Allora si levarono, contro la tirannia e contro il tiranno, gesti isolati e senza speranza. Un ex deputato socialista, Tito Zaniboni, decise di uccidere Mussolini sparandogli con un fucile a cannocchiale dalla finestra dell'albergo Dragoni, nel centro di Roma, di fronte a Palazzo Chigi; qui il duce doveva affacciarsi ad un balcone, il 4 novembre del 1925. Ma fra i cospiratori c'era anche un confidente della polizia e così l'attentato fu scoperto in tempo e Zaniboni venne arrestato due ore prima della apparizione di Mussolini. Un colpo di pistola dell'anziana signora inglese Violet Gibson, lo ferì leggermente al naso. Nei giornali e nei cinegiornali dell'epoca il Capo del Governo si fece fotografare con un vistoso cerotto ma praticamente illeso. Poi fu la volta del giovane anarchico di Carrara, Gino Lucetti, che fu condannato a trent'anni di carcere.
Ma l'atto definitivo, quello che fece scattare le leggi speciali liberticide, fu l'attentato a Bologna del 31 ottobre 1926. L'episodio avvenne all'angolo tra via Rizzoli e via Indipendenza, mentre Mussolini si recava in automobile alla stazione per ritornare a Roma. Dalla folla partì un colpo di rivoltella che andò a vuoto, ma un gruppo di personaggi del seguito del duce con alla testa Arconovaldo Bonaccorsi, il famigerato «conte Rossi» della guerra di Spagna, si lanciarono su un ragazzo di 14 anni, Anteo Zamboni, ritenuto l'autore dell'attentato. Il ragazzo fu linciato sul posto, nonostante che non si avesse alcuna certezza che fosse stato lui a sparare. Anteo fu sepolto nella parte del cimitero chiamata dei traditori e la sua famiglia venne perseguitata per anni. L'episodio di Bologna fornì però il pretesto al fascismo per fare nuove decisive leggi contro la libertà.
Alla fine del 1925, che Mussolini definì il proprio «anno napoleonico», la prima battaglia dell'antifascismo era ormai perduta. I deputati aventiniani furono dichiarati decaduti e si istituirono le cosiddette «leggi per la difesa dello Stato». Nacquero così i Tribunali speciali, il confino politico, si ristabilì la pena di morte. Si compì così un'inversione di civiltà, sopprimendo alcuni fondamentali diritti dei cittadini di una società libera: un'inversione di civiltà che contrastava anche radicalmente con le tradizioni del Paese. La dittatura mussoliniana era ormai assoluta, l'antifascismo entrava nella fase della clandestinità, dell'esilio, del carcere. Piero Gobetti era morto a Parigi, a 25 anni, il 16 febbraio del 1926; Giovanni Amendola moriva a Cannes, due mesi dopo; ambedue per le conseguenze delle percosse fasciste. E pochi giorni dopo l'attentato Zamboni, alla vigilia di un dibattito in Parlamento contro la pena di morte, venne arrestato Antonio Gramsci.
Il regime si era ormai imposto. Tutte le garanzie contemplate dalla Costituzione e dalle vecchie leggi liberali non esistevano più. Incontrastato dominava il fascismo e con poteri assoluti il «dittatore ». Cominciava, nella lotta per la libertà, l'ora più rischiosa e difficile.
Bibliografia:
Andrea Barbato e Manlio Del Bosco in AA.VV - Dal 25 luglio alla repubblica - ERI 1966
Il Tribunale speciale
Come era costituito e come funzionava; dal racconto di Sandro Pertini, che dal Tribunale speciale subì una dura condanna.
Molti altri in Italia non si piegarono. Ma il fascismo era intollerante di ogni superstite opposizione. Gli strumenti legali normali di cui disponeva non sembravano più sufficienti al regime per condannare agevolmente gli avversari politici. Il processo di Savona era stato una dura lezione, perché aveva permesso al pubblico di parteggiare per gli imputati. Chiuso sempre più nella spirale del totalitarismo, il regime decise di sottrarre le sue vittime perfino al giudizio della Magistratura ordinaria per trarle invece di fronte ad un Tribunale speciale. Furono abolite così le ultime garanzie riconosciute ai cittadini dallo Stato di diritto. Gli accusati vennero sottratti ai loro giudici naturali per essere processati da un tribunale di parte; da un tribunale fedele e politicizzato, presieduto non da magistrati, ma da ufficiali della milizia o dell'esercito. I processi venivano celebrati quasi clandestinamente e le sentenze, obbedendo a direttive politiche, erano una pura formalità.
Sandro Pertini, che subì una dura condanna dal Tribunale speciale, ci dice come era costituito e come funzionava:
«Era costituito da un presidente scelto tra gli ufficiali generali dell'esercito o della milizia fascista. Da 5 membri scelti tra gli ufficiali della milizia fascista col grado di console, da un relatore senza voto scelto tra il personale della magistratura militare. In un primo tempo questi membri erano nominati dal ministro della Guerra, in un secondo tempo, invece, furono nominati direttamente da Mussolini. Secondo la legge, il Tribunale speciale doveva durare 5 anni, invece ne durò 15. Le udienze non erano pubbliche; soltanto in alcuni casi eccezionali, come nel processo a carico di Tito Zaniboni e del generale Capello fu ammesso il pubblico. Non venivano contestati fatti determinati, solo imputazioni di carattere generico e si colpivano, si condannavano gli imputati anche soltanto per le loro intenzioni e per le loro opinioni. Le sentenze non erano suscettibili di ricorso alcuno ed era imprudente citare testimoni a discarico se non si volevano rendere vittime della repressione fascista. I difensori dovevano essere molto cauti nella loro difesa se non volevano cadere in disgrazia di fronte al fascismo. Quindi il Tribunale speciale non amministrava giustizia, era semplicemente uno strumento di intimidazione, di repressione e di vendetta del regime fascista».
Uno dei processi più famosi fu quello aperto nel 1928 contro Antonio Gramsci, da tempo perseguitato dalla polizia fascista, contro Umberto Terracini e contro un nutrito gruppo di comunisti, sotto l'accusa di aver ricostituito i quadri del partito in Italia. Rievoca il processo Gramsci, Umberto Terracini:
«Rivedendo Gramsci fui impressionato profondamente dal suo aspetto: le guance scavate, gli occhi stanchi, smagrito nel corpo che si piegava sotto il peso di una bisaccia piena di libri. Ma era sereno e subito scherzò sull'enormità e sulla quantità delle imputazioni delle quali avremmo dovuto rispondere: cospirazione, formazione di bande armate, vilipendio, resistenza alla forza pubblica e naturalmente anche incitamento alla lotta di classe. "Un vero comico grottesco questo processo - disse - ma noi vi metteremo il contrappunto della nostra serenità che è la virtù dei rivoluzionari" ».
Gramsci sedeva nella prima panca dentro il gabbione di ferro. Quando fu chiamato per il suo turno a rispondere all'interrogatorio, e venne fuori dall'usciolo della gabbia, i giudici rimasero interdetti nel vederlo. Si attendevano infatti che fosse tutt'altro uomo, la personalità che dalle pagine processuali appariva con lineamenti di tanta autorità e forza intellettuale e morale, abituati come erano ad identificare, nella loro rozzezza, la grandezza con la robustezza corpacciuta e muscolosa del fisico. Ma quando sentirono Gramsci, essi capirono perché il capo della dittatura lo avesse indicato particolarmente alla loro severità. E si capisce perché il pubblico ministero pronunciasse quella famosa frase: «Bisogna impedire a questo cervello di funzionare per venti anni».
Gramsci fu condannato a vent'anni e Terracini a ventidue. In totale, 290 anni di carcere a 22 imputati, fra i quali c'era anche Mauro Scoccimarro. Per Antonio Gramsci, con questa condanna, cominciò un'odissea che, da un carcere fascista all'altro, lo portò alla morte, senza che egli abbia mai potuto riottenere la libertà. Malato, imprigionato, isolato, Gramsci continuò ad essere per anni, nel fondo della sua cella, uno dei più irriducibili e temuti avversari del fascismo. Dei nove anni di vita che gli restarono dopo la condanna, Gramsci ne passò cinque nel carcere di Turi, in provincia di Bari. Così scrisse alla madre nel dicembre del 1930:
«Carissima mamma, ecco il quinto Natale che passo in privazione di libertà e il quarto che passo in carcere. Veramente la condizione di coatto in cui passai il Natale del 1926 a Ustica era una specie di paradiso della libertà personale in confronto alla condizione di carcerato. Ma non credere che la mia serenità sia venuta meno. Sono invecchiato di quattro anni, ho molti capelli bianchi, ho perduto i denti, non rido più di gusto come una volta, ma credo di essere diventato più saggio e di aver arricchito la mia esperienza degli uomini e delle cose. Non ho perduto il gusto della vita, tutto mi interessa ancora ... ».
L'antifascismo italiano sfilò un anno dopo l'altro davanti ai tribunali del regime. Nel marzo del 1927, quando ormai da mesi viveva nascosto e perseguitato, Alcide De Gasperi fu arrestato a Firenze. Non c'erano contro l'ex segretario del Partito Popolare, prove concrete di alcun reato politico, ma solo il sospetto d'una intenzione d'espatrio. De Gasperi venne arrestato insieme alla moglie. Tradotto a Roma, fu processato con una procedura giuridicamente assurda, con un atto d'accusa per una colpa non commessa e condannato a quattro anni di reclusione solo per essere stato trovato con un passaporto scaduto. Era ormai chiaro che i tribunali fascisti perseguitavano le idee e non si curavano dei fatti. Più tardi, la pena fu ridotta in Appello e De Gasperi restò in carcere sedici mesi. Ma, all'uscita, fu sempre sorvegliato, ostacolato nel lavoro, perseguitato.
In seguito alla denuncia di una spia del regime nell'ottobre del 1930 caddero nelle mani della polizia fascista tutti i dirigenti di «Giustizia e Libertà» che erano ancora in Italia. Fra i 24 arrestati figuravano Riccardo Bauer, Umberto Ceva, Ferruccio Parri, Ernesto Rossi, Nello Traquandi, tutti accusati di «delitti di insurrezione contro i poteri dello Stato». Ceva si uccise nella cella 440 di Regina Coeli la notte di Natale, e nel maggio del 1931, nell'aula del Tribunale speciale, s'aprì il processo. «In questa aula - disse l'avvocato Mario Ferrara difensore di Bauer - comincia il nuovo Risorgimento italiano». Si evitarono condanne capitali, ma le pene furono gravi: per Bauer e Rossi, vent'anni, Parri inviato al confino, in carcere tutti gli altri. Il 30 gennaio del 1934 toccò ad un gruppo di cattolici, riuniti nel movimento Guelfo d'Azione, d'essere giudicati dal Tribunale speciale, per «propaganda antinazionale». Le condanne più pesanti, cinque anni di reclusione, toccarono a Malvestiti e Malavasi. Per anni, dal 1927 alla repubblica di Salò, il Tribunale speciale fascista giudicò e condannò gli italiani che s'opponevano al regime. Processò interi gruppi, setacciò città e regioni, 21.000 denuncie, 5.619 imputati, 4.671 condanne. In totale, 28.115 anni di carcere, 3 ergastoli, 42 condanne a morte di cui 31 eseguite. Queste cifre, che dimostrano che l'antifascismo non fu soltanto un movimento di pochi coraggiosi, vanno completate con quelle delle condanne dei Tribunali ordinari, e con il confino. Centinaia, migliaia di antifascisti trascorsero anni di vigilanza e di isolamento nei paesi del sud, a Ustica, a Lipari, a Ponza, alle Tremiti, in Sicilia.
Ma non tutto l'antifascismo si ritrova nell'esilio politico o negli imputati del Tribunale speciale, in quegli anni difficili. Molti italiani, avversi al regime, pur senza passare la frontiera e senza essere condannati, subirono sopraffazioni e violenze. Migliaia sono gli episodi sepolti da una cronaca più drammatica, ma non per questo meno grave. Altri italiani si chiusero nel silenzio, nella muta rivolta al regime, o combatterono battaglie quotidiane nel loro settore, nella loro professione, nella loro fabbrica. Scrisse a questo proposito Salvemini, che pure era emigrato: «Chi rimase in Italia, riuscendo a scansare la galera, non arrendendosi ai fatti compiuti, tenendo duro per anni e anni, salvando l'anima, non mollando, ebbe la vita assai più difficile e più meritoria di chi fu costretto ad emigrare».
Bibliografia:
Andrea Barbato e Manlio Del Bosco in AA.VV - Dal 25 luglio alla repubblica - ERI 1966
Il Testo unico di Stato
(continuazione de "La scuola sotto il Fascismo)
Un posto di primo piano è naturalmente riservato all’apologia del fascismo. Mussolini, il creatore dell’ "Italia nuova", occupava il vertice. Il culto della sua persona raggiungeva livelli davvero impensabili di fanatismo, assumendo forme di vera e propria idolatria (la sua figura metteva in ombra anche quella, istituzionalmente più importante, del Re), accanto al culto della Patria e delle sue insegne (la bandiera), l’esaltazione della Grande Guerra e dei suoi martiri, il mito di Roma.
Il tema della guerra - come momento di formazione per la nuova nazione fascista, strumento di difesa della patria e strumento di espansione e affermazione dell’Italia fascista - e immagini belliche sono disseminate un po’ dappertutto.
Non mancava la celebrazione della famiglia, nucleo sociale basilare, dove il ruolo della donna non poteva essere che quello di moglie forte e madre prolifica, massaia sobria e attenta, dotata di un enorme spirito di sacrificio.
L’obbedienza era la prima, fondamentale e forse l’unica qualità che il fascismo chiedeva ai bimbi d’Italia.
Con la Legge del 31 dicembre 1934 si introducevano la pratica e la cultura militare nella scuola (obbligatorie per i ragazzi dagli 8 ai 21 anni) realizzando pienamente la formula fascista "Libro e moschetto fascista perfetto".
Nel motto dato ai giovani, libro e moschetto, il libro si riduceva ogni anno più a un corpo chiuso di poche cognizioni ufficialmente accettate, a un catechismo, a un decalogo; e il moschetto legittimava l'ignoranza, il disprezzo di ogni ulteriore aspirazione alla cultura, la prepotenza, una tracotanza spavalda che, come si vide poi, era tutto il contrario del coraggio. Riluttanza ad apprendere, riluttanza a pensare; visto che l'articolo primo del decalogo del perfetto fascista assegnava il pensare e il decidere per tutti al solo capo, con quel lemma: «Il duce ha sempre ragione». (Qualcuno, ricordando che Mussolini era stato maestro di scuola, disse fin dal 1930 che egli voleva fare dell'Italia una scolaresca modello come è descritta in una strofetta infantile: Silenzio perfetto, / chi tace un confetto, / chi dice parola / va fuori di scuola).
Nella seconda metà degli anni Trenta, con la conquista d’Etiopia e la fondazione dell’Impero, il tema bellico assumerà un’importanza sempre maggiore.
(Illustrazione di A. Bertiglia: serie guerra d’Etiopia e Impero)
Con la guerra d’Etiopia, e poi nel 1938 con la promulgazione delle leggi razziali contro gli ebrei, il fascismo mise in campo le teorie che proclamavano la superiorità della razza ariana nei confronti, in particolare, delle popolazioni dell’Africa Orientale e degli ebrei, cui, dal 1938, fu vietato l’accesso a tutte le scuole.
La paziente, quotidiana, intensiva opera di propaganda nelle scuole e nella vita pubblica diede i suoi frutti. I ragazzi espressero i loro sentimenti di adesione nei compiti in classe, nei temi, nei diari.
In particolare, dall’analisi del Testo unico di Stato risulta che:
- Fin dalla prima pagina, dedicata all'inizio della scuola, erano subito evidenti i temi ricorrenti del libro di testo: la religione, il Re Imperatore, il Duce; quest'ultimo con il suo sguardo "magnetico" era paragonato ad "un'aquila che apre le ali e sale nello spazio ... è una fiamma che cerca il vostro cuore per accendere di fuoco vermiglio". Gli argomenti erano improntati alla retorica di regime ed erano resi con un linguaggio magniloquente ed artificioso, tipico dello stile di comunicazione fascista.
- Nelle letture, su 219 pagine ben 64 (29,2%) erano dedicate all'apologia del fascismo. Mussolini occupava il primo posto, il culto della sua persona raggiungeva livelli di fanatismo, tanto che l'autore scriveva: "Anche noi possiamo rivelarvi tutta la nostra legge e tutta la nostra fede di fascisti, in un istante. Basta una parola sola: Duce!" Seguivano poi la cronaca, le storie, le cerimonie ed i riti, le organizzazioni giovanili, le realizzazioni e le opere pubbliche, insomma tutto lo stile di vita del fascista perfetto.
- Un'altra importante parte del libro era riservata ad argomenti religiosi, che con 37 pagine (16,8%) tenevano il secondo posto: si trattava di una religione sempre in sintonia con lo Stato e con il partito, conforme allo spirito ed al dettato del Concordato tra Chiesa e Stato fascista.
- C'erano quindi i 26 fogli (11,8%) riservati all'esaltazione della grande guerra, che proponevano, attraverso gli eroi ardimentosi, quell'interpretazione mitico-risorgimentale del conflitto.
- Un altro settore considerevole (22 pagine, il 10%) era dedicato all'impresa d'Etiopia, alle "gloriose gesta" dei nostri soldati contro "le orde del Negus", anche questo argomento serviva per magnificare "il grande valore degli italiani", guidati alla vittoria dal Duce. Leggermente distanziati (7 pagine, il 3%), ma sempre presenti anche nei racconti non espressamente dedicati a loro, erano i membri di casa Savoia, fra i quali risaltava ... "il più bell'ufficiale dell'esercito italiano".
- Concludendo, l'analisi quantitativa delle pagine del libro risulta che ben 156 fogli su 219 erano dedicati alla propaganda, diretta o indiretta, di regime con una percentuale del 71%. I restanti 63 fogli (28,7%) trattavano, in modo consueto, argomenti come le stagioni, poesiole (risparmio, frugalità, coraggio e tenacia nel sacrificio) e storie di animali.
Dal “Breviario del maestro”:
Aritmetica
Prodotti di più fattori
Quanti balilla sono 8 colonne di balilla, ciascuna di 30 sestiglie? (6 x 30 x 8)
Problemi
Diciotto Balilla partecipano ad una gita: se tutti pagassero, la quota di ciascuno sarebbe di L. 17.50. Siccome pagano soltanto 15 balilla, quanto paga ciascuno di essi?
S.: L. (17,5 x 18) = L. 315 (spesa totale)
L. (315 : 15) = L. 21 (spesa unitaria)
R. Ciascuno di essi paga L. 21
Quattro balilla stanno giocando con le biglie. Il primo di essi ne ha 28; il secondo il doppio del primo; il terzo quanto il primo ed il secondo insieme; il quarto la metà terzo. Quante biglie hanno insieme?
S.:
I balilla biglie 28
II balilla biglie 28 x 2 56
III balilla biglie 28 + 56 84
IV balilla biglie 84: 2 42
biglie (28+ 56+84+42) = biglie 210
R. Quei quattro balilla hanno insieme 210 biglie.
da pagina 318 del libro di III elementare: "... per la santa impresa di sgominare i senzapatria era necessario un capo ... il salvatore ..."
Gioco dell’Oca guerra d’Etiopia
Storia: da pagina 327 del libro di III elementare
"Gli eroi …. della Rivoluzione Fascista hanno fatto la Patria libera, unita, prospera e forte. Spetta ora a voi crescere sani di mente e di corpo per continuarne l'opera, in modo che l'Italia sia, ancora una volta, splendido faro di civiltà; pronti, come i vostri padri ed i vostri avi, se la Patria chiamasse, a balzare alle armi, ed a cadere serenamente, se la sua salvezza e la sua grandezza esigesse da voi il sacrificio supremo."
Nonostante tutto, quell’imponente complesso creato per preparare i ragazzi al futuro combattimento si sfasciò. La scuola fascista fallì. L’educazione guerriera - con i manuali "manipolati", le adunate, le marce, gli inni, i canti rivoluzionari - non lasciò traccia sulla crescita morale di buona parte della gioventù di allora.
Purtroppo ci fu chi, con la guerra, finì in Russia, in Albania, in Cireneaica, in Somalia, in Tunisia. Molti non fecero più ritorno. E sotto quella "cappa nera" che aveva soffocato il libero pensiero si formarono gli uomini che alla fine del ventennio avrebbero guidato la democrazia.
"Esaminando ciò che il fascismo ha fatto sui banchi di scuola – ha scritto Ricciotti Lazzero nell’introduzione al libro "A scuola col duce", - si possono trarre gli elementi per capire e giudicare qualunque ideologia totalitaria nata o che nasca intorno a noi."
a Lissone una mostra sulla scuola primaria durante il regime fascista
Dal 25 luglio all’8 settembre 1943
Nei 45 giorni che vanno dal 25 luglio, caduta del fascismo e nomina di Badoglio a capo del governo, all’8 settembre 1943, armistizio con gli Alleati, tutto è nelle mani del Re e di Badoglio. L'obiettivo che monarchia e governo perseguono non ha nulla in comune con le speranze degli antifascisti: la monarchia scartava la possibilità della formazione di un governo nel quale fossero inclusi i democratici - che avrebbe significato la rottura immediata dell'alleanza con la Germania e la richiesta di un armistizio agli Alleati - preferendo trasformare la dittatura fascista in dittatura militare e continuare la guerra.
La sola ed esclusiva preoccupazione del re era che si verificasse una sollevazione di popolo, che avrebbe ostacolato il pacifico trapasso dei poteri dal governo fascista al governo militare di Badoglio e quindi messo in pericolo le sorti della corona. Avvenne perciò che alla folla in tripudio si rispose con lo stato di assedio. L'ordine venne mantenuto al prezzo di 83 morti, 308 feriti e 1554 arrestati, per la quasi totalità operai scioperanti e dimostranti.
Ma per rendersi conto di che significasse lo stato d'assedio e delle ben più gravi conseguenze che ne sarebbero potute derivare, basterà leggere il seguente stralcio della circolare Roatta diramata a tutti i comandi militari: «Muovendo contro gruppi di individui che perturbino ordine aut non si attengano a prescrizioni autorità militare, si proceda in formazione di combattimento et si apra il fuoco a distanza anche con mortai et artiglieria senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche. Medesimo procedimento venga usato da reparti in posizione contro gruppi di individui avanzanti (...). Non è ammesso il tiro in aria; si tira sempre a colpire come in combattimento (...). Apertura immediata del fuoco contro automezzi che non si fermano all'intimazione; i caporioni e istigatori di disordini, riconosciuti come tali, siano senz'altro fucilati se presi sul fatto, altrimenti siano giudicati immediatamente dal Tribunale di Guerra sedente in veste di Tribunale straordinario».
La proclamazione dello stato d'assedio equivaleva a quello che nella terminologia militare viene detto il falso scopo. Si era infatti voluto giustificarla adducendo ad arte il pericolo di una reazione dei fascisti contro il nuovo governo. Lo scopo vero era di fronteggiare una temuta sollevazione popolare. La quale peraltro non era in quel momento minimamente ipotizzabile date le circostanze.
Certi comandi militari profittarono dello stato d'assedio per reprimere spontanee e legittime manifestazioni di gruppi politici. L'atteggiamento chiaramente repubblicano assunto da partiti e da uomini eminenti spaventò i circoli monarchici che consigliarono cautela, repressioni, reazione, Badoglio ricevette dal sovrano un promemoria, in cui questi timori sono riecheggiati: «L'attuale governo deve conservare e mantenere in ogni sua manifestazione il proprio carattere di governo militare come annunciato nel proclama del 26 luglio [...] deve essere lasciato a un secondo tempo e a una successiva formazione di governo l'affrontare i problemi politici [...] l'eliminazione presa come massima di tutti gli ex appartenenti al partito fascista da ogni attività pubblica deve quindi recisamente cessare [...] la sola revisione delle singole posizioni deve essere attentamente curata per allontanare e colpire gli indegni e i colpevoli [...] a nessun partito deve essere consentito né tollerato l'organizzarsi palesemente [...] le commissioni costituite in misura eccessiva presso i ministeri sono state sfavorevolmente accolte dalla parte sana del Paese; tutti, all'esterno e all'interno, possono essere indotti a credere che ogni ramo delle pubbliche amministrazioni sia ormai inquinato [...] ove il sistema iniziato perdurasse si arriverebbe all'assurdo di implicitamente giudicare e condannare l'opera stessa del re [...] la stessa massa onesta degli ex appartenenti al partito fascista, di colpo eliminata senza specifici demeriti, sarà facilmente indotta a trasferire nei partiti estremisti la propria tecnica organizzativa, venendo così ad aumentare le future difficoltà di ogni governo d'ordine; la maggioranza di essa, che si vede abbandonata dal re, perseguitata dal governo, mal giudicata e offesa dall'esigua minoranza dei vecchi partiti che per venti anni ha supinamente accettato ogni posizione di ripiego, mimetizzando le proprie tendenze politiche, tra non molto ricomparirà in difesa della borghesia per affrontare il comunismo, ma questa volta sarà decisamente orientata a sinistra e contraria alla monarchia ... ».
Quando si parlò al consiglio dei ministri di mandar via i prefetti troppo compromessi con il fascismo, Fornaciari, ministro degli Interni, non seppe proporre che tre o quattro nomi. Alla Cultura Popolare il ministro Rocco aveva conservati al loro posto tutti i capi servizio; si che la censura preventiva sulla stampa, istituita dal governo militare per motivi di guerra e di ordine pubblico, era fatta con criteri reazionari; era vietato occuparsi delle responsabilità del fascismo, impedito qualsiasi accenno alle persone che nel fascismo avessero rappresentato una parte qualsiasi; la censura vietò persino che si desse notizia della scomparsa di Ciano da casa sua. I giornali uscivano con grandi finestre bianche nel testo degli articoli di fondo e nelle colonne delle informazioni: ché la censura si faceva all'ultimo momento, sui bozzoni dell'impaginato.
I gerarchi fascisti furono per la maggior parte lasciati liberi. La Milizia fu sciolta, ma incorporata nell'Esercito; gli squadristi , invece di essere arrestati o sorvegliati, furono arruolati proprio in quelle formazioni che più avevano bisogno di essere sottratte a ogni influsso fascista che ne minava la compattezza.
Fu emanato un ordine perché i podestà fascisti rimanessero ai loro posti, così che a Roma, ad esempio, una commissione democratica di ingenui cittadini che si era recata in Campidoglio per chiedere la rimozione del governatore di nomina fascista fu arrestata e tradotta a Regina Coeli.
L'amnistia ai detenuti politici furono sì ottenuti per l'intervento energico del Comitato delle opposizioni di cui facevano parte Buozzi, Bonomi, De Gasperi, Ruini, Salvatorelli, Amendola.
L'amnistia per i detenuti fu emanata, ma ne furono praticamente esclusi, sulle prime, i comunisti, molti dei quali, anche quando l'assurda parzialità - che colpiva il
90% dei detenuti e l'80% dei confinati politici - fu potuta rimuovere, poterono uscire solo in agosto e spesso anche solo ai primi di settembre.
Scrive Luigi Longo nel suo libro “Un popolo alla macchia”: «Leo Lanfranco, l'uomo che nel marzo aveva diretto il primo grande sciopero della Fiat (verrà fucilato dai tedeschi nel 1945 perché comandante di una divisione partigiana), fu arrestato da Badoglio in agosto. Quarantasette antifascisti napoletani, rei di aver tenuto una riunione pubblica, furono arrestati nello stesso mese, e un mese più tardi scamparono per miracolo al massacro che i tedeschi, prima di sgombrare la città, avevano deciso di effettuare. Emilio Sereni una delle figure più notevoli della Resistenza reduce da anni e anni di carcere, di confino e dal “maquis” francese fu processato in regime badogliano, insieme a molti altri suoi compagni di lotta. Di questi, alcuni furono anche condannati a morte, e sottratti alla esecuzione solo nella confusione dell’8 settembre. Sereni stesso, e altri condannati a decine di anni di reclusione, poterono essere liberati dai partigiani soltanto un anno dopo, strappati dalle mani dei teschi e dei repubblichini. Noi di Ventotene fummo tra gli ultimi ad essere liberati; per lunghi giorni i compagni temettero seriamente per la nostra sorte, essendo l'isola sottoposta a pericoli di bombardamento e scarseggiando i mezzi di trasporto necessari per ricondurci in continente».
Ogni giorno i giornali annunciavano con grandi titoli ed elogianti commenti, i provvedimenti adottati dal governo Badoglio: lo scioglimento del partito; la soppressione del Gran Consiglio e del tribunale speciale; la soppressione della GIL (Gioventù Italiana del Littorio) con i Balilla e i Figli della Lupa; il sequestro del patrimonio degli ex gerarchi e la nomina di una commissione di magistrati per esaminare l'origine dell' arricchimento di gerarchi e di alti funzionari; la soppressione delle corporazioni, con la nomina a commissario della disciolta federazione dell'industria di Bruno Buozzi, ex segretario della federazione degli operai metallurgici, liberato dal confino, e la nomina a vicecommissario Giovanni Roveda, già organizzatore della Camera del lavoro di Torino; l'abrogazione delle leggi sul celibato; la soppressione del libro di stato per le scuole; il ripristino dei ginnasi-licei; l'abolizione del saluto romano nell'esercito; la soppressione del fascio littorio sui biglietti di banca; lo sbattezzamento della corazzata Littorio che diventava Italia, dei cacciatorpediniere Camicia Nera e Squadrista che diventavano Artigliere e Corsaro. Intanto nuove restrizioni della libertà venivano messe in atto, come il coprifuoco istituito per la prima volta a memoria d'uomo.
I partiti nel loro insieme non erano pronti ad assumere un ruolo politico di rilievo, lo assumeranno solo dopo l' 8 settembre.
Nel mese di giugno, a Milano, si erano tenute due riunioni fra i rappresentanti del Partito d'azione, del partito comunista, del partito socialista, del Movimento di unità proletaria, della Ricostruzione liberale e della Democrazia cristiana. Un progetto di appello al paese non fu approvato per la pregiudiziale repubblicana del Partito d'azione e perché i rappresentanti liberali e cattolici non approvarono l'invito alla lotta immediata. Era chiaro, però, che bisognava innanzi tutto rafforzare l'unità e la compattezza d’intenti del fronte antifascista.
Tra la gente, nel volgere di pochi giorni tornò la coscienza della paurosa condizione del Paese; la Sicilia pressoché perduta, e centinaia di migliaia di suoi abitanti profughi, ignudi, desolati; sul continente l'offensiva avversaria sempre più pesante e risoluta e i tedeschi sempre più prepotenti in casa, più padroni che alleati; l'impossibilità di continuare la guerra, l'impossibilità di smetterla; le campagne devastate, parte dei raccolti perduti; sospeso l’arrivo del grano dalla Romania, cessato l'arrivo del carbone dalla Germania, cessato l'arrivo del petrolio, perché i tedeschi così volevano punirci del colpo di Stato, e tenerci alla loro mercè.
Un'offensiva aerea scatenata dagli gli angloamericani superò per terribilità, per danni, per violenza ogni altra precedente.
Per tutto il mese di agosto, per tutta la prima settimana di settembre, fino a cinque ore prima della proclamazione dell'armistizio, attacchi dall'aria si abbatterono sulle illustri città nostre, non ci fu giorno che non giungesse il grido di dolore da una o più di esse, da Napoli o da Torino da Salerno o da Novara, da Cagliari, da Genova, da Milano: da Roma, da Viterbo, da Benevento, da Grosseto, da Foggia, da Taranto, da Bologna, da Terni, da Civitavecchia, da Orte, da Pisa, da Pescara, da Ancona, da Trento da Bolzano, da Capua, da Rimini, da Terracina, da Formia, da Cosenza, da Sulmona, da Catanzaro, da Frascati.
Il 3 settembre anche la Calabria è invasa, Corrado Alvaro scrive sul «Popolo di Roma» una pagina commossa per la sua terra divenuta prima linea del fronte di guerra. «Battuta secolarmente dai terremoti e dalle alluvioni distrutta e ricostruita almeno una volta ogni secolo, conosce ora la più grande rovina, quella che non ne colpisce solamante le abitazioni costruite Dio sa con quanta pena, vissute Dio sa con quante lacrime, traversie, emigrazioni, lontananze, rimpianti, ritorni, ma distrugge la terra stessa, quella che porta il pane e i frutti e l'olio e il vino, gli alimenti di questo popolo sobrio, silenzioso alla pena, che ama disperatamente la sua vita amara».
Le classi operaie volevano la pace, si capisce, e al più presto possibile, la chiedevano per prima cosa, non volevano più costruire armi e strumenti per una guerra odiata, per un alleato ripudiato, anzi rinnegato fino dal primo giorno (comparvero scritte cubitali sui muri di Trastevere: «Vogliamo la pace, via i tedeschi dall'Italia! A morte i tedeschi e i fascisti»): ma si rendevano conto come fosse minacciosa la faccia delle cose nel nostro paese povero, senza scorte, con i tedeschi in casa. Ahimè, non potevano immaginare che attraverso tanti errori e tante calamità si sarebbe arrivati a un armistizio che volle dire soltanto inizio di nuove tribolazioni. Né che l'esercito si sarebbe dissolto; e gli operai avrebbero avuto l'angosciosa esperienza - come quelli delle fabbriche di Milano accorsi in tuta ai comandi militari a chiedere armi, a chiedere di combattere, a chiedere che la città fosse difesa dai tedeschi - di vedersi negata anche la possibilità di correre alle barricate.
Bibliografia:
Luigi Longo - Un popolo alla macchia - Editori Riuniti 1965
Giovanni Battista Stucchi - Tornim a baita, dalla campagna di Russia alla Repubblica dell'Ossola - Vangelista Editore, 1983
Paolo Monelli - Roma 1943 – Einaudi 1993
Caratteri del fascismo
Alla voce Fascismo, dell'Enciclopedia italiana (più nota come Enciclopedia Treccani), la monumentale opera diretta dal filosofo Giovanni Gentile, il più autorevole intellettuale fascista, voce redatta dallo stesso Mussolini insieme a Gentile (1875 – 1944, ricoprì per due anni la carica di ministro dell’Istruzione del governo Mussolini), si dice:
Antiindividualistica, la concezione fascista è per lo Stato: ed è per l'individuo in quanto esso coincide con lo Stato [...]. È contro il liberalismo classico [...] Il liberalismo negava lo Stato nell'interesse dell'individuo particolare; il fascismo riafferma lo Stato come la realtà vera dell'individuo. E se la libertà deve essere l'attributo dell'uomo reale, e non di quell'astratto fantoccio a cui pensava il liberalismo individualistico, il fascismo è per la libertà. È per la sola libertà che possa essere una cosa seria, la libertà dello Stato e dell'individuo nello Stato. Giacché, per il fascista, tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tantomeno ha valore, fuori dello Stato. In tal senso il fascismo è totalitario [...].
Si vede bene che l'ideologia fascista va ben oltre la critica dell'individualismo negatore e sopraffattore degli interessi collettivi.
Qui viene negata alla radice l'idea stessa che l'individuo, come tale, abbia dei diritti indipendenti dalla sua appartenenza allo Stato. L'individuo è letteralmente fagocitato dallo Stato. Se, come afferma Gentile, non c'è altra libertà che nello Stato, ben si capisce come il fascismo abbia potuto incarcerare tutti gli oppositori politici o mettere fuori legge i partiti di opposizione, in nome, appunto, di un presunto bene dello Stato, da far valere anche contro quegli astratti fantocci che sono gli individui.
Un altro passo della voce Fascismo, ne mette bene in luce il carattere antisocialista:
Né individui fuori dallo Stato, né gruppi (partiti politici, associazioni, sindacati, classi). Perciò il fascismo è contro il socialismo che irrigidisce il movimento storico nella lotta di classe e ignora l'unità statale che le classi fonde in una sola realtà economica e morale [...].
In questo passo, Gentile contesta proprio questo fatto: che il socialismo ha il torto di irrigidire il movimento storico nella lotta di classe. L'errore dei socialisti è di non vedere il ruolo dello Stato: è vero che nella società, nel mondo economico, nelle fabbriche, c'è un contrasto tra classi, ma questa conflittualità è superata nello Stato. In altri termini, lo Stato sa individuare e realizzare il bene comune, al di là degli egoistici interessi di classe: è questa, per Gentile, l'unità statale che fonde le classi. Mentre per i socialisti lo Stato è l'espressione degli interessi della classe dominante, come si vede tra l'altro dal costante tentativo di impedire il suffragio universale e di limitare il diritto di voto in base al censo, per Gentile lo Stato è l'incarnazione dell'unità delle classi. Non è né borghese, né proletario, ma, appunto, nazionale.
Il 24 giugno 1943 il filosofo Giovanni Gentile pronunciò dal Campidoglio un discorso, trasmesso contemporaneamente dalla radio.
Agli sbigottiti cittadini di Roma, agli italiani che lo ascoltano alla radio il filosofo esalta il fascismo come teoria e prassi politica e dichiara che «nel corporativismo è l'avvenire» mentre per gli ascoltatori fascismo vuol dire ormai soltanto guerra, disordine, fame, arbitri, prepotenze. Celebra il carattere immortale dell'Italia, la solita Italia con Roma educatrice di barbari, con Roma cattolica, con Roma «elaboratrice e propagatrice mirabile dell'Evangelo», con Roma del rinascimento, capitale di quel regnum hominis che è il mondo moderno; ma il cittadino si domanda come si concilia questa anima immortale con l'alleanza ai tedeschi negatori del diritto di Roma, negatori del cattolicesimo, negatori della uguaglianza fra gli uomini, persecutori e massacratori in nome di barbare teorie di razza. E concludeva il filosofo che «il popolo è tutto un esercito» e invitava ad aver fede nella vittoria; quella fede che muove le montagne; ma proprio questa fede il popolo non poteva aver più per i cento segni del disordine e dell'impotenza.
Le concrete conseguenze politiche della dottrina fascista.
Se anche la classe, come l'individuo, è fagocitata dallo Stato e in esso annullata, ben si capisce, per esempio, la messa fuori legge di tutti i sindacati a eccezione di quelli fascisti. I sindacati, la CGL (Confederazione generale del Lavoro) e la CIL (Confederazione italiana dei lavoratori), in quanto organizzazioni di classe, non apparivano al fascismo come una legittima forma di organizzazione degli interessi, dei bisogni e dei diritti dei lavoratori, ma come una minaccia all'unità nazionale dello Stato.
1920: fascisti devastano la sede del giornale IL PAESE
principali provvedimenti legislativi adottati dal fascismo
Lo Statuto albertino, nato nel 1848 come Costituzione del regno di Sardegna, divenne nel 1861 la prima Costituzione dell’Italia unita.
Lo Statuto albertino era una costituzione flessibile, cioè poteva essere modificato attraverso delle semplici leggi ordinarie, secondo le esigenze politiche del sovrano e della maggioranza di governo. Proprio questa flessibilità permise ai fascisti di cancellare i diritti previsti dallo Statuto lasciandolo formalmente immutato.
Per comprendere lo svuotamento dello Statuto, è importante ricordare i principali provvedimenti legislativi adottati dal fascismo.
Fine dell’autonomia del Parlamento
Le leggi del 24 dicembre 1925 e del 31 gennaio 1926 sottrassero praticamente il potere legislativo al Parlamento, attribuendolo al potere esecutivo, cioè al capo del Governo (nuova e significativa designazione del presidente del Consiglio): nessuna legge poteva neppure essere presentata in Parlamento senza la preventiva approvazione del Duce. In questo modo il Parlamento veniva privato anche del cosiddetto potere di iniziativa legislativa, cioè della possibilità di presentare dei disegni di legge.
Fine delle autonomie locali
La legge del 4 febbraio 1926 soppresse il sistema elettivo per le amministrazioni comunali e provinciali. I sindaci democraticamente eletti dal popolo furono sostituiti dai podestà nominati dal Governo.
Fine della libertà politica e sindacale
Nel 1926 furono sciolti tutti i partiti ad eccezione di quello fascista (Partito Nazionale Fascista); nel medesimo anno venne proibito per legge lo sciopero e gli unici sindacati legalmente riconosciuti divennero quelli fascisti, controllati dal Governo e da Mussolini.
Fine della libertà di stampa
La stampa venne "fascistizzata": i giornali di opposizione furono soppressi o cambiarono di proprietà, adeguandosi alle direttive fasciste. In pratica, venne abolita qualunque libertà di critica.
Fine delle libertà personali
La legge del 25 novembre '1926 reintrodusse la pena di morte per i reati contro la sicurezza dello Stato e istituì il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, un formidabile strumento di repressione del dissenso politico.
Come ci ricorda Emilio Gentile (Fascismo, Storia e interpretazione, Bari, Laterza, 2002), tra il1918 e il 1943, il Tribunale speciale giudicò 5.319 imputati di cui 5155 furono condannati per un totale di 27.735 anni di prigione, fra cui 7 condanne all'ergastolo. Circa 15 mila italiani fra il 1926 e il 1943, furono inviati al "confino", in paesi lontani dalla loro abituale abitazione.
Fine del diritto di voto
La legge del 17 maggio 1928 stravolse di fatto il sistema parlamentare e il diritto di voto venne trasformato in una vera e propria farsa. Fu infatti attribuito alle autorità fasciste, precisamente al Gran Consiglio del fascismo il compito di predisporre la lista dei candidati alle elezioni della Camera. Gli elettori potevano soltanto approvarla o respingerla in blocco. Tra l'altro il voto non era segreto, in quanto la scheda del sì era tricolore, quella del no era bianca.
Il razzismo
Il 17 novembre 1938 furono approvate le leggi razziali.
Come dice Gentile:
“Dal 1938, l'Italia divenne ufficialmente uno Stato antisemita, gli ebrei italiani, circa 50 mila, furono discriminati e messi al bando dalle istituzioni statali, dalla scuola e dalla vita pubblica. Anche se l'antisemitismo fascista non produsse i risultati più orridi dell’antisemitismo nazista, la discriminazione fu comunque la premessa per una più spietata persecuzione, quale fu messa in pratica più tardi nella Repubblica sociale”.
Fine del parlamentarismo
Nel 1938 la Camera dei deputati fu soppressa e sostituita dalla Camera dei Fasci e delle Corporazioni, una Camera non elettiva, formata da membri fedeli del regime e incaricata soltanto di "collaborare" col Governo alla formazione delle leggi.
Queste misure avevano trasformato l'Italia liberale disegnata dallo Statuto albertino in un vero e proprio Stato totalitario: dittatura personale del Duce, partito unico, repressione poliziesca del dissenso politico, limitazione e cancellazione dei diritti civili, controllo totale e monopolistico dei mezzi di informazione utilizzati a scopo di propaganda, ne costituivano gli ingredienti fondamentali. Del resto, il carattere antiliberale e, naturalmente, antisocialista del fascismo fu rivendicato dai fascisti stessi.
Bibliografia:
Mauro Albera e Giovanni Missaglia - “Professione Cittadino” - Ed. Hoepli 2008