il fascismo
Roma durante il ventennio fascista (terza parte)
dalle pagine di “Con cuore di donna- Il Ventennio, la Resistenza a Roma, via Rasella: i ricordi di una protagonista” di Carla Capponi.
Roma: inverno e primavera 1944
Il popolo italiano aveva sulle spalle vent'anni di silenzio politico: un'intera generazione era cresciuta nell'assoluta ignoranza di qualsiasi forma di democrazia e di impegno politico e non era quindi pensabile che il popolo avesse la capacità di passare dalla totale inerzia politica a un' azione di lotta rivoluzionaria. I quattromilaseicento comunisti e gli oltre mille antifascisti, liberati dalle carceri nell'agosto del 1943, non erano in grado di riprendere in mano l'organizzazione di un'azione rivoluzionaria. Potevano solo riavviare o stimolare la presa di coscienza delle masse popolari che avevano manifestato il segno dello scontento e del rifiuto alla guerra.
25 gennaio 1944: la fuga di Pertini e Saragat dal carcere di Regina Coeli
Pertini, Saragat e gli altri erano stati sorpresi e arrestati in una riunione; portati a via Tasso, furono interrogati e trasferiti al braccio tedesco di Regina Coeli. Subito il PSIUP si mobilitò per studiare il modo di salvarli. A quel tempo era medico di Regina Coeli Alfredo Monaco, che occupava con la moglie, Marcella Ficca, l'appartamento messo a disposizione dei medici dalla direzione del carcere. Alfredo era già da tempo iscritto al Partito socialista ed era un convinto antifascista. Stabiliti i contatti con lui, i compagni Giuliano Vassalli e Filippo Lupis decisero di tentare di far trasferire il gruppo degli arrestati dal braccio tedesco al sesto braccio italiano.
Fu deciso di affidare a Marcella il collegamento tra il carcere e i compagni. Per parte loro, Giuliano Vassalli e Massimo Saverio Giannini agirono all'interno del palazzo di Giustizia grazie a un cancelliere collegato con la Resistenza. Così, Pertini e Saragat furono spostati dal terzo al sesto braccio, operazione determinante per la riuscita dell'impresa. Elementi della Questura centrale procurarono sette permessi di scarcerazione in facsimile, in bianco, e Marcella trovò il modo di contraffare il timbro. A quel tempo si usava ancora dimettere i carcerati direttamente dal carcere previa esibizione dei fogli di rilascio.
Per i due più importanti, Pertini e Saragat, si dovette far arrivare un ordine di immediata scarcerazione, in quanto per i politici, a conferma del foglio già compilato, occorreva un ordine diretto della Questura. Lupis e Luciano Ficca, fratello di Marcella infiltrato nelle PAI, effettuarono una falsa telefonata al direttore del carcere, nella quale Lupis, fingendosi questore, ordinava l'immediato rilascio dei sette nominativi: l'operazione fu portata a termine proprio mezz'ora prima che scadesse il coprifuoco.
A Roma molti vivevano in condizioni di vita intollerabili e crudeli. Erano militari sbandati, renitenti di leva che aspettavano nascosti la liberazione di Roma, pur di non andare al Nord con i fascisti, rischiando così la fucilazione; erano impiegati dello Stato che si erano rifiutati di trasferirsi al Nord con i ministeri. Le condizioni della loro clandestinità erano intollerabili, spesso costretti a nascondersi dietro intercapedini, in un armadio, in stanze occultate, dove restavano per ore in attesa che i loro ospiti li liberassero non appena fosse cessato l'allarme. Non dovevano fare rumore, obbligati a camminare in casa senza scarpe e a non affacciarsi mai alle finestre; dipendevano in tutto da chi li ospitava: parenti, amici, spesso sconosciuti che dopo l'otto settembre si erano volontariamente offerti di nasconderli, nell'illusione che gli Alleati sarebbero arrivati entro pochi giorni.
Ognuno pensava che da Cassino o da Anzio a Roma si potesse fare presto, e quando caddero le illusioni inizio la paura di non farcela. L'intolleranza a restare chiusi, il rischio sempre più reale di rastrellamenti effettuati perquisendo quartiere per quartiere e casa per casa diede luogo a rischiosi trasferimenti per nuovi nascondigli, mentre fame, freddo, malattie, gli abiti che si andavano logorando accrescevano il disagio e la paura. Per i bombardamenti la città perdeva la funzionalità dei servizi, e vivere nascosti diveniva sempre più difficile.
Roma, primavera 1944. Donne romane lavano la biancheria nelle fontane pubbliche, presso il Colosseo, per mancanza di acqua nelle case dopo i bombardamenti alleati
Lavarsi era un lusso permesso a pochi privilegiati nelle residenze dei quartieri occupati dai comandi tedeschi; spesso mancava l’acqua per bere, gli insetti infestavano anche le case della borghesia, la scabbia si era diffusa per Roma, e per infestarsi era sufficiente andare in autobus, aggrapparsi ai sostegni o appoggiarsi ai mancorrenti, dove altri avevano lasciato i loro acari. L'odore nauseante del farmaco era avvertito fra i viaggiatori, nei bagni pubblici e nelle file per la distribuzione dei generi razionati. Eravamo tutti magrissimi, pallidi, gli abiti cominciavano a caderci addosso, le scarpe avevano la suola già più volte rappezzata, ribattuta da chiodi, e c'era chi portava ancora in pieno inverno zoccoli di legno.
C'era però anche chi la mattina beveva il cappuccino con la brioche, chi spalmava il burro sul pane all'ora del tè chi beveva vini prelibati per accompagnare bistecche e arresti di selvaggina o di abbacchio. Riconoscevi subito chi intrallazzava con i fascisti e con i tedeschi: erano i soli che giravano ancora con le auto a gas, erano donne ben vestite che si recavano impellicciate agli spettacoli dell' opera per le truppe naziste. La città aveva due categorie di cittadini: una minoranza che se la intendeva con il nemico e gli altri, la maggioranza, che soffrivano, morivano, speravano nella liberazione.
Roma serviva come base ai nazisti ed era loro necessario che la popolazione non fosse ostile: qui avevano installato comandi, tribunali, carceri e case di tortura, cercando di fare della città una zona franca sotto la protezione del Vaticano. Gli Alleati, per colpire gli insediamenti nazisti, furono costretti a bombardamenti crudeli che causarono migliaia di morti fra la popolazione civile: nei nove mesi di occupazione Roma ne subì cinquantasei.
L’attentato di Via Rasella
Spiando da dietro le persiane, aveva notato che puntualmente, tra le quattordici e le quattordici e trenta, una colonna tedesca di circa centocinquanta uomini passava per via Due Macelli. Li aveva osservati attentamente, cercando di capire se erano soldati della Wehrmacht o SS, finché era riuscito a individuare in quel reparto un corpo speciale di SS, certamente con compiti di sostegno all' azione repressiva dei nazisti in città. In seguito, avremmo saputo trattarsi dell'undicesima compagnia del Polizeiregiment Bozen, aggregato alle ss di Kappler. La compagnia era composta di centocinquantasei uomini, di cui il più giovane aveva ventiquattro anni e il più vecchio quaranta. Tutti i soldati erano armati di fucile, di pistola Luger e di bombe a mano.
Dopo il successo di via Tomacelli, Giovanni pensò che si potesse attaccare quel reparto di SS e propose il progetto a Franco Calamandrei, Ernesto Borghese, Guglielmo Blasi e altri. Cominciarono a studiare un piano di attacco, ma l'idea del punto dove attaccare e del mezzo da usare maturò nel corso della preparazione, quando dell'impresa furono investiti entrambi i GAP, di Spartaco e di Cola, con undici uomini in azione e cinque di copertura e segnalazione. Dopo aver studiato bene ogni possibilità offerta dal percorso dei Bozen, fu deciso di scegliere via Rasella.
La carretta utilizzata per nascondere la bomba nell’attentato di Via Rasella
La strage delle Fosse Ardeatine
Alle undici e trenta del venticinque marzo, l'Agenzia Stefani emise un comunicato del Comando tedesco di Roma: "Nel pomeriggio del 23 marzo 1944, elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bombe contro una colonna tedesca di Polizia in transito per via Rasella. In seguito a questa imboscata, trentadue uomini della Polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da comunisti badogliani. Sono ancora in atto le indagini per chiarire fino a che punto questo criminoso fatto è da attribuirsi ad incitamento angloamericano. Il Comando tedesco è deciso a stroncare l' attività di questi banditi scellerati. Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato siano fucilati dieci criminali comunisti badogliani. Quest'ordine è già stato eseguito".
Per noi quell'ordine assassino era un crimine contro il quale occorreva mobilitarsi, attaccare con maggiore durezza e determinazione. L'annuncio "questo ordine è già stato eseguito" con cui terminava il breve comunicato, suonava come una sfida: non avevano scritto "La sentenza è già stata eseguita", perché nessun tribunale avrebbe sancito una condanna così efferata, contro ogni legge, contro ogni morale, contro ogni diritto umano.
Dopo la liberazione di Roma, quando si indagò su quella strage si scoprì che solo tre delle vittime erano state condannate a morte con sentenza; neppure il tribunale tedesco installato a via Lucullo aveva avuto il coraggio o la possibilità di emettere una sentenza che desse appoggio legale a quel massacro. Volevano farei intendere che al di sopra di tutte le leggi del diritto e della morale, c'erano gli "ordini" del comando nazista, il "Deutschland über alles", della razza ariana, destinata a dominare tutte le altre considerate inferiori e per le quali non c'era bisogno né di tribunale né di sentenze.
Avevano assassinato in fretta gli ostaggi, occultato i cadaveri e lasciato le famiglie senza notizie, così che ciascuna potesse sperare che i propri cari non fossero nel numero dei destinati alla morte e aspettassero fiduciose. Per questo non fecero indagini, non cercarono i partigiani, non usarono il mezzo del ricatto chiedendo la resa dei GAP. L'eccidio doveva consumarsi per vendetta, non per cercare giustizia.
Volevano nascondere un altro crimine, l'avere ucciso quindici persone oltre i trecentoventi dichiarati, come scoprimmo quando, liberata Roma, furono riesumate le salme: trecentotrentacinque. I tedeschi uccisi erano stati trentadue, uno dei settanta feriti era morto durante la notte a seguito delle ferite: Kappler decise di sua iniziativa di aggiungere dieci vittime a quelle già predestinate e, nella fretta di dare immediata esecuzione all'eccidio, ne prelevarono dal carcere quindici, cinque in più della vile proporzione tra caduti tedeschi e prigionieri da assassinare, quindici in più di quelli autorizzati dal comando di Kesserling. Dell'" errore" si rese conto Priebke mentre svolgeva l'incarico di "spuntare" le vittime prima dell'esecuzione, rilevandole da un elenco all'ingresso delle cave Ardeatine, luogo prescelto per l'esecuzione e l'occultamento dei cadaveri. Lui stesso e Kappler decisero di assassinare anche quei cinque, rei di essere testimoni scomodi della strage.
Bibliografia:
Carla Capponi “Con cuore di donna- Il Ventennio, la Resistenza a Roma, via Rasella: i ricordi di una protagonista- Il Saggiatore Milano 2009
Le stragi nazifasciste (da luglio 1943 ad aprile 1945)
Italia: dal luglio 1943 ad aprile 1945 sono circa 9.500 le persone perite in stragi nazifasciste, prive di una effettiva pericolosità militare e quasi tutte immuni da colpe effettive.
Civili inermi e abbandonati
Le vicende della popolazione civile con i suoi travagli e la sua esposizione sul fronte di guerra, hanno inizio ancor prima dell'occupazione nazifascista e contribuiscono a segnare quelle svolte e a preparare quelle reazioni che trovano espressione compiuta nei giorni dell'insurrezione. Nella guerra totale, senza fronti delimitati, la popolazione civile è inconsapevolmentc collocata in una scomoda prima linea alla quale non è prepara ta né materialmente né psicologicamente. I civili non soggetti alla ferma militare (in larga maggioranza si tratta di donne, ragazzi, bambini, anziani), sono quasi sempre impreparati ad una qualsiasi prospettiva di morte sia subita che recata e raramente possiedono armi per difendersi (sempre che siano disposti a usarle). Il militare che combatte vede un fine nella morte del nemico ed è educato a credere che ci sia uno scopo anche nella propria morte; il civile è del tutto estraneo a quest'ordine di idee e vive la morte delle persone care nelle chiavi dell'inutilità e dell'inesplicabilità che portano ad amplificare il sentimento di dolore.
Nel corso di cinque anni di guerra, anche per le donne e gli anziani, la prospettiva della morte è cambiata; si fa l'abitudine alla vista dei corpi senza vita, ma non muta quel sentimento di rabbioso dolore.(che rimanda alla vacuità della morte di un civile cagionata da militari) di fronte alla morte vio. lenta dei propri familiari. Per questo straripamento indistinto dei confini del fronte, sui caduti della seconda guerra mondiale scompare quella particolare costruzione di eroismo, sacralità e perpetua giovinezza che aveva ac. compagnato le morti dei caduti nella Grande guerra. Il fronte totale e le morti dei civili, che per la prima volta, con la seconda guerra mondiale, superano quelle dei militari, fanno rimbalzare sulla sfera pubblica il peso e il rifiuto dei lutti che si protrae anche nei decenni a venire.Complessivamente, tra civili e militari, le vittime della seconda conflagrazione mondiale arrivano a sfiorare i 50 milioni.
La popolazione subisce la violenza indipendentemente dalle sue prese di posizione. Bombardamenti, uccisioni, deportazioni, eccidi sono parte di quella grande macchia sulla quale si è riversato il sangue delle popolazioni civili, italiane ed europee. Questi fenomeni, assieme all'esperienza dello sfollamento, marcano le vicende delle popolazioni civili (e militari) lasciando su queste un segno profondo. Apatia e distacco dal fascismo convivono in percorsi non scontati, passibili di ulteriori mutamenti; certamente i bombardamenti hanno il potere, per le concatenanti reazioni collettive che producono, di cambiare la maniera di esistere e di pensare. Il peso del conflitto sulla popolazione orienta le forze degli individui nella dimensione della sopravvivenza. L'incombenza del pericolo di morte può indurre a istintive reazioni di apatia verso le parti in lotta: «O tedeschi o inglesi per noi è lo stesso, purché finiscano presto questi tormenti, questo lento morire, questa continua ansia mortale».
I bombardamenti, le privazioni e i razionamenti rientrano ancora all'interno di una guerra convenzionale e di conquista. Chi bombarda ha una responsabilità, ma resta anonimo; i nazisti che deportano e uccidono esercitano una violenza diretta e per questo ancora più traumatica: si vedono in faccia, sono vicinissimi. È un destino che si abbatte senza. preavviso, si può uscire di casa e venire rastrellati per essere inviati in un lager perché «la deportazione risulta non un evento eccezionale ma possibile della guerra, un rischio diffuso». Durante il conflitto sono oltre 40.000 gli italiani deportati dopo l'8 settembre nei lager nazisti. Tra questi sono inclusi gli 8.566 cittadini deportati dall'Italia o dalle colonie perché ebrei. Su questi ultimi incombe un destino di morte: l'88% perde la vita nei lager. Alla massa dei deportati vanno aggiunti i circa 730.000 militari dell'esercito italiano internati dai tedeschi. Complessivamente, Fra militari e civili, si stimano in oltre 50.000 gli individui italiani scomparsi nella galassia concentrazionaria.
La soppressione del civile inerme ad opera del militare nazista (o nazifascista) configura la dimensione piu alta del livello di violenza inferto sulla popolazione. È caratteristica delle guerre moderne l'incapacità di controllare l'erogazione del potenziale bellico, tanto che il confine tra militari e civili tende sempre piu a sfumare, ma il civile colpito da un bombardamento può, in diverse circostanze, passare come un evento accidentale é occasionale mentre l'uccisione di un civile senz'armi, abbattuto viso a viso da un militare, assume, inequivocabilmente, i connotati di un intervento deliberato. Nei confronti delle popolazioni italiane i nazisti attuano la strategia deI terrore, capace di sconfinare rapidamente in ripetuti massacri. I nazisti, rispetto a quanto accade nell'Europa dell'Est, non compiono una metodica guerra di annientamento nei confronti dei civili, ciononostante alcune stragi - in primis quella di Marzabotto - ne richiamano i metodi e il risultato d'insieme dell' occupazione nazista è un lungo disseminarsi di eccidi avvenuti per le piu diverse (spesso anche incoerenti) ragioni. La prima strage nazista è compiuta a Castiglione di Sicilia il 12 agosto 1943 e colpisce la popolazione dell'alleato esercito italiano; un numero decisamente basso di eccidi matura per rappresaglia in risposta a un precedente attentato; tale è - ad esempio -la strage del 29 giugno 1944 avvenuta a Civitella in provincia d'Arezzo. Esiste un numero significativo di eccidi che pua essere collocato come ritirata aggressiva (è il casa di alcune stragi nell'Italia centrale e di diverse nell'aprile del 1945, tipico esempio quella di Grugliasco nel torinese del 30 aprile 1945). ln questo caso si assiste a rabbiosi sfoghi di violenza instillati da una coazione ad uccidere insita nell'indottrinamento nazista delle truppe. Ci sono stragi compiute contro i civili eseguite per «ripulire il territorio» dalle formazioni partigiane e da chi offre a queste aiuti e basi; è il caso dell'eccidio di Marzabotto (29 settembre-5 ottobre 1944), che, come altri massacri, non solo si è rivelato strategicamente inutile, ma è stato eseguito in maniera indiscriminata, al di fuori di ogni ragione bellica, come testimonia l'uccisione di 216 bambini, neonati inclusi. La propaganda nazifascista si muove per attribuire la responsabilità morale degli eccidi ai partigiani che vengono indicati come la causa del propagarsi della violenza contro i civili. ln questo modo la pratica della strage vuole essere lo strumento, allo stesso tempo brutale e sottile, per spingere la popolazione a mutare il suo atteggiamento di prevalente complicità con la Resistenza, in un nuovo atteggiamento di totale ostilità verso i partigiani.
Nella pratica della violenza attuata da nazisti e fascisti si scorgono importanti risvoIti psicologici connessi all'ideologia. Ad esempio: per lungo tempo c'è stato il mancato riconoscimento del nemico partigiano - visto solo nella veste di bandito - e ciò ha pradotto l'effetto distorto di vedere nella popolazione civile un potenziale nemico. ln questo modo si muove una contraddizione di fondo tra giustificazione, azione e fini nella condotta nazifascista, che vorrebbe dimostrare che senza partigiani non ci sarebbe violenza, non fosse che l'esecuzione di numerose stragi (tra le altre Castiglione di Sicilia, Bellona, Caiazzo e in larga misura quasi tutte quelle compiute al Sud) ha palesemente provato che l'eccidio prescinde dalla presenza partigiana. Ciò significa che gli stessi civili sono assoggettati al nemico a causa della frequente incapacità dell'esercito straniero e occupante di rapportarsi con la popolazione. Dentro a questo percorso, mentale e materiale, si coglie la ragione che alimenta la violenza nazifascista. Certamente ai nazisti e ai fascisti costa riconoscere il fronte partigiano, soprattutto per quello che i partigiani rappresentano: un'altra autorità, un'altra legittimità, altri valori.Ecco la ragione di fondo celata dietro l'ufficiale disprezzo dei militari di carriera per i gruppi irregolari partigiani che quasi mai si vedono, ma che comunque riescono a colpire. Gli attentati e i sabotaggi subiti sono opera di indistinti banditi, il nemico in quanto tale non esiste, ma cià crea la logica isterica del «nessun nemico tutti nemici» che convive con l'inclinazione all’ esecuzione indiscriminata e sistematica di una violenza che puà sfociare nell' eccidio. L'abitudine alla violenza finisce poi per sovrastare scopi e motivi, cosicché l'esplosione della violenza puà avvenire in modo gratuito e del tutto casuale. Alla negazione del nemico si aggiungono le precise disposizioni emanate, nel luglio 1944, dal comandante delle truppe tedesche in Italia Albert Kesselring che consentono il piu largo uso della violenza anche contro i civili, disposizioni comuni anche alla condotta di occupazione fascista in Jugoslavia e che seguono una pratica già in atto.
Monumento a ricordo della strage di Sant'Anna di Stazzema
Forse non è un caso che, nel corso del successivo mese di agosto, si compiano in Italia almeno 25 eccidi di significative proporzioni facendo entrare la violenza nazista nella sua fase piu intensa. La linea della guerra ai civili è sostenuta senza remore anche dal ministro degli Interni della Rsi Guido Buffarini Guidi il quale, in un rapporto inviato ai prefetti delle province piemontesi, scrive che «la popolazione civile nella sua più ampia maggioranza favorisce i banditi e quindi tutta può e deve pagare».
Le vittime degli eccidi
L'esperienza piu traumatizzante per chi vi ha assistito ed è sopravvissuto è senz'aItro quella degli eccidi, di solito attuati nelle pubbliche vie. Sono proprio i civili, in larghissima maggioranza, le vittime di eccidi, persone segnate dalla sventura di trovarsi, non volendolo, in pieno fronte e quasi sempre disarmati. Le donne, gli anziani e i bambini sono le categorie piu deboli; su di lora la violenza puà essere esercitata con minori rischi e su di loro infieriscono impietosamente i nazifascisti tant'è che quasi due terzi dei deceduti nelle stragi nazifasciste appartengono a queste categorie.
Esiste una fitta geografia di eccidi ed uccisioni (con esclusione degli scontri armati). A partire dagli episodi nei quali sono morte più di 7 persone, sono stati individuati in Italia oltre 400 casi di eccidi di civili e di partigiani, con una fitta concentrazione nel Centra-Nord della Penisola. Toscana ed Emilia Romagna sono le regioni che hanno avuto il maggior numero di località teatro di eccidi, eventi che si verifichino soprattutto in quei centri situati in prassimità della Linea Gotica. Il Sud, ad eccezione di alcune aree comprese tra il barese e il foggiano e tra.Napoli e Caserta, resta quasi immune da questa calamità. Nel Nord: Piemonte, Friuli, Istria, Veneto e in particolare nell'area vicentina, risultano tra le regioni piu colpite. Complessivamente sono state stimate in circa 10.000 le vittime civili di stragi e massacri, ma il loro numero - anche sulla base della tabella seguente che non include le numerose circostanz,e dove i caduti sono inferiori al numero di 7 -, deve ritenersi senz'altra superiore. La ricostruzione qui praposta e ancora incompleta delle principali stragi italiane, si è soffermata principalmente sugli eccidi contro i civili. ln diverse circostanze, a perire assieme alla popolazione ci sono anche i partigiani. Complessivamel'lte sono state censite 285 stragi che hanno colpito, 9903 persone. ln questo elenco sono state inserite soltanto alcune delle stragi piu note e sanguinose che hanno colpito i combattenti della Resistenza. Nel nostra computo la categoria di civili include senz'altra ebrei e religiosi mentre, in assenza di ulteriori specificazioni, appare difficile stabilire se le vittime rientrino tra i caduti civili o partigiani quando le fonti indicano denominazioni onnicomprensive come quelle di «detenuti antifascisti» o di «renitenti alla leva».
In base alle indicazioni disponibili, per scindere i ruoli delle persone perite, si può avanzare soltanto una stima approssimativa che include 244 caduti partigiani (cifra in netto difetto perché in numerose stragi di civili sono segnalati caduti partigiani senza che però ne sia riportato il numero), 50 militari (fra questi: forze dell'ordine, vigili urbani, circa 30 disertori tedeschi e 2 soldati alleati). Altro aspetto di non facile soluzione si incontra quando i caduti sono indicati come «patrioti», cioè fiancheggiatori del movimento di Resistenza. Nel caso dei detenuti antifascisti questi individui periscono disarmati di fronte al nemico e spesso, in analoga condizione, si trovano i renitenti alla leva. Si può arrivare a ritenere che possano essere circa 9.500 le persone, perite in queste stragi, prive di una effettiva pericolosità militare e quasi tutte immuni da colpe effettive.
da “La lunga liberazione” di Mirco Dondi - Editori Riuniti/l’Unità - aprile 2008
Roma, 25 luglio 1943
Il giornalista scrittore Paolo Monelli, nel suo libro Roma 1943, pubblicato per la prima volta nel 1945, narra “le cose viste e vissute”, gli avvenimenti a cui a preso parte in quell’anno tra i più drammatici della storia d’Italia.
Di seguito la cronaca di quel 25 luglio: una storia descritta mentre si svolge nelle vie della città di Roma.
I cittadini aprirono la radio alle 22,45 per il solito giornale radio di quell'ora e non udirono nulla. Insospettiti del silenzio, non girarono subito il bottone. E qualche minuto dopo si udì la voce degli appelli, delle esaltazioni, dei bollettini di guerra, quella che il popolo chiamava «voce Littoria» annunciare senza preambolo: «Sua Maestà il re e imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del governo, primo ministro segretario di. Stato, di sua eccellenza il cavaliere Benito Mussolini, e ha nominato capo del governo, primo ministro segretario di Stato il cavaliere maresciallo d'Italia Pietro Badoglio». Poi legge il proclama del re, con quell'ammonimento: «Nessuna deviazione deve essere tollerata, nessuna recriminazione può essere consentita»; e il proclama di Badoglio, con l'annuncio che la guerra continua, e peggio, con quelle parole: «L'Italia mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni», che offriranno argomento ai disleali tedeschi per accusarci di slealtà verso di loro. Null'altro. ... Una pausa, poi la voce dice, secca: «Fine della trasmissione».
E finalmente Roma si desta, capisce di che cosa si tratta. Il silenzio della notte estiva è subito rotto da canti, da grida, da clamori. Un gruppo uscito dal caffè Aragno risale il Tritone, urlando con pazza esplosione: «Cittadini sveglia, hanno arrestato Mussolini, a morte Mussolini, abbasso il fascismo », pare il grido d'un muto che riprenda la parola dopo vent'anni. Le finestre s'illuminano violentemente, si spalancano i portoni, le case si vuotano, tutti son fuori, ad abbracciarsi, a darsi l'uno all'altro la notizia, con quei gesti elementari ed esuberanti di chi si sente traboccare di commozione. Scalmanati si gettano su quelli che hanno il distintivo all'occhiello, glielo strappano, lo calpestano: «Via la cimice». Cittadini vanno ad acclamare al re in piazza del Quirinale, a Badoglio in via XX Settembre. Gruppi di giovani accorrono alle redazioni dei giornali, vogliono fare loro, stampare loro, invadono, strepitano. Davanti al «Messaggero» un generale dell'aviazione arringa la folla ma nessuno lo ascolta, ognuno grida e si agita per conto suo, mosso da un giubilo che gli rampolla dentro. Gente penetra negli uffici del giornale, compare urlando al balcone, butta sulla via un ritratto di Mussolini con la cornice e il vetro; altri corrono in tipografia, ... Sono strani tipi scamiciati, alcuni col petto nudo, o fasciato da una bandiera tricolore, vogliono spaccare tutto, si calmano solo quando alcuni scrittori e giornalisti che sono entrati con loro li assicurano che i fascisti sono già scappati. ... Si compone febbrilmente una pagina di giornale, un foglio volante che sarà gettato ai passanti e appiccicato alle cantonate, in dieci o dodici lavorano all'articolo di fondo, quegli scrittori, quei giornalisti, i redattori che in questo momento son tutti una sola anima e un solo pensiero, i cospiratori, gli intolleranti, i pavidi, quelli che distruggevano ogni giorno il regime al caffè e tornati in redazione mettevano ortodossi titoli e sottotitoli, o cercavano di contrabbandare antifascismo fra le righe di permessi articoli. ...
La sala della stampa a piazza San Silvestro è messa a sacco, si buttano dalle finestre nella strada, e vi si appicca il fuoco, scrivanie, collezioni di giornali, ritratti di Mussolini scaffali, telefoni. Fiammate si levano qua e là, circoli rionali a cui è stato dato l'assalto (si vide un signore lanciarsi all'attacco armato di lancia); cittadini presi da bellicoso furore vi penetrano dentro, s'impadroniscono delle armi si vede Leo Longanesi che va fieramente per via con un fucile a bracciarm.
Il giorno dopo la città è imbandierata, ha un'aria festiva leggera; la gente va sorridendo al lavoro, passano autocarri carichi di ragazzi e di scamiciati che sventolano enormi bandiere tricolori e vanno chissà dove; tedeschi sono bastonati ignari o distratti che erano usciti col distintivo o con la camicia nera sono aggrediti, malmenati. Si distruggono rapidamente insegne del fascismo, le più accessibili. Giungono fragori di spari da varie parti della città; la caserma della milizia in via Nazionale apre il fuoco contro reparti di truppa inviati per proteggerla; interviene un ufficiale del ministero della Guerra, i militi dichiarano che sparavano solo per paura di essere maltrattati, se le cose stanno altrimenti sono ben felici di andare a casa e mettersi in borghese. Si dà l'assalto alla casa di Volpi in via del Quirinale, si dà la caccia a qualche noto agitatore fascista; ma si saprà poi che mai ribaltamento politico e avvenuto con maggior calma, nessuno è stato ucciso, pochi sono stati i gesti di violenza, molti altri sono stati soltanto raccontati, e questo è bastato all'educato furore della folla. A gente che avevano morso il freno a lungo, e s'erano sentiti pochi e soli nella folla inerte o rassegnata, gli prudevano le mani e si guardavano attorno per far vendetta, per prendersi una soddisfazione; ma con chi prendersela, che non vedevano che visi raggianti della stessa felicità, non udivano che voci rauche per gli stessi evviva e abbasso; e i più infocati a far festa erano i più disciplinati di ieri, e le asole slabbrate delle giacchette rivelavano che c'era stato infilato per anni il distintivo? Bisognò averle fatte grosse, esser famigerato per antiche prepotenze per correre qualche rischio. Così era corsa la voce che fosse stato ucciso a tumulto di popolo il Pollastrini, che fu feroce squadrista vent'anni prima, si faceva il nome dell’uomo che aveva chiesto d'essere il primo a dargli una coltellata per vendicare il fratello; si apprenderà poi che è stato malmenato si, inseguito e bastonato e costretto a rifugiarsi dentro palazzo Braschi e assediato dalla turba tanto che s'attaccò al telefono invocando che la polizia venisse ad arrestarlo; ma resterà vivo e vegeto, riprenderà attività e ferocia dopo l'8 settembre, comanderà le squadre d'azione, sarà aguzzino e boia e assassino, di nuovo. Cinque minuti dopo che la radio ha parlato, il senatore Morgagni presidente dell'agenzia Stefani si uccide con un colpo di pistola, e lascia sulla scrivania un biglietto in cui è scritto: «Il duce ha dato le dimissioni. La mia vita è finita. Viva Mussolini». L'unico forse che ha fatto oggi i conti con la facile fortuna della sua vita, il solo fedele fino alla morte dei tanti che questa fedeltà si contentavano di cantare con voce di tuono nelle radunate («Duce, duce, / chi non saprà morir? / Duce, duce, / il giuramento chi mai rinnegherà?») Insomma proprio un colpo di Stato «senza spargimento di sangue» come il re voleva, come il re si raccomandava.
I giornali escono con articoli di fondo violenti; una prima edizione volante del «Messaggero», che aveva un articolo di fuoco, è sostituita da un'altra con parole più miti. Le strade del centro si colmano di folla eccitata, giubilante; si sente in giro il sollievo, quasi la vertigine di ritrovare uno stato di vita dimenticato, l'ingenua speranza che si inizi un tempo migliore, subito, con taumaturgica facilità. Gente prova a imprecare ad alta voce, a Mussolini, al fascismo, con la soddisfatta esperienza che non gli succede nulla. Così i passanti vanno come portati da una nuvola leggera; pochi partecipano agli improvvisati cortei che restano fatti di ragazzetti scamiciati con bandiere e randelli e di energici sudati comandanti che danno ordini da una motocicletta e ripartono subito a corsa sfrenata. Compaiono alle vetrine ritratti del re e di Badoglio. Ai finestrini degli autobus ci sono scritte di evviva, un filobus ha il cofano fasciato da un foglio su cui si legge: «È finita la pappatoria». Davanti al caffè Aragno vecchi signori dal viso bianco e dai capelli bianchi s'abbracciano; uno di essi addita ai passanti la vedova di Amendola, le si fa crocchio intorno. Oratori estemporanei concionano in piazza Colonna; uno celebra Tito Zaniboni e vuole che l'uditorio gli faccia un evviva, i ragazzi attorno non hanno le idee molto chiare e gridano invece «viva Amendola». Nei quartieri popolari il giubilo è spontaneo e semplice; pare una grande esplosiva festa de noantri nella quale tutti si sentono ugualmente attori e spettatori. Naturalmente c'è gente serrata casa, livida di paura; e altri che piangono sul mito distrutto; ma in generale quella esultanza di cittadini appare vera, di buona fede, quale che sia stato il loro contegno fino a ieri; è l'esultanza di chi si ritrova guarito da una lunga malattia e solo dall'alacrità del sangue capisce quanto era ammalato; è genuina l'ebbrezza di sentirsi libero anche in chi s'è acconciato fino adesso alla dittatura e non ne ha mai sentito il peso e aveva finito magari col trovarci il tornaconto. Ma soprattutto il rivolgimento avvenuto pare significhi una cosa sola, la fine della guerra; come, in che modo, nessuno se lo chiede; è vero che alla radio hanno detto «la guerra continua», ma si sa, bisogna darla ad intendere ai tedeschi; la guerra è finita, perché è la sua guerra, la guerra dell'uomo che se n'è ito, e non quella del popolo, anche se fino adesso per disciplina o per inerzia si è cercato di giustificarne la fatalità. ... Vedo ancora un autopullman rosso fiammante carico di suore in bianco e nero che mettevano facce ridenti ai finestrini e facevano dei gran gesti festivi alla gente; e quell'ornino pulito, sui quarant'anni, con una cravattina da impiegato, che sbucò nel Corso da una delle vie laterali trascinandosi dietro con una corda un busto del dittatore; e quando fu nel mezzo del Corso si fermò, si calò le brache e ...
È davvero la caduta dell'albero intarmolito, mangiato dalle termiti, che sembrava di così salde radici, di così vasta corona. Sul mezzogiorno escono i primi reparti di forza pubblica, e manifesti che invitano il popolo alla calma. Ma per dodici ore, pare per accorto disegno del capo della polizia Senise, il popolo abbandonato a se stesso ha dimostrato che il suo sentimento è un grande, un enorme, un pacifico sollievo; si è visto che nessuna reazione seria si è avuta dalle milizie fasciste, e dove sono andati i mille gerarchi che Galbiati (n.d.r. comandante della milizia fascista)doveva schierare attorno a palazzo Venezia, pronti alla morte? Si è visto, insomma, che il fascismo si è dissolto come nebbia.
Bibliografia:
Paolo Monelli – Roma 1943 – Einaudi 1993
Le imprese della X Mas
Un consigliere comunale di maggioranza di Lissone, che qualche tempo fa aveva proposto di intitolare una via della città a Giorgio Almirante (il suo suggerimento non ha avuto fortunatamente seguito), recentemente se n’è uscito con delle affermazioni nettamente contrastanti con la verità storica sulla Decima Mas.
Tra le varie «polizie» fasciste e i corpi speciali che la Repubblica di Salò aveva regalato al padrone nazista, spesso per i più bassi servizi, vi era la X Mas, i cui membri erano addestrati dai tedeschi con funzioni di repressione della Resistenza.
Corpo d'assalto della Marina militare al comando del principe Junio Valerio Borghese, la X Flottiglia Mas, a metà settembre 1943, negoziò con i tedeschi la prosecuzione della guerra contro gli anglo-americani, con divisa e bandiera italiana. Vennero costituiti dei battaglioni terrestri, poi trasformatisi nel reggimento San Marco. Il Corpo d'élite, bene armato e pagato, attirò nelle sue file numerosi volontari, lusingati dall'intensa campagna propagandistica con sfoggio di manifesti murali.
La Divisione fanteria di Marina X Mas, costituita formalmente a inizio maggio 1944, si dislocò in Piemonte con funzioni di repressione della Resistenza e in Friuli Venezia Giulia per il contenimento dell'offensiva dei partigiani slavi. La formazione contò circa 3500 uomini e dispose di un Servizio ausiliario femminile. Reparti della X Mas furono schierati ad Anzio (il battaglione Barbarigo, alle dipendenze della 175ma divisione tedesca) e nelle linee difensive sul fiume Senio, presso Alfonsine, in provincia di Ravenna, (il battaglione Lupo). L'utilizzo di gran lunga preponderante fu il controllo delle retrovie e la controguerriglia.
Il battaglione Lupo
Formato all’inizio del 1944 in seno alla X Mas, il battaglione Lupo venne addestrato in primavera dagli istruttori della «Hermann Goering». Il battesimo del fuoco avvenne contro i partigiani, in Toscana e sull'Appennino ligure-emiliano. Partecipò poi alla riconquista di Alba, “città presidiata” dai partigiani.
Negli ultimi mesi dell'anno il battaglione venne riorganizzato e rafforzato, per essere schierato a metà dicembre nella valle del Reno contro l'VIII Armata alleata che avanza verso Bologna. Trasferito a inizio marzo a Marostica (Vicenza), il reparto venne richiamato al fronte il 21 aprile e schierato sulla riva sinistra del Po, in provincia di Rovigo, per assicurare la ritirata delle colonne armate nazifasciste. Il battaglione Lupo cedette le armi a Padova il 29 aprile.
Furti e rapine, tra le "imprese" della Decima MAS
Il carattere chiaramente delinquenziale della Decima MAS impensierì perfino le autorità collaborazioniste, per il supplementare discredito che la turbolenta formazione attirava sul regime repubblichino.
In un "appunto per il Duce", il prefetto di Milano Mario Bassi scriveva: «Continuano con costante preoccupazione le azioni illegali commesse dagli appartenenti alla X Mas. Furti, rapine, provocazioni gravi, fermi, perquisizioni, contegni scorretti in pubblico, rappresentano quasi la caratteristica speciale di questi militari. Anche il 12 novembre 1944, tra l'altro, verso le ore 20, quattro di essi si sono presentati in un magazzino di stoffe: dopo aver immobilizzato il custode ne hanno asportato quattro colli per un ingente valore [...]. La cittadinanza, oltre ad essere allarmata per queste continue vessazioni, si domanda come costoro, che dovrebbero essere sottoposti ad una rigida disciplina militare, possano agire impunemente e senza alcuna possibilità di punizione [...]. Sarebbe consigliabile pertanto, che tutto il reparto, comando compreso, sia fatto allontanare da Milano".
Per richiamarlo all'ordine, furono inflitti al Borghese 30 giorni di "arresto in fortezza", per non aver saputo tenere la disciplina tra i suoi reparti.
Il commandante della X Mas, Junio Valerio Borghese, alla fine della guerra fu processato
Il processo iniziato a Roma l'8 febbraio 1948 portò a conoscenza dell'opinione pubblica alcuni dei servizi più significativi resi dalla "Decima MAS" agli invasori tedeschi. Nella sentenza di rinvio a giudizio le imputazioni erano, tra l'altro, di aver compiuto «continue e feroci azioni di rastrellamento di partigiani e di elementi antifascisti in genere, talvolta in stretta collaborazione con le forze armate germaniche, azioni che di solito si concludevano con la cattura, le sevizie particolarmente efferate, la deportazione e la uccisione degli arrestati, e tutto ciò sempre allo scopo di contribuire a rendere tranquille le retrovie del nemico, in modo che questi più agevolmente potesse contrastare il passo agli eserciti liberatori». Diversi gli episodi di violenza criminale addebitati alla formazione di Junio Valerio Borghese. Tra questi quelli di Valmozzola, con uccisione di dodici partigiani in combattimento ed esecuzione sommaria di altri otto partigiani catturati; di Crocetta del Montello, con uccisione di sei partigiani e sevizie efferate di altri arrestati; di Castelletto Ticino, con l'uccisione di cinque ostaggi; di Borgo Ticino, con l'uccisione di dodici ostaggi, oltre a «ingiustificate azioni di saccheggio ed asportazione violenta ed arbitraria di averi di ogni genere, ciò che il più delle volte si risolveva in un ingiusto profitto personale di chi partecipava a queste operazioni». Condannato a una pena più che mite, Borghese poté riprendere, dopo un breve soggiorno in carcere, le sue attività contro la Repubblica.
La scuola durante il Fascismo
Se non si conosce che cos’era il Fascismo, può essere difficile per i ragazzi di oggi, (che non solo non hanno vissuto sulla propria pelle la realtà della guerra, ma non hanno neanche la testimonianza diretta dei racconti dei genitori o dei nonni, come potevano avere i giovani della generazione precedente), comprendere il perché tanti italiani (intellettuali, studenti, lavoratori, militari, uomini politici) abbiano deciso di opporsi alla dittatura fascista, passando nelle fila della Resistenza e pagando, molti, con la vita questa loro scelta.
Le statistiche ci dicono che il 75% dei combattenti dell'esercito di Liberazione erano giovani, dai venti ai venticinque anni.
Che cosa succedeva in Italia nel marzo del 1925?
Ormai si è instaurato il regime fascista. La libertà di stampa subisce delle restrizioni. Arresti, processi ed aggressioni agli antifascisti proseguono per l'intero anno. Negli anni seguenti viene abolita la libertà di sciopero e viene istituito un Tribunale speciale (negli anni di funzionamento, dal 1926 al 1943, condannò 4671 antifascisti, 4030 dei quali comunisti, infliggendo 42 condanne a morte, tre ergastoli e 28115 anni di pena complessivi). Sono previste pene severe per la ricostituzione e per la partecipazione alle associazioni, organizzazioni e partiti sciolti dal fascismo.
Nel 1931, all’età di sei anni, Emilio e Mario iniziano le scuole elementari. È questa la scuola in cui si trovano ammessi.
“La scuola italiana in tutti i suoi gradi e i suoi insegnamenti si ispiri alle idealità del Fascismo, educhi la gioventù italiana a comprendere il Fascismo, a nobilitarsi nel Fascismo e a vivere nel clima storico creato dalla Rivoluzione Fascista”: questa era la direttiva di Mussolini cui si doveva obbedire.
Bambini lissonesi nel cortile della scuola Vittorio Veneto
Occorre ricordare che l'educazione paramilitare costituiva una parte fondamentale della pedagogia fascista. I bambini venivano iscritti a 4 anni ai "Figli della Lupa", da 8 a 14 anni ai "Balilla", da 14 a 18 agli "Avanguardisti", oltre i 18 anni alla "Gioventù Fascista". Parallelamente le formazioni femminili erano le “Piccole italiane” e le “Giovani italiane”.
Nelle immagini seguenti:
un "Figlio della Lupa", una squadra di piccoli "Balilla" in marcia e sull’attenti (alle scuole elementari Vittorio Veneto di Lissone) e “Piccole e Giovani italiane” (per le vie di Lissone. Sullo sfondo il campanile della chiesa SS. Pietro e Paolo)




Divise, marce, esercitazioni, disciplina erano gli strumenti per la formazione dell' ''italiano nuovo'' voluto da Mussolini.
L’Opera Nazionale Balilla (O.N.B) aveva il compito di curare l’educazione fisica e morale della gioventù italiana, "formare la coscienza e il pensiero di coloro che saranno i fascisti di domani".
La stragrande maggioranza dei bambini italiani era iscritta volente o nolente all’O.N.B. Dal 1° ottobre 1938 l’O.N.B, già trasformata in Gioventù Italiana del Littorio (G.I.L.), passò alle dirette dipendenze del Partito e con essa tutte le scuole.
Nelle scuole era previsto un solo testo per ciascuna delle prime due classi e due testi separati (libro di lettura e sussidiario) per le tre classi rimanenti. Con il Testo unico lo Stato poteva così esercitare un controllo diretto sull’insegnamento: il manuale scolastico si rivelava uno dei più validi strumenti di diffusione dell’ideologia fascista in numerose famiglie, dove forse entrava come unico libro.
La scuola diventa il più efficace strumento per l’organizzazione del consenso di massa. Ed è proprio la scuola elementare il primo e più importante gradino di un lungo processo di irreggimentazione e indottrinamento il cui obiettivo primario era quello di costruire futuri soldati, uomini ciecamente pronti a "credere, obbedire e combattere". In che modo ciò si realizza? Mediante l’istituzione dell’Opera Nazionale Balilla (O.N.B).
febbraio 1929: i maestri elementari sono obbligati al giuramento.
“Giuro che sarò fedele al Re ed ai suoi Reali successori; che osserverò lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato; che non appartengo e non apparterrò ad associazioni o partiti;- che adempirò ai doveri stessi con diligenza e con zelo, ispirando la mia azione al fine di educare i fanciulli affidatimi al della Patria ed all'ossequio alle istituzioni dello Stato”.
L’operazione avviene senza alcuna resistenza. Due anni più tardi il giuramento sarà imposto ai professori universitari ai quali viene richiesta la fedeltà al Regime Fascista. Su 1225, dicono no 13.
continua in “Il Testo unico di Stato”
La scuola in guerra
Lo scoppio della seconda Guerra Mondiale coinvolse la scuola nel crescente sforzo richiesto alla Nazione. Un fiume in piena di retorica, di falsi miti, di false speranze, falsi messaggi travolse e stordì i bambini e i ragazzi.
Fino all'ultimo, quando ormai la realtà contraddiceva le parole, fu prospettata loro la vittoria come sempre più vicina, a portata di mano. In sostanza veniva chiesto alla scuola un importante contributo: mantenere unito il "fronte interno". Come sempre per tutta la durata del fascismo essa era la chiave segreta per aprire la porta della famiglia.
DISCIPLINA DEL CONSUMO DELLA CARTA
Nell'agosto del 1941 vennero disciplinate la produzione e l'utilizzazione della carta in relazione "alle superiori esigenze belliche". La scuola, essendo grande consumatrice di carta, avrebbe potuto fare molto in questo campo; allo stesso tempo gli alunni - a detta del ministro - sarebbero stati fieri di dare il loro piccolo aiuto alla Patria.
Gli insegnanti furono così costretti a ridurre il numero e la mole dei quaderni e a controllare che, prima di passare ad un nuovo quaderno, il vecchio fosse veramente finito. L'anno successivo furono richiesti maggiori sacrifici, poiché era necessario ridurre ulteriormente il consumo della carta. Bottai inviò precise disposizioni alle scuole: i quaderni dovevano essere ridotti al minimo, sia come numero che come quantità di pagine; non si poteva più foderarli con speciali carte pesanti o colorate; gli scritti che dovevano essere consegnati agli insegnanti andavano eseguiti su "mezzi fogli" di carta di quaderno o, in qualche caso, su "mezzi fogli" di carta protocollo. Le scuole dovevano adottare "formati ridotti" nel rinnovare le scorte di registri, moduli e stampati di ogni genere; nella corrispondenza si dovevano evitare le doppie minute di lettere. Il ministro contava, oltre che sulle economie dirette, anche e soprattutto sulla vasta azione che la scuola era in grado di compiere presso le famiglie nel diffondere "la coscienza delle necessità imposte dall'ora presente", tra le quali la più urgente era senza dubbio quella di ridurre al minimo tutti i consumi.
IL CONTRIBUTO DELLA SCUOLA ALL'ECONOMIA DI GUERRA
"La Scuola Fascista" non poteva certo tirarsi indietro in un momento particolarmente delicato. La sua collaborazione allo sforzo che il Paese stava compiendo "per incrementare la produzione sia nel campo militare che in quello attinente alla vita civile" era considerata della massima importanza.
Tra il 1941 e il 1942, con una serie di circolari dal tema fisso ''Azione della Scuola per la guerra", si istituirono gli "orti di guerra", le esercitazioni femminili furono impiegate per la confezione di indumenti per l'esercito; su deliberazione del Duce si decise di indire la "Giornata del Fiocco di lana". Le scuole di ogni ordine e grado furono mobilitate nella lotta contro gli sprechi e nella raccolta dei rifiuti.
Orti di guerra e lavori agricoli stagionali
Gli scolari, sotto la guida dei propri insegnanti, dovettero quindi cimentarsi nella coltivazioni di piccoli orti, posti su terreni incolti o comunque destinati a prato o giardino, spesso in prossimità della scuola. Parte del raccolto (patate, barbabietole ecc..), che serviva quale contributo alla produzione agricola nazionale, andava anche a beneficio della refezione scolastica o delle locali colonie elioterapiche. Capitava non di rado che i risultati fossero scarsi, per la scarsità o mancanza di sementi e per il cattivo tempo.
Tenuto conto della crescente importanza degli "orti di guerra" nella grave situazione alimentare di quel periodo, gli scolari "più volenterosi" dovevano continuare anche durante le vacanze estive a prestare la loro opera, affinché non fossero compromessi i frutti del lavoro compiuto durante l'anno scolastico. Non vi era alcun obbligo, ma naturalmente si puntava sull'opera di propaganda e persuasione svolta dagli insegnanti, i quali sottolineavano “il profondo significato patriottico del contributo dato".
Raccolta della lana e produzione di indumenti per i militari
Una iniziativa che coinvolse attivamente gli scolari fu la raccolta della lana, che doveva servire a garantire una buona scorta di filato per confezionare indumenti di lana per i combattenti. A tale scopo fu istituita "La Giornata del Fiocco di lana" dedicata alla raccolta del "prezioso" materiale.
Nessuno doveva sottrarsi dal compiere il proprio dovere. La lana raccolta nelle scuole veniva poi consegnata ai Fasci femminili, i quali, attraverso l'organizzazione delle massaie rurali e con la collaborazione tecnica dell'Ente Nazionale del Tessile, provvedevano a trasformare i fiocchi in filato. Il filato ottenuto era poi parzialmente restituito alle scuole ed usato dalle alunne - nelle ore di "Esercitazioni di lavoro femminile" - per la confezione di indumenti da montagna e coloniali per l'esercito.
Lotta contro gli sprechi e raccolta di rifiuti
Anche in questo campo la scuola, intensificò la sua azione di propaganda e di persuasione per fare in modo che gli scolari e le loro famiglie riducessero al minimo i consumi e contribuissero, con la raccolta e la consegna dei rifiuti (rottami di ferro) e degli oggetti rimasti inutilizzati nelle case, "alla lotta intrapresa per fronteggiare le esigenze delle varie produzioni nazionali". Tra gli scarti il più ricercato dall'Ente distribuzione rottami era lo "scatolame stagnato". Si raccomandava di conservarlo ben pulito ed in locali asciutti, soprattutto per evitare che l'ossidatura del ferro, a causa dell'umidità, potesse determinare l'eliminazione dello stagno.
Si giunse persino alla requisizione delle cancellate metalliche; le scuole non sfuggivano a questo provvedimento. Ha del paradossale una circolare di Bottai con cui il ministro suggeriva nuovi sistemi di recinzione nelle scuole con piante e fiori:
"Mi sarà gradito pertanto ricevere a tempo opportuno qualche fotografia più significativa di scuole che avranno adottato recinti arborei o floreali e che avranno ingentilito con piante e fiori l'aspetto interno ed esterno degli edifici”.
PROPAGANDA PATRIOTTICA E DI GUERRA
Il ruolo del maestro - che in genere seguiva pedissequamente le direttive del regime in questo frangente era ritenuto della massima importanza. A lui spettava il compito di esaltare tra i ragazzi quelli che venivano definiti "i valori ideali e rivoluzionari del conflitto, i suoi principi e le sue finalità storiche, politiche e sociali" (con ampio stravolgimento della realtà). In particolare in una circolare per l'anno scolastico 1942-43 - dal titolo significativo "La Scuola per la Vittoria - gli veniva espressamente richiesto di celebrare le "virtù della razza" e di manifestare fraterna simpatia per i camerati tedeschi, nipponici ed alleati". In questa opera di propaganda la sua parola giungeva anche alle famiglie degli alunni, attraverso i contatti tra scuola e famiglia, nel tentativo di mantenere quel consenso al regime che, in ogni caso, la guerra stava minando. Strettamente collegate alla propaganda erano alcune iniziative che vedevano coinvolti gli stessi scolari, quali l'assistenza alle famiglie dei combattenti, la visita di rappresentanze scolastiche ai feriti, la corrispondenza con i militari in guerra. In qualche provincia gli alunni venivano persino "utilizzati" per badare ai posti di ristoro per militari organizzati nelle stazioni, o ancora, per la formazione di squadre di vigili del fuoco.
Bibliografia:
- “A scuola col duce – l’istruzione primaria nel ventennio fascista” di Elena D'Ambrosio ricercatrice dell’Istituto di Storia Contemporanea "P. A. Perretta"
- Le immagini sono della mostra “A scuola col duce – l’istruzione primaria nel ventennio fascista” dell’Istituto di Storia Contemporanea "P. A. Perretta" di Como
La conquista dell’Etiopia
Svolta fondamentale nell’evoluzione della dittatura fascista, la guerra d’Etiopia provoca il ravvicinamento tra l’Italia e la Germania.
La politica estera dell’Italia fascista è stata molto incerta per molto tempo e spesso anche incoerente. Non per il suo obiettivo principale, che era quello di dare all’Italia un ruolo di primo piano in Europa, ma per i mezzi impiegati. Da ciò la mediocrità dei risultati ottenuti fino al 1935. La decisione di attaccare l’Etiopia, presa contro il parere del suo entourage degli ambienti affaristici italiani, costituisce dunque per Benito Mussolini una rottura e nello stesso tempo determina il riavvicinamento decisivo dell’Italia fascista e alla Germania hitleriana.
Perché l’Etiopia
All’origine della decisione di Mussolini, vi era un’umiliazione da vendicare: in un primo tentativo di invasione dell’Etiopia, nel marzo 1896, gli italiani avevano subito uno smacco cocente ad Adua, con 4.000 morti.
L’Etiopia era uno dei paesi africani non ancora occupato dai colonizzatori europei. Inoltre, l’Etiopia confina con l’Eritrea e la Somalia, province italiane dal 1890 per la prima e dal 1905 per la seconda. Aveva quindi interesse a creare un blocco italiano in questa parte dell’Africa orientale, preludio alla rinascita dell’Impero romano di cui il Duce aveva fatto nascere la nostalgia nel cuore dei suoi connazionali. In realtà, più pragmaticamente, il nuovo territorio sarebbe servito come sfogo ai gravi problemi economici dell’Italia, che intaccavano il prestigio del regime; nello stesso tempo avrebbe offerto una soluzione al sovraffollamento della penisola.
Etiopia ed Eritrea avevano una frontiera in comune, e le scaramucce tra i soldati dei due campi erano frequenti.
Il nuovo imperatore d’Etiopia, dal 1930, Hailé Sélassié, temendo l’aggressività degli italiani, rinforza gli effettivi delle guardie di frontiera, che si cura, tuttavia, di far piazzare a 30 km dal confine. Ma la minima scintilla darà fuoco allle polveri.
Il Duce prepara diplomaticamente il suo intervento. Davanti al nuovo pericolo incarnato da Hitler, che fa assassinare, nel luglio 1934, il cancelliere austriaco Dolfuss, ostile all’annessione dell’Austria e all’espansionismo tedesco, Mussolini si riavvicina alle democrazie occidentali. Nell’aprile del 1935, a Stresa, sul lago Maggiore, incontra i rappresentanti di Gran Bretagna e Francia. Viene firmato un accordo tra i tre paesi che si impegnano ad opporsi “a tutte le rinunce unilaterali dei trattati, suscettibili di mettere in pericolo la pace”, dichiarazione a cui Mussolini aggiunse di suo pugno la menzione “in Europa”.
La Francia e la Gran Bretagna, non reagendo all’aggiunta, illudono il Duce, che pensa di poter contare sulla loro benevola neutralità allorquando attaccherà l’Etiopia. Tuttavia gli Inglesi, temono il dominio dell’Italia in una regione dell’Africa in cui erano presenti, in Sudan e in Egitto, con grandi interessi commerciali.
Un incidente di frontiera, avvenuto il 5 dicembre 1934, presso l’oasi d’Oual-Oual, è il pretesto per l’intervento militare.
La tensione, già sensibile dopo l’arrivo al potere del negus nel 1930, aumenta tre i due Stati, e, malgrado l’invio nel Mediterraneo di una flotta britannica per intimidire l’Italia, l’armata fascista passa all’offensiva il 3 ottobre 1935. L‘aviazione e reparti corazzati violano lo spazio etiope senza dichiarazione di guerra.
Le forze sono sproporzionate. Di fronte a 500.000 italiani, ben equipaggiati, comandati da De Bono, l’Etiopia ”feudale” non allinea che qualche decina di migliaia di cavalieri, senza disciplina e spesso equipaggiati con fucili presi ad Adua, nel 1896. Pertanto, dopo una doppia offensiva frontale vittoriosa dall’Eritrea e dalla Somalia, l’armata italiana avanza lentamente da novembre 1935 a gennaio 1936.
De Bono è sostituito da Badoglio che non esita ad utilizzare i gas e i bombardamenti aerei. Adis-Abeba, la capitale, è occupata il 5 maggio 1936. Mussolini, trionfante, proclama Vittorio Emanuele III imperatore d’Etiopia.
La Società delle Nazioni condanna l’Italia dall’inizio delle ostilità e, nel novembre 1935, vota delle sanzioni economiche, che si rivelano però inefficaci perché non comprendono il petrolio e le materie prime. Inoltre, diversi Stati non le applicano.
Francia e Inghilterra elaborano, nel dicembre 1935, un piano segreto di divisione dell’Etiopia, che però fallisce appena diventa di dominio pubblico. Ciò rivela il comportamento tortuoso delle democrazie e la poca importanea delle decisioni prese dalla Società delle Nazioni, che tolse le sanzioni accrescendo così il suo discredito. Le sanzioni finirono per esacerbare il sentimento nazionale italiano e strinse gran parte dell’opinione pubblica intorno al Duce vittorioso.
Per sostenere il peso della guerra le donne furono invitate a donare allo Stato fascista le loro fedi d’oro.
L’episcopato italiano si schierò presentando l’impresa del Duce come una crociata. Tuttavia la conquista divenne presto un peso: militare prima, perché la resistenza degli autoctoni continuò; economica poi, perché gli investimenti erano costosi e l’immigrazione troppo debole per colonizzare il paese in modo vantaggioso. La conseguenza principale della guerra all’Etiopia è che Mussolini ruppe il fronte di Stresa e che fu supportato da un altro dittatore, Hitler. L’asse Roma-Berlino prende forma e la politica estera dell’Italia sarà ormai allineata a quella della Germania.
L’asse Roma-Berlino
Quando il Duce si sente messo al bando in Europa si rivolge verso Hitler, che alla fine riconobbe come alleato.
Il riconoscimento della conquista dell’Etiopia da parte di Hitler e l’uscita dell’Italia dalla Società delle Nazioni, sono all’origine del riavvicinamento dei due dittatori. Confermato dal loro mutuo sostegno al pronunciamento di Franco, in Spagna, queste relazioni si concretizzano con la visita in Germania, nell’ottobre 1936, del conte Ciano, genero di Mussolini e ministro degli Esteri.
Il Duce annuncia, il 1° novembre, la formazione di un “asse attorno al quale si possono unire tutti gli Stati europei”. Accordo inizialmente vago, simbolizza comunque la convergenza ideologica dei due dittatori e la fine dell’isolamento tedesco.
L’avventurismo bellicoso dell’Italia, poco a poco diventata un satellite della Germania, porta Mussolini a rinforzare l’Asse nel 1939, con il patto d’Acciaio.
In Brianza
Le reclute delle classi dal 1911 al 1914 furono richiamate per partire per l'Abissinia: il 23 febbraio del 1935 salpa dal porto di Messina il primo contingente militare diretto in Africa Orientale.
A Monza «i manipoli delle camicie nere» in partenza per l'Africa orientale vennero solennemente benedetti in Duomo dall'arciprete.
Episodi che accaddero a Lissone durante gli anni della guerra d’Etiopia.
Di seguito notizie tratte dalle pagine dai registri di classe, contenenti la "Cronaca e le osservazioni dell’insegnante sulla vita della scuola", di una quinta elementare della scuola "Vittorio Veneto" di Lissone nell’anno scolastico 1936-1937.
18 novembre 1936: primo anniversario delle sanzioni inflitte dalla Società delle Nazioni all’Italia per la guerra d’Etiopia
18 dicembre 1936: primo anniversario in cui tutte le donne d’Italia dovettero donare il proprio anello nuziale per sostenere il paese in guerra
26 febbraio 1937: nella guerra di aggressione all’Etiopia, chi si oppone all’occupazione del proprio paese, in questo caso il Ras Destà, viene definito ribelle ed eliminato
20 marzo 1937: il maestro esalta la figura del Duce in terra d’Africa
7 maggio 1937: l’Ispettore scolastico cerca di mettere in rilievo, davanti agli scolari radunati, «i motivi altamente civili della conquista dell’Impero»
A guerra terminata venne organizzata una solenne funzione «promossa per ringraziare Iddio per la Vittoria ... clero, autorità, popolo e associazioni tutte portarono la loro adesione con l'intervento nel tempio prepositurale, dove venne cantato il Te Deumn'", E se la settimana successiva Lissone accolse «con gioia entusiastica i Legionari reduci dall' Africa Orientale», dove con i vittoriosi sfilarono in un corteo improvvisato «una folla di cittadini, tra i quali le autorità e colonne di dopolavoristi aziendali, numerosi famigliari e parenti dei reduci, le Associazioni combattenti, Mutilati», l'emozione doveva essere ancora alta quando in settembre «la cittadina [era] un tripudio di bandiere, vive le ore delle grandi giornate» accogliendo «con un'imponentissima manifestazione popolare, con entusiamo altissimo, le gloriose camicie nere del suo primo poltone del 125° battaglione».
In terra d'Africa due sono i caduti lissonesi: Ettore Colzani e Francesco Penati.
a Monza
Durante gli anni della guerra d'Africa troviamo già Gianni Citterio, il figlio dell'ex assessore socialista di Monza, nelle file del Pci, «tenace propagandista contro la guerra d'aggressione all'Abissinia e l'intervento fascista in Spagna», e un altro gruppo di antifascisti attivi, frequentato anche da Ferrari e Citterio, nel vecchio caffè Romano in via Carlo Alberto a Monza, che riuscì persino a stampare in una tipografia di Villasanta e a diffondere un volantino contro la guerra d'Etiopia; e infine, ci sembra (non siamo riusciti a stabilire la data con precisione) che anche il noto - noto agli antifascisti di ogni colore - retrobottega della farmacia del dottor Carlo Casanova oltre il ponte di Lecco, funzionasse già come centro di attività antifasciste. Il primo gruppo del caffè Romano comprendeva il dottor Antonio Gambacorti Passerini (fucilato a Fossoli il 12 luglio '44), il dottor Francesco Pini, socialista, il pittore Arpini, un cattolico, e l'avvocato G. B. Stucchi (rappresenterà il Psi nel comando generale del Cvl). La farmacia Casanova era frequentata, oltre che dagli «amici» del caffè Romano, dall'avvocato Fortunato Scali, comunista, Farè, socialista, Tarcisio Longoni e Luigi Fossati, esponenti della Dc.
Insomma, qualcosa s'era mosso anche allora nell'ambito dell'antifascismo brianzolo, poco ma abbastanza da permettere al movimento clandestino di organizzare, verso la fine del '36, cioè circa sei mesi dopo la proclamazione dell'impero, il reclutamento di volontari per la difesa della Spagna repubblicana. E furono circa una decina i « garibaldini » brianzoli che riuscirono a raggiungere le brigate internazionali per combattere la sedizione franchista. Di questi volontari si ricordano ancora i nomi di Spada, monzese, di Vismara, lissonese, di Pirotta e Farina di Villasanta, di Frigerio di Vimercate.
Hailé Sélassié
Il nuovo negus Hailé Sélassié I, imperatore d’Etiopia, 225° successore di Salomone secondo la leggenda, rappresenta la più antica dinastia del mondo.
Allievo di missionari francesi, e presto iniziato alle responsabilità del potere, è proclamato imperatore nel novembre 1930 con il nome di Hailé Sélassié “Forza della Trinità”.
Riformatore, fa entrare l’Etiopia nella Società delle Nazioni, abolisce la schiavitù e intraprende la revisione delle istituzioni del suo paese quando l’invasione italiana lo costringe all’esilio in Inghilterra.
Al fianco delle truppe britanniche e golliste, partecipa alla liberazione della sua patria nel maggio 1941.
Figura di rango internazionale, uno dei capi dei paesi del terzo mondo e pioniere dell’unità africana, si prodiga senza tregua per l’unificazione e la modernizzazione dell’Etiopia. Impotente di fronte alla carestia degli anni 1973-1974 e alla rivolta dell’Eritrea, è destituito dall’esercito nel 1974.
La sua morte, avvenuta in circostanze misteriose, è ufficialmente annunciata il 27 agosto 1975.
un’opera poco conosciuta di Giuseppe Terragni
La sala O della Mostra della Rivoluzione Fascista del 1932
La Mostra della Rivoluzione Fascista, aperta al pubblico agli inizi del mese di ottobre, segnò l'apice di un vasto programma espositivo del regime fascista inaugurato agli inizi del 1932.
Un modello che si basava sull'ideazione di un percorso tematico e su una suddivisione della mostra in diverse sezioni, ognuna delle quali trattava un aspetto del tema dell'esposizione. All'ideazione di ciascuna sezione collaboravano uno storico e uno o più artisti o architetti che insieme ne curavano l'allestimento.
Nella Mostra della Rivoluzione Fascista l'uso della fotografia divenne centrale nell' allestimento e nell' architettura delle sale; non si presentarono semplici ritratti ma anche gigantografie, fotomontaggi montati su pannelli ed esposti a tutta parete insieme a fotomosaici (detti anche fotomurali). La fotografia quindi, non solo ricopriva intere pareti delle sale espositive ma era incorporata nell'architettura della mostra, diventando parte integrante del design dell'esposizione.
Le sale erano 19, contrassegnate con lettere dell'alfabeto e organizzate cronologicamente ognuna allestita con plastici a parete, fotomontaggi, bandiere, sculture, statue e oggetti tridimensionali d'ogni genere.
L'itinerario della mostra conduceva i visitatori negli avvenimenti storici italiani dal 1914 al 1922, secondo una lettura fascista della storia: dal 1914 (sala A) all'adunata dei Fasci d'Azione rivoluzionaria (sala B) alla guerra italiana (1915-1918) (sale C e D); dalla fondazione dei Fasci (Sala E) agli altri avvenimenti cruciali dell'anno 1919 (sale F e G); dal 1920 (sale H e I) alla presa di Fiume e della Dalmazia (sale L e M); dall'anno 1921 (sala N) fino al 1922 (sala O). Arrivati a questo punto, i visitatori avevano ripercorso la storia del fascismo ed erano stati assaliti dalle informazioni visive che straripavano dalle pareti e dalle bacheche.
Gli osservatori venivano aggrediti in continuazione dal materiale esposto e questa continua sollecitazione emotiva faceva sì che ogni elaborazione critica fosse rimandata in continuazione fino a essere negata.
Le sale dedicate alla marcia su Roma, avevano il compito di rappresentare un punto fermo nella storia del fascismo, il momento in cui il movimento fascista si trasforma in regime, e questo cambiamento era sottolineato dalla progressiva trasformazione dell' architettura modernista in architettura celebrativa.
Sia l'architettura austera che la penombra che regnava nell' ambiente contribuivano a produrre un forte impatto emotivo, rafforzato dalla registrazione di voci che intonavano «Giovinezza».
La sala O
Specialmente nell' architettura della sala O, ideata da Giuseppe Terragni, uno dei più importanti architetti razionalisti italiani, la fotografia risultava l'elemento strutturante.
Per questa sala Terragni ideò un allestimento assolutamente inedito, basato su fotomosaici o fotomurali, enormi fotomontaggi a tutta parete che interpretavano gli episodi salienti dell' anno 1922, dal gennaio fino agli inizi del mese di ottobre.
Tramite il montaggio e poi la stampa di più negativi, si creava un'immagine che comprendeva primi piani insieme a campi medie lunghi, eliminando ogni spaziatura cosi da riprodurre la percezione del tumultuoso e incalzante evolversi degli avvenimenti documentati.
I fotomosaici erano fondamentali in questa sezione, che dava forma all'incalzante susseguirsi delle azioni squadriste che culminarono con la mobilitazione fascista contro lo «sciopero egalitario», l'incendio dell' «Avanti!» e l’occupazione di Palazzo Marino a Milano e Palazzo S. Giorgio a Genova, insieme al susseguirsi delle azioni sovversive nelle varie città italiane che anticiparono la marcia su Roma.
La sala O era dunque centrale nel percorso della mostra, perché rappresentava una svolta nel movimento fascista e il culmine delle manifestazioni di massa per l’assalto al governo e la presa del potere.
Il fotomosaico «Adunate!» ricopriva tutta la parete di sinistra della sala O e riproduceva un fotomurale gigantesco lungo 10 metri composto da primi piani e sfondi di adunate oceaniche da cui emergevano tre eliche al di sopra delle quali si stagliava una selva di mani levate nel saluto romano, illuminate dal basso da una luce abbagliante. Al centro del fotomosaico era riprodotto l'ingrandimento di una lettera di Mussolini, che cosi scriveva: «Ai pavidi, ai diffamatori, alle canaglie tutte che tentano con mezzi obliqui e criminali di arrestare il Fascismo, possiamo rispondere che, quando "si dà col sangue alla ruota il movimento", si arriva alla meta suprema: la grandezza della Patria. Mussolini».
Sia la citazione del verso di Giosuè Carducci «quando col sangue a la ruota si dà il movimento», sia la vetrina con i ritratti e gli oggetti-reliquia, facevano allusione a una sorta di sacrificio dei fascisti, e alloro patto di sangue che mitigava il minaccioso militarismo rappresentato dall'immagine.
Nel fotomosaico di Terragni, vero esempio di uso fascista della fotografia, le sagome delle mani tese nel saluto romano, invece di significare partecipazione dell'individuo alla vita politica, funzionavano da mera decorazione all'immagine centrale delle masse, contenute e risucchiate dalle turbine.
Una massa indifferenziata, non l'insieme dei singoli individui. Il fotomurale di Terragni costituiva quindi un perfetto esempio di estetizzazione della violenza, propria dell'immagine fascista.
Le immagini seguenti riproducono alcune pareti della sala ideata da Giuseppe Terragni. Sono enormi fotomontaggi che interpretavano gli episodi salienti dell' anno 1922, dal gennaio fino agli inizi del mese di ottobre.
fotomurale dal titolo "me ne frego"
"iene umane"
"incendio dell'Avanti (n.d.r. girornale del Partito Socialista)"
"
La violenza dei corpi militari della Repubblica Sociale Italiana
Dopo l'8 settembre 1943 le forze occupanti lo Stato italiano sono due, quelle angloamericane e quelle tedesche, le prime operano con ciò che resta dello Stato legittimo, le seconde si adoperano per creare un'altra unità statale sul territorio italiano: la Repubblica Sociale Italiana. Questa istituzione non viene mai riconosciuta dagli Stati neutrali e si profila come un governo di fatto che interrompe temporaneamente la potestà dello Stato legittimo la cui sovranità è impedita ma non soppressa.
Le condizioni strutturali proprie della Repubblica Sociale Italiana permettono e favoriscono l'incontrollabilità della violenza. Tale istituzione è caratterizzata da un centro debole, incapace di esercitare una piena autorità sui vari corpi come di sorvegliare sulle azioni di questi. Manca di conseguenza un coordinamento tra i corpi militari.
Di fatto ogni corpo militare della Rsi risulta a se stante, con comandanti ambiziosi in aperto conflitto fra loro ed ostili ad ogni limitazione dei propri poteri; anche le divise sono diverse, tanto da accentuare la perdita di identità del fronte fascista repubblicano, identità smarrita, resa in altro modo evidente dalle differenze di comportamento dei vari corpi. Sono quattro i corpi militari dellà Repubblica di Salò: le quattro divisioni (Italia, Littorio, Monterosa, San Marco) dell'esercito di Graziani, la Guardia Nazionale Repubblicana di Renato Ricci, le Brigate nere di Alessandro Pavolini, la Decima Mas del principe Junio Valerio Borghese; quest'ultima si pone inizialmente alle dirette dipendenze operative del comando militare tedesco, ma finisce per assumere le caratteristiche di esercito personale del suo comandante, il quale, secondo rapporti confidenziali inviati a Mussolini, si sarebbe rifiutato di prendere ordini dal Centro arrivando a manifestare, anche apertamente, il proprio disprezzo per i fascisti considerati troppo supini verso i tedeschi. Accanto a questi quattro corpi ve ne sono altri, di dimensioni decisamente minori, noti come squadre autonome; fra queste la più numerosa è la compagnia intitolata a Ettore Muti che, nel momento di maggiore espansione, arriva a contare 2.300 uomini. Le squadre autonome si inseriscono in un processo centrifugo di caotica dispersione delle forze del fascismo repubblicano. Queste squadre finiscono spesso per trovare gerarchi compiacenti che, per accrescere la loro influenza, ne coprono le malefatte garantendo una totale impunità che parte dai furti e arriva alla tortura. Sia le autorità tedesche che quelle della Rsi gradiscono la tortura sistematica svolta da queste squadre. Il ministro degli Interni della Rsi, Guido Buffarini Guidi, oltre a gestire ciò che resta delle forze dell' ordine, è diretto responsabile e protettore di varie squadre autonome, autentiche compagnie di tortura come la banda Koch e la Muti.
Il ministro è ben cosciente dei metodi di questi corpi che sono un'occasione di potere per delinquenti e aguzzini, e l'ultimo approdo per i reietti già cacciati da altre formazioni. Queste compagnie sono quasi sempre stanzlali (soltanto la Muti ha un battaglione mobile), le loro sedi, spesso chiamate nelle varie città, «ville tristi» sono autentiche officine di tortura dove con sadico divertimento si sperimentano su uomini e donne, i limiti umani alla sopportazione del dolore. La pratica della tortura diviene diffusa e nota al punto che a Milano è il cardinale Schuster ad agire, in diversi momenti, nei confronti di Mussolini e di don Luigi Corbella, uomo molto vicino alle gerarchie di Salò invitando entrambi a 'muoversi per porre fine all' azione di queste polizie speciali.
L'attività di questi corpi ha inizio tra il settembre 1943 e il gennaio 1944, ma anche le Brigate Nere e la Decima Mas attuano metodicamente le pratiche della tortura. Questo modo di condurre il conflitto è l'esplicito riconoscimento della propria impotenza a combattere in modo diverso il nemico. Le Brigate Nere, che dovevano essere sotto il profilo della struttura organizzativa l’equivalente fascista. del movimento partigiano, non sono quasi mai in grado, al pari degli altri reparti armati di Salò, di sostenere combattimenti con le formazioni della Resistenza. Dalle stesse fonti tedesche affiora il biasimo per l'arrendevolezza dei corpi fascisti quando si trovano attaccati dai partigiani.
da “La lunga liberazione” di Mirco Dondi - Editori Riuniti/l’Unità - aprile 2008
Rodolfo Graziani: il “più sanguinario assassino del colonialismo italiano”
Nel 1930, Rodolfo Graziani aveva coordinato la deportazione dalla Cirenaica di centomila uomini, donne, vecchi, bambini costretti a marciare per centinaia di chilometri in mezzo al deserto libico fino ai campi di concentramento allestiti nelle aree più inabitabili della Sirte. Diecimila di questi poveretti morirono in quel viaggio infernale. Altre decine di migliaia nei lager fascisti.
E fu ancora lui, il viceré d’Etiopia mussoliniano, a scatenare, in quei giorni di febbraio del 1937, la rappresaglia in Etiopia per vendicare l’attentato che gli avevano fatto i patrioti. Trentamila morti, secondo gli etiopi. L’inviato del Corriere, Ciro Poggiali, restò inorridito e scrisse nel diario: «Tutti i civili che si trovano in Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente con i sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada... Inutile dire che lo scempio s’abbatte contro gente ignara e innocente».
I reparti militari e le squadracce fasciste non ebbero pietà neppure per gli infanti. C’era sul posto anche un attore, Dante Galeazzi: «Per tre giorni durò il caos. Per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni in Addis Abeba, città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano».
Negli stessi giorni, accusando il clero etiope di essere dalla parte dei patrioti che si ribellavano alla conquista, Graziani ordinò al generale Pietro Maletti di decimare tutti, ma proprio tutti i preti e i diaconi di Debrà Libanòs, quello che era il cuore della chiesa etiope. Una strage orrenda: la repressione fascista in Etiopia vide il martirio di almeno 1.400 religiosi vittime d’un eccidio affidato, per evitare problemi di coscienza, ai reparti musulmani inquadrati nel nostro esercito.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, Graziani si schierò con la Repubblica sociale e divenne ministro della difesa. In questa veste tentò di creare, con l’aiuto dei tedeschi, un esercito fascista regolare, che però, invece di essere schierato al fronte contro gli Anglo-americani, ebbe praticamente compiti di polizia interna e di repressione antipartigiana.
In seguito all’ordine di disarmo, firmato da Graziani, 2.500 carabinieri di Roma furono deportati in Germania, il 7 ottobre 1943.
Catturato nell’aprile del 1945, Graziani sfuggì alla fucilazione: processato, nel 1948, dalla corte di assise straordinaria di Roma, poi dal tribunale militare, fu condannato a diciannove anni di reclusione per «collaborazionismo col tedesco invasore». Ne scontò solo cinque e, nel 1950, venne liberato. Divenne presidente onorario del Movimento sociale.
È una vergogna che nel 2012, il comune di Affile, in provincia di Roma abbia costruito un mausoleo per celebrare la memoria di quello che, secondo lo storico Angelo Del Boca, massimo studioso di quel periodo, fu «il più sanguinario assassino del colonialismo italiano».