resistenza italiana
La Resistenza e l'ambiente contadino
Nei primi mesi del 1944 il movimento partigiano passa un periodo di raccoglimento e di preparazione ai compiti futuri. Ai primi rastrellamenti, alla prima fase ribellistica, fatta di continue fluttuazioni e incertezze, ha sopravvissuto una schiera relativamente esigua di uomini temprati da quelle prime e durissime prove. Tutti insieme non superano gli effettivi d'una sola delle divisioni tedesche stanziate in Italia: il caos iniziale degli sbandati s'è fissato e precisato nella modesta cifra di 10 mila armati dispersi dalle Alpi all'Appennino ligure-emiliano, armati esclusivamente con le armi «recuperate» al nemico. Ma ciò che conta non è il numero o il bilancio ancora esiguo che si può trarre dalla loro attività bellica: è il fatto che questa schiera di precursori del futuro esercito partigiano s'è ormai radicata come un elemento stabile sulle montagne, s'è connaturata, per così dire, all'ambiente.
I contadini delle zone montane che erano state soggette a un continuo impoverimento e spopolamento,
avevano fin dal primo momento accolto con simpatia i ribelli; come avevano accolto, con un semplice e profondo senso d'umana pietà, gli sbandati del settembre '43 senza far distinzioni fra divise e nazioni. ... il fatto che ogni famiglia contadina aveva anch'essa un figlio morto o disperso nella seconda guerra mondiale. Si faceva con tutta naturalezza per l'ospite italiano o straniero, ciò che si desiderava che fosse stato per il proprio figlio.
I rastrellamenti tedeschi avevano cercato di rompere violentemente questi primi vincoli d'umana solidarietà, avevano mirato innanzi tutto a terrorizzare i.contadini, sottraendo ai ribelli ogni punto d'appoggio e di rifornimento. Malgrado i primi e inevitabili effetti, avevano invece finito per determinare un risultato contrario. ... I contadini delle Alpi e dell'Appennino cominciano a sentire quei primi nudei di ribelli come il proprio esercito, sono essi a battezzarli al principio del 1944, come «patrioti ».
Il nome indica un mutamento profondo nel movimento partigiano. ... Intorno alle bande è cambiato o sta cambiando il primitivo isolamento. Quando ancora la Resistenza non ha i suoi servizi d'informazione e di collegamento, sono i contadini a segnalare per primi di casolare in casolare l'avvicinarsi del nemico, ad esercitare la propria astuzia nella difesa dei patrioti. Un ragazzo che parte dal paese di fondovalle e che raggiunge affannato, ma orgoglioso della missione compiuta il capo dei patrioti sulla montagna per avvisarlo del pericolo imminente; i lenzuoli o le coperte che le famiglie contadine espongono alle finestre per indicare che il nemico è in paese, sono i primi mezzi rudimentali con cui le bande si sono collegate col resto del mondo, i mezzi ai quali spesso hanno dovuto la propria salvezza.
Spesso i patrioti attingono dal folclore contadino anche i nomignoli sotto cui celano la propria identità ...
da “Storia della Resistenza italiana” di Roberto Battaglia Einaudi 1964
Le "repubbliche contadine" nel Mezzogiorno d’Italia, dopo l'8 settembre 1943
Le "repubbliche contadine" si formarono negli ultimi mesi del 1943 in numerose realtà del Mezzogiorno d’Italia senza che però vi fosse tra loro alcuna forma di collegamento e comunicazione.
La popolazione insorgeva, chiedeva in primo luogo cibo, assaliva i depositi alimentari, ridistribuiva le risorse con criteri egualitari, eleggeva i propri rappresentanti, fronteggiava le forze dell'ordine italiane, la polizia anglo-americana. Ispirandosi a un'antica tradizione egualitaria arricchita dall'istanza antifascista, si dava vita a brevi esperienze di repubblica, richiamandosi in qualche modo alla repubblica sovietica con il suo mito di palingenesi sociale e facendo propria anche la polemica contro la monarchia, di derivazione repubblicana risorgimentale, inasprita dal comportamento di Casa Savoia dopo l'8 settembre 1943.
Le "repubbliche contadine" furono di breve durata, ma si saldarono con il movimento di occupazione delle terre che si sviluppò nel Mezzogiorno con grande intensità tra il 1944 e il 1946, durante i governi d'unità nazionale e, poi, ancora, tra il 1947 e il 1949, dopo l'espulsione di comunisti e socialisti dalla compagine governativa. Questo ciclo di lotte conseguì alcuni risultati sul piano politico istituzionale: nel giugno del 1944 si ebbe la promulgazione dei decreti Gullo, che prevedevano in primo luogo la proroga dei contratti agrari e la riduzione dei canoni d'affitto, stabilivano una diversa ripartizione dei prodotti per il mezzadro, la cui quota passava dal 40% al 60% del raccolto, e introducevano la possibilità che le terre incolte fossero assegnate a cooperative di contadini.
Su scala locale furono istituite le commissioni comunali e provinciali per l’assegnazione delle terre incolte e la loro attività, pur costantemente ostacolata dall'accanita resistenza degli agrari e da lentezze burocratiche e politiche, costituì un importante esempio di democrazia, anche perché avvenne sotto il vigile controllo dei contadini che continuavano le occupazioni di terra.
Le "repubbliche contadine" si collocano pertanto all'inizio di un periodo di profonda trasformazione politica e sociale del mondo delle campagne, a cui seguirà, di lì a qualche anno, il massiccio esodo dell'emigrazione.
Alcune delle "repubbliche contadine" furono costituite nelle seguenti località:
- a Sanza, un piccolo paese nel Vallo di Diano, in provincia di Salerno, il 10 ottobre 1943;
- a Maschito, piccolo centro in provincia di Potenza, dopo la partenza del presidio tedesco a metà settembre 1943, fu insediata la «repubblica contadina”;
- una terza si ebbe a Calitri, un piccolo paese di circa 10.000 abitanti in provincia di Avellino, dove, il 29 settembre 1943, poco prima che giungessero gli anglo-americani, scoppiò l'insurrezione;
- a Caulonia, in provincia di Reggio Calabria, la "repubblica", che si protrae per diversi mesi, dal novembre 1944 all'aprile 1945, viene instaurata dal neosindaco Pasquale Cavallaro , maestro elementare antifascista, insediatosi nel gennaio del 1945, la cui nomina viene ratificata dagli Alleati e dal prefetto socialista di Reggio Calabria, Francesco Priolo, i quali accettano la situazione di fatto.
Le "repubbliche contadine" e le insurrezioni che hanno luogo nell'immediato dopoguerra del Meridione italiano hanno alcune caratteristiche comuni. Gli insorti infatti riescono a inserirsi nel vuoto di potere creato dalla ritirata tedesca e dalla scarsa autorevolezza del Regno del Sud e ad assumere il controllo del territorio per giorni e talvolta per settimane e mesi. In molti casi vi è anche la legittimazione istituzionale perché sono insediati, anche se spesso con procedure improvvisate, commissari e sindaci che sono espressione della comunità locale e vengono riconosciuti o comunque tollerati dai prefetti italiani, dall'AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territory) e, poi, dall'ACC (Allied Control Commission). Nelle rivolte, la violenza esercitata sia contro i proprietari terrieri e le loro famiglie sia contro i rappresentanti dello "Stato vicino" compromessi con il fascismo - ex podestà, segretari comunali, dirigenti dei consorzi agrari -, con quanti insomma hanno sottratto risorse alla comunità e si sono arricchiti con l'imboscamento dei generi alimentari, ha un escalation drammatica: il processo popolare nella piazza del paese, le percosse e le lesioni, l'omicidio, il linciaggio.
L'incendio di Boves
Nei pressi di Cuneo, una delle prime stragi compiute dai nazisti nei primi giorni dell’occupazione dell’Italia dopo l’8 settembre 1943.
A Boves il tedesco applica per la prima volta la politica del terrore. Boves viene data alle fiamme il 19 settembre del 1943: sono trascorsi solo undici giorni dall'armistizio. Il racconto dell'incendio può iniziare da una annotazione diaristica:
Salimmo di corsa sulle colline del Giguttin e vedemmo il paese in un mare di fuoco. Impossibile! Incredibile! Dire l'impressione di sgomento e di disperazione che era nei nostri occhi non si può. Forse dovrei paragonarla ai sentimenti e alle tragedie cosidette classiche e storiche.
Quel settembre «era buono per i funghi ». Il padrone del caffè Cernaia imbottigliava il dolcetto arrivato da Dogliani; nella calzoleria Borello si preparavamo gli zoccoli, per i giorni di fango e di neve. Le cose di sempre in un villaggio piemontese che non aveva capito la guerra e neppure. la confusione, dopo la disfatta; vissuto per secoli nel suo quieto sogno di alberi, di fontane, di vicende e di commerci minimi; costretto ora a esprimete in poche ore, in una luce rossastra, tutta la capacità umana di soffrire. Perché. i tedeschi avevano deciso di impartire, a freddo, « una severa lezione ai ribelli» . La lezione è affidata al maggiore delle SS Joachim Peiper che ha occupato Cuneo l'11 settembre con 500 SS dotate di carri armati e di autoblindo: tedeschi duri, di quelli che manovrano e sparano con uno stile inconfondibile, dove riconosci. l'addestramento perfetto, ma anche il complesso di superiorità razziale. L'esperienza che sta per fare Boves non è nuova, è già stata fatta da molti villaggi dell'Europa occupata; ma quelli di Boves non sanno o non credono, nel loro sentimento si ritrova come denominatore comune, lo stupore.
Nei primi giorni i tedeschi hanno trascurato l'informazione sul ribellismo che nasce. Conoscono poco la lingua, i luoghi, non hanno ancora informatori fidati; e poi non devono credere a un ribellismo già organizzato, già articolato in formazioni diverse, certo non immaginano che in Italia possa essere nato in pochi giorni ciò che, altrove, ha richiesto mesi. Se fossero informati colpirebbero i gruppi politici, comunisti e azionisti, che sono il seme più forte della Resistenza. Invece attaccano a Boves un residuo dell'esercito, credono che a Boves siano rimasti reparti regolari, disponibili per la ribellione; e impartiscono la loro lezione preventiva del terrore. Il giorno 17 due aerei tedeschi sorvolano le pendici della Bisalta e lanciano manifestini invitanti alla resa. La marea degli sbandati, dei rifugiati, è già in calo, restano, nelle frazioni, forse cinquecento uomini; ma il 19 settembre, al momento di combattere, sono ridotti a cento, in maggioranza valligiani: alla sinistra i bovesani Renato Aimo e Bartolomeo Giuliano, con i compaesani; al centro Ignazio Vian, veneziano, impermeabile chiaro e occhi chiari con i suoi soldati della guardia di frontiera; alla destra il cuneese Gino Renaudo. I ribelli sono armati di fucili 91, di mitragliatrici Breda, di mitragliatori; il gruppo Vian ha un cannone da 75: colpi in dotazione, uno.
Peiper manda un'avanguardia a Boves nel pomeriggio del 18, cinquanta uomini con due pezzi da 88. Si fermano sul piazzale della fornace Regia e tirano sulle borgate, su Roccasetto, Moretto, Sant'Antonio, Castello, senza preavviso; poi entrano in Boves, chi li comanda fa radunare la popolazione in piazza e dice: «Se non volete che fuciliamo gli uomini andate in montagna e dite ai ribelli che hanno quarantott'ore di tempo per scendere. Se consegneranno le armi saranno lasciati liberi ». Qualcuno sale sulla montagna a informare i ribelli, ma ormai Aimo e gli altri del paese hanno deciso: «Meglio morire qui che darci prigionieri ».
Il giorno 19 Peiper manda a Boves due SS in automobile: soli, in un paese di cui si dice sia il centro della ribellione. Può essere la ricerca di un pretesto; o semplicemente l'ordine crudele di un comandante crudele; o anche il disprezzo per l'italiano smarrito e imbelle della disfatta. Alle 10 i due si fermano sulla piazza del paese e si guardano attorno; poi vorrebbero ripartire ma il motore si è guastato; e sono indaffarati a ripararlo quando arriva sulla piazza, mitragliatore sul tetto, un camion di ribelli, scesi per la corvée del pane. Non si spara neppure: i due vengono subito catturati, fatti salire sul camion, portati in montagna fra la gente che applaude. Poi la folla incomincia a diradarsi, dopo qualche minuto il paese sembra deserto. Le SS arrivano alle 12,30. Peiper va in municipio, cerca del podestà e del segretario comunale: sono già fuggiti in montagna. Si presentano il parroco don Giuseppe Bernardi e l'industriale Antonio Vassallo. «Andate lassù, fateveli restituire» urla il tedesco. «Risparmierà il paese? » chiede il prevosto. Peiper dà la sua parola. Il prete e l’industriale salgono da Vian al Castellar, in automobile, sventolando uno, straccio bianco. Dopo quaranta minuti tornano con i prigionieri; si è discusso fra Aimo, Giuliano e Vian, ma alla fine hanno deciso di dare ascolto al parroco: se vuole dica pure che i ribelli stanno sciogliendosi. Don Bernardi, ora che i prigionieri sono restituiti, non serve. più; Peiper rompe gli indugi, la lezione del terrore commcia subito, come raccontano le testimonianze.
Vedemmo le prime volute di fumo. Passò una donna gridando:. «Hanno ucciso Meo! Hanno ucciso Meo! ». Qualcuno dl noi scappò, io rimasi alla fontana per finire di lavare.
Avrebbero dovuto mantenere la parola, invece noi di dentro la trattoria sentimmo raffiche di mitraglia. Li per lì si decise di tornare a casa ma in quel momento entrò Beppe con la camicia insanguinata: «Sparano su tutti» disse.
Erano vestiti di giallo e di marrone come i teli-tenda. lo ero con uno di Rosbella. Gridarono qualcosa che non capimmo, poi si misero a sparare. Il mio compagno ebbe un braccio spezzato al gomito.
In piazza Italia un carro armato era fermo davanti l'osteria Cernaia. Vicino al carro c'era un giovane, lo riconoscemmo subito. Benvenuto Re di 17 anni. Visto che i tedeschi si erano allontanati e parevano non interessarsi di lui, lo esortammo a fuggire. Sorrise e rispose: «Am faran pa gnente ». Alla sera vidi il suo cadavere sulla piazza.
Lo stupore, in tutte le testimonianze della strage assurda.
A un ordine del maggiore Peiper don Giuseppe Bernardi e Antonio Vassallo vengono fatti salire su una camionetta. « Fategli ammirare lo spettacolo a questi signor!» dice Peiper. Il sadismo non è casuale, nella lezione nazista del terrore. La camionetta percorre lentamente il paese in fiamme, perché il signor prevosto possa vedere che ne è dei suoi parrocchiani.
Ero in casa entrarono tre tedeschi e si misero a cospargere con un liquido i mobili del nostro piccolo salotto. Ma perché li rovinate? dissi. Uno mi colpì al ventre con un calcio. Dopo vidi tutto bruciare attorno a me.
Così in centinaia di case. Alla fine del giro, il parroco e l'industriale vengono cosparsi di benzina, colpiti da raffiche, dati alle fiamme mentre agonizzano.
La lezione del terrore è distinta dalla repressione armata, della ribellione: a Boves si incendia e si spara sui civili, prima e durante i combattimenti con i ribelli. Mentre Boves brucia, una colonna di SS sale verso il Castellar. I partigiani hanno piazzato il loro pezzo da 75 al ponte del Sergent: spara il suo unico colpo alzo zero e immobilizza l'autoblindo di testa; poi il fuoco partigiano mette in fuga quelli dei camion. Sul terreno, presso il ponte, c'è il primo morto ribelle, un marinaio. Stanno seppellendolo, quando i tedeschi ritornano in forze: una decina di carri armati arrivano all'altezza del ponte, girano a destra nel prato e si allineano come per una parata. Ignazio Vian ha ordinato ai suoi di non sparare. I cannoni tedeschi aprono il fuoco, terra e corteccia di castagni volano in aria, passano sibilando i proiettili delle mitragliere; quelli esplosivi danno l'impressione che qualcuno spari anche dall'alto. Quando i tedeschi salgono all'attacco, Vian si mette a urlare ordini a reparti inesistenti, e poi con i pochi che gli sono rimasti vicino, forse venti uomini, va al contrattacco lanciando bombe a mano. I tedeschi si ritirano.
Intanto i contadini in armi sulle colline vedono il fumo che sale dalla parte di Boves. Di sera una luce rossastra si allarga nel cielo pallido. Aimo e Giuliano scendono a vedere Dirà Giuliano:
La cittadina pareva morta. Non vidi che cinque-sei persone.
Le fiamme erano sole a regnare sovrane, tutto divorando. Le due piazze erano illuminate a giorno; ogni tanto qualche figura umana passava fra i bagliori. Quasi ovunque si sarebbe potuto leggere il giornale, benché fossero ormai le dieci. Davanti la calzoleria Borello trovai un tale. Aveva una bottiglia in mano. «Mah », diceva, « casa mia brucia e io sono qui. Mah, beviamo ancora una volta».
Sulla montagna sono rimasti in pochi. Vian e i suoi sì spostano in val Vermenagna. A Boves il giorno 20 si contano i morti e le case distrutte: ventitré morti fra i civili, centinaia di case bruciate, i raccolti persi, il bestiame soffocato nelle stalle. Arriva da Cuneo il viceprefetto, trova il carabiniere Vota, lo manda a cercare qualche impiegato del municipio. Il carabiniere ritorna con gli impiegati Stefano Pellegrino e Antonio Barale. «Perché non siete in ufficio? Che state facendo?» «lo », dice Pellegrino, «è da due giorni che faccio il pompiere ». «Su, sbrighiamoci », fa il viceprefetto, « saliamo in municipio ». Dirà il testimone Pellegrino:
Quando arrivò al primo piano rimase male. Non c'era più nulla, tutto era scomparso. Si vedevano solo le macchine da scrivere contorte. Assicurai il vice prefetto che i registri dell'anagrafe erano stati messi in salvo. «Va bene» disse lui con le labbra che gli tremavano. «Vuoi venire al cimitero?» gli dissi. «No », disse lui, «ai riconoscimenti pensateci voi ». Se ne andò sconvolto, forse non aveva creduto di assistere a tanta tragedia. Andammo nel cimitero. A destra entro due piccole bare, don Bernardi e Vassallo. Sembravano due bambini tanto erano rattrappiti. Poi gli altri. Non posso dimenticare la smorfia terribile di Minicu du Siri. Era un mutilato di guerra.
Ignazio Vian, nato a Venezia nel 1917, impiccato a Torino il 22 luglio 1944, maestro elementare e studente in Magistero, Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria.
Tenente di complemento della Guardia alla Frontiera, l’8 settembre 1943 Vian era in servizio a Boves. All’annuncio dell’armistizio, fu tra i primi ad attestarsi sulla Bisalta, la montagna che sovrasta l’intera zona, per apprestarsi a rispondere con le armi all’incombente minaccia tedesca.
La lezione di Boves
Boves: la politica del terrore. Un'altra lezione diretta, inequivocabile. Prima arrivavano da·noi le notizie delle stragi commesse dai nazisti in Russia, in Polonia, nei Balcani, ma erano fatti lontani, spesso fraintesi. Si ascoltava la storia di un villaggio polacco o serbo messo a fuoco e si pensava all'epilogo di una battaglia regolare, alla distruzione di un campo nemico.Non si immaginavano o si immaginavano male la repressione preventiva, il terrore teorizzato, la strage a freddo, indifferente all'età e al sesso delle vittime. Boves insegna che un' villaggio può essere devastato solo perché il tedesco. ha deciso di rivolgere all'occupato «un energico ammonimento ».
Una politica che finisce per escludere ogni altra politica. Lo dimostra il comportamento di Peiper. Fa bruciare vivo il parroco: significa rinunciare, se non al favore, alla neutralità di un clero che, nella provincia contadina, ha un grande potere. Fa bruciare l'industriale Vassallo: significa rinunciare, se non all’appoggio, alla neutralità di una borghesia amante dell'ordine,. che potrebbe fare da cuscinetto fra l'occupante e la ribellione. A Peiper interessa unicamente la lezione del terrore, egli obbedisce solo alle sue ferree regole, previste fin dal 1940 nelle circolari del maresciallo Keitel, dettagliate nel codice degli ostaggi del generale von Stülpnagel: tanti fucilati per un danno alle .cose, tanti per un danno alle persone, con facoltà al Comandi locali di aggravare o di attenuare la rappresaglia. Una politica che nasce da una ipotesi assurda, la schiavitù altrui, e finisce in una pratica assurda, l'impossibile sterminio di tutti i nemici, il delirante tentativo hitleriano: «Dobbiamo essere crudeli. Dobbiamo esserlo con tranquilla coscienza. Dobbiamo distruggere tecnicamente scientificamente, tutti i nostri nemici». La distruzione totale dei nemici è un'utopia che gronda sangue. Qualcuno dei nemici sopravvive sempre, il numero dei nemici aumenta di continuo.
Boves, per quanto possa apparire assurdo, offre questo triste conforto: la strage e la crudeltà hanno un fondo, un villaggio bruciato non è un villaggio distrutto e un villaggio distrutto non sarebbe la fine della Resistenza. I ribelli scesi a Boves la sera dell’incendio hanno incontrato i paesani in fuga: si sono salutati, si sono parlati. È stato un altro amaro conforto: una popolazione punita, perseguitata dall'occupante, non è una popolazione ostile alla ribellione, è una popolazione ormai legata alla ribellione.
da “Storia dell’Italia partigiana “ di Giorgio Bocca - Editrice Laterza 1980
Settembre 1943: la nascita del movimento partigiano in Abruzzo
“Anche qui s'addensano gli sbandati e viene formato particolarmente per opera di alcuni ufficiali effettivi un vasto concentramento nella zona di Teramo con la speranza di mantenerlo intatto fino all'arrivo degli angloamericani.
Su 1600 uomini così raccolti sul massiccio di Bosco Martese, a 30 chilometri dalla città, solo 320 sono effettivamente gli sbandati, circa 100 i prigionieri evasi, slavi e inglesi, e 1200 sono invece i giovani della città di Teramo che accorrono al primo appello in montagna: fenomeno forse unico in tutto il corso della Resistenza italiana, questo dell'emigrazione compatta della parte più attiva di un'intera popolazione in montagna. L'attacco tedesco che non si fa aspettare (25 settembre) incontra una resistenza accanita malgrado che la colonna nemica si faccia precedere, lungo la via d'avanzata, da un ufficiale superiore italiano detenuto come ostaggio. Liberato con azione fulminea quest'ultimo, i partigiani catturano e fucilano sul posto un maggiore tedesco e infliggono dure perdite a tutta la colonna chiudendo in netto vantaggio la prima giornata di combattimento (57 fra morti e feriti tedeschi contro sei caduti partigiani). Il dispositivo di difesa di Bosco Martese, accuratamente collegato nelle varie postazioni, ha funzionato alla perfezione ed ha un carattere militare evoluto, quel carattere che la Resistenza acquisterà nel suo complesso solo nella piena fase della sua maturità: ci sono persino i mortai e una batteria d'artiglieria da montagna che ha centrato in pieno la colonna nemica. La resistenza si protrae accanita per tutto il 26 e solo all'alba del terzo giorno, quando il nemico, ricevuti forti rinforzi, impegna nella battaglia un peso soverchiante di uomini e mezzi (circa un migliaio di Alpenjager), viene sospesa, dopo aver incendiato il materiale e inchiodato i pezzi d'artiglieria. Si scioglie il concentramento di Bosco Martese, ma scaturisce dal suo seno la maggior parte dei quadri del movimento partigiano della regione e il ricordo di quella prima ed eccezionale
impresa fermenterà fino all'ultimo in Abruzzo come motivo d'orgoglio e d'incitamento.
Inoltre un gruppo di giovani nemmeno ventenni, in gran parte studenti di scuola media, prende la via della montagna già il 22 settembre e si stabilisce sulle pendici del Gran Sasso; ma, pressoché inerme, la banda viene immediatamente sorpresa dai tedeschi e nove ragazzi vengono fucilati quali «franchi tiratori ». Così sulle pendici della Maiella, guidati da un insegnante del liceo di Chieti, altri giovani costituiscono la banda di «Palombaro », anch'essa dissoltasi dopo i primi scontri.
A questi e analoghi tentativi segue poi il vigoroso sforzo organizzativo compiuto dal socialista Ettore Troilo, coadiuvato da alcuni ufficiali e la costituzione del gruppo Patrioti della Maiella, la più consistente formazione partigiana abruzzese e anche la prima a prendere contatto con gli alleati.
È ancora l'Abruzzo a pagare il prezzo della sua prococe resistenza e della prossimità della linea del fronte con un ingente e tuttora pressoché ignorato contributo di sacrifici e di sangue. Il 21 novembre 1943 nel villaggio di Pietransieri - che aveva tardato ad eseguire l'ordine di evacuazione impartito dalle autorità germaniche - irrompono le truppe tedesche e fanno strage di 130 civili, in gran parte donne e bambini.da “Storia della Resistenza italiana” di Roberto Battaglia Einaudi 1964
settembre 1943: la formazione Italia Libera
Fin dal 12 settembre 1943 si era costituita e già stanziata a Madonna del Colletto, fra Valle Gesso e Valle Stura, la formazione Italia Libera, «l'unica formazione che si sia veramente costituita in città, attraverso una selezione e che dalla città si sia trasferita a costituzione avvenuta, in montagna».
È composta da una dozzina di civili del Partito d'Azione capeggiati da Duccio Galimberti: non soldati sbandati, non giovani minacciati dal lavoro obbligatorio o dalla deportazione in Germania, ma elementi borghesi anche agiati, il cui antifascismo risale e si ricollega all'insegnamento di Piero Gobetti. Il suo esempio ha infatti resistito tenacemente nell'ambiente intellettuale torinese per vincoli diremmo quasi familiari: la moglie di Gobetti, Ada Marchesini, è rimasta sul luogo a ricordare il sacrificio del compagno e la sua casa è divenuta uno dei maggiori centri della cospirazione cittadina. Del tutto inesperti d'arte militare, i componenti dell'Italia Libera si sono rivolti in un primo momento a ufficiali effettivi che hanno rifiutato di porsi a capo di quella piccola spedizione. Debbono quindi fare da sé, felici di poter passare finalmente - com'essi dicono - «dalla teoria all'azione». Ma non c'è tuttavia in loro quella smania di agire subito e ad ogni costo che contrassegnerà altri settori del movimento partigiano. C'è piuttosto l'idea di organizzarsi solidamente, di addestrarsi alla nuova vita con cognizione di causa: li anima un rigoroso spirito egualitario per cui tutti i servizi, anche i più faticosi della vita collettiva in montagna, vengono eseguiti a turno e al tempo stesso una profonda avversione per qualsiasi forma disciplinare che ricordi il vecchio esercito: fino al punto di rifiutare l'uso di indumenti militari! È questa la formazione politica che avrà poi un più costante e regolare sviluppo, aggregandosi gruppi di ufficiali alpini, estendendo continuamente il suo raggio d'azione fino a trasformarsi nelle divisioni Giustizia e Libertà del Cuneese.
da “Storia della Resistenza italiana” di Roberto Battaglia Einaudi 1964
gli intellettuali italiani dopo l’8 settembre 1943
La cultura italiana fu colta anch’essa di sorpresa dagli avvenimenti del settembre. Alcune punte avanzate erano già attive nella lotta antifascista, altre erano ancora ferme in un'angosciosa perplessità nei suoi quadri più numerosi, dalle università ai vari gruppi artistici e letterari. La catastrofe nazionale era piombata improvvisa sulla maggioranza degli intellettuali italiani che non aveva aderito al regime o aveva aderito solo formalmente ... che aveva stimato di salvare la cultura insieme alla propria anima, rifugiandosi in un'arte o in una scienza lontana dalla vita e dai suoi problemi reali. ... Tanti intellettuali si trovarono nel momento del crollo isolati e disperati, senza più riparo o rifugio all'incalzare degli avvenimenti, come gli « sbandati» ed i fuggiaschi del nostro esercito. ... In questo stato di disorientamento, di dubbio angoscioso che arrivava fino alla disperazione, intervenne la voce di Giovanni Gentile. ... Era un richiamo, sia pure così camuffato di. parole solenni, all'attivismo cieco e inconsapevole, una tavola di salvezza offerta decisamente ai naufraghi; non una scelta fra « il bene» e ,« il male» perché bene e male - avvertiva il Gentile - sono dappertutto; l'importante è partecipare alla«storia», intendendo per storia - come egli aveva sempre inteso - la soggezione allo Stato o al potere costituito, l'aureola dell'idealismo intorno al manganello di ieri e al bastone tedesco di oggi. ...
Le parole di Gentile sono della fine del '43, pronunciate non a caso dopo quel Natale che avrebbe dovuto concludere nel segno della«concordia nazionale» la repressione della classe operaia nelle fabbriche e dei primi nuclei partigiani sulle montagne.
Circa un mese prima, il 28 novembre 1943, presso l’Università di Padova era accaduto un episodio esemplare durante la solenne ed eccezionale inaugurazione dell'anno accademico alla quale non furono invitati né i tedeschi né le autorità fasciste; ma il ministro Biggini, all'ultimo momento, assieme al prefetto Fumei, volle intervenire, come egli disse, «in forma privata ». Erano pallidi e titubanti. La grande aula magna rigurgitante di folla, era silenziosa, ma quando entrarono alcuni studenti in divisa repubblicana e armati, cominciò un tumulto indescrivibile: abituati alle prepotenze, da molti anni, i militi risposero con minacce, con insulti e occuparono la tribuna degli oratori, tentando di resistere alla dimostrazione ostile che andava assumendo una violenza sempre maggiore. Entrò in quel momento il Senato accademico con Concetto Marchesi in testa. Il rettore e il pro-rettore allontanarono a viva forza dalla tribuna i militi repubblicani e subito dopo il Marchesi cominciava la sua nota orazione che si chiudeva inaugurando l'anno accademico non più a nome del re, ma in nome «dei lavoratori, degli artisti, e degli scienziati». Disse:
«Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra Patria; vi ha gettato tra cumuli di rovine; voi dovete tra quelle rovine portare la luce di una fede, l'impeto dell'azione, e ricomporre la giovinezza e la Patria. Traditi dalla frode, dalla violenza, dall'ignavia, dalla servilità criminosa, voi, insieme con la gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia dell'Italia e costituire il popolo italiano. Non frugate nelle memorie e nei nascondigli del passato i soli responsabili di episodi delittuosi; dietro ai sicari c'è tutta una moltitudine che quei delitti ha voluto o ha coperto con il silenzio o la codarda rassegnazione, c'è tutta la classe dirigente italiana sospinta dalla inettitudine e dalla colpa verso la sua totale rovina. Studenti, mi allontano da voi con la speranza di ritornare a voi, maestro e compagno, dopo la fraternità di una lotta insieme combattuta. Per la fede che vi illumina, per lo sdegno che vi accende, non lasciate che l'oppressore disponga della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l'Italia dalla ignominia, aggiungete al labaro della vostra università la gloria di una nuova più grande decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace del mondo.»
Da allora l'Università di Padova diventa il maggiore centro cospirativo veneto, è il punto d'incontro fra coloro che agiscono nella clandestinità o hanno preso la via della montagna e coloro che sono rimasti al proprio posto non per salvare la cultura in astratto ma per dare a quegli incontri e a quella organizzazione la «copertura legale». A questa funzione principale vengono indirizzati gli studi e le lezioni universitari; lo studio maggiore è come colpire il nazifascismo senza dargli requie e senza risparmio di sacrifici. L'università fornirà i quadri alla brigata guastatori Silvio Trentin, che cosi si denomina dal dirigente antifascista reduce dalla Francia e prematuramente scomparso nella lotta dopo aver dato il primo impulso alla resistenza veneta: la brigata che avrà uccisi tutti e tre i comandanti avvicendatisi alla sua direzione. Fornirà la più lunga e compatta lista di martiri della Resistenza, professori, assistenti, studenti, inservienti, fucilati o morti in combattimento, nelle prigioni, nei campi di concentramento: circa un centinaio.
da “Storia della Resistenza italiana” di Roberto Battaglia Einaudi 1964
Per le attività di liberazione dal nazifascismo l'Università di Padova è stata l'unica in Italia ad essere insignita della medaglia d'oro al valor militare.
A ridosso della solenne inaugurazione dell’anno accademico, il 12 novembre 1945, alla presenza del generale Dunlop, ‘governatore’ alleato per le Venezie, Ferruccio Parri, già presidente del Cln Alta Italia e allora presidente del Consiglio dei ministri, appuntò al gonfalone dell’Università di Padova la medaglia d’oro al valor militare per il contributo dato da studenti, docenti e personale universitario alla Resistenza, con la motivazione dettata da Concetto Marchesi e scolpita alla base dell’elenco dei caduti nell’atrio del palazzo del Bo:
«Asilo secolare di scienza e di pace, ospizio glorioso e munifico di quanti da ogni parte d’Europa accorrevano ad apprendere le arti che fanno civili le genti, l’Università di Padova nell’ultimo immane conflitto seppe, prima fra tutte, tramutarsi in centro di cospirazione e di guerra; né conobbe stanchezze, né si piegò per furia di persecuzioni e di supplizi. Dalla solennità inaugurale del 9 novembre 1943, in cui la gioventù padovana urlò la sua maledizione agli oppressori e lanciò aperta la sfida, sino alla trionfale liberazione della primavera 1945, Padova ebbe nel suo Ateneo un tempio di fede civile e un presidio di eroica resistenza e da Padova la gioventù universitaria partigiana offriva all’Italia il maggiore e più lungo tributo di sangue.»
Padova, 1943-1945
Forze Armate e Resistenza
8 settembre: a migliaia i soldati che attaccarono gli invasori nazisti
Ufficialmente la “guerra di Liberazione” ha inizio in Italia l’8 settembre 1943 e termina il 25 aprile del 1945, quale lotta dichiarata al fascismo e all’occupazione tedesca. In verità questa guerra trae origine da quei movimenti di opposizione, attiva e passiva, armata o inerme, che erano sorti in Italia con l’avvento del fascismo e successivamente, in forma più consistente, durante la seconda guerra mondiale, contro il nazifascismo. Questi movimenti sono passati alla storia con il termine di “Resistenza”.
La guerra di Liberazione, quindi, e la confluenza di due elementi diversi: le correnti antifasciste che si erano opposte alla dittatura durante il ventennio e le masse popolari, in uniforme e non, il cui malcontento verso il fascismo si era manifestato in modo sempre più acuto nel corso della seconda guerra mondiale. La guerra di Liberazione non scoppia come una guerra tradizionale, con un atto formale, ma nasce come moto spontaneo, anche caotico e convulso. Le correnti antifasciste della prima ora affiorano alla legalità dopo il 25 luglio del 1943, ma non sono più le stesse di 20 anni prima; così come il popolo italiano, nelle sue classi e strati sociali, risulta profondamente cambiato da come l’aveva trovato il fascismo all’epoca della sua nascita. La maggiore consapevolezza culturale, i grandi sacrifici sopportati, ma soprattutto la convinzione di aver partecipato a una guerra sbagliata, hanno diffuso in vasti strati della popolazione, e anche nei ranghi delle Forze Armate, la voglia di insurrezione.
L’entrata in guerra, e oggi la storia ci è di conforto, fu una iniziativa personale di Mussolini, presa anche contro il parere di alcuni gerarchi fascisti e dei tecnici militari, che hanno comunque la grave colpa di non essersi opposti con vigore. Ma certamente la decisione fu assunta contro la volontà del popolo italiano e non contano le “adunate oceaniche” o i 10.000 fascisti assiepati il 10 giugno 1940 in Piazza Venezia (tante sono le persone che quella piazza al massimo può contenere) per affermare che il popolo italiano era tutto favorevole alla guerra! L’entrata in guerra fu un atto di azzardo, nel quale tutta la vita della nazione fu giocata sull’alea della fine imminente della guerra («poche migliaia di morti necessari per la vittoria», come fu dichiarato allora). Non si tenne nel minimo conto dello stato di logoramento e di impreparazione delle Forze Armate, della mancanza di riserve e dell’assenza di materie prime. Vero è che la situazione della realtà economica italiana nel ’40 era disastrosa. L’autarchia – era stata sbandierata come il sistema economico vincente per il popolo italiano – non solo aveva asciugato ogni possibile riserva, ma era stata attuata con la prospettiva della guerra inevitabile e lo stesso fascismo s’era messo in condizioni di non poter tornare indietro.
L’autarchia, nei fatti un atto di grande presunzione contro il resto del mondo che aveva decretato le sanzioni all’Italia, combinando gli effetti della sovrapproduzione in alcuni settori con quelli della carestia di guerra, aveva tolto all’economia italiana gli sbocchi, le vie di uscita, qualsiasi possibilità di successo. Spremuto fino all’osso il magro mercato interno, se si voleva mantenere il ritmo vertiginoso dei profitti capitalistici del momento, era inevitabile indirizzare la produzione delle materie trasformate verso nuovi mercati, aprire rapidamente la strada verso l’Europa. Mussolini, con la decisione di entrare in guerra, interpretò soprattutto la volontà del capitale finanziario. Non ci fu esponente del mondo bancario o industriale che esprimesse la sua disapprovazione alla guerra. Il popolo italiano era rimasto estraneo a una decisione così tragica. Anzi, si ritenne che la situazione economica della gran massa degli italiani era divenuta così insostenibile che, malgrado tutto, la guerra sarebbe stata una liberazione sia per il milione di lavoratori disoccupati permanenti, sia per le tante famiglie sospinte dall’autarchia verso la miseria.
Ci fu anche una infelice coincidenza, perché la guerra nelle sue prime battute favorevoli, consentì di incanalare il malcontento popolare nel concetto del “dovere verso la patria”.
Alla data dell’8 settembre 1943, la situazione era completamente diversa rispetto al giugno del 1940. La guerra si era manifestata nella sua completa tragicità. I lutti si erano diffusi nel territorio nazionale, sul quale era gia iniziata l’invasione; le sconfitte militari erano aumentate e i bombardamenti avevano già provocato migliaia di vittime tra la popolazione civile, mentre la maggior parte della “forza lavoro” era assente dalle famiglie.
Nel settembre del 1943 gran parte della popolazione italiana “indossava l’uniforme”. 4.666.600 erano gli uomini inquadrati nei ranghi dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica, compresi Carabinieri e Guardia di Finanza (l’Esercito disponeva di 82 Divisioni, la Marina di 349 navi e l’Aeronautica di 1.500 aerei, il tutto dislocato in Italia e all’estero). La Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, come vedremo, era a parte.
Considerato che la popolazione italiana a quella data era di circa 43 milioni di persone, quasi l’11% della popolazione era in armi, percentuale che sale a più del 22% se si considera la sola componente maschile della popolazione; comunque oltre l’80% della “forza lavoro” era assente dalle attività produttive. Alla data dell’8 settembre, circa 700.000 militari erano fuori del territorio nazionale, e furono coloro che, soprattutto per mancanza di chiare direttive, subirono le perdite più gravi.
Con l’8 settembre l’Italia attraversò uno dei momenti più drammatici della sua storia recente. La scelta delle Forze Armate, dove fu possibile un minimo di resistenza, dove si ebbe l’iniziativa di uomini che, in assenza di direttive coordinate, volevano salvare l’onore e la dignità della nazione, fu netta e corale. Resistenza all’oppressione, alla violenza di coloro che, non paghi della tragedia provocata da una terribile guerra di aggressione, volevano prolungare oltre ogni ragionevole, umana sopportazione, uccisioni e distruzioni. È anche vero che intere unità si dissolsero, ma in molti casi per assenza di direttive da parte del comando supremo, unita a inferiorità schiacciante di armamenti, e in qualche caso per decisione degli stessi Comandanti che preferirono lasciare liberi i loro uomini piuttosto che condannarli all’annientamento, ai plotoni di esecuzione, alla deportazione.
La situazione delle Forze Armate italiane dopo l’8 settembre è caratterizzata da 800.000 militari internati in Germania (dei quali oltre 40.000 non fecero ritorno), da 500.000 prigionieri degli alleati, da 80.000 riuniti nelle formazioni partigiane in Italia, mentre circa 30.000 si erano associati alla locale resistenza in Jugoslavia, in Albania, in Grecia e da 616.000 entrati a far parte delle ricostituite Forze Armate italiane.
Desidero sviluppare una breve analisi sulle cifre ora elencate e cercare di illustrare il perché della grande massa di militari nei campi di concentramento, nelle formazioni partigiane (in Italia e all’estero) o nelle unità schierate con gli alleati (in totale più di un milione e mezzo di uomini!). Questa analisi servirà a comprendere la Resistenza non solo nei suoi aspetti politici, ma anche nel suo significato militare. È necessario ricordare il grande impegno espresso dal fascismo per realizzare il controllo delle Forze Armate, ricercando nel contempo una spaccatura al loro interno. Agli inizi degli Anni 30 il fascismo fondò la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN). Le Forze Armate, inclusi i Carabinieri, la Pubblica Sicurezza (come si chiamava allora l’attuale Polizia di Stato) e la Guardia di Finanza garantivano completamente la “Sicurezza Nazionale”. Nonostante ciò, fu disposta la costituzione della Milizia, ordinata come l’Esercito, dalle squadre sino alle Divisioni (anche se le unità e i gradi erano denominati, incuranti del ridicolo, come nell’antica Roma: manipoli, centurie, legioni; così come i gradi erano legionario, seniore, centurione, etc.). La Milizia provocò pericolose spaccature e odiosi contrasti.
I primi gravi problemi tra Esercito e Milizia si ebbero nella guerra d’Africa, nel 1935-1936. Nel 1940 la Milizia comprendeva circa 60.000 uomini e la frattura con le Forze Armate era evidente; a nulla valsero i tentativi di migliorare la situazione, cercando di instaurare artificiosamente la concordia. Anzi, furono proprio questi tentativi, come quello di inquadrare i battaglioni delle “Camicie Nere” all’interno delle Divisioni dell’Esercito, ad accelerare il processo di disgregazione. Valga per tutti l’esempio della Divisione alpina Julia che, mobilitata per la Grecia, si ammutinò, piuttosto che accettare nelle proprie fila i reparti fascisti e condusse uno “sciopero” militare a oltranza (mancata partecipazione al rancio e alle adunate per la libera uscita) finché non furono esaudite le richieste. I “soldati di Mussolini” così erano chiamati gli appartenenti alla Milizia, non erano accettati dal personale dell’Esercito, tanto che si verificarono situazioni di contrasto, specie quando i militari delle Forze Armate non riconoscevano l’autorità degli “Ufficiali col fascio” (la Milizia non portava le stellette sull’uniforme, ma un piccolo fascio littorio sul bavero); tra l’altro le promozioni, nella Milizia, non avvenivano per capacità tecniche, ma per “meriti fascisti”.
Fu inevitabile, pertanto, che subito dopo l’8 settembre, la spaccatura nell’ambito delle Forze Armate, e dell’Esercito in particolare, si manifestasse in tutta la sua evidenza. I “soldati di Mussolini” e pochi loro simpatizzanti si precipitarono nelle formazioni tedesche e al nord, nella Repubblica Sociale, mentre gli altri fecero, come abbiamo visto, una scelta coerente, anche se, in molti casi, estremamente dolorosa. È opportuno indicare, anche se succintamente, la frenetica cadenza delle trasformazioni attuate (in qualche caso imposte dagli alleati) nell’ambito delle ricostituite unità delle Forze Armate italiane. Anche se nei giorni successivi all’8 settembre le formazioni dislocate in Puglia, Lucania e Calabria si erano battute con determinazione contro i tedeschi, gli Alleati non consentirono ai reparti italiani di proseguire la lotta. Le unità furono riordinate, inglobando anche molti elementi che erano giunti dal nord, attraversando le linee, e militari provenienti dai Balcani.
Il 26 settembre fu costituito il 1° Raggruppamento Motorizzato (in pratica una brigata su 4 battaglioni di fanteria e supporti, per un totale di circa 3.000 uomini). Il 13 ottobre 1943 venne formalizzato lo stato di guerra contro la Germania. Il 7 dicembre il 1° Raggruppamento entrò a linea, a Monte Lungo, sul fronte di Cassino. Dopo due tentativi, la posizione fu conquistata. Ci furono 350 caduti (più del 10% della forza) che andarono ad aggiungersi ai circa 10.000 morti a Cefalonia, a Corfù, in Egeo, nella difesa di Roma.
Nel febbraio del 1944 il Raggruppamento, con una forza di circa 5.000 uomini, combatté sugli Appennini e il 18 aprile venne inquadrato nel “Corpo Italiano di Liberazione”. A fine maggio la linea Gustav in corrispondenza di Cassino fu infranta e il “Corpo Italiano di Liberazione”, forte ora di 24.000 uomini, fu inquadrato nell’VIII Armata Britannica, impegnata sul fronte adriatico; questa allocazione fu attuata per evitare che le truppe italiane partecipassero alla liberazione di Roma.
II 24 settembre 1944 gli alleati chiesero al Governo italiano di approntare, per essere impiegate in prima linea, 6 divisioni leggere, denominate “Gruppi di Combattimento”; denominazione che rispondeva a ragioni politiche, per minimizzare il contributo bellico italiano alla causa alleata, in previsione degli accordi di pace. Le uniformi dei Gruppi di Combattimento (Cremona, Friuli, Folgore, Legnano, Mantova e Piceno) erano inglesi, con simboli e mostrine italiane. I Gruppi di Combattimento furono inizialmente schierati sulla linea Gotica (che, partendo dalle alpi Apuane, a nord di Pisa, raggiungeva l’Adriatico a nord di Ravenna) e, sempre inquadrati nell’VIII Armata inglese, liberarono Bologna, Modena, Mantova e nel settore orientale Ferrara, Venezia e, infine, risalendo la valle dell’Adige, raggiunsero Bolzano.
Furono inoltre costituite 8 divisioni ausiliarie, dedicate alle attività logistiche di rifornimento e trasporto, per un totale di circa 200.000 uomini, che consentì agli alleati di disimpegnare un numero equivalente di combattenti da destinare ad altri scacchieri.
Per fedeltà storica, è opportuno ricordare che fu inoltre costituito,nell’ambito delle Forze Armate italiane, il Corpo Assistenza Femminile, da impiegare presso i posti sosta, le biblioteche, gli uffici informazioni, le Case del soldato, etc. Le appartenenti al Corpo erano donne di età compresa tra i 21 e 50 anni, in uniforme, tutte volontarie e assimilate al grado minimo di sottotenente.
È noto che alla guerra di Liberazione, oltre alle unità militari che operarono a fianco degli anglo-americani, agirono anche donne e uomini che, riuniti in bande alla macchia o comunque in clandestinità, impugnando le armi o in altri modi, intesero offrire il loro contributo per cacciare dal territorio nazionale l’occupante tedesco e abbattere la costituita Repubblica Sociale nel nord Italia. Le Forze Armate italiane, con il sostegno delle Forze Speciali alleate, attuarono un sistema di collegamenti e rifornimenti di armi e materiali alla Resistenza nell’Italia occupata.
Non fu un’operazione semplice; fu necessario conciliare visioni completamente diverse sul fenomeno “Resistenza”. Gli alleati, almeno inizialmente, non nutrivano molta fiducia nei riguardi di una organizzazione che non potevano direttamente né dirigere né controllare. In seguito a delicate trattative si convenne che le formazioni partigiane avrebbero dovuto organizzare esclusivamente azioni di sabotaggio, tramite prigionieri di guerra alleati fuggiti dai campi di concentramento o missioni di collegamento alleate che sarebbero state inviate presso le formazioni stesse. Il Comando Alleato, inoltre, pretese che le formazioni partigiane escludessero dalla propria pianificazione l’insurrezione generale, di fatto la liberazione, delle città più importanti. Il risvolto politico di questa proibizione era evidente. Il divieto fu disatteso, e le unità tedesche e fasciste furono cacciate da Genova, Torino, Milano e da altre città prima dell’arrivo degli alleati. Furono necessari alcuni mesi perché la collaborazione tra le Forze Speciali alleate, Forze Armate italiane e Comitati di Liberazione Nazionale (CLN), da cui dipendevano le diverse formazioni partigiane, diventasse più fiduciosa e fattiva. Nonostante il sostegno, le formazioni partigiane operarono in un contesto di decisa repressione.
Quelle donne e quegli uomini che parteciparono attivamente alla guerra di Liberazione, nei ranghi delle Forze Armate o nelle formazioni partigiane, o anche semplicemente attuando la resistenza passiva, avevano in mente l’ideale di una nazione libera, democratica, pacifica, profondamente rispettosa dei diritti umani. Quelle donne e quegli uomini operarono con determinazione, affrontando gravissimi rischi, in un Paese distrutto, diviso e occupato da eserciti stranieri, con alle spalle centinaia di migliaia di morti e di invalidi, e con un morale provato da oltre tre anni di guerra. E in aggiunta con l’accusa di essere anche dei traditori. Quelle donne e quegli uomini, invece, erano convinti che l’accusa infamante era profondamente ingiusta: la maggior parte del popolo italiano aveva preso coscienza sia dei tragici errori politici commessi, sia di essere stato ingannato, sia della necessità, proprio perché colpevoli, di porre fine alle immani distruzioni provocate dalla guerra. Il popolo italiano non aveva tradito! Era stato tradito!
La guerra di Liberazione ha segnato l’inizio della rinascita di una Nazione profondamente desiderosa di collocarsi dignitosamente nell’ambito della comunità internazionale. Il prezzo pagato nella guerra di Liberazione è stato molto elevato. Per raggiungere il traguardo della libertà i caduti sono stati, in 17 mesi, 88.337 e i feriti gravi più di 20.000, senza contare le vittime tra la popolazione civile. Questi eroi facevano parte delle unità militari, delle formazioni partigiane, dei prigionieri in mano tedesca, tutti uniti e accomunati in un unico grande sacrificio.
A loro il nostro rispettoso pensiero e la gratitudine per averci consentito di riacquistare la dignità nazionale. In tutti esisteva la viva speranza di non essere più costretti a combattere una “guerra di Liberazione”.
(da una conferenza del generale Franco Angioni)8 settembre 1943: il comportamento della Marina militare
La Marina italiana eseguì l'ordine, per quanto duro fosse, di salpare per Malta con un movimento simultaneo di grande precisione, subendo gravissime perdite priva come era d'ogni protezione antiaerea. Mentre la squadra di Taranto poteva percorrere indenne la breve distanza, quella della Spezia che costituiva la parte più rilevante della flotta rischiava l'annientamento nel corso della lunga rotta.
La Corazzata Roma nel momento in cui viene colpita (immagine tratta dal sito della Marina Militare)
Al largo della Maddalena un attacco aereo tedesco colpiva nella santabarbara la Roma che s'inabissava insieme all'ammiraglio Bergamini e 1500 uomini dell'equipaggio; era colpita inoltre l'Italia che però poteva continuare, benché appruata, la navigazione; nella rotta verso l'Africa il Vivaldi era affondato dalle artiglierie germaniche costiere e il Da Noli saltava su una mina. Ma è veramente giusto attribuire tale splendido comportamento come si è fatto in genere allo spirito dei suoi ufficiali, tradizionalmente e sicuramente «monarchico» e quindi impenetrabile al tradimento e alle infiltrazioni della quinta colonna fascista? Certo, la casta militare della marina ha avuto e ha tuttora carattere più omogeneo di quello dell'esercito, è, per sua natura, dotata di qualità «tecniche» che formarono anche nel periodo fascista il più sicuro argine contro il carattere d'improvvisazione e di faciloneria impresso dal regime alle Forze Armate. Ma considerare il comportamento della marina all'8 settembre solo come una prova di «lealismo» monarchico oppure come la dimostrazione d'una «obbedienza agli ordini» passiva e indiscriminata, significa dare un'interpretazione troppo semplice e unilaterale a uno dei fatti più importanti della nostra storia. Occorre anche tener conto delle «condizioni di vita» degli equipaggi, apparentemente isolati e racchiusi in se stessi - più isolati d'un qualsiasi reparto al fronte - ma, in realtà, inseriti in una valutazione degli avvenimenti di tipo «internazionale », collegati con le potenti radio di bordo alle stazioni straniere più lontane, da Londra a Mosca, comunque alieni da quel gretto provincialismo che costituisce la forza della propaganda fascista. Né bisogna trascurare il fatto che proprio quelle particolari «condizioni di vita» avevano consentito di organizzare a bordo da parte dei marinai - operai specializzati in divisa militare - vere e proprie cellule comuniste, tollerate dai «superiori »; e che, in sostanza, insieme all'«antifascismo» degli ufficiali conviveva e agiva come elemento di pressione dal basso quello, ancor più convinto e pugnace, degli equipaggi.
Nei giorni seguenti alla caduta del fascismo la bandiera rossa fu issata insieme alla bandiera nazionale sulla fortezza del Varignano (La Spezia) e furono i marinai della flotta italiana alla fonda nel porto di Gaeta a salutare, col pugno chiuso e cantando Bandiera rossa, il vaporetto che riportava alla libertà e alla lotta i dirigenti della classe operaia confinati a Ventotene, a manifestare la loro gioia per questa grande vittoria delle forze popolari nel periodo badogliano.
L '8 settembre non giunse dunque inaspettato se già alle prime luci dell'alba successiva i muri degli arsenali di La Spezia e di Taranto apparvero cosparsi di scritte inneggianti alla pace e alla lotta antinazista, le stesse scritte che apparivano nelle stesse ore nelle maggiori fabbriche italiane.
da “Storia della Resistenza italiana” di Roberto Battaglia Einaudi 1964
La “lunga Liberazione”
La violenza della RSI - sotto forma di fucilazioni di partigiani e di rappresaglie contro i civili - perdurò in forma virulenta sino alla fine della guerra, senza alcuna attenuazione.
Il 19 aprile 1945 il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia lanciò ai fascisti l’invito tassativo di “arrendersi o perire”. Ma fino agli ultimi giorni, quasi le ultime ore, l'azione repressiva dei nazifascisti mantenne intatta la propria drammatica efficacia. Lo scontro fu durissimo e totale sino alla fine delle ostilità "ufficiali". Nella sola fase insurrezionale 4.000 furono le perdite partigiane.
L'addensarsi della rabbia vendicativa, accumulata per mesi, trovò sanguinoso sfogo appena le circostanze lo consentirono.
Alla Liberazione seguì un mese di giustizia sommaria, intensa e senza mediazioni. La memoria lunga dell'oppressione classista e della guerra civile strisciante del 1921-22, quando il rullo compressore dello squadrismo aveva distrutto il tessuto associativo delle leghe rosse, costò cara ai responsabili di soperchierie lontane nel tempo ma vicinissime nella percezione delle vittime e dei loro figli. Si uccise il nemico sconfitto, si vendicarono i caduti e gli eccidi. Si anticipò il corso di una giustizia che ritardava troppo la sua azione.
... “Ragazzi di vent'anni o padri di famiglia pagano adesso con la vita la fedeltà e l'estrema coerenza ad un malinteso ideale di onore e di amor patrio che li ha tragicamente spinti a non vedere ciò che era ormai sotto gli occhi di tutti, pagano l'aver scelto di continuare a stare dalla parte di chi aveva elevato la violenza e l'efferatezza a sistema, di chi volontariamente e oggettivamente si era asservito ai nazisti divenendo corresponsabile del saccheggio del patrimonio nazionale, delle deportazioni, delle stragi, delle rappresaglie, delle torture, delle impiccagioni e delle fucilazioni”.
Piccola fascista con il viso imbrattato di vernice e la ‘M’ di Mussolini dipinta sulla fronte viene fatta marciare per la città da partigiani milanesi (da Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea 'Giorgio Agosti' http://www.istoreto.it/mostre/lunga_liberazione_220405/chiaroscuri_fotografie.htm
Dove più forte aveva infierito la repressione nazifascista, più forte colpì la vendetta del postliberazione. Dove più forte e sanguinoso era stato l'impatto dello squadrismo agrario e padronale, lì è dove la "pulizia" venne condotta con la massima energia.
Furono mesi in cui la fiducia in una giustizia pronta ed efficace rimase ancora diffusa, sensazione che si infranse prima sul reale rigore della giustizia ufficiale e poi nell'azione di distruzione a tappeto delle condanne compiuta dalla Cassazione, operazione completata dall'amnistia del 1946.
Apparve presto evidente, con l'emanazione dell'amnistia Togliatti e con la sua applicazione oltremodo estensiva da parte della magistratura (plasmata in buona parte dal regime e persistentemente ancorata a quei valori), che lo Stato applicò agli imputati criteri di straordinaria generosità, considerati beffardi da chi aveva avuto familiari o compagni di lotta uccisi in maniera brutale e che vedeva quei criminali tornare liberi, nel giro di un paio d'anni.
21.500 furono gli imputati comparsi di fronte alle CSA (Corti Straordinarie d’Assise); 525 furono le condanne a morte comminate (2,4%). I reati consumati prima dell’8 settembre 1943 non furono di competenza delle CSA e non conobbero mai giustizia perché amnistiati nel giugno 1946.
Mentre in Francia vi fu un mantenimento, con qualche novità, della sua classe dirigente politica (con l’esclusione delle destre fasciste) e un rinnovamento, in misura sensibile, degli apparati, in Italia vi fu un rinnovo della classe politica senza mutare il personale degli apparati. Un esempio: i giudici della Cassazione. La Cassazione (che annullò il maggior numero possibile di condanne a morte) era composta da uomini che dovevano al fascismo la loro posizione: erano stati zelanti verso le disposizioni del regime.
L’amnistia fu l’eutanasia del processo di defascistizzazione e un fallimento dell’epurazione amministrativa.
Particolarmente severo nei confronti dell’amnistia si dimostrò Sandro Pertini che non mancò di polemizzare anche con Togliatti.
L’amnistia fu carente per “dissidio tra circostanze attenuanti e principio di responsabilità”.
Con l’amnistia buona parte dei vertici della repubblica Sociale Italiana furono liberi, così pure i golpisti del 1922, i sicari di Matteotti e dei fratelli Rosselli, i delatori, le spie, i torturatori di prigionieri (percosse, strappi delle unghie, bruciature non vennero considerate sevizie “particolarmente” efferate), gli stupratori. Un gran numero di componenti della banda Koch di Milano, tra cui assassini di partigiani (con l’esclusione dei componenti volontari dei plotoni di esecuzione), vennero liberati.
I giudici togati al cospetto dell’opinione pubblica condannarono gli imputati, ma sul piano giurisprudenziale lasciarono ampio spazio alla revisione delle sentenze, con la conseguenza di una netta attenuazione delle pene emesse dalle CSA.
La Cassazione completò l’opera di totale smantellamento dell’apparato primitivo contro fascisti e collaborazionisti applicando in maniera estensiva e indiscriminata l’amnistia.
da una sentenza della Cassazione depositata in copia a Torino:
"Non può […] essere ritenuta la partecipazione dell'imputato all'omicidio di un paracadutista, che gli inglesi avevano calato nel territorio occupato per servizio di informazioni, per averlo lo stesso denunciato e consegnato ai tedeschi che lo fucilarono, giacché, a prescindere che malgrado il rigore dei metodi di guerra dei tedeschi la decisione sulla fucilazione restava sempre ad essi devoluta, mancava la prova nell'imputato della volontà di uccidere, non potendo la previsione della fine certa del denunciato indurre senz'altro l'intenzione di uccidere. Non sussiste la causa ostativa dei fatti di omicidio nei confronti di chi -comandante dell'UPI- abbia arrestato due coniugi e diverse altre persone di razza ebraica, poi deportate a Dachau e Mauthausen, dove perirono, giacché nella fattispecie non solo manca il rapporto di causalità psichica, ma anche di causalità materiale fra l'arresto, la deportazione e l'evento morte. Né sussiste la causa ostativa dei fatti d'omicidio a carico di chi, maresciallo della G.N.R., abbia compiuto numerosi arresti di cittadini e patrioti, successivamente uccisi dai tedeschi o deceduti a Fossoli [ ... ] poiché mancano gli estremi della responsabilità per la partecipazione agli omicidi. Non costituiscono sevizie particolarmente efferate le percosse con nerbate, inflitte a diversi arrestati durante gli interrogatori per farli parlare, fatte seguire da immersioni in vasche piene d'acqua durante l'inverno, giacché tali violenze non arrivano a concretare il grado sommo ed abnorme di atrocità nelle sofferenze richiesto per rappresentare quelle sevizie particolarmente efferate ostative dell'amnistia. Né l'assistenza dell'imputato all'impiccagione di un arrestato può costituire di per sé, senza il concorso di elementi specifici di partecipazione, prova di concorso nell'omicidio o nemmeno, per difetto di circostanze idonee ad integrarle, le sevizie particolarmente efferate. Difetta di motivazione la sentenza che ha qualificato sevizie particolarmente efferate le nerbate sulle mani, protratte sino a provocare la perdita dei sensi della vittima, ed il ricorso a punture per farla rinvenire e continuare il martirio, giacché da un lato ha omesso di valutare criticamente le modalità ed intensità delle sevizie stesse e dall'altro di indagare quali siano stati i mezzi impiegati per farle ricuperare i sensi, ben diverse, a seconda del mezzo adoperato, potendo essere le conclusioni circa la gravità delle sofferenze provocate”.
“Si salvano in tanti
Sono in troppi a salvarsi in quei giorni e sono in troppi a prodigarsi per il salvataggio dei criminali più in vista. Ci sono gli angloamericani e la curia milanese, quell'Ildefonso Schuster che, per glorificare il duce aveva scomodato anche Gesù quando, all'interno del duomo, aveva fatto scrivere in caratteri dorati: «Gesù, re dei popoli - dona anni lunghi e vittoriosi - a Benito Mussolini, splendore dell'epoca sua» ”.
Tra coloro che avranno salva la vita c’è “il maresciallo Graziani, il «leone di Neghelli», l'uomo che, fra le tante ignominie, ha firmato il bando di fucilazione per i renitenti alla leva repubblichina. ...
Il 26 febbraio 1948 la Corte d'assise speciale di Roma, dopo settantanove udienze, si dichiarerà incompetente a giudicare Graziani e ordinerà la trasmissione degli atti alla Procura militare. Condannato il 2 maggio 1950 a diciannove anni di reclusione, beneficerà subito di una riduzione della pena a quattro anni e cinque mesi per effetto del condono e, scontatigli anche gli ultimi quindici mesi che gli restano da fare, il maresciallo torna in libertà, ma non proprio a vita privata: una fotografia del 1953 lo ritrae ad un comizio elettorale ad Arcinazzo, in un bel abbraccio con l'allora giovane sottosegretario democristiano Giulio Andreotti”.
L’amnistia arrivò troppo presto in Italia, solamente dopo quattordici mesi dalla fine della guerra, a differenza della Francia (*) dove l’amnistia vi fu solo nell’agosto del 1953, cioè nove anni dopo la fine dell’occupazione tedesca.
Bibliografia:
- Mirco Dondi – La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano – Editori Riuniti, 2008
- Massimo Storchi – Il sangue dei vincitori. Saggio sui crimini fascisti e i processi del dopoguerra (1945-1946) – Aliberti Editore, 2008
- Luigi Borgomaneri - Due inverni, un'estate e la rossa primavera. Le brigate Garibaldi a Milano e provincia 1943-1945 - Franco Angeli, 1995
- Vittorio Roncacci - “La calma apparente del lago” Macchione Editore, 2004
(*) Le cifre dell’epurazione in Francia:
9.000 esecuzioni extragiudiziarie
1.500 esecuzioni giudiziarie
310.000 le cause istruite
125.000 processi
45.000 pene di prigione
50.000 sottoposti a “dégradations nationales”25.000 funzionari sottoposti a sanzioni
La “lunga Liberazione” a Lissone
Anche nella nostra città la giustizia sommaria ebbe, nei giorni seguenti il 25 aprile, il suo tragico corso:
Ennio Arzani,
impiegato, di anni 29, fucilato alla schiena alle ore 6,30 del 30 aprile 1945 presso il Parco delle Rimembranze
Luciano Mori,
geometra, di anni 45, fucilato alla schiena alle ore 6,30 del 30 aprile 1945 presso il Parco delle Rimembranze
Giuseppe Tempini,
maresciallo dei Carabinieri in pensione, di anni 55, morto per ferite multiple di arma da fuoco al torace e al cranio, presso la sua abitazione di Via Assunta 3, alle ore 18,30 del 3 maggio 1945
Guglielmo Mapelli,
meccanico, di anni 37, morto per ferite multiple di arma da fuoco al cranio, alle ore 22,30 del 17 maggio 1945 presso il cimitero di Lissone
Fausto Gislon,
falegname; di anni 41, morto per ferite multiple di arma da fuoco al cranio, alle ore 5 del 18 maggio 1945 presso il cimitero di Lissone
(fonte Archivi comunali)
“Combattere fino alla liberazione della nostra Patria”
Val d'Ossola, Natale 1943: lettera del comandante partigiano F.M.Beltrami al comando tedesco
Egregio Colonnello,
in luogo di telefonarle, preferisco inviarle questa lettera; i miei superiori non acconsentono al colloquio richiesto e proposto. Non mi rimane che esprimerle per iscritto il mio pensiero.
Lei mi ha chiesto ieri per telefono quali siano le mie intenzioni. Eccole: combattere fino alla liberazione della nostra Patria, liberazione dagli occupanti stranieri, di qualunque nazionalità siano, liberazione dall'infame cricca fascista, colpevole di vent'anni di malgoverno, colpevole di aver portato il paese in una guerra colossale senza la necessaria preparazione, colpevole delle miserevoli figure imposte al nostro esercito per il proditorio attacco alla Francia, quando credette di poter sfruttare un vostro innegabile successo, e alla Grecia; ed ora infine colpevole di banchettare sulle ultime risorse del popolo martoriato, chiedendo protezione alle baionette tedesche e al sangue tedesco per le malefatte. Perché queste tristi figure di fascisti non vengono all'attacco delle nostre posizioni?
Perché sono dei vigliacchi, perché preferiscono esporre la nostra vita in luogo della loro miserevole esistenza; pronti a tradirvi nel caso che le sorti della guerra riuscissero a voi definitivamente sfavorevoli.
Essi parlano di onore nazionale, ma il loro esercito, la loro milizia sono formati per la maggior parte da elementi usciti dalle carceri, a cui il condono della meritata pena valse gradi di ufficiale.
Di fronte a questa gente, signor Colonnello, l'esercito dei patrioti, anche se piccolo di numero, non piega, non può piegare. Noi combattiamo per l'onore della nostra bandiera che non deve essere portata da mani vigliacche e sudice. Queste cose le dico a lei, per quanto mi pesi dirle a uno straniero.
In quanto lo scadere dell'ultimatum, le dirò, signor Colonnello, che noi non deponiamo le armi, unica garanzia della nostra libertà. Ma, per non coinvolgere le popolazioni borghesi in una lotta senza quartiere, ho deciso di lasciare gli eventuali accantonamenti; ci sparpagliamo nel paese, apparentemente scompariamo, perché i tempi non sono ancora maturi per una lotta aperta, per quanto sarebbe la più gradita al cuore di un soldato.
I miei compagni non hanno bisogno di comodi alloggiamenti; il periodo d'istruzione concesso ha garantito la necessaria mobilità per continuare la lotta ovunque si presenti.
Avrei voluto aver l'onore di conoscerla personalmente, così, invece, non mi resta che salutarla per iscritto.
F.to: Capitano F.M. Beltrami
Val d'Ossola, Natale del 1943, spedita la lettera, il capitano Beltrami, si trasferì con il suo gruppo di partigiani in valle Strona, unendosi ad altri gruppi partigiani e continuando così la lotta di liberazione. Il 13 febbraio 1944, furono attaccati da reparti tedeschi delle SS, un corpo di truppe tedesche da montagna, insieme a loro le Brigate Nere e Guardie di Finanza. Per permettere ai suoi uomini di ritirarsi, il Capitano Beltrami, insieme a Antonio Di Dio, Gianni Citterio, il sedicenne Gaspare Pajetta e una decina di altri partigiani, si sacrificarono morendo sotto il fuoco nemico.
Gianni Citterio era un nostro concittadino, fra i fondatori del movimento antifascista monzese.
P.S.: la lettera del capitano Beltrami è tratta dal libro di memorie scritto da sua moglie.
Il capitano
Beltrami Gadola, Giuliana
Sapere 2000 Ediz. Multimediali, pag. 109, € 9,90
Collana L'Italia libera
A Monza al LIBRACCIO
on line www.libraccio.it