Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

resistenza italiana

La Resistenza non ha colore

2 Octobre 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Ufficiale medico sudafricano? Partigiano «negro-americano»? Yankee di origine africana? Tutti indizi veri, ma imprecisi: non era facile decifrare l’enigma del cadavere di un civile dalla pelle scura rinvenuto tra le vittime della strage nazista in Val di Fiemme, avvenuta a ostilità concluse il 2 maggio 1945. Chi era quel giovane «mulatto» sul cui corpo esanime vennero rinvenute le insegne dei prigionieri del campo di concentramento di Bolzano, come attestò Giuseppe Morandini, inviato sul luogo del massacro dal Comitato di Liberazione Nazionale?

Merita più di un racconto la vicenda di Giorgio Marincola, partigiano di colore della Resistenza: ne dà conto la densa biografia Razza partigiana (Iacobelli, pp. 174, euro 14,90), volume in cui due giovani storici – Carlo Costa e Lorenzo Teodonio – ricostruiscono tramite documenti d’archivio, riferimenti storiografici e testimonianze dirette la parabola di vita dell’unico partigiano «nero» d’Italia. Figlio di un italiano residente in Somalia, maresciallo di fanteria di stanza a Mahaddei Uen, 50 chilometri a nord di Mogadiscio, Giorgio nasce nel 1923 e ben presto dice addio all’Africa: a differenza di tanti altri commilitoni, infatti, il padre Giuseppe riconosce il pargolo avuto da una donna locale e porta con sé Giorgio e la sorella Isabella in patria nel 1926. Qui l’uomo si sposa con una sarda e i Marincola si stabiliscono a Roma, ma il piccolo Giorgio va dai nonni paterni a Pizzo Calabro dove riceve il soprannome di «Yo-yo». Rientrato a Roma per gli studi, frequenta il liceo Umberto I: qui subisce l’influsso di Pilo Albertelli, docente di filosofia, antifascista, che indirizza il giovane italo-somalo sulla via del dissenso al regime. Valore quanto mai sentito dal mulatto Marincola: le leggi razziali del 1938 impedivano i rapporti tra italiani e «sudditi dell’Africa orientale italiana», ovvero i somali, mentre una nuova norma del 1940 impediva il riconoscimento dei meticci da parte del genitore italiano, sbarrando la strada per l’ottenimento della cittadinanza italiana. Albertelli, membro del Partito d’Azione, ispirò Marincola con abbondanti dosi di antifascismo liberale: leggeva Benedetto Croce, il giovane mulatto, e appuntava stringenti riflessioni sulla libertà politica: «La concezione liberale presuppone dei valori morali a base delle libertà politiche da essa richieste, quali la libertà di pensiero e di stampa, di discussione e di associazione. E quali valori morali che possano veramente far sviluppare e rendere degna della loro funzione le libertà sopracitate, noi crediamo essenziali l’onestà, la lealtà, il rispetto verso le istituzioni e le leggi dello Stato e verso il prossimo».

Proprio dall’educazione ricevuta sui banchi Marincola decise di entrare nelle file della Resistenza dopo l’ 8 settembre: si arruolò in una squadra di «Giustizia e Libertà» e partì per il Viterbese nel febbraio 1944 coi libri di medicina sottomano perché nel frattempo si era iscritto alla facoltà di Medicina: «Voleva ritornare in Somalia e lo studio gli serviva per apportare aiuto alle popolazioni di laggiù» , ricorda un compagno. Dopo la partecipazione all’azione partigiana nelle campagne laziali, Marincola venne ingaggiato dagli inglesi: con il nome di battaglia di Mercurio fu assoldato per la missione Bamon e paracadutato nelle campagne di Biella quale agente di collegamento con le truppe anglo-americane dirette a Nord. Il suo impegno fu così convincente che il capitano di Sua Maestà Jim Bell lo lodò così: «Era l’unico della Bamon che desiderava realmente fare qualcosa e non sprecare il suo tempo e denaro a divertirsi». Ferito in un assalto ad un reparto nazista, Marincola viene arrestato nel gennaio 1945 con il nome di Renato Mariano, quindi picchiato dai fascisti perché inneggiò alla Resistenza anche da prigioniero, durante una trasmissione di propaganda fascista cui fu costretto. Mandato a Torino e quindi a Bolzano, venne rinchiuso nel locale campo di concentramento che fungeva da smistamento verso la Germania. Il 30 aprile 1945 viene liberato ma si dirige verso la Val di Fiemme dove, arruolandosi ancora tra i partigiani, incappa nella furia nazista di Stramentizzo: il 4 maggio 1945 Giorgio il mulatto cade colpito alle spalle dai tedeschi in ritirata.

di Lorenzo Fazzini da Avvenire

 

 

nella foto Marincola (a destra) con un compagno d’armi

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due pagine gloriose della guerra di Liberazione

7 Août 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

La battaglia per Genova

«Padre morto, figlia uccisa, tutto finito anche io finito» dice il parlamentare tedesco all'interprete del CLN: viene dal Comando del generale Meinhold a Savignone e ne riflette lo scoramento. Sennonché l'autorità di Meinhold si ferma ai confini del porto, dove "comanda il capitano di vascello Berninghaus, nazista per l'eternità. L'insurrezione di Genova è segnata da questo dualismo e dagli equivoci che ne derivano.

Il 23 aprile le forze dell'insurrezione si muovono contro un nemico che ha circa 12.000 uomini nella città e 18.000 nelle zone circostanti. Non si può sperare di batterlo, si può tentare di paralizzarlo. Ed ecco il grande sabotaggio, saltano le linee elettriche ad alta tensione, vengono messe fuori uso le locomotive a vapore, si spara sulle strade che portano al Piemonte, si bloccano i telefoni. L'ordine di ritirata impartito dal comandante supremo in Italia generale Vietinghoff è giunto il 20 aprile,. ma il 23 Meinhold non sa come eseguirlo: prima ha chiesto il libero passaggio al Comando della garibaldina Pinan-Cichero e la risposta è stata no; ora tramite il cardinale Boetto, tenta la via del CLN, promette la salvezza della città per il libero transito, ma la risposta è identica, firmata dal presidente Paolo Emilio Taviani: «I tedeschi colpevoli di distruzioni saranno considerati criminali di guerra e come tali passati per le armi ». A sera il CLN rompe gli indugi, proclama l'insurrezione generale, ha capito che Meinhold offre ciò che non ha: Berninghaus sta facendo affondare natanti ali'imbocco del porto; e un reparto di SS è fuggito verso il Piemonte portandosi dietro venticinque prigionieri politici fra cui il primo Comando regionale ligure.

Insurrezione! La sera del 23 Battista arriva con la brigata Balilla a Sampierdarena; nel porto i sommozzatori, gli scaricatori, i finanzieri, i partigiani vanno, sotto le raffiche tedesche, a disinnescare le 219 cariche di esplosivo sparse fra moli e impianti. C'è un tipo anziano con i capelli grigi che alla testa di una squadra disinnesca una cinquantina di mine; colpito a morte scompare nelle acque. I testimoni diranno: «Si faceva chiamare Medici ». La Resistenza, esercito senza anagrafe, ha molti di questi soldati ignoti.

Il giorno 24 le battaglie parallele per il porto e per la città proseguono con alterne vicende. Sono entrati in azione nel centro i GAP e le SAP, le carceri di Marassi cadono nelle mani dei ribelli, i prigionieri politici chiedono armi per combattere. Dalla periferia buone notizie: Rivarolo è partigiana, il Comando regionale è alla Certosa. Ma in città c'è una dura sorpresa: i fascisti del tenente Pisano, travestiti da partigiani, si sono impadroniti della prefettura; un loro giornale con la testata «Secolo nuovo» tenta di seminare l'indecisione, la confusione, finge di parlare per conto di un comitato di liberazione, annuncia la nomina di un nuovo prefetto, di un nuovo questore, e invita a sospendere la lotta, ad affidare l'ordine ai metropolitani. Dal porto sale una colonna di fumo, brucia una nave carica di benzina, l'incendio potrebbe propagarsi alla città, ma Berninghaus non cede, è deciso a resistere ad oltranza.

Genova la sera del 24 è in questa dannata. situazione: il porto in mano nemica, il centro conteso fra fascisti e partigiani, la cintura fortificata presidiata dai tedeschi a loro volta assediati dalle divisioni partigiane. E non si può sperare in un immediato soccorso alleato, le avanguardie inglesi sono a La Spezia, a cento chilometri di distanza, e in mezzo ci sono forze nemiche, montagne.

Ma la mattina del 25 la situazione è decisamente migliorata: durante la notte i partigiani hanno rotto in più punti la cerchia delle postazioni d'artiglieria tedesche e hanno espugnato sull'altura di Granarolo la stazione radio, che comincia a trasmettere messaggi del CLN. Tutt'intorno, più in alto, la Pinan-Cichero ha completato il blocco delle vie di uscita. Meinhold non ha più scampo e alle 19,30 firma la resa la rimette nelle mani dell'operaio comunista Remo Scappini: «Tutte le Forze armate germaniche di terra e di mare alle dipendenze del signor generale Meinhold· si arrendono alle Forze armate del Corpo volontari della libertà .alle dipendenze del Comando militare per la Liguria ... ».

Ma Berninghaus dice ancora no, anzi condanna a morte il suo superiore Meinhold, colpevole di. tradimento; con lui dice no il capitano Mario Arillo della X Mas, e insieme compiono le ultime distruzioni. E allora battaglia: vi entrano i partigiani della montagna, della Cichero e della Mingo, mentre Genova è il teatro di caotici movimenti: una colonna di 2.000 fascisti e tedeschi che ha cercato di aprirsi la strada verso Savona deve rifluire in città: parte si trincerano nel grattacielo, parte riescono a fuggire verso Uscio. Nella tarda serata del 26 finalmente anche i nazifascisti del porto si arrendono. Restano alcuni reparti di artiglieria sulle colline, lassù c'è un comandante che risponde ad ogni proposta di resa: «lo non sparo sulla città, ma voi non attaccatemi. Voglio consegnarmi agli Alleati ». La minaccia dura fino all'ultima ora.

La città è libera, il CLN la controlla, rimette in funzione i .servizi pubblici. Il pomeriggio del 26 gli Alleati sono a Rapallo, dal loro Comando si telefona al Comando partigiano. L'incontro avviene l'indomani mattina a Nervi. I partigiani consegnano agli Alleati 6.000 prigionieri catturati in città, 12.000 in montagna; ma Genova no, anche se formalmente bisogna fare il passaggio dei poteri Genova è dei genovesi, l'hanno pagata con migliaia di morti e di feriti.


La battaglia del Piemonte

Solo il Piemonte ha le forze per tentare una grande bat­taglia manovrata e ci va, senza esitazioni, rischiando lo ster­minio in una pianura percorsa da grandi unità tedesche ancora compatte. Le più forti unità gielliste, la 1a e la 2a divisione, scendono su Cuneo e Saluzzo con i garibaldini della 9a e con gli autonomi di Cosa. Giellisti, maurini e garibaldini delle Langhe, in barba agli. ordini operativi, iniziano la corsa su Torino, l'alto Monferrato pensa ad Asti, i garibaldini di Ciro a Novara; calano su Torino le divisioni dalle valli di Susa, di Lanzo, del Chisone, del·Pellice.

La battaglia per Cuneo inizia il 25 aprile. Nei giorni precedenti i partigiani hanno costretto alla resa nelle vallate i battaglioni fascisti della Monterosa e della Littorio, salvate le centrali; ora si va al capoluogo, è l'ottavo assedio nella storia della città, quello posto dai suoi figli per liberarla. I tedeschi devono tenere la città per garantire il passaggio alle divisioni in ritirata dalla Liguria per le valli Roja e Vermenagna; e possono farlo, la città sta su un altopiano fra due fiumi, le artiglierie e le mitragliere da 20 battono tutte le provenienze, i ponti, le passerelle. Ma Ettore Rosa e i giellisti guadano il fiume Stura nella notte, risalgono la ripa, mettono in fuga, in località Torrette, un avamposto tedesco, raggiungono i quartieri ovest della città dov'è scoppiata l'insurrezione.

Dopo due giorni di lotta nell'abitato le posizioni si cristallizzano: i tedeschi chiusi nei loro fortini controllano da ponte a ponte la strada Borgo San Dalmazzo-Torino, tengono libero il tratto nell'abitato. Una commissione cittadina viene da Rosa a riferire la proposta tedesca:

« Sospendete l'attacco ed eviterete distruzioni alla città». « No », risponde Rosa, «non faccio la guerra sul piano di Cuneo, ma su quello nazionale ».

Arrivano a dar man forte i reparti giellisti e garibaldini che hanno occupato Savigliano e Saluzzo, arrivano i pezzi da 88 catturati a Busca, sparano sulla caserma del 2° alpini, fortilizio tedesco. I partigiani si battono con accanimento, devono liberare la città prima che vi giungano gli Alleati, prima soprattutto che vi calino le truppe francesi del generale Doyen. Il tenente Barton, che conosce le loro ansie, va a trattare con i tedeschi nel pomeriggio del 28 aprile. Non cedono ancora, anche se la città è ormai partigiana, con tricolori a tutte le finestre: Nuto Revelli tornato dalla Francia è passato sotto casa sua, ma senza salirvi; prima bisogna finire questo lavoro che si chiama liberazione.

Il 29 aprile la battaglia è finita, i capi della ribellione si ritrovano dopo venti mesi nella loro città: Dalmastro, Ventre, Rosa, Revelli giellisti,.i comunisti Comollo e Bazzanini, l'autonomo Cosa. Manca Duccio Galimbertl, morto, manca Livio Bianco, preso dalla battaglia per Torino. I francesi non. sono scesi in forze a Cuneo, si sono fermati nelle alte valli. C’e stato a Limonetto un incidente con i partigiani, un soldato marocchino ucciso per questa contesa di cui non si sa niente. Ed è arrivata in tempo la minaccia di Truman a De Gaulle: ogni tentativo di entrare in Italia significherebbe la cessazione immediata degli aiuti americani.

Il 25 aprile, quando inizia la battaglia per Torino, la città è un campo fortificato, interi quartieri sono circondati dal filo spinato, le strade sbarrate dai cavalli di frisia, dalle cupole dei fortini. «Nel paesaggio lunare di certi angoli di periferia », riferisce Giorgio Amendola, « si scontrano le pattuglie repubblichine e partigiane» Sono pronti a combattere immediatamente 9.000 delle squadre cittadine, e 1.000 autonomi, 3.000 garibaldini, 1.600 giellisti, 1.500 matteottini, affluiti in città dalle montagne. Le squadre. operaie pensano alle fabbriche, alla Fiat Grandi Motori piazzano le mitragliere da 20, l'ordine che stabilisce l'insurrezione. per il 26 arriva dovunque in ritardo, la bandiera tricolore già sventola sui fumaioli. L'ordine non è piaciuto al colonnello Stevens, comandante delle missioni alleate, vi ha acconsentito a malincuore ma a condizione che prima si liberino le strade provenienti da Asti e da Casale, per cui passeranno le avanguardie alleate. Poi scompare, si ritira in una villa sulla collina .. A tarda sera i resistenti della STIPEL, la centrale telefonica, intercettano gli ordini tedeschi: hanno deciso di restare in città per attendervi le truppe che si ritirano dal basso Piemonte. Stevens, in buona o in mala fede, ne trae pretesto per tentare un nuovo rinvio dell'insurrezione, dal suo rifugio manda a Barbato . l'ordine di non muoversi. L'ordine è su carta intestata del CMRP. Barbato lo conserva per la storia, ma scende in città.

Il 26 il Comando tedesco tratta: Torino diventi città aperta; il tedesco eviterà ogni distruzione purché sia libero il transito per la colonna Liebe che sale da Cuneo, composta dalla 5a e dalla 34a divisione; in caso contrario farà della città «una nuova Varsavia ».

No a Torino, no in tutti i luoghi dell'Italia insorta. I nazi, trincerati nel quadrilatero fra corso Vittorio Emanuele, via Arcivescovado via XX Settembre, corso Galileo Ferraris, ne escono per furenti sortite, per cannoneggiare le fabbriche sui cui sventolano le nostre bandiere. Sono venticinque carri armati che percorrono la città senza riuscire a spezzare le file di un esercito ribelle che ingrossa di ora in ora, manovrato con sicurezza sempre maggiore dal Comando che si è allogato alla Lancia in Borgo San. Paolo. Qui giunge un altra ambasciata tedesca: chiedono di far passare le divisioni in ritirata in un tempo massimo di quarantotto ore. La risposta è sempre no.

Il 28 le formazioni della montagna giungono in città, l'armata partigiana conquista la città strada per strada: la 8a Garibaldi arriva a corso Valdocco; Mauri, al termine della lunga corsa, occupa i ponti a Moncalieri, seguito da! suoi concorrenti, i giellisti della 3a di Alberto Bianco e i garibaldini di Nanni. Il 28 i tedeschi sgomberano gran parte del presidio. Il 29 ricompare il colonnello Stevens, chiede al Comando partigiano di far saltare i ponti sul Po; non gli danno retta, i ponti stanno in piedi per il domani, li difendono i partigiani.

Il generale Schlemmer chiede ancora via libera per le divisioni della colonna Liebe, il rifiuto glielo porta il colonnello Contini: Schlemmer legge, si inchina, saluta freddamente. Incomincia la corsa pazza fra la città e il Canavese delle diviosioni tedesche che non vogliono arrendersi ai partigiani.


Gli Alleati giungono a Torino il l° maggio, sei giorni dopo l'inizio della battaglia: In valle d'Aosta il capoluogo è occupato il 26, i francesi si fermano a Pre Saint-Didier. Novara, Vercelli, Alessandria cadono una ad una; qua e là bruciano i fuochi delle ultime stragi a Grugliasco, Collegno.

da “Storia dell’Italia partigiana” di Giorgio Bocca

 

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4.000 caduti tra le forze partigiane nella sola fase insurrezionale del 25 aprile 1945

28 Juin 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

L'ultimo attacco per la liberazione mette in moto le ingrossate formazioni partigiane, gli operai in armi delle fabbriche e altri cittadini. Alla vigilia dell'insurrezione nelle città del Nord, il vicecomandante del Corpo Volontari della Libertà , Ferruccio Parri «Maurizio», stima di potere contare su 70.000 effettivi che sono dislocati in varie e distanti località. Nell'operazione di liberazione delle città partecipa un numero decisamente più alto di uomini e donne che viene stimato tra le 250.000 e le 300.000 unità. Oltre la metà di queste forze sono pervenute nell'ultimissima ora, tenendo presente che, soltanto a metà aprile, il comando del CVL indicava in 130.000 gli arruolati, cifra che aveva già subito la prima impennata con gli arrivi del mese di marzo. Gli ultimi reclutati si aggiungono a ridosso o durante l'insurrezione. Si tratta in larga parte di civili, soprattutto operai, che sono inquadrati in modo del tutto approssimativo. La stima, per difetto, di 70.000 effettivi sui quali conta Parri nel momento dell'insurrezione, si riferisce invece agli uomini che sono stati più attivi nella lotta clandestina e che possono offrire maggiori garanzie di esperienza e affidabilità. L'insurrezione, sebbene già segnata nel suo esito finale, resta un'operazione rischiosa dai costi umani difficili da prevedere perché deve comunque scontrarsi con i militari nazifascisti, che al 9 aprile, si aggirano sulle 220.000 unità, mediamente meglio armate del fronte partigiano.


Forze militari della.Repubblica Sociale italiana al 9 aprile 1945

Guardia nazionale repubblicana                                           72.000

Brigate nere                                                                    22.000

Decima Mas                                                                      4.800

Muti                                                                                1.050

Esercito regolare                                                    30.000-35.000

Divisioni tedesche in Val Padana                     90.000 al 9 aprile 1945


Dal 9 aprile ogni giorno che passa crescono le diserzioni fra le forze nazifasciste con la Gnr, l'esercito regolare e la Muti che a questa data hanno già perso la metà dei loro effettivi.

Lo scontro avviene con uomini demotivati e in fuga, ma non tutti, benché disperati e consci della sconfitta, sono arrendevoli. Nella sola fase insurrezionale le perdite partigiane sono stimate in circa 4.000 caduti.


Dal punto di vista militare, l'insurrezione autonoma partigiana può essere risparmiata, nell'attesa dell'inesorabile avanzata alleata, ma gli effetti della massiccia mobilitazione popolare e partigiana hanno permesso, dal punto di vista strategico, il salvataggio dalla distruzione tedesca di molte centrali elettriche e degli impianti industriali. In altri importanti centri di produzione si è evitato, almeno, il completo disfacimento dell'impianto, come avvenuto per il pur danneggiato porto di Genova.

Accanto alla liberazione e alla protezione degli impianti, il Corpo Volontari della Libertà si pone un'altro obiettivo con l'insurrezione: la tutela dell'ordine pubblico, tracciando una linea di continuità con le mansioni già esercitate durante la clandestinità da diverse formazioni montane. È il riflesso dell'ambizione al pieno esercizio del potere, ma soprattutto in questa fase la gestione dell'ordine pubblico è posta a garanzia dei cittadini.

...

Nella decisione dell'antifascismo di attaccare, per liberare paesi e città, si rivede la matrice autonoma della scelta di lotta che sta alla base della Resistenza armata. L'attacco insurrezionale porta a compimento l'autoriscatto dalla guerra fascista e si propone di legittimare con forza la proposta di un nuovo ordine politico.

da “La lunga liberazione” di Mirco Dondi Editori Riuniti

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Giancarlo Puecher

17 Avril 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Milano 1923 - Erba 1943

Agli albori della Resistenza in Brianza, possiamo rilevare come l'attività più consistente, la fioritura maggiore d'iniziative, avvenne nella zona tra Erba e Lecco. A Ponte Lambro, piccolo paese sulla collina erbese, già il 13 settembre si costituì un gruppo autonomo. Lo componevano don Giovanni Strada, parroco del paese presso la cui canonica si tennero delle riunioni clandestine. Poi Franco Fucci, ufficiale sbandato del5°alpini, reparto di stanza a Milano ma che era sfollato a Lecco dall'agosto del '43 a causa dei bombardamenti, Giovanni Rizzi quarantenne odontotecnico milanese, Bonamici ex-sottufficiale dell'Auto centro di Milano, Bartolomeo Alaimo, Andrea Ballabio, Enrico Bianchi e soprattutto Giancarlo Puecher Passavalli.

Giancarlo era un giovane di soli vent'anni, appartenente ad una nobile famiglia di origini trentine ma residente a Milano, dov'era nato in via Broletto. Con il padre Giorgio, di professione notaio, i fratelli e le zie era sfollato nella villa di loro proprietà a Lambrugo e già lì diversi sbandati avevano potuto apprezzare l'aiuto disinteressato dei Puecher. Proprio a Lambrugo, Giancarlo raggruppa un nucleo di giovani che fanno della villa il loro punto di riferimento. Il loro "capo" ha un forte sentimento patriottico, del tutto ideale, ma è ben chiara la sua visione del momento: i tedeschi sono invasori da combattere come i loro fiancheggiatori fascisti e la sua determinazione a fare la propria parte in questa lotta è molto forte. Emana grande decisione e carisma, malgrado la giovane età. I primi partigiani di Lambrugo sono dodici: Felice Ballabio, che abbiamo già trovato attivo nel gruppo dirigente di Pontelambro, Antonio Porro, no Ratti, Rinaldo Zappa, Carlo Rossini, Felice Gerosa, Elvio Magni, Guido Porro, Dino Meroni. Altri tre di questo gruppo originario cadranno durante la Resistenza, come Mario Redaelli nei giorni dell'insurrezione dell'aprile '45; Grazioso Rigamonti e Alberto Todeschini deportati e morti entrambi a Mauthausen.

Puecher agì sempre a stretto contatto con Franco Fucci, erano i comandanti, i due più decisi; l'ex- alpino in Grecia aveva aperto gli occhi sulla catastrofica realtà storico-politica del fascismo e aveva deciso di saltare il fosso. Le loro azioni s'indi­rizzarono all'inizio per dotarsi di mezzi per spostarsi rapidamente nella zona. Riuscirono ad avere un'Augusta, una Fiat e Fucci rubò a Milano una Topolino requisita dai tedeschi. L'11 settembre Fucci, con alcuni di Ponte Lambro, recupera due camion a Castelmarte e uno ad Arcellasco. Puecher fa un colpo al Crotto Rosa di Erba, ritrovo di alcuni borsaneristi, "confiscandogli" una buona quantità di ben­zina. A Merone e dintorni il 15 e il 17 , Fucci e Puecher recuperano quattro cavalli e sei muli abbandonati dall'esercito, affidandoli a contadini di Lambrugo. Viene poi il turno delle armi, recuperate a Bindella, a Erba e perfino a Cusano Milanino. Il materiale recuperato è portato prima a S. Salvatore, poi non ritenendo più il luogo sicuro, convogliato a Ponte Lambro.

L'attività del gruppo è rivolta poi a rifornire i nuclei partigiani della vicina mon­tagna. A questo proposito Francesco Magni nel suo libro di memorie, che è praticamente la storia della 55° brigata Rosselli, segnala un incontro che egli ebbe con Puecher il 24 ottobre 1943 a Lambrugo, appunto per intrecciare contatti più stretti fra montagna e pianura.

In novembre pare sia già in atto il salto di qualità del gruppo verso il combattimento. La relazione Morandi riporta un sabotaggio alle linee telefoniche tedesche nella zona di Canzo e Asso da parte del gruppo di Ponte Lambro. Il4 novembre, la scala del monumento ai caduti di Erba viene disseminata di volantini inneggianti alla Patria e alla libertà e una bandiera tricolore con il ricamo Patria e Libertà viene issata in cima.

Questo proto-nucleo partigiano destò l'interesse dei nascenti comandi milanesi, tanto che fu contattato verso la metà di ottobre da Giulio Alonzi, del Comitato militare clandestino di Milano in giro per rendersi conto delle forze ribelli in quel momento. Poi da Poldo Gasparotto e dal colonnello Morandi che stava cercando come già detto di tirare le fila del movimento nel lecchese; infine da un anonimo esponente comunista proveniente dall'Alfa Romeo. Si tratta con molta probabilità di Sabino Di Sibio, residente a Milano e operaio appunto dell'Alfa Romeo, sfollato nel comune comasco di Lipomo dove aveva dato aiuto a molti sbandati e dove aveva cercato di imbastire un'organizzazione resistenziale contattando i gruppi della zona compresi quelli di Erba. Le notizie a questo proposito apparirebbero sicure in quanto provenienti da appunti scoperti e requisiti dalla polizia fascista nel corso di una requisizione in casa del Di Sibio stesso, che nel frattempo si era reso irreperibile.

Questa attività di un personaggio di una famiglia molto nota, in una zona fatta di piccoli paesi, non poteva non attirare l'attenzione delle autorità fasciste che intanto si erano insediate nel comasco come in tutto il resto dell'Italia occupata. La cattura di Puecher e Fucci fu però abbastanza casuale. Tutto parte da un episodio poco chiaro, l'uccisione a Erba da parte di ignoti, del centurione della milizia e cassiere del Banco Ambrosiano di Erba, Ugo Pontiggia e dell'amico Angelo Pozzoli. Nella stessa serata del 12 novembre, Puecher e Fucci provenienti da Milano dove si erano recati per collegamenti e per finanziamenti, si erano portati a Canzo, nella villa dov'era sfollato l'ex-consigliere nazionale Alessandro Gorini che si dichiarava passato all'antifascismo. I motivi di quella visita sono diversi a secondo delle versioni ma comunque si trattava di ottenere aiuti per il movimento partigiano. I due non sapevano sicuramente niente dell'agguato mortale dei due fascisti, avrebbero potuto rimanere a dormire in un ambiente sicuro, invece verso le 22.30 preferirono ripartire in bicicletta sfidando il coprifuoco. Il loro bagaglio era certo compromettente, avevano in una borsa un tubo di gelatina e due manifestini di minaccia verso alcuni fascisti in vista. Nei pressi di Lezza, i due incontrarono una pattuglia di tre uomini (Fucci in una sua memoria parla di una dozzina). I militi li dichiararono in stato di fermo per violazione delle norme del coprifuoco e dissero che li avrebbero condotti al comando di Erba. A questo punto il fatto probabilmente decisivo: Fucci estrasse la pistola e premette il grilletto ma l'arma s'inceppò, in risposta a ciò il suo custode gli sparò a bruciapelo colpendolo al ventre. A questo punto uno rimase a piantonare il ferito e Giancarlo fu portato a Erba; era riuscito a gettar via la pistola e il materiale esplosivo era sulla bicicletta del Fucci. Puecher fu immediatamente inter­rogato e picchiato dai poliziotti fascisti. Fucci venne portato all'ospedale S. Anna di Como, mentre il fascista Airoldi, uno dei minacciati dai volantini partigiani, stendeva una lista di amici del Puecher che vennero arrestati la notte stessa. Se quel colpo fosse partito, se l'arma di Franco Fucci avesse sparato, buona parte della storia della Resistenza in quella zona sarebbe stata diversa.

A questo punto i destini dei due si separarono senza incontrarsi mai più. Mentre il Fucci rimarrà in prigione fino alla Liberazione peregrinando dal carcere di Como a quello di Vercelli e poi a S. Vittore, la sorte di Puecher fu molto più sfortunata. Ancora un episodio in cui egli non c'entrava niente segnò la sua fine: il 20 dicembre lo squadrista erbese Germano Frigerio venne ucciso in un agguato. I fascisti brancolavano nel buio e allora decisero di usare come capro espiatorio, ciò che avevano in mano. Puecher non aveva nulla a che fare con quell'uccisione, dato che da più di un mese si trovava in carcere. Ma, incredibilmente, venne montato a suo carico e di altri prigionieri, un processo al di là della farsa da un tribunale definito straordinario con l'elenco più completo delle irregolarità processuali che fosse possibile commettere. Ma la sentenza era stata emessa prima ancora d'iniziare: quattro dovevano morire. I difensori riuscirono a salvarne tre, uno, Giancarlo Puecher, fu destinato alla fucilazione, senza avere colpe per una misura così grave. Gli altri, Luigi Giudici, Giulio Testori, Silvio Gottardi, Giuseppe Cereda, Vittorio Testori e Rino Grossi ebbero pene detentive fra i 5 e i 30 anni.

L'atto finale dell'assassinio di Giancarlo Puecher si compì la notte del 21 dicembre, ad un muro del cimitero di Erba. Il cappellano che assistette all'esecuzione raccontò che il condannato abbracciò uno per uno i militi del plotone che l'avrebbero ucciso e morì gridando viva l'Italia.

Giancarlo Puecher Passavalli è la prima medaglia d'oro al valor militare della Resistenza.

Per capire l'assurdità di quel procedimento, è da riferire che nell'estate del 1944, a Brescia, il Guardasigilli della Rsi riconobbe la nullità del processo di Erba e l'arbitrarietà delle condanne, facendo con ciò liberare tutti gli imputati incarcerati.

La sete di vendetta fascista non si affievolì dopo quell'atto criminale. Il padre di Giancarlo, Giorgio Puecher, era stato anche lui arrestato con il figlio. Venne rimesso in libertà subito dopo l'esecuzione del 21 dicembre. Circa un mese e mezzo dopo però, venne nuovamente arrestato con la vaga accusa di opposizione politica e fu rinchiuso nel carcere milanese di S. Vittore. Trasferito poi a Fossoli, venne suc­cessivamente inviato a Mauthausen, dove morì per gli stenti e i maltrattamenti 1'8 aprile 1945.

L'ampio spazio dedicato al gruppo di Ponte Lambro ha molteplici motivazioni.

Sicuramente una è lo spessore morale e la combattività del suo trascinatore, Giancarlo Puecher, il cui nome sarà ripreso da ben quattro formazioni partigiane di diversa origine che si costituirono in seguito. Poi per ciò che rappresenta nell'evoluzione della Resistenza brianzola che stiamo osservando. Pur avendo effettuato azioni non ancora pesanti, questo è l'unico gruppo che riesce a passare, anche se purtroppo per poco, dalla fase cospirativa al confronto armato. Non osiamo pensare cosa sarebbe potuta diventare la Resistenza in questi luoghi se Puecher e Fucci avessero potuto agire ancora per un po’. Lo vedremo spesso in questo nostro percorso, la lotta per la libertà fu condotta comprensibilmente da una minoranza, anche se con il consenso di gran parte della popolazione, e spesso è un individuo particolarmente entusiasta, deciso e coraggioso ad essere determinante per la crescita della ribellione in una determinata zona.

(da ”La Resistenza in Brianza 1943 – 1945” di Pietro Arienti Ed.Bellavite 2006)

ultima lettera di Giancarlo Puecher Passavalli scritta prima di essere fucilato il 21 dicembre 1943

(da Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia:Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana)

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Una delle prime vittime illustri della violenza fascista: Don Giovanni Minzoni

17 Avril 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

 

Don Giovanni Minzoni nacque a Ravenna il 29 Giugno del 1885 da famiglia della media borghesia.

Il piccolo Giovanni crebbe tra l'affetto dei genitori, e di due fratelli e due sorelle, dimostrando viva intelligenza, carattere aperto, franco, espansivo, e soprattutto una bontà non comune.

Dopo gli studi in seminario fu ordinato sacerdote, e celebrò la sua prima messa il 10 settembre del 1909.

Nel 1910, si recò in Argenta (antico e storico paese, in provincia di Ferrara e diocesi di Ravenna), per essere cappellano, alle dipendenze dell'allora arciprete Gioacchino Bezzi. Lasciò Argenta nel 1912 per studiare alla Scuola sociale di Bergamo, dove si diplomò.

Argenta era stata ed era teatro di agitazioni e di conflitti operai. Don Giovanni Minzoni fu ammirato per il suo coraggio e per la sua volontà di collaborazione e di dialogo con il proletariato contadino.

Venuto a morte l'arciprete Bezzi, il 29 gennaio 1916, la popolazione volle suo successore D. Minzoni, che venne eletto con votazione plebiscitaria dai capi famiglia aventi diritto all'elezione dell'arciprete, fra l'esultanza degli Argentani. Ma egli non poté prendere possesso della parrocchia: era già scoppiata prima guerra mondiale

Nell'agosto del 1916, chiamata alle armi la classe 1885, lasciò la parrocchia per andare soldato nella settima compagnia di sanità in Ancona. Malgrado le preghiere insistenti dei parenti e degli amici, chiese di poter svolgere il suo servizio come cappellano tra i giovani militari al fronte e, in un momento molto critico della battaglia del Piave, dimostrò tale coraggio da meritare la medaglia d'argento. Al termine della guerra Don Minzoni ritornò ad Argenta.

Attivo promotore di opere caritatevoli, diede vita a circoli sociali per l'acculturamento delle classi umili e ai primi nuclei del sindacalismo cattolico nella Bassa ferrarese.

Alle numerose iniziative in campo sociale egli aggiunse un'adesione entusiasta al cooperativismo, mettendosi contro il regime fascista che invece sosteneva il corporativismo.

Si oppose alle violenze delle squadre fasciste sostenute dai proprietari terrieri retrivi, capeggiate da Italo Balbo, ostili alle più elementari rivendicazioni salariali dei lavoratori agricoli. Nel 1923 i fascisti di Balbo uccisero ad Argenta il sindacalista socialista Natale Galba; don Minzoni condannò la violenza squadristica attirandosi ripetute minacce ma rifiutando ogni collaborazione col fascismo dilagante.

Il 22 agosto 1923, in un incidente di caccia, venne ucciso un suo parrocchiano, Sante Guerrini padre di tre bambini. Don Minzoni venne informato in sagrestia e, subito dopo la messa, corse dalla giovane vedova che già si trovava in condizioni di bisogno ed ora, senza il capofamiglia, unica fonte di sostentamento, avrebbe visto peggiorare la situazione famigliare. Assicurò alla vedova l'assistenza materiale che le avrebbe consentito di allevare i tre orfani, assumendosi lui la responsabilità del loro mantenimento. La sera del giorno seguente, il 23 agosto 1923, don Minzoni venne aggredito e ucciso nei pressi della canonica a manganellate da alcuni squadristi facenti capo a Balbo. Tutta Argenta vibrò di sdegno contro i fascisti.

I fascisti deplorarono l'accaduto e cercarono di riversarne la responsabilità su elementi dell'estrema sinistra, associandosi al dolore dei cattolici e della famiglia; ma sui muri di Argenta comparve un manifesto che invitava i fascisti a non presentarsi al funerale. Cosa che fecero restando in disparte.

 

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il campo di concentramento di Fossoli

16 Avril 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana




Il tramonto di Fossoli (di Primo Levi)

 

Io so cosa vuol dire non tornare.

A traverso il filo spinato

ho visto il sole scendere e morire;

ho sentito lacerarmi la carne.

Le parole del vecchio poeta:

«Possono i soli cadere e tornare:

a noi, quando la breve luce è spenta,

Una notte infinita è da dormire».

 

 Il 22 febbraio 1944 partì da Fossoli un convoglio con destinazione Auschwitz , sul quale vi era anche Primo Levi , anch'egli internato nel campo di Fossoli come deportato politico; fu uno dei 650 che furono deportati con quel convoglio e fu uno dei 23 che ritornarono.


Il campo di concentramento di Fossoli era ubicato in una località di campagna a 3 chilometri da Carpi, in provincia di Modena. Il campo fu allestito nel luglio 1942 come una tendopoli per prigionieri di guerra; qualche mese più tardi vennero costruite le baracche in muratura che nell'estate 1943 diedero riparo a circa 5000 internati militari. Circondato da una doppia recinzione alta 2 metri e con una serie di torrette distanti 50 metri le une dalle altre, il grande recinto era illuminato con riflettori dal tramonto all'alba. La notte dell'8 settembre una colonna di tede­schi circondò la struttura, per impedire - dopo la proclamazione dell'armistizio - la fuga dei prigionieri. Due ufficiali italiani furono incaricati della gestione ordinaria del Lager, mentre i loro colleghi furono incarcerati a Mo­dena. In un paio di settimane si organizzò il trasferimen­to dei prigionieri alleati nel Reich e dal 5 dicembre l'ex Campo prigionieri di guerra n. 73 funzionò come luogo d'internamento per ebrei, sotto il controllo della polizia della Repubblica sociale italiana e alle dipendenze della prefettura di Modena. La collocazione strategica nella rete ferroviaria, sulla linea per il Brennero, agevolava il viaggio verso i Lager del Reich.

Dal mese di gennaio 1944 giunsero a Fossoli prigionieri politici. Da metà marzo 1944 il Comando di Verona della Polizia di sicurezza germanica (Befehlshaber der SIPO-SD) assunse il controllo diretto sugli internati politici e razziali destinati alla deportazione (rinchiusi nei due settori del «campo nuovo»), lasciando alle autorità di Salò la competenza su internati comuni, politici, genitori di renitenti alla leva e civili di nazionalità straniera esclusi dal trasferimento nei Lager del Reich (concentrati nel «campo vecchio»).

Il Polizei- und Durchgangslager era comandato dal sottotenente Karl Titho, ma è il suo vice, Hans Haage, a gestire il campo. Il settore ebraico includeva 8 baracche larghe 11,60 metri e lunghe 47 metri, fornite di latrine e lavatoi, ognuna delle quali poteva accogliere 256 prigionieri; i politici erano ammassati in 7 baracche di dimensioni maggiori. I due settori disponevano di cucina e infermeria. L’alimentazione consisteva essenzialmente in pane e verdure; i prigionieri - che indossavano i loro abiti civili e portavano dei contrassegni a seconda della categoria di appartenenza - venivano suddivisi in gruppi incaricati della pulizia del campo, dei lavori agricoli e artigianali. Fossoli funzionava come centro di smistamento per la deportazione ad Auschwitz, Bergen-Belsen, Buchenwald, Mauthausen, Ravensbruck. Dal 19 febbraio 1944 (con l'invio di 141 ebrei a Bergen-Belsen), partirono dalla località modenese sei convogli ferroviari carichi di internati, selezionati d'intesa tra il comandante Titho e il Comando germanico veronese. Nel complesso verranno deportati oltre cinquemila prigionieri: 2726 ebrei e 2483 politici.

Per chi proveniva da mesi di isolamento in una cella malsana, esposto inerme alle torture degli aguzzini, il trasferimento a Fossoli - col ritorno alla dimensione sociale - apparve l'uscita da un incubo. Sensazione comune ai prigionieri politici sottoposti nel carcere milanese a pressioni disumane: «La prima impressione fu che il campo di Fossoli fosse un luogo migliore di San Vittore e che anche le SS fossero, per così dire, più corrette», osserverà l'architetto Belgiojoso. Le possibilità di ritrovarsi in compagnia, di poter parlare senza il terrore della punizione, di impostare forme clandestine di aggregazione politica segnavano un deciso mutamento di condizione. Tuttavia gli internati sapevano che la loro sorte era sospesa a un filo: potevano essere condannati a morte per la loro attività cospirativa, oppure fucilati per rappresaglia contro un'azione partigiana, oppure venire deportati in un campo di eliminazione.

Il pensiero della fuga era dominante, alla sorveglianza delle guardie si univa quella - meno appariscente ma ugualmente micidiale - delle spie. L'evasione individuale si presentava ardua, quella collettiva era ancora più problematica. Una volta fuori dal campo i fuggiaschi sarebbero statu alla mercé dell'apparato repressivo tedesco, agevolato dalle estese campagne, che offrivano scarsi nascondigli. A fatica si cercava di stabilire un rapporto con l'esterno; il rischio di cadere in provocazioni era elevato e concedere la fiducia a una spia poteva significare la fucila­zione.

(da Diario di Fossoli di Leopoldo Gasparotto a cura di Mimmo Franzinelli)

 

 

Diario di Fossoli -

L'autobus corre attraverso Carpi, poi Fossoli e infine [ ... ] scorgiamo un cartello POL-LAGER. Siamo al campo.

Ci inquadriamo, ad libitum, a gruppi di venti, veniamo avviati ad una baracca dove ognuno di noi dà le generalità ad un'impiegata ebrea, distinta da un nastro giallo sulla blusa e, in compenso, riceve due triangoli rossi e due rettangolini bianchi recanti il nuovo numero di matricola che altri ebrei si affrettano a cucire sulla giacca, per "modo che, poco dopo, i primi di noi fanno pompa di un riuscito distintivo che non ci riesce affatto antipatico. -

Leopoldo Gasparotto

 

Leopoldo Gasparotto

(Milano 1902 - Fossoli 1944), figlio di un ex ministro radicale, nei primi anni venti milita nella Gioventù repubblicana, poi lavora come avvocato e si cimenta in ascensioni alpinistiche in Italia e all'estero, con spedizioni in Caucaso e in Antartide. Militante del Partito d'azione dal 1942, durante il periodo badogliano è tra i protagonisti della rinascita democratica di Milano. Entrato nella clandestinità, diviene il comandante militare delle forze resistenziali della città e promuove e coordina alcuni gruppi nelle vallate delle province di Como, Varese e Bergamo. Arrestato l'11 dicembre 1943 e rinchiuso a San Vittore, viene torturato dai tedeschi. Il 27 aprile 1944 è internato a Fossoli, dove anima il collettivo dei «politici». Il 22 giugno, su ordine del Comando delle SS di Verona, è prelevato dal campo e ucciso a tradimento. È stato insignito di medaglia d'oro al valor militare alla memoria.

 

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chi erano i GAP (Gruppi di Azione Patriottica)?

13 Mars 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

«I gappisti non si fermarono mai davanti a nessun ostacolo, a nessun pericolo. Le loro gesta occupano un posto di rilievo nella storia della Resistenza popolare contro nazisti e fascisti.

Chi furono i gappisti?

Potremmo dire che furono "commandos." Ma questo termine non è esatto. Essi furono qualcosa di più e di diverso di semplici "commandos." Furono gruppi di patrioti che non diedero mai “tregua” al nemico: lo colpirono sempre, in ogni circostanza, di giorno e di notte, nelle strade delle città e nel cuore dei suoi fortilizi.

Con la loro azione i gappisti sconvolsero più e più volte l'organizzazione nemica, giustiziando gli ufficiali nazisti e repubblichini e le spie, attaccando convogli stradali, distruggendo interi parchi di locomotori, incendiando gli aerei sui campi di aviazione. Ancora non sappiamo chi erano i gappisti.

Sono coloro che dopo l’8 settembre ruppero con l'attendismo e scesero nelle strade a dare battaglia, iniziarono una lotta dura, spietata, senza tregua contro i nazisti che ci avevano portato la guerra in casa e contro i fascisti che avevano ceduto la patria all'invasore, per conservare qualche briciola di potere.

Gli episodi più straordinari e meno conosciuti di questa lotta si svolsero nelle grandi città, dove il gappista lottava solo e braccato contro forze schiaccianti e implacabili; sono coloro che colpirono subito i nazisti sfatando il mito della loro supremazia e ricreando fiducia negli incerti e nei titubanti i quali ripresero le armi in pugno.

I gappisti non furono mai molti: alcuni erano giovanissimi, altri avevano dietro di sé l'esperienza della guerra di Spagna e la severa disciplina della cospirazione, del carcere fascista e del confino. Tutti, nel difficile momento dell'azione, nelle giornate drammatiche della reazione più violenta, quando la vita era sospesa a un filo, a una delazione, a una retata occasionale, tutti, giovani e anziani, seppero trovare la forza e la coscienza di non fermarsi. Soprattutto, i gappisti furono uomini che amavano la vita, la giustizia; credevano profondamente nella libertà, aspiravano a un avvenire di pace, non erano spronati da ambizione personale, da arrivismo da calcoli meschini.

Erano dei "superuomini"? No di certo. Erano soltanto degli uomini, ma degli uomini dominati dalla volontà di non dare mai tregua al nemico. Il loro orgoglio aveva radici profonde: coscienti del sacrificio di tutti coloro che avevano sofferto impavidi carcere, persecuzioni, sevizie ne rivendicavano la grandezza e l'insegnamento. Senza l'autorità dei vecchi militanti che avevano sofferto galera, confino, ed esilio, durante il ventennio fascista, ai dirigenti non sarebbe stato pos­sibile esigere dai gappisti, dai partigiani la disciplina più severa che conduceva spesso alla morte più straziante, né ai combattenti avere il cuore saldo per affrontarla. Era soltanto orgoglio ed entusiasmo lo spirito che animò i gappisti? Era un legame di reciproca fiducia tra i vecchi militanti e i giovani, tra coloro che avevano dimostrato di saper resistere sulla via giusta aprendo nuove prospettive e coloro che si inserivano in una lotta che era la lotta eterna contro la sopraffazione, il privilegio, la schiavitù. Senza gli antichi legami del presente oscuro col passato glorioso, davvero non vi sarebbe stata la guerra di liberazione, non avremmo riscattato l'onta del fascismo, "non avremmo conquistato il diritto di essere un popolo libero e indipendente." »

 

dal libro di Giovanni Pesce “Senza tregua – La guerra dei GAP” Feltrinelli Editore


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Giovanni Pesce e Onorina Brambilla nel giorno delle loro nozze (14 luglio 1945).

Giovanni Pesce, nato a Visone (Alessandria) il 22 febbraio 1918, è morto a Milano il 27 luglio 2007: Medaglia d’Oro al valor militare. Nel settembre del 1943 è tra gli organizzatori dei G.A.P. a Torino; dal maggio del 1944 assume a Milano, sino alla Liberazione il comando del 3° G.A.P. "Rubini".

Onorina, “Nori”, per il marito, gli amici e i compagni è membro del Consiglio Nazionale dell’ANPI.

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Armi per la Resistenza

19 Février 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Dopo l’8 settembre 1943, uno dei principali problemi dei partigiani erano i rifornimenti di armi e di munizioni indispensabili per gli attacchi ai nazifascisti e per la difesa dai rastrellamenti che gli stessi nazifascisti organizzavano periodicamente.

In montagna, il problema non era tanto quello dell'abbigliamento o del mangiare: le popolazioni erano vicine ai loro ragazzi (erano soprattutto giovani, che scappavano dalle città per andare in montagna: le ripetute chiamate alle armi del regime fascista erano disertate in massa. Nel solo distretto di Como ben 1272 ragazzi su 1582 richiamati alle armi disertano tra marzo e aprile '44). Il problema sono le armi: qualche colpo di mano frutta pochi moschetti e qualche pistola, ma ci vuole di più.

E allora come procurarsele?

Varie erano le modalità: prelevandole dai depositi dell’esercito italiano. Erano spesso  fucili e  poche altre armi leggere che non potevano reggere il confronto con quelle dei nazisti. C’era poi il problema delle munizioni.

In alcuni casi venivano utilizzate le armi abbandonate dai soldati allo sbando dopo l’8 settembre, come, ad esempio, accadde a Monza. I militari in fuga avevano sotterrato nel cortile  della scuola Ugo Foscolo di Monza 72 mitra e 2 mitragliatrici. Enrico Bracesco (caposquadra attrezzeria alla Breda, monzese, catturato dai nazisti verrà deportato e morirà a Mauthausen) ed altri gappisti riuscirono a rimpossessarsene con grande coraggio, poiché la scuola nel frattempo era stata occupata dai repubblichini. Enrico Bracesco, provvedeva man mano a distribuirle.


Spesso venivano sottratte, con l’aiuto di alcuni operai, dalle fabbriche che producevano armi: è il caso dell’antifascista lissonese Mario Bettega (
noto e apprezzato calciatore della Pro Lissone, operaio della Breda, cadde presto nelle mani dei repubblichini, scoperto mentre trasportava un pacco di otturatori e caricatori provenienti dallo stabilimento sestese, morirà nel lager di Mauthausen).

Si conoscono anche sottrazioni di armi e munizioni dai treni da parte di antifascisti, addetti al carico e scarico di materiale bellico negli scali ferroviari. In altri casi le armi venivano recuperate in seguito ad attacchi ai soldati tedeschi. Per gli esplosivi si ricorreva spesso alla sottrazione dalle polveriere.

Dalla primavera del 1944, gli Alleati rifornivano, tramite i servizi segreti americani Oss (Office of strategic service) ed inglesi MI5 (Military Intelligence Service 5, le forze partigiane mediante aviolanci. 

In qualche caso le armi venivano recuperate mediante attacchi alle caserme della Guardia Nazionale Repubblicana, come viene raccontato da Carlo Levati nel suo libro “Ribelli per Amore della Libertà”: 
«Dal Comando di Brigata ci veniva comunicata l'imminenza di un rifornimento di armi da parte degli Alleati; e la notizia ci procurò molta gioia. Il lancio dall'aereo sarebbe avvenuto entro il territorio sotto il nostro controllo e cioè tra Gorgonzola, Trezzo e Vimercate. Il segnale avrebbe dovuto darlo Radio Londra con queste parole: "Lucio 101" che significava attesa; "Lucio 1O1 il pollo è cotto" voleva significare che la notte seguente noi avremmo dovuto accendere dei falò nelle località citate e quindi recuperare le armi venute dal cielo. Andammo avanti tante notti ad ascoltare la radio e ad aspettare il famoso "pollo", che non venne mai; tant'è che anche il più paziente di noi, dopo un paio di mesi di vana attesa, si lasciò sfuggire questa battuta: "Se il pollo c'è … ormai è carbonizzato!".

Così, senza ulteriori attese di lanci, decidemmo di organizzare l'assalto alla Caserma dei repubblichini di Vaprio d'Adda per recuperare armi.»


Un importante stazione dell’Oss era a Berna in Svizzera. Nel 1944 l’Oss raggiunse il suo massimo sviluppo con 13.000 agenti ed informatori sparsi sui principali teatri di guerra.

 

I contatti tra partigiani, il Corpo Volontari della Libertà (CVL) e gli Alleati avvenivano tramite fuoriusciti in Svizzera (il CVL si costituì a Milano il 9 giugno 1944 ed è stato la prima struttura di coordinamento generale dei partigiani ufficialmente riconosciuto sia dagli Alleati che dal Governo italiano).

Giovanni Battista Stucchi, figura di primo piano dell’antifascismo monzese, Capo di Stato maggiore del Comando generale del Corpo Volontari della Libertà, collaboratore di Ferruccio Parri, svolse diverse operazioni di collegamento e di direzione dei contatti con le formazioni partigiane dell’Ossola, del Varesotto e della Brianza.


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Nella foto della sfilata della Liberazione a Milano (5 maggio 1945) guidata dal Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà, Giovanni Battista Stucchi è il secondo da sinistra. Da destra a sinistra: Enrico Mattei, Luigi Longo, Raffaele Cadorna, Ferruccio Parri, Giovanni Battista Stucchi, Mario Argenton.

Un altro monzese, Davide Guarenti (verrà trucidato con altri sessantasei detenuti politici nel Poligono di tiro di Cibeno, frazione di Carpi, in provincia di Modena), capo degli antifascisti lissonesi (a Lissone per quattro anni aveva svolto la funzione di vigile urbano) manteneva i contatti con gli oppositori al regime fascista riparati in Svizzera ed in Francia. Tramite loro faceva pervenire informazioni a Radio Londra che le mandava in onda (le trasmissioni in italiano erano aperte dalle prime note della 5ª Sinfonia di Beethoven).

Da Radio Londra venivano trasmessi anche i messaggi in codice riservati alle formazioni partigiane con le conferme degli aviolanci da effettuare.

Grazie ai buoni rapporti tra le formazioni partigiane e gli Alleati, tramite agenti dell'OSS paracadutati, gli aviolanci si intensificarono soprattutto nella tarda primavera del 1945.

I contenuti di un aviolancio comprendeva generalmente armi automatiche e munizioni, esplosivi, materiale per sabotaggi e bombe a mano, vestiario e viveri di conforto. In qualche caso, come quello avvenuto nel maggio 1944 sui Piani di Artavaggio, in Valsassina, il vento disperdeva i paracadute rendendo impossibile ritrovare tutto il materiale lanciato.

Gli aviolanci ebbero una battuta di arresto durante l’inverno del 1944, quando il “Proclama Alexander” fermò l’avanzata sul fronte meridionale della guerra, rimandando ogni iniziativa a dopo l’inverno.

 

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Cartina indicante il  punto stabilito in accordo tra comando alleato e quello partigiano per un aviolancio. Quando gli aviolanci avvenivano di notte, gli aerei, spesso inglesi, erano guidati dai falò accesi dai partigiani,

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oppure mediante segnali luminosi.

 

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Solo nel corso degli ultimi quattro mesi di guerra, gennaio-aprile 1945, gli Alleati organizzarono 865 lanci di materiale da guerra ai partigiani del nord. 

Due terzi di tali lanci riuscirono, cioè 551 per complessive 1200 tonnellate e precisamente 650 tonnellate di armi e munizioni, 300 tonnellate di esplosivo e 250 tonnellate di altri materiali. Con questi aiuti l’efficacia della Resistenza armata fu maggiore nel nord d’Italia.
 

 

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I bisogni erano tali, che intere flotte di aeroplani sarebbero state necessarie per effettuare i lanci nella misura che avrebbe comportato l'armamento, il munizionamento, l'equipaggiamento di decine di migliaia di uomini.

Come erano organizzati i rifornimenti alle formazioni partigiane? Per mezzo delle radio clandestine della Resistenza, le richieste di ogni formazione, vagliate dai Comandi superiori, venivano trasmesse al Sud con i precisi dati trigonometrici della località e con l'indicazione della più vicina e più elevata cima alpina. Insieme erano forniti due messaggi: uno negativo e l'altro positivo. Quando il Sud decideva di effettuare il lancio, trasmetteva a mezzo radio Londra, per alcuni giorni il messaggio negativo e questo preavvisava la formazione che il lancio era prossimo. Il giorno in cui il lancio veniva effettuato, i partigiani non sentivano più il messaggio negativo, bensì, e per una volta sola, quello positivo e così accendevano subito i fuochi e quella notte, tempo permettendo, il lancio veniva effettuato.

Alcune frasi che per vari giorni erano ripetute dalla BBC: «Marta ha sempre paura», «Le scarpe sono rotte», «Felice non è felice», «Pippo piange», «Il gallo canta», «La luna ri­splende»,  erano frasi negative, trasmesse anche in relazione a condizioni atmosferiche sfavorevoli e che poi scomparivano improvvisamente dando il passo ad altre espressioni rimaste sconosciute, perché dette una volta sola e che erano quelle che effettivamente contavano.

 

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il merito della Resistenza

6 Février 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Dopo l’8 settembre del 1943, 500.000 sono stati i collaborazionisti di Salò asserviti agli occupanti nazisti.

La popolazione italiana in questo frangente storico ha compiuto una scelta chiara e significativa, sostenendo, con piccoli e grandi atti di eroismo, la lotta contro i nazisti.

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Quasi 250.000 sono stati i partigiani che hanno combattuto; 44.720 sono morti.

21.186 sono stati gli invalidi ed i mutilati.

600 le medaglie al valor militare

124.813 sono i cittadini riconosciuti patrioti, ma accanto ad essi centinaia di migliaia gli operai che hanno resistito ai nazifascisti con gli scioperi, difendendo le fabbriche o sabotando la produzione.

Centinaia di migliaia di persone hanno nascosto i partigiani, gli ebrei ed i perseguitati, li hanno curati quando feriti, hanno procurato loro cibo e assistenza.

Gli Alleati, al termine del conflitto, hanno riconosciuto il grande contributo militare della Resistenza. Molti storici, anche tedeschi, hanno messo in rilievo questo fatto sulla base di documenti rinvenuti negli archivi.

La parte migliore del popolo italiano aveva riconquistato per tutta la Nazione la dignità perduta dopo venti anni di regime fascista e tre anni di guerra al fianco di Hitler.

L’Italia è così diventata un paese democratico. Questi valori di democrazia e di rispetto della persona umana vennero sanciti con la Costituzione, promulgata nel 1948 e divenuta fondamento della nostra convivenza politica e civile.

La conquista della libertà e della democrazia rappresenta un bene inattaccabile che dobbiamo agli uomini che hanno lottato nella Resistenza.

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Lo avrai camerata Kesselring

il monumento che pretendi da noi italiani

ma con che pietra si costruirà

a deciderlo tocca a noi

 

Non coi sassi affumicati

dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio

non colla terra dei cimiteri

dove i nostri compagni giovinetti

riposano in serenità

non colla neve inviolata delle montagne

che per due inverni ti sfidarono

non colla primavera di queste valli

che ti videro fuggire

 

Ma soltanto col silenzio dei torturati

più duro d'ogni macigno

soltanto con la roccia di questo patto

giurato fra uomini liberi

che volontari si adunarono

per dignità non per odio

decisi a riscattare

la vergogna e il terrore del mondo

 

Su queste strade sé vorrai tornare

ai nostri posti ci ritroverai

morti e vivi collo stesso impegno

popolo serrato intorno al monumento

che si chiama

ora e sempre

resistenza

 

 

Ode di Piero Calamandrei al gen. Kesselring, comandante delle truppe tedesche in Italia durante la seconda guerra mondiale.

Kesselring, processato a Venezia da un tribunale militare inglese nel 1947, fu condannato alla fucilazione. La condanna fu poi commutata in ergastolo ed infine, nel 1952, Kesselring venne graziato.

Durante il processo ebbe il coraggio di richiedere un monumento m suo onore, visto che, a suo parere, aveva mantenuto durante l'occupazione nazista in Italia un atteggiamento magnanimo nei confronti delle popolazioni civili e dei  resistenti.

 

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1942: in provincia di Milano le donne protestano

18 Janvier 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Nel marzo 1942, tra le prime manifestazioni di protesta, vi è lo sciopero di 40 operaie lissonesi.

 

L’1 marzo 1942 (secondo anno di guerra) in Italia viene ridotta la razione di pane a 150 grammi pro capite.

Il tesseramento del pane porta quasi immediatamente alla quasi totale sparizione dal mercato della farina. Quello che avviene per la farina, si era già verificato per gli altri generi razionati: pasta, riso, farina di granoturco, carni, uova, grassi, zucchero.

Il razionamento tendeva a coprire una parte del fabbisogno, assicurando mediamente poco più di 1000 calorie giornaliere. Per arrivare a circa 2000 calorie la popolazione non poteva fare altro che ricorrere al mercato nero.

L’aumento dei prezzi dei generi alimentari reperibili al mercato nero era talmente consistente da risultare spesso proibitivo per le famiglie operaie e quelle a redito fisso.

Gli operai reggono con difficoltà la fatica di dieci ore di lavoro al giorno con la malnutrizione determinata dal razionamento.

Nella provincia di Milano, dal febbraio al settembre 1942, si susseguono manifestazioni di protesta che coinvolgono gruppi di donne abbastanza numerosi presso municipi e case del fascio. La vita delle operaie è dura: la paga è di gran lunga inferiore a quella degli uomini e il lavoro in fabbrica è spesso pesante, tuttavia, esse possono contare sulla sicurezza di un salario, anche se, finito il turno di lavoro, ritornano ad essere casalinghe, che si devono improvvisare sarte per adattare abiti usati e trarne cappotti, gonne e pantaloni per i ragazzi; devono diventare magliaie, disfare vecchie maglie e golf per trasformarli in sciarpe, calze, golfini. Con il salario o lo stipendio del marito, se c’è, se non è in guerra, bisogna comperare al mercato nero i generi alimentari per integrare le misere razioni distribuite con le tessere.  Ogni giorno bisogna “inventare” una minestra o qualche altro piatto se la pasta o il riso tesserati sono finiti. Ma se manca la legna o il carbone da mettere sulla stufa, come si può cucinare un pasto caldo?

Da documenti conservati nell’Archivio di Stato di Milano (sono degli esposti che arrivano al prefetto dai diversi comuni della provincia) risulta che tra le prime manifestazioni di protesta, attuate nel marzo 1942, vi è quella attuata da operaie lissonesi: il 30 marzo, 40 operaie delle officine meccaniche Cesare Bosi di Via Piave, undefined alle 8 del mattino, non riprendono il lavoro “in segno di protesta per l’esigua paga loro corrisposta”. È il rapporto dei Carabinieri di Desio che spiega le ragioni dello sciopero, sciopero che dura fino alle 14, quando “autorità locali e segretario del sindacato sono riusciti modificare l’atteggiamento delle operaie”. Il rapporto dei Carabinieri al prefetto non spiega in che modo le autorità abbiano convinto le donne a riprendere il lavoro ma rassicura, come sempre, al ritorno alla normalità dell’ordine pubblico e sull’attenta vigilanza, predisposta dai carabinieri si suppone, in fabbrica. (AS Milano, Pref., II vers, cart. 243)

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