resistenza italiana
I militari italiani internati nei lager nazisti
8 settembre 1943 - 8 settembre 2023
«Debbo di necessità limitarmi ad alcuni aspetti essenziali del problema storico rappresentato dalla vicenda dei militari italiani internati nei lager nazisti dopo l'8 settembre 1943. Più che sugli episodi vorrei porre l'accento sulla portata e il significato di questa vicenda.
Desidero anzitutto precisare la dimensione di questo fenomeno dell'internamento: si tratta di una massa considerevole di militari, oltre seicentomila. I dati di fonte tedesca sono imprecisi e oscillano dai seicentomila ai settecentomila. Sono le vittime della catastrofe militare dell'8 settembre. L'armistizio li ha sorpresi nel vasto scacchiere di guerra, nel quale sono presenti le forze armate italiane, dalla Francia alla penisola balcanica, alle basi navali dell'Atlantico e del Baltico, ai comandi tappa della Polonia. Sono stati coinvolti i reparti della madrepatria, specie nell’Italia centrale e settentrionale, che non sono riusciti sottrarsi alla cattura. Si tratta di giovani delle classi più attive e più valide della popolazione. Sono le vittime doloranti del disastro dell'8 settembre. Vi sono tra di loro gli scampati agli eccidi di Cefalonia, Corfù, Spalato, Lero.
momenti di vita degli IMI nei lager nazisti
Questa massa imponente di militari viene deportata in Germania. Gli ufficiali sono divisi dai soldati; gli ufficiali superiori dagli inferiori. Hitler dispone che gli ufficiali siano trasferiti per punizione in Polonia, nei campi peggiori già abitati dai prigionieri russi. Anche in Germania normalmente sono assegnati agli internati italiani i lager dove erano stati i russi, lager che il Comitato internazionale dello Croce Rossa ha dichiarato inabitabili. A centinaia di migliaia vi erano morti i russi, decimati dalle epidemie e dai patimenti. Le fosse comuni dei russi sono il panorama abituale al di là dei reticolati.
Nella gerarchia dei militari prigionieri dei tedeschi i russi sono all'ultimo posto e gli italiani al penultimo: russi e italiani sono stati privati delle garanzie previste dalle convenzioni internazionali e dell'assistenza del Comitato internazionale della Croce Rossa. Naturalmente i campi degli internati militari italiani non sono paragonabili a quelli più spaventosi, in cui furono concentrati i deporti politici e gli ebrei per esservi massacrati. Ma anche in questi campi finirono alcuni militari.
Mussolini ebbe a dichiarare che si sarebbe dovuto vergognare se dagli internati militari non avesse potuto trarre almeno ventimila volontari per le sue forze armate. Dovette vergognarsi anche in questo caso, perché non riuscì ad arruolare nel ricostituito esercito fascista ventimila internati e dovette ricorrere allo stratagemma di inviare all'addestramento in Germania militari reclutati in Italia. Sottoposti a ripetute richieste di adesione alle formazioni SS, all'esercito tedesco e a quello fascista, oltre il 90 per cento dei militari italiani internati (le statistiche del Ministero della Difesa parlano del 99 per cento) oppose netto rifiuto. Non vi era nessuna comunicazione fra i diversi lager, ma ovunque il comportamento degli internati italiani fu identico.
Lo sconcerto e la preoccupazione per le ripercussioni che l'episodio avrebbe potuto avere in Italia, sono ampiamente testimoniati nel carteggio di Mussolini con Hitler utilizzato dal Deakin per la sua storia della repubblica di Salò.
Mi sembra che su questo rifiuto ci si debba soffermare per analizzarne le motivazioni e per sottolineare che le decisioni furono da ciascuno prese individualmente e sapendo bene a che cosa si andava incontro.
Vorrei citare due sole testimonianze, quella di un soldato, che non aderì, e quella di un ufficiale, che, non avendo aderito inizialmente, aderì in seguito, perché va ricordato, che fino all'ultimo giorno di guerra rimase aperta la possibilità di uscire dal lager aderendo.
Scrive nel suo diario il primo: "Il tedesco con voce stridula grida e l’interprete traduce: 'Chi non è fascista alzi la mano'. Eravamo in duemila, consapevoli che stavamo per decretarci un destino di sofferenze e forse di morte ma tutti, non uno escluso, abbiamo alzato la mano: era una selva di braccia e in quell'istante ci siamo sentiti tutti noi”. L'ufficiale domanda ancora: “Da dove vengono?” “Da tutti i fronti: è la risposta”.
L'ufficiale, che fini per aderire, era un ufficiale di marina. Al rientro in Italia scrisse una relazione, che fu presentata a Mussolini e che ora è conservata nell'Archivio centrale dello Stato a Roma, "Il generale” egli scrive “ci disse alcune parole: aderendo si aveva il trattamento dei soldati e dell'ufficiale tedesco che mangia bene ed è ben pagato. Coloro che non avessero voluto aderire sarebbero stati oramai abbandonati al loro destino e avrebbero pensato la fame e l'inverno polacco a servirli. Questo discorso fatto a gente che, affamata, scarsamente coperta, stava più di un'ora all'aperto a parecchi gradi sotto zero, ebbe un effetto deleterio. Ci prese una tristezza ed uno scoraggiamento infinito; ci si chiedeva di essere dei mercenari, perché non della Patria ci si parlava, ma del soldo e del vitto. Non della fratellanza che sola in tanta sciagura avrebbe dovuto risollevare dal fango l'Italia, ma un italiano minacciava altri italiani di essere abbandonati al loro destino”.
“La fame e l'inverno polacco avrebbero pensato a minare dei fratelli. Anche chi come il sottoscritto era pronto ad aderire e non desiderava altro che ritornare uomo e soldato sentì un moto di ribellione in se stesso. Aderirono su circa 2000 ufficiali 160 circa, di cui la maggior parte malati gravi, invalidi e vecchi. I giovani dicevano apertamente che aveva vinto la fame”.
In questo rifiuto massiccio del fascismo (la percentuale più alta indicata nella relazione citata si deve a particolari condizioni di vita di quel lager) ci sono alcuni motivi, che vanno precisati.
Si tratta di una parte notevole della gioventù italiana, che non ha avuto esperienza politica che quella del fascismo, che ha vissuto fino in fondo di persona la guerra disastrosa, dalla campagna di Grecia alla ritirata di Russia e oltre, ed ha, nella catastrofe, individuato le responsabilità del regime e dei suoi capi e capito che la guerra non poteva non essere che la naturale conclusione del ventennio. Al rifiuto di continuare la guerra a fianco dei nazisti e dei fascisti si arriva attraverso questa amara esperienza dei frutti del fascismo. In tutti è preponderante il rifiuto del fascismo come esperienza storica irrevocabilmente chiusa con il disastro e la vergogna.
Anche se all'inizio non vi è nella massa degli internati una chiara coscienza politica (la fedeltà al governo legittimo è per molti ancora il primo argomento), vi è però in tutti la consapevolezza che una generale risposta negativa al fascismo e al nazismo ha il significato di una rottura con il passato, di una scelta, che ha il valore di un plebiscito politico da parte di una generazione che per la prima volta viene direttamente e individualmente interpellata, sia pure in una grave situazione di costrizione esterna.
Il contatto con le altre vittime del nazismo, specie in Polonia (popolazione civile, ebrei, deportati), dà alla decisione il significato di uno schieramento con il resto dell’Europa, che lotta contro l'occupante. È un ritorno nella grande famiglia dei popoli europei, dalla quale il fascismo aveva cercato di distaccare il popolo italiano. La presenza degli internati·italiani nei lager internazionali ha questo carattere provvidenziale.
La lotta contro l'adesione è lotta anche contro se stessi; la fame, il freddo, la paura delle epidemie, la morte; ma anche la nostalgia di casa, specie dopo la notizia del rientro degli aderenti. Questa lotta va condotta ogni giorno, con decisione perché ogni giorno è possibile farla finita e uscire dal lager sottoscrivendo l'adesione. Si tratta di una lotta attiva, che vede tutti impegnati. Nuclei clandestini sostengono i propri compagni con un'adeguata propaganda e con direttive di azione. Sono composti di antifascisti, giovani e anziani, intellettuali e operai, militari effettivi. Tra coloro che hanno fatto una scelta politica precisa, troviamo in questa attività intensa e rischiosa cattolici e protestanti, accomunati nel giudicare il nazismo come il regno dell'anticristo e per i quali il rifiuto ha valore di impegno religioso. Mi sia concesso in questa sede di citare il nome del rettore Lazzati, che guidò la lotta contro l'adesione nei campi di Sandbostel e di Wietzendorf.
Questa lotta è condotta fino in fondo, in una condizione resa ancora più difficile dal fatto che i nazisti non riconoscono agli italiani la posizione giuridica di prigionieri di guerra e le autorità fasciste impedirono ogni intervento del Comitato internazionale della Croce Rossa, anche quando le autorità tedesche ebbero ceduto alle pressanti e ripetute richieste di Ginevra.
È una lotta affrontata come un combattimento, nel quale si può morire; un combattimento a oltranza, senza alternative morali, in condizioni fisiche sempre più precarie, perché a ogni rifiuto i tedeschi aggravano le condizioni di vita. Il numero dei caduti è di conseguenza elevato e proporzionalmente non ha riscontro se non tra i prigionieri russi. Non si è potuto accertare con esattezza il numero dei caduti. Ai trenta-quarantamila delle statistiche ministeriali vanno purtroppo aggiunti i dispersi, per i quali non raggiunta una documentazione di morte. In un recente viaggio in Polonia alla ricerca di documenti sugli internati militari italiani, trovai numerose relazioni sulla scoperta di fosse comuni con centinaia di massacrati e chiare testimonianze della loro nazionalità italiana. A Treblinka, il famigerato campo di sterminio, l'ultimo convoglio conservato con amore nella stazione (sulla quale campeggiano due scritte: "Non più guerre" – “Non più Treblinka”) ancora chiamato dai polacchi “il treno degli Italiani”. Non è tornato nessuno e non si sa neppure quanti fossero. I carri sono molti.
Dalla Conversazione tenuta da VITTORIO E. GIUNTELLA il 24 gennaio 1975 nell'Aula magna dell'Università Cattolica di Milano.
chi rimane e chi ritorna
Va anche detto che per molti il rimpatrio alla fine della guerra ha significato solo il venire a morire in Italia. Nel Cimitero militare di Merano sono sepolti internati militari morti in sanatorio negli anni successivi alla liberazione.
Gli episodi di questa resistenza, condotta fino allo stremo delle forze, sono tanti. Vi furono dei malati gravi che rifiutarono il rimpatrio condizionato all'adesione; vi furono degli internati, che rifiutarono il rimpatrio anche come lavoratori fascisti, con il solo obbligo di riconoscere la repubblica fascista; vi furono degli internati che scontarono la loro intransigenza nei campi di sterminio.
Gli internati ebbero notizia della Resistenza in Italia e questo tonificò la loro lotta, dando ad essa il carattere di un combattimento comune, per gli stessi ideali e con la stessa tenacia. Notizie dai lager giunsero alla Resistenza italiana, che riconobbe nella decisione degli internati, lo stesso animo e il medesimo ardore combattivo. Il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia espresse il 27 marzo 1944 la sua solidarietà e la sua ammirazione agli internati che "in una suprema affermazione di dignità e di fierezza hanno voluto negare ogni collaborazione e prestazione al nemico"; “solidarietà e ammirazione", prosegue l'ordine del giorno "che è la solidarietà e l'ammirazione dei liberi e degli onesti di tutto il mondo".
"L'altra faccia della Resistenza", come l'ha chiamata Giorgio Bocca, "la meno nota, non la meno importante” ebbe rilievo anche nel determinare la scelta dello schieramento per migliaia di italiani, padri, madri, spose, figli, parenti di internati nei lager, e anche per coloro vano visto passare nelle stazioni italiane i carri piombati, che li trasportavano in Germania, e avevano assistito alla brutalità delle sentinelle tedesche.
L'internamento è, dunque, parte integrante della Resistenza e si può capire soltanto inquadrandolo in quella che è la generale ribellione degli italiani ai fascisti e ai nazisti».
Bibliografia:
1945/1975 ITALIA. Fascismo antifascismo Resistenza rinnovamento.
Conversazioni promosse dal Consiglio regionale lombardo nel trentennale della Liberazione.
Feltrinelli Editore aprile 1975
8 settembre 1943, l'Italia si sfalda
Nel documento vengono riportate alcune pagine tratte dal libro "La Resistenza in Brianza 1943-1945" di Pietro Arienti, edito da Bellavite. Nel libro, frutto di una lunga e profonda ricerca storiografica, l'autore ricostruisce in modo documentato l'evoluzione dell'attività resistenziale in Brianza, dalle difficoltà iniziali all'individuzione della forma appropriata di opposizione e combattimento, fino all'apporto determinante delle formazioni partigiane brianzole nel corso dell'insurrezione dell'aprile 1945.
La storia della Resistenza armata italiana nasce nel momento della confusione, quella generata dall'armistizio firmato a Cassibile il 3 settembre e dichiarato l'8 settembre 1943. Il giorno dopo lo Stato italiano si disgrega a partire dall'alto, la famiglia reale abbandona Roma e fugge a Brindisi. Le motivazioni sono varie: si vuole risparmiare alla capitale gravi conseguenze, si pensa che salvando il re si salvi la nazione e la sua continuità. Ma nessuna di queste spiegazioni può essere valida di fronte alle conseguenze che scatena in successione. Scappa il re e allora scappano i generali e quelli che non fuggono rimangono senza ordini, senza indicazioni di comportamento. L'abbandono, l'incertezza e la paura si trasmettono giù giù fino alla truppa, e allora tutti a casa e l'Italia si trasforma in un formicaio impazzito di ex-militari che s'incrociano sulle strade, cercando quella del proprio paese.
I tedeschi, intanto, non hanno perso tempo. Subodorando il tradimento italiano, il loro piano d'occupazione scatta rapido. Al nord le divisioni di Rommel disarmano facilmente i reparti che si fanno trovare ancora nelle caserme, al sud Kesselring fa la stessa cosa. Così già l'11 settembre si può dire che l'occupazione è cosa fatta. Con la liberazione del 12 settembre di Mussolini dalla prigione del Gran Sasso, l'occupante prepara il terreno per la costituzione del suo stato fantoccio. Intanto in Grecia a Cefalonia e Corfù e in Jugoslavia a Spalato, si consuma il primo sanguinoso atto dell'opposizione al tedesco. Le divisioni di fanteria Acqui del generale Gandin, e la Bergamo del generale Cigala Fulgosi, combattono i nazisti per quindici giorni. Esaurite le munizioni depongono le armi e i tedeschi danno l'ennesima dimostrazione di ferocia contro chiunque resista loro. li massacro di quelle migliaia di soldati italiani fu il primo sfogo dell'odio tedesco, atavico verso il latino inferiore, presente per il traditore.
Anche in Italia avvengono eccidi. A Curtatone, nei pressi di Mantova, dieci soldati italiani sono fucilati il 19 settembre per aver sparato su di un reparto germanico in marcia, cioè per aver eseguito gli ordini del legittimo governo italiano. Tre di questi sono brianzoli: Luigi Binda e Alessandro Corti di Rogeno, Bruno Colombo di Lurago d'Erba.
Ma in questo caos che favorisce chi ha la forza, chi ha la possibilità e i mezzi per impossessarsi di tutte le leve del potere, non tutti scappano, non tutti si adeguano. Inoltre i quarantacinque giorni trascorsi dalla caduta del fascismo del 25 luglio, hanno fatto maturare in alcuni e soprattutto nei vecchi antifascisti la decisione di non accettare più una nuova dittatura, la decisione a questo punto di combatterla con le armi.
Ecco quindi che in tante città gli elementi storici dell'opposizione al regime si fanno interlocutori verso l'esercito chiedendo armi per la cittadinanza che si opporrà al fianco dei militari contro il tedesco che viene ad occupare. Ma i comandi militari, oltre che incerti, sono prevenuti verso i civili. Il no è più politico che strategico. Hanno più preoccupazione del possibile o presunto potenziale sovversivo del popolo in armi che del tedesco infuriato che viene a picchiare il suo pugno di ferro. Anzi, ad esso tanti aprono le porte.
Il generale Ruggero, a Milano, di spirito antifascista, dà qualche arma alla delegazione che va a parlargli. Poi tratta coi tedeschi che promettono lo stato di città aperta per il capoluogo lombardo, promessa che non manterranno. E così le città sono consegnate al nazista che se ne impossessa senza far fatica. Le sue forze in questo momento non sono schiaccianti. In un rapporto del 24 settembre il colonnello Sassenberg riteneva esigua la presenza in Milano di un reparto corazzato delle SS della Leibstandarte Adolf Hitler con 40-50 carri e una compagnia e mezza di Panzerjager, in tutto circa 400 uomini.
Ruggero si giustificò così:
L'accordo apparve imposto dalla necessità di evitare gravi danni alla città, inevitabili nel caso di una resistenza che in ogni caso sarebbe stata di breve durata e non tale da potère conseguire risultati decisivi.
Anche in Brianza avvengono queste trattative fra presidi militari e volontari. A Desio già il 7 settembre alcuni cittadini prendono contatto con il comandante del presidio locale, il tenente colonnello Pietro Barbieri. All'armistizio ci si accorda per un'adunata in piazza Conciliazione, dove l'ufficiale dà la propria disponibilità a difendere la città. Barbieri si reca a Milano per ricevere disposizioni dal generale Ruggero. Verso le 13 è di ritorno e comunica, con grande dispiacere, che Ruggero firmerà la resa. Alle 18, il colonnello con i soldati lascia Desio.
Nei giorni seguenti questo distaccamento raggiunge Villa Albese, nel comasco, dove rende inservibili gli automezzi, nasconde le armi, regala il materiale di casermaggio all'ospedale locale e poi si scioglie. Un sottufficiale di questo reparto, Giuseppe Amelotti, con pochi altri decide di passare alla Resistenza e più avanti fonderà una formazione autonoma, la brigata Porpora, che opererà soprattutto a Milano e che dipenderà dal Comando generale delle brigate Matteotti.
A Monza, la situazione si evolve in modo diverso da Desio. L' 8 settembre il gruppo storico dell'antifascismo cittadino sta guidando il primo tentativo di ribellione. Dal Palazzo municipale, dal versante di piazza Carducci, Gianni Citterio, comunista, affiancato dai socialisti Fortunato e Carletto Casanova, sta arringando la popolazione invitandola a non recepire passivamente gli eventi, ma a schierarsi contro l'eventuale ritorno fascista e il sicuro occupante nazista. Davanti al Motta intanto, un altro vecchio antifascista, Antonio Gambacorti Passerini, seduto ad un tavolino, raccoglie adesioni per la Guardia nazionale. Ritroveremo questi nomi nella storia della Resistenza brianzola. Terminato il comizio, Citterio, aiutato da un militare da tempo conosciuto come avverso al regime, il capitano Borrelli, si reca a chiedere armi ed aiuto al colonnello comandante la caserma Pastrengo di via Lecco. Costui però oppone un netto rifiuto, con un atteggiamento in linea con i suoi colleghi del resto d'Italia. Tuttavia lascia caricare su un automezzo qualche fucile modello 91 e qualche cassa di munizioni. I patrioti col carico d'armi decidono di lasciare Monza, ormai i tedeschi sono alle porte. Ci si avvia verso Valmadrera e poi al Resegone, alla Capanna Stoppani, su in montagna, prima culla della Resistenza.
Ritorno a Sestri Levante 2 aprile 2023
Domenica 2 aprile una delegazione della nostra Sezione è stata presente a S. Margherita di Fossa Lupara (Sestri Levante) alla manifestazione per commemorare i caduti della vallata di S. Vittoria e frazioni. Tra i partigiani fucilati in quella località, il nostro concittadino Arturo Arosio
L'intervento di Stucchi, Presidente della Sezione ANPI di Lissone:
"Gentili Autorità, cari concittadini,
la presenza della sezione ANPI di Lissone alla commemorazione odierna non è soltanto un doveroso omaggio alla memoria dei partigiani. Non siamo venuti qui soltanto con lo sguardo rivolto al passato e neppure soltanto per l’amicizia sempre più stretta che ci lega a questa città e in particolari ai carissimi compagni dell’ANPI di Sestri Levante.
Siamo qui con la ferma convinzione che non è in gioco solo il significato del passato, ma anche quello del presente e del futuro. I valori dell’antifascismo e della Costituzione sono oggi più che mai attuali e anche per questo prendiamo atto con profondo disappunto dell’assenza dell’Amministrazione Comunale della Città di Lissone. La Costituzione nata dalla Resistenza, infatti, non è e non dovrebbe essere considerata l’espressione di una parte politica, ma la base istituzionale della legittimità e delle attività di tutte le amministrazioni della Repubblica: Comuni, Province, Regioni e Stato.
Oggi questa verità è ancora più urgente. La cronaca ci mette di fronte troppo spesso a nuove intolleranze, a nuovi fascismi, a nuove prevaricazioni. Il recente assalto alla sede della CGIL è solo uno dei tanti episodi che ci richiamano alla difesa intransigente dei valori democratici. Non si possono tollerare gli intolleranti e i valori di uguaglianza e di libertà della Costituzione nata dalla Resistenza devono essere difesi e protetti con tutta l’energia necessaria. Per questo non è ammissibile che, proprio da parte di alcune tra le più alte cariche istituzionali della Repubblica, sia partito in questi giorni un vero e proprio attacco al significato dell’attentato di via Rasella e della strage delle Fosse Ardeatine.
Anche la pace è un valore costituzionale. Conosciamo tutti l’articolo 11 della Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Ma da più di un anno la guerra infuria alle nostre porte. Sappiamo bene quali siano le gravi responsabilità della Russia di Putin. Ma questo non ci impedisce di respingere l’idea che la soluzione della crisi passi solo per le vie militari. La prima preoccupazione, anzi, dovrebbe essere quella di evitare un’estensione e una radicalizzazione del conflitto. Occorrono equilibrio e intelligenza. Il diritto del popolo ucraino a resistere deve essere accompagnato da uno sforzo della comunità internazionale ad avanzare mediazioni e compromessi che inducano le parti a deporre le armi. È ancora l’articolo 11 a obbligare l’Italia su questa strada, a favorire le organizzazioni internazionali che assicurino la pace e la giustizia tra le Nazioni, per dirla con le parole dell’artico 11. Anche senza mettere in discussione l’appartenenza alla NATO, non possiamo perciò illuderci che un’organizzazione eminentemente militare sia lo strumento privilegiato per la ricerca della pace.
Infine, è sempre la stella polare della Costituzione nata dalla Resistenza che ci ha mobilitato per la raccolta di firme per la proposta di legge di iniziativa popolare per la modifica degli articoli 116 e 117 della Costituzione che oggi, dopo essere stati imprudentemente modificati nel 2001, vengono usati per rompere l’unità sostanziale della Repubblica in nome della cosiddetta autonomia differenziata. La valorizzazione delle autonomie locali non è in discussione, ma non può significare sottrarre risorse ai territori che ne hanno più bisogno. Proprio l’articolo 2 della Costituzione richiede l’adempimento degli “inderogabili doveri di solidarietà politica, economica e sociale” che sono uno dei più profondi insegnamenti dei partigiani che oggi siamo qui a celebrare.
Viva l’Italia, viva la Repubblica una e indivisibile, viva la Resistenza!"
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Gli scioperi del 1944 in Brianza
“In questa zona dobbiamo concentrare l'attenzione nelle zone elettivamente industriali, come Monza e dintorni, e poi isolatamente alle altre importanti fabbriche presenti sul territorio. L'importante fonte Rapporto sullo sciopero generale del 1 marzo a Milano e provincia, redatta dal partito comunista milanese, ragguaglia che nel primo giorno di agitazione, alla Hensemberger di Monza il lavoro si bloccò alle 10.00, mentre due ore più tardi gli operai avevano addirittura abbandonato lo stabilimento. Già in questa giornata sono arrestati gli operai Giuseppe Vismara di Triuggio e Valentino Rivolta di Macherio, colpevoli di aver tolto la corrente alla fabbrica. A conferma di quanto detto in precedenza, il documento sottolinea la tendenza delle maestranze di questa ed altre fabbriche a seguire l'azione dei complessi di Sesto e Milano.
Alla Singer, presente anch'essa nel capoluogo brianzolo, l'avvenuta interruzione del lavoro è efficacemente contrastata da fascisti e tedeschi che puntano le mitragliatrici contro la fabbrica e minacciano la fucilazione di alcuni ostaggi. Gli operai della Singer sono così costretti a riprendere il lavoro. Intanto a Monza si sono bloccate anche la Philips e la Sertum. Nello stesso giorno sono segnalati scioperi riusciti a Desio alla Bianchi, mentre alla Tessitura Targetti e alla Gavazzi la fermata sembra avere meno successo. In fermento anche l'Isotta Fraschini di Meda. Il giorno 2 marzo, il rapporto informa che a Monza, a causa della brutalità della reazione in alcuni stabilimenti il lavoro è stato ripreso. A Lissone i lavoratori dell'Incisa (1200) e dell'Alecta (500) aderirono allo sciopero in modo massiccio.
Nella Brianza comasca, abbastanza attiva fu la zona del canturino. La filotecnica Salmoiraghi, azienda milanese sfollata a Cantù, si mise in sciopero il 2 marzo. Le fonti di opposta origine concordano sul numero degli scioperanti; infatti il foglio clandestino Il fronte proletario scrive che alla Salmoiraghi si sono astenuti dal lavoro circa 350 dipendenti. Il notiziario della Guardia nazionale repubblicana di Como riferisce che di 600 operai se ne presentarono al lavoro 200 circa, inoltre anche questi ultimi, intorno alle 10.30, abbandonarono lo stabilimento. Sciopero anche alle Imprese Seriche Italiane di Mariano Comense, sempre dal 2 marzo; alle 14.00 circa 700 operai, in massima parte donne, sospesero il lavoro.
È accertato che anche le ferriere Orsenigo e le Taglietti di Figino Serenza si unirono alla protesta, mentre più turbolenta fu la manifestazione della Vergani di Cantù. Le operaie messe in ferie per evitare che scioperassero, si riunirono lo stesso e si recarono in massa davanti al Municipio, chiedendo pane, latte e grassi per i bambini e un miglior regime alimentare per loro.
Il commissario prefettizio non trovò di meglio che chiamare le autorità tedesche.
Le caratteristiche dello sciopero del marzo '44 in Brianza furono quindi innanzitutto di subalternità nelle azioni e nelle decisioni, nei confronti dei grandi centri sestesi e milanesi. Inoltre, riguardo la durata, mentre nella cintura milanese l'astensione del lavoro continuò fino all'8 marzo, abbiamo visto che sia nel monzese che nel comasco non si andò oltre i due giorni.
Ciò è spiegabile e comprensibile, perché nelle fabbriche brianzole gli scioperanti non potevano contare sulla forza delle enormi masse create dai grandi stabilimenti delle città industriali, la repressione poteva avere più buon gioco e gli agitatori potevano essere più facilmente individuati. Tutti questi motivi sono validi anche per spiegare come mai diverse aziende brianzole si erano astenute dallo sciopero.
In definitiva comunque, si può commentare positivamente l'esito dello sciopero in Brianza, una terra in cui le premesse non erano favorevoli, per il tradizionale e radicato moderatismo di quest'area, e per la mancanza di grandi e compatte masse operaie. Anche se proprio per questo l'adesione non fu al livello di Sesto e Milano, la protesta con la sua portata politica indubbiamente servì a creare una coscienza maggiore nei lavoratori brianzoli, circa la situazione di quel momento, contribuendo ad aumentare l'avversione per un regime che perpetuava una guerra disastrosa e delle condizioni di vita conseguentemente molto precarie. La prova di questo effetto sono i malumori non più repressi e le ribellioni messe in atto senza timore nei mesi successivi al grande sciopero.
Già il 31 marzo, gli addetti ai telai meccanici della Tessitura Cattaneo di Cantù, non avendo ottenuto l'aumento di paga in seguito alla fermata del lavoro fatta in precedenza, si recarono in Direzione per chiedere un anticipo di 5.000 lire, che gli fu loro concesso. Il fatto, presto risaputo in fabbrica, mise in fermento anche altre categorie di dipendenti della Cattaneo, che chiesero anch' essi un analogo trattamento.
Si sa, comunque, che a causa della pressione ancora alta negli stabilimenti del comasco, venne effettuata una distribuzione di viveri e vestiario a prezzo bianco.
Inoltre il comando della Gnr comasca informava che:
8 aprile 1944. La precettazione di manodopera femminile per il servizio di lavoro in Germania provoca vivo malcontento. I commenti nelle fabbriche sono violenti, si parla di schiavismo.
15 aprile 1944. Nelle maestranze femminili perdura il noto malcontento determinato dalla precettazione per il servizio di lavoro in Germania. Nel settore industriale è motivo di seria preoccupazione la mancanza d'acqua che incide sulla produzione di energia elettrica.
Proprio questi motivi, la mancanza di energia elettrica e le difficoltà di approvvigionamento delle materie prime, producono una contrazione dell' attività industriale che si ripercuote sui lavoratori, i quali però non subiscono sempre passivamente.
Il 17 corrente, in Meda, stante la riduzione dell' energia elettrica, la direzione degli stabilimenti Isotta Fraschini; stabilì che su 700 operai normalmente impiegati soltanto 309 prendessero lavoro. Al mattino del predetto giorno si presentarono 38 operai non inclusi nel turno chiedendo di lavorare. La direzione dello stabilimento non accolse la richiesta provocando, per solidarietà, l'astensione dal lavoro di tutte le maestranze. Il lavoro venne ripreso alle 13.30 in seguito all'intervento dei dirigenti.
Anche a Carate Brianza si sciopera, alle Officine meccaniche Formenti si protesta contro la decisione d'inviare alcuni lavoratori in Germania. Per ordine del Capo della provincia, il Commissario del Sindacato dei lavoratori di Milano si recò sul posto ed annullò il provvedimento, le maestranze ripresero così il lavoro. Il 22 maggio a Seregno allo stabilimento Ambrogio Silva, 300 operai iniziano lo sciopero in segno di protesta contro la precettazione per il lavoro nel Reich di 30 loro colleghi.
La grande manifestazione di questa primavera del '44 chiarì, parlando più in generale, agli esponenti della Resistenza, e soprattutto a quelli appartenenti al movimento garibaldino, molte cose riguardo i metodi di lotta da assumere. Innanzitutto emerse l'equivoco dello scambio dello sciopero per l'inizio di un'insurrezione. Gli operai di diverse fabbriche aspettavano l'arrivo dei partigiani per una supposta azione di rivolta totale. Ciò non avvenne, perché questo non era in definitiva il compito dei Gap, le uniche formazione organizzate in città, che tra l'altro versavano in una drammatica situazione a causa dei numerosi arresti subiti. Da questo e dagli arresti che cominciarono ad effettuarsi fra le maestranze, emerse la scarsità e il poco peso delle cellule partigiane di fabbrica, le cosidette squadre di difesa operaie. Si rese pian piano evidente, quindi, la necessità di una diffusione maggiore del movimento di opposizione politico, ma soprattutto militare, di tipo non elitario, come per i Gap, ma popolare ed esteso, mirando ad una partecipazione più larga da parte della popolazione cittadina. E da questo momento, e dal rilievo di queste situazioni, che si comincia a pensare e a meditare nell' ambito del Partito comunista a nuove forme di lotta resistenziale e a nuove strutture, riflessioni che porteranno fra qualche mese all'istituzione delle Sap (Squadre d'azione patriottica) cittadine, che si diffonderanno anche in Brianza.
Ma da parte fascista e tedesca come si reagì davanti agli scioperi di questo periodo? Dopo un primo momento di stupore e di sorpresa e constatata la valenza politica di queste manifestazioni, si tentò prima di renderle vane mettendo in ferie il personale, oppure con le serrate, che avevano lo scopo di piegare la determinazione degli operai sospendendo il pagamento dei salari e riducendo la distribuzione dei generi alimentari. In alcuni stabilimenti si effettuarono dei licenziamenti; accadde ad esempio a Ronco Briantino, dove il cotonificio-manifattura F.lli Nobili-De Ponti, d'accordo con il capo della provincia, licenziò 63 operai, pare però che in questo caso la motivazione del provvedimento fosse dovuta più che altro alla totale mancanza di materie prime. Come già rilevato, il problema dell'approvvigionamento era per l'industria, in quel momento, una vera e propria piaga, che incideva profondamente sull' occupazione. Altri esempi si possono citare a prova di ciò, come la ditta Enrico Mariani saponeria Junior di Seregno, che già il 3 gennaio aveva dovuto licenziare 50 operai per l'impossibilità di lavorare.
Ma il provvedimento più duro e più gravido di conseguenze, fu senza dubbio l'arresto di molti operai, e non solo di quelli che più si esposero nello sciopero. Infatti i lavoratori che nei giorni successivi alla fine della manifestazione, si videro prelevare dalle loro case, nemmeno lontanamente potevano immaginare ciò che li aspettava, ciò che avrebbe rappresentato per loro la deportazione nei campi di sterminio.
I deportati nei campi di sterminio
Con gli arresti successivi agli scioperi del marzo 1944, si ebbe un'impennata del numero dei trasferimenti nei lager tedeschi.
Per ciò che riguarda la Brianza, il fenomeno della deportazione non è assolutamente da sottovalutare. I numeri, pur nella loro aridità, parlano chiaro. Sono 175 i morti brianzoli nei lager e 46 i sopravvissuti. Quest'ultima cifra è in difetto in quanto desunta dal Supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n°130 del 22 maggio 1968, che riportava i nominativi di coloro che avevano richiesto l'apposita pensione spettante ai deportati; è facile immaginare che alcuni per mancata conoscenza non abbiano iniziato la pratica prevista. Quindi in totale ben oltre duecento sono i deportati, di cui solo un quinto ha salvato la vita.
Gli operai, presi soprattutto dopo gli scioperi della primavera del '44, costituirono circa la metà del gruppo brianzolo che conobbe la realtà dei campi di sterminio. Una quota importante, ma anche allucinante nelle sue caratteristiche. Vi figurano dai cinquantenni ai diciassettenni, molti padri di famiglia che lasciarono orfana una consistente figliolanza. Ma a chi andò a prelevare Valentino Rivolta, 3O anni di Macherio, operaio alla Hensemberger di Monza dove aveva diffuso stampa clandestina e partecipato allo sciopero, nulla importava delle sue tre piccole bambine, lo caricarono su un treno merci e lo mandarono a morire a Mauthausen. Come nessuno ebbe rispetto per Battista Caproni, panettiere simpatizzante dei partigiani di Cesano Maderno e maturo padre anch' esso di tre figlie.
Operai, oppositori politici e partigiani che fossero, non furono solo i tedeschi che andarono ad arrestarli. Anzi, molto più spesso furono i fascisti, che meglio conoscevano luoghi e tendenze politiche dei ricercati.
Generalmente il percorso seguito dagli arrestati prevedeva un breve periodo di reclusione nelle carceri di Monza o alla villa Reale, prima di passare al carcere di S. Vittore. Di lì si proseguiva per il campo di smistamento di Fossoli, nel modenese, e dopo l'estate del '44 in quello di Bolzano e quindi il trasferimento in Germania. Dal campo di Bolzano, dal luglio 1944 all'aprile 1945, si calcola che passarono almeno 11.000 persone.
In totale, morirono nei campi di sterminio quasi 9.000 italiani (ebrei esclusi). Nell'elenco dei caduti brianzoli nei lager, ancora per quel che riguarda gli arresti fra gli operai dopo lo sciopero del marzo '44, è la sequenza dei rastrellamenti mirati effettuati in Brianza. Anche se per tutto il mese di marzo si segnalano arresti, c'è un periodo culminante in cui i fascisti e i tedeschi si scatenarono. È quello compreso tra il 10 e il 15 del mese, in particolare il giorno 11 fu cruciale per gli operai monzesi che lavoravano alla Falck soprattutto e alla Breda; ne furono incarcerati undici. Poi il giorno 14 con nove catturati di cui ben sette della Breda; sembrano retate pianificate a secondo degli stabilimenti di appartenenza, in quanto in ogni giorno prevalgono operai provenienti dalla stessa fabbrica. Anche il 10 marzo, ad esempio, dei tre arrestati due sono della Innocenti.
In definitiva, dunque, 170 famiglie in Brianza persero un uomo, senza sapere dove era finito ed ignorando, fino a poco dopo la fine della guerra, che era morto e come era morto.
I sopravvissuti, in molti, fecero il loro dovere di testimonianza che permise di scoprire quegli orrori". (da “La Resistenza in Brianza 1943-1945” di Pietro Arienti)
Gli scioperi del 1943 e 1944 in Italia
«Le agitazioni operaie si diffusero da Torino, vero epicentro della protesta operaia, a partire dal 5 marzo, nelle altre città del Piemonte (Asti, Cuneo, Alessandria, Vercelli) e alla fine di marzo le agitazioni coinvolsero anche Milano e il resto della Lombardia. Infatti, a partire dalla giornata del 24 e per tutta l’ultima settimana del mese, il centro della lotta si spostò a Milano, Varese e Como con un’appendice finale espressiva che si registrò nei primi giorni di aprile nuovamente in Piemonte, in particolare nei lanifici di Biella.
I reali protagonisti delle agitazioni operaie, al di là dell’ultima settimana guidata dalle maestranze tessili biellesi, furono quindi gli operai metalmeccanici delle grandi aziende torinesi e milanesi, dalla FIAT Mirafiori alla Falck di Sesto San Giovanni, ai Caproni, alla Ercole Marelli, alle Officine Fratelli Borletti, Bianchi, eccetera. Tuttavia, episodi significativi di lotta si registrarono sia in altre regioni italiane, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, passando per Emilia Romagna, Liguria, Toscana, Marche, che negli altri settori manifatturieri oltre che nei rami “chimici” a partire dalle miniere, alle aziende del vetro, nel settore della concia e in quello delle fibre tessili artificiali, ma soprattutto nel settore della gomma, con gli scioperi alla Pirelli di Milano.
Gli operai scesero in sciopero e diedero avvio alla contestazione aperta contro il Regime chiedendo “pane e pace”, quindi, dissociandosi dalla guerra fascista, considerata sbagliata e ingiusta, e segnando la sconfitta di Mussolini sul fronte interno attraverso la perdita definitiva del consenso già prima della sua destituzione.
Gli scioperi operai del marzo-aprile 1943 rappresentano le prime agitazioni di massa dopo quasi un ventennio di repressione sociale.
Tuttavia va sottolineato come il corporativismo fascista e la storia stessa del sindacalismo fascista avevano rappresentato il tentativo di integrare le masse lavoratrici all’interno dello Stato autoritario. Non a caso, nei momenti di crisi, la conciliazione con il mondo del lavoro appare in maniera evidente – anche alle classi dirigenti più retrive – come l’unico modo per evitare il dissolvimento finale.
Di fatti, prima che l’Italia si ritrovasse spezzata in due, sotto il governo Badoglio, nel momento di maggiore disorientamento delle classi dirigenti del Paese, viene concluso l’accordo Buozzi-Mazzini per il riconoscimento delle Commissioni interne: vi è la consapevolezza che la Nazione non può sopravvivere senza riaprire quantomeno il dialogo con il mondo del lavoro. E immediatamente dopo gli anglo-americani capiranno che le forze vive e affidabili del paese sono le forze sociali e sosterranno la riorganizzazione sindacale già decisamente avviata dai lavoratori in tutte le province liberate del Paese. E lo stesso Mussolini, attraverso le norme di indirizzo generale approvate dal Consiglio dei Ministri della RSI, puntava alla impossibile riconciliazione con il mondo del lavoro, proponendo il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle imprese e, più in generale, proponendo una disperata riedizione del fascismo sociale delle origini e rispolverando i motivi anti-borghesi della prima ora.
Ma la strada intrapresa dal mondo del lavoro portava inequivocabilmente verso la democrazia e verso la ricostruzione su nuove basi della vita civile ed economica italiana. Il momento di rottura più significativo che emerge appunto nel primo ciclo di lotte, attraverso gli scioperi del marzo ’43, lo si ha attraverso la presa di distanza dalla guerra fascista. E’ l’atteggiamento di fronte alla guerra che determina la vera rottura tra il fascismo e il Paese. Il senso di una disfatta, quale quella che segue al 25 luglio e all’8 settembre, che è decisiva per dare al mondo del lavoro la percezione della caduta, della vera e propria cesura della storia nazionale.
Gli scioperi, pur nascendo da esigenze strettamente economiche, ebbero una forte valenza politica ponendo al centro i tre temi della libertà, della pace e del lavoro. Inoltre, le lavoratrici e i lavoratori scesi in piazza si riappropriarono con forza, seppure per breve tempo e senza particolari effetti immediati, di una delle tante libertà calpestate dalla dittatura: lo sciopero il cui divieto era stato sancito nel 1926 dal fascismo.
In seguito, la destituzione di Mussolini e la sua sostituzione con il maresciallo Badoglio, e la fine del fascismo, aprono a un periodo di intensa attività politica all’interno dei Comitati di opposizione cittadini e nelle neo-costituite Commissioni interne di fabbrica. Al contempo l’occupazione dell’Italia del Nord da parte della Germania hitleriana, all’indomani dell’armistizio con le forze anglo-americane, e la costituzione della Repubblica sociale italiana danno avvio ad una nuova fase.
Gli scioperi e i sabotaggi alla produzione nelle fabbriche del nord caratterizzano questo periodo che vede la partecipazione diretta dei lavoratori nei Comitati di agitazione, nelle squadre armate dei cittadini e nelle brigate partigiane.
In questo clima si inscrive lo sciopero del 1944, guidato dalla classe lavoratrice. La connotazione e la dimensione politica che si concretizza negli scioperi del 1943 e, ancor più, del marzo 1944 non nasce improvvisa, ma ha alla base una vasta azione di vero e proprio antifascismo che precede il momento insurrezionale, traslandolo dalla dimensione più economica a una più esplicitamente politica. Antifascismo e lotta contro l’occupazione tedesca, quindi, si mescolano e si intrecciano con la repressione repubblichina e la deportazione nazista, complici le strutture e la proprietà delle fabbriche, determinando un nuovo flusso di deportati, che vide protagonisti migliaia di lavoratori italiani a partire dagli operai delle aree industriali ai contadini e braccianti.
Lo sciopero generale del 1944 segna il passaggio definitivo del mondo del lavoro all’azione diretta, alla resistenza più ferma e alla guerra partigiana che assumerà definitivamente i caratteri di guerra di popolo contro l’occupazione nazi-fascista. È in questa fase che diventa ancora più decisivo l’apporto di tutte le categorie di lavoratori, di tutto il mondo del lavoro, mentre si consuma progressivamente e definitivamente il distacco dell’intera nazione dal fascismo. E il ciclo di lotte dei lavoratori del 1943-1944 – col passaggio dalla richiesta di pace all’aperta resistenza contro la Repubblica di Salò – è l’esperienza che darà poi le più solide basi di massa all’azione insurrezionale dell’aprile 1945.
Così nel marzo del 1944, la reazione operaia – e questa volta con una estensione straordinaria – annientò il tentativo della Repubblica sociale italiana di tessere nuovi rapporti col mondo del lavoro, di recuperare il consenso perduto attraverso i progetti di socializzazione e attraverso tutte le proposte tardive, velleitarie e contraddittorie del governo mussoliniano di Salò.
La classe operaia italiana che giunge agli scioperi del ’43-44 è una classe che riacquista piena fiducia nelle proprie forze; si assiste al passaggio da una fase difensiva e di lotta di tipo quasi esclusivamente economico, ad una offensiva in cui la caratterizzazione è essenzialmente di natura politica. Non si sciopera solamente contro gli industriali e i padroni, ma contro il fascismo, contro la guerra fascista e a sostegno della lotta partigiana, per l’insurrezione, per la libertà e per la democrazia.
La fabbrica, ma non solo la grande fabbrica, ritorna ad essere quello spazio di socializzazione politica che vent’anni di dittatura non erano riusciti mai a neutralizzare del tutto. A Milano, infatti, i tranvieri paralizzano la città e accanto agli operai entrano in sciopero anche gli impiegati e gli studenti universitari. Emblematico è inoltre lo sciopero del più autorevole giornale della borghesia italiana, il “Corriere della sera”. Le campagne tornano in fermento in tutta Italia. Lo svolgimento degli scioperi al Nord, infatti, è parallelo all’avvio del grande ciclo delle lotte per la riforma della terra partita dal Mezzogiorno, parallelamente all’avanzata Alleata, che contrapponeva la struttura politico e sociale del regime fascista alla opportunità apertasi con i ‘Decreti Gullo’.
È in questa fase che diventa ancora più decisivo l’apporto di tutte le categorie di lavoratori, di tutto il mondo del lavoro, mentre si consuma progressivamente e definitivamente il distacco dell’intera nazione dal fascismo. E il ciclo di lotte dei lavoratori del 1943-1944 – col passaggio dalla richiesta di pace all’aperta resistenza contro la Repubblica di Salò – è l’esperienza che darà poi le più solide basi di massa all’azione insurrezionale dell’aprile 1945.»
Dalla relazione di Adolfo Pepe, direttore della Fondazione Di Vittorio, al convegno tenutosi al Palazzo delle Stelline a Milano il 10 marzo 2007, dal titolo: I lavoratori, il Sindacato e la lotta di Liberazione. "Dagli scioperi del Marzo 1943 ai GAP"
L’8 settembre 1943 in alcune località d’Italia
Vittorio Emanuele III abbandona Roma ancor prima d'averne tentata la difesa, senza preoccuparsi in nessun modo di ciò che resta dietro di lui. «La fuga di Pescara» sancisce definitivamente la separazione tra monarchia e popolo, né può essere più cancellata. E lo stesso sovrano, o chi gli è più vicino, non può prevederne le conseguenze, poiché non prevede in nessun modo che quel «popolo », cosi abbandonato al suo tragico destino, possa esprimere una propria volontà autonoma; non può prevedere che lo stesso 8 settembre possa trasformarsi nel principio della rinascita.
a Roma
La giornata del 9 mentre la divisione Granatieri era impegnata nella difesa ad oltranza del ponte della Magliana, nella città, abbandonata a se stessa, in mezzo alla ridda delle voci contrastanti, i gruppi politici antifascisti cercavano faticosamente d'orientarsi sulla situazione e di prendere contatto con gli organi del governo Badoglio. Il Comitato delle opposizioni delega a questo scopo nelle prime ore del mattino Bonomi e Ruini, i quali si recano al Viminale e vi apprendono la notizia della fuga del re. Li ha preceduti una missione dell' Associazione combattenti richiedendo la distribuzione di armi per potersi battere a fianco dell'esercito. La richiesta, benché appoggiata dagli emissari del CLN è «respinta con un no freddo. Anzi qualcuno aggiunge che non bisogna esasperare gli invasori».
Posto di fronte alla più drammatica delle situazioni, con la sensazione di avere dinnanzi a sé il vuoto più assoluto d'ogni «autorità costituita» il Comitato delle opposizioni reagisce immediatamente; constatando la frattura decisiva determinata dall'8 settembre e traendo da questa constatazione l'indicazione delle sue nuove responsabilità, alle ore 14,30 esso approva la seguente mozione:
“Nel momento in cui il nazismo tenta restaurare in Roma e in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di liberazione nazionale, per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza per riconquistare all'Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni.”
Intanto nella città incerta fra le più contrastanti notizie, fra le voci più assurde, si organizzano i primi gruppi d'armati facendo. capo ai partiti di sinistra, ai comunisti Longo e Trombadori, ai socialisti Pertini e Gracceva, agli azionisti Baldazzi e Lussu.
La distribuzione delle armi provoca vari incidenti con la polizia, a stento repressi dall'intervento dei dirigenti antifascisti; ... I primi gruppi di civili sono ben presto in linea in uno dei punti più delicati del «fronte», mischiati insieme con un reparto di paracadutisti al bivio dell'Ardeatina e dell'Ostiense e nella giornata del 10 si accentua di ora in ora l'intervento popolare sul campo di battaglia. I granatieri hanno ricevuto il rilevante rinforzo del Montebello, l'eroico squadrone che sino all'ultimo condurrà una serie di contrattacchi sacrificando quasi tutti gli ufficiali e tutti i pezzi; altri reparti delle Forze Armate affluiscono sull'Ostiense alla spicciolata. È la prima volta nella storia d'Italia dal 1848 in poi che il popolo interviene spontaneamente a fianco delle Forze Armate, supera d'un balzo il distacco tradizionale. Quando già la resistenza «regolare» va esaurendosi e già firmata la «resa», allora è il momento che quest'intervento svela tutta la sua importanza non solo militare, ma politica. Dalla piramide di Caio Cestio al Testaccio sono in linea i«civili» armati e cade fra essi, a Porta San Paolo, Raffaele Persichetti, giovane studioso, il primo degli intellettuali sacrificatisi nella Resistenza. E in più punti della città si accendono i combattimenti mossi, più che dalla speranza della vittoria, da uno spirito indomito di odio antinazista: fra via Cavour e via Paolina, in via Marmorata, a piazza dei Cinquecento ove sino a sera si spara contro l'albergo Continentale tenuto dai tedeschi. Sono episodi confusi, di cui è difficile rintracciare volta per volta l'origine e i risultati; ma certo è che in quella resistenza disperata, dispersi in uno spazio quanto mai vasto, isolati l'uno dall'altro, si mischiano insieme i vari ceti sociali e le generazioni diverse, l'operaio e l'ufficiale, il vecchio e il ragazzo; sono i primi bagliori dell'unità della Resistenza ... Roma non è caduta senza resistere: è stata evitata dal sacrificio solidale dell'esercito e del popolo la più profonda umiliazione che potesse essere inferta alla capitale.
Se bastò un ordine «sbagliato» del Comando supremo a dissolvere il nucleo più importante del nostro esercito attestato alla difesa di Roma, nel resto del territorio nazionale, ove le divisioni esistevano in gran parte sulla carta ed erano quasi totalmente prive dei mezzi necessari per ottenere una valida resistenza, bastò assai meno: bastò la mancanza di ordini per far precipitare tutto nel caos, per pregiudicare nel volgere di poche ore anche le sorti d'una difesa onorevole. La Memoria op. 44, diramata da Badoglio ai comandi militari in Italia, subordinava la sua applicazione all'emanazione d'un ordine successivo (che fu impartito dal Sud troppo tardi: solo l’11 settembre); richiedeva cioè agli alti quadri dell'esercito la cosa più difficile da attuare date le stesse tradizioni della nostra casta militare educata fin dall'unità ad «eseguire gli ordini senza discutere», a considerare «l'iniziativa individuale» come un pericolo per la saldezza delle istituzioni. Proprio facendo leva su tale caratteristica il fascismo aveva potuto condurre la guerra nel modo che l'aveva condotta, vincendo l'opposizione dei generali di dissenzienti col richiamo alla «disciplina», alla subordinazione cieca ed assoluta al potere politico; ... Chiedere «d'agire d'iniziativa» era già cosa avventata alla fine d'agosto, quando essa contrastava così evidentemente con la mentalità della nostra casta militare e con la situazione di fatto, con l'estremo punto di consunzione e di logoramento cui era pervenuto l'esercito territoriale: diveniva semplicemente pazzesco nella situazione non solo militare, ma politica creata l’8 settembre con la diserzione dal suo posto di lotta del Comando supremo. ...
Come nella difesa di Roma non mancano gli esempi che dimostrano come, malgrado tutto, l'8 settembre non era «fatale» nella forma in cui si presentò, come anche all'ultimo momento era possibile «salvare il salvabile» e come in molti casi ufficiali e reparti seppero dar prova di valore e di coraggio. Se sul momento tutto sembrò sommerso nella tragedia e nella vergogna del disfacimento, ora è possibile dare un primo ordinamento a quegli episodi di resistenza che allora parvero del tutto sporadici o semplicemente d'eccezione e trarre da loro qualche conclusione più organica.
Innanzitutto è da osservare che qualsiasi direttiva militare mancò nelle grandi città industriali del Nord come a Milano e a Torino ... Nelle grandi città industriali, più che in ogni altro luogo, i generali responsabili della difesa ... elusero con ogni sorta d'inganni le pressanti richieste di partecipare alla lotta e decisero in ultimo che era preferibile consegnare le armi ai tedeschi piuttosto che agli operai.
a Milano
Così accadde a Milano dove il generale Ruggero, malgrado che la sera del 9 fosse stato respinto da un gruppo di civili il tentativo tedesco d'impadronirsi della stazione, stipulò un accordo con i tedeschi in base al quale l’esercito rimaneva provvisoriamente armato (molto provvisoriamente) ma i civili dovevano consegnare subito le armi di qualsiasi tipo in loro possesso.
“Chiunque userà le armi contro chiunque sia, sarà senz'altro passato per le armi sul posto. Da questo momento sono proibite nel modo più assoluto le riunioni anche in locali chiusi salvo quelle del culto nelle chiese. All'aperto non potranno aver luogo riunioni di più di tre persone. Contro gruppi di numero superiore sarà senza intimazione aperto il fuoco dalla forza pubblica”.
Sono frasi tolte dal« proclama ai Milanesi» del 10 settembre, sottoscritto dal generale Ruggero e non da un comandante tedesco.
a Torino
Così si ripete a Torino in forma ancor più sfacciata, se possibile, per opera del generale fascista Adami-Rossi che consegnò la città ai tedeschi «per evitare un'inutile strage», senza nemmeno il minimo cenno di opposizione.
Così si ripete a Genova ove l'apparato aggressivo tedesco, subito dopo l'annuncio dell'armistizio, occupa fulmineamente la città senza trovare opposizione nei Comandi militari.
a La Spezia
Un certo accenno di resistenza organizzata sembra di poter scorgere intorno alla piazza militare di La Spezia; qui il comandante del XVI corpo d'armata, generale Carlo Rossi, respinge l’ultimatum tedesco, permettendo alla flotta di porsi in salvo e la divisione Alpini Alpi Graie combatte strenuamente fino all’11 settembre.
Altrove non si può parlare di esecuzione di alcun piano militare difensivo, ma d'improvvisi e imprevisti focolai di resistenza che s'accendono qua e là, a Verona come a Parma, a Cuneo come ad Ancona, dove nuclei o reparti dell'esercito, nella generale dissoluzione, si oppongono di propria iniziativa all'aggressione nazista.
a Piombino
L'episodio più notevole di resistenza cittadina fu quello offerto da Piombino abbandonata senza ordini dai Comandi responsabili, quando il 10 settembre si profilò la minaccia d'uno sbarco tedesco in forza proveniente dalla Corsica. Soldati, marinai, operai reagirono per loro conto, occupando le fabbriche, il porto e manovrando, fianco a fianco, le batterie costiere. Dopo una furiosa battaglia il tedesco fu annientato: seicento morti, duecento prigionieri, le zattere di sbarco e due corvette affondate: solo riuscì a scampare al disastro un caccia benché duramente colpito.
al confine occidentale
Una particolare importanza - anche per le. conseguenze che ne seguirono, è da attribuirsi a ciò che avvenne, in quei tragici giorni, nelle zone di confine. Al confine occidentale la IV armata fu colta di sorpresa nel momento critico della sua marcia di trasferimento dalla Francia all'Italia e spezzata in più tronconi dal pronto attacco tedesco: vi fu qualche scontro, saltò la galleria del Moncenisio, ma la IV armata era praticamente dissolta.
a Trento
A Trento, ove l'allarme era stato dato fin dai primi giorni di settembre (il 31 agosto Rommel vi aveva presieduto una riunione di generali tedeschi in vista dell'imminente occupazione militare del territorio italiano), non si verificò alcuna reazione degna di nota da parte dei comandi militari italiani, ai quali gli antifascisti locali, sotto la guida del socialista G. A. Manci avevano trasmesso un dettagliato memoriale per la difesa del Trentino.
Nella città, provata dai duri bombardamenti alleati, reagirono per loro conto i soldati della guarnigione, riportando notevoli perdite (49 morti, 200 feriti).
a Trieste
A Trieste il generale Ferrero, comandante il XXIII corpo d'armata, dopo aver promesso agli esponenti del Fronte democratico nazionale (fra cui l'azionista Gabriele Foschiatti e i comunisti Ernesto Radich e Giovanni Pratolongo) di armare il popolo per la difesa, abbandonò il 10 settembre la città, dopo aver emanato un'ordinanza che stabiliva l'orario del coprifuoco e faceva divieto dell'esercizio della caccia in tutto il territorio del corpo d'armata.
Ed inoltre
a Fiume
il generale Gambara, arrivato da Roma con ordini di difesa ad oltranza, si preoccupò di vietare la ricostituzione dei partiti politici e precisò in un'ordinanza che «nel grave momento che l'Italia attraversa, c'è un solo partito per tutti, nessuno escluso: quello della concordia, dell'onore, dell'ordine. Nessuna iniziativa da qualunque parte venga sarà da me tollerata». La sera del 10 la polizia spara, causando numerose vittime, sulla folla che richiede la liberazione dei detenuti politici. Il 14 il Gambara conclude un accordo con il colonnello Völcher affinché «i soldati italiani potessero difendere la città dalle minacce slave» e poi anch'egli abbandona Fiume, lasciando i suoi soldati in mano ai tedeschi (un mese più tardi, sulla base d'una simile prova d'onore militare, verrà scelto da Graziani quale capo di Stato maggiore dell'esercito fascista in via di costituzione).
a Pola
Così anche Pola verrà consegnata ai tedeschi senza colpo ferire.
a Gorizia
Solo a Gorizia il generale Malagutti si rifiutò di collaborare e venne arrestato insieme a numerosi ufficiali.
Ma la disgregazione delle forze armate è totale e già in quei tragici giorni si può dire che si determina il distacco definitivo di gran parte della Venezia Giulia abbandonata all'invasore tedesco senza resistenza degna di rilievo.
nell'Italia meridionale
a Salerno
da "La Stampa" 14 settembre 1943
Infine, un carattere tutto particolare essa ebbe nell'Italia meridionale: qui infatti, dove la guerra operava la sua maggiore pressione, fu più urgente e grave la scelta a chiunque vestisse una divisa ... In contrasto con i molti generali fuggiaschi o disposti a ogni compromesso col tedesco, ... vi furono episodi individuali di sicuro valore: il generale Ferrante Gonzaga, comandante di una divisione costiera a Salerno, sorpreso con pochi uomini da una pattuglia germanica, si rifiutò sotto la minaccia delle armi su di lui puntate, di impartire l'ordine della resa ai suoi uomini e affrontò senza esitazione la morte cadendo trucidato sul posto; con la stessa serenità e in circostanze simili affrontò la fucilazione il comandante del 48° reggimento fanteria di Nola insieme ai suoi ufficiali.
a Bari
Una notevole resistenza si attuò, contrariamente agli ordini superiori, in alcune caserme di Napoli, e un carattere più esteso ebbe la reazione dell'esercito in Puglia; a Bari il generale Bellomo con pochi ardimentosi, marinai, soldati e operai, assicurò la difesa del porto battendosi come «un civile qualunque» nel corpo a corpo che seguì con i reparti tedeschi (lo stesso Bellomo finì poi fucilato dagli alleati sotto l'accusa di avere provocato la morte d'un prigioniero inglese).
in Sardegna
In Sardegna, maggiori che in ogni altra parte d'Italia furono le possibilità offerte al nostro esercito per eliminare le truppe tedesche stanziate nella parte meridionale dell'isola, assai inferiori per numero anche se superiori per armamento. C'era a nostro vantaggio, prima di ogni altro elemento, la compattezza delle Forze Armate, composte in gran parte di reparti sardi, ... inserite in un ambiente tradizionalmente ostile al fascismo «fenomeno del continente» (né lo stato d'animo della popolazione sarda era soltanto spontaneo: vi agivano gruppi attivi di antifascisti, che da Sassari diramavano il giornale clandestino «Avanti Sardegna!» già dal maggio '43 incitante alla lotta antitedesca e alla guerriglia). Tale possibilità fu sprecata dal Comando che, dopo essersi accordato con i tedeschi per un'evacuazione pacifica, solo il 13, in seguito ad ordini ricevuti dal Comando supremo, decise di attaccarli, quando già con rapidissima manovra essi avevano raggiunto i porti d'imbarco nella parte settentrionale.
Troppo tardi per tagliare loro la strada, appena in tempo per accelerarne la fuga e impossessarsi d'un notevole bottino di guerra. Le speranze dei patrioti sardi andarono deluse e solo alla Maddalena s'ebbe un rilevante fatto d'armi, quando l'isola fu riconquistata da marinai e operai in un'aspra battaglia (8-11 settembre).
Comunque il bilancio non può considerarsi del tutto negativo: poiché furono quei corpi d'armata rimasti in Sardegna, in mezzo al generale sbandamento, la leva su cui cercò d'insistere il governo Badoglio in Italia meridionale per rivendicare un maggior contributo bellico a fianco degli alleati. Nel Mezzogiorno infine, più che in ogni altra parte d'Italia, la resistenza dell'esercito rifluì quasi subito nella resistenza della popolazione civile.
da “Storia della Resistenza italiana” di Roberto Battaglia Einaudi 1964
in ricordo di Carlo e Nello Rosselli
Carlo e Nello Rosselli a Bagnoles-de-l'Orne nel giugno 1937, qualche giorno prima di essere uccisi
9 giugno 1937:
nei pressi della cittadina francese Bagnoles-de-l'Orne, in Normandia, i due fratelli Carlo e Nello Rosselli cadono nell'agguato teso loro da alcuni sicari del gruppo filofascista La Cagoule e sono massacrati a colpi di arma da fuoco e coltellate; mandanti del duplice omicidio, Mussolini e suo genero Galeazzo Ciano, alcuni ufficiali del SIM (Servizio informazioni militari), come ha provato l'istruttoria giudiziaria condotta a Roma nel 1944-45.
Nati a Roma: Carlo nel 1899, Nello l'anno successivo, da famiglia della borghesia benestante e illuminista. Carlo, ufficiale degli alpini, ferito al fronte del primo conflitto mondiale, professore universitario; Nello, allievo a Firenze di Gaetano Salvemini, storico e docente universitario. Il primo orientato verso idee socialiste, il secondo simpatizzante liberale, vicino a Giovanni Amendola. Entrambi antifascisti attivi, subiscono numerosi arresti, aggressioni, devastazioni dell'abitazione fiorentina, ammonizioni di polizia. Carlo, nel 1926, fonda e dirige il settimanale di ispirazione socialista "Quarto Stato"; arrestato nuovamente è assegnato al confino nell'isola di Ustica - assieme al fratello Nello - e successivamente a Lipari. Nel 1929, unitamente a Fausto Nitti ed Emilio Lussu, Carlo fugge da Lipari e, via mare, si rifugia in Francia. Fondatore e dirigente del movimento "Giustizia e libertà", nel '36 accorre in Spagna, combatte nelle Brigate internazionali, resta ferito a Monte Pelato. Nel frattempo Nello è di nuovo arrestato e confinato a Ponza; qualche tempo dopo riesce ad espatriare raggiungendo in Francia il fratello Carlo rientrato dalla Spagna per curarsi a Bagnoles de l'Orne.
Giustizia e Libertà
Nel 1929, a Parigi, Carlo Rosselli, Emilio Lussu e i fuoriusciti riuniti intorno alla figura di Gaetano Salvemini fondarono un movimento, «Giustizia e Libertà», che voleva essere «l'anima della rivoluzione liberatrice di domani»: un movimento rivoluzionario libertario e democratico che riuniva in Italia e all'Estero coloro che non erano comunisti, avversavano i gruppi dirigenti liberali e la sinistra aventiniana e volevano combattere il regime fascista per creare una società libera e civile. Fu Salvemini a stendere la bozza di statuto. I costituenti avevano storie politiche diverse: liberali Tarchiani, il giornalista Alberto Cianca e Vincenzo Nitti; repubblicani Cipriano Facchinetti, Raffaello Rossetti, Gioacchino Dolci e Fausto Nitti; socialista Rosselli, sardista Lussu. Il motto fu suggerito da Lussu: "Insorgere! Risorgere!". Adottarono per simbolo la spada di fiamma tra quelle due parole. "Provenienti da diverse correnti politiche - si legge nel primo appello di GL, diffuso a novembre del 1929 - archiviamo per ora le tessere e creiamo una unità d'azione". La guida del movimento fu affidata a un triumvirato espressivo delle tendenze su cui GL si fondava: Rosselli socialista, Lussu sardista-repubblicano, Tarchiani liberale. Il movimento si dotò presto di una rivista come strumento di elaborazione teorica: i Quaderni di Giustizia e Libertà, che videro la collaborazione di molti intellettuali, tra cui spiccava il nome del socialista libertario Andrea Caffi.
A Giustizia e Libertà, prima rappresentanza unitaria della emigrazione antifascista non comunista, fece capo nei primi anni Trenta gran parte della cospirazione democratica e socialista attiva in Italia. La costituzione di GL in movimento autonomo aveva provocato differenziazioni e divisioni che si erano ripercosse anche tra i suoi fondatori. Ma di qui prese le mosse il processo di formazione di nuovi gruppi, presenti nei maggiori centri d'Italia, dove più, dove meno direttamente influenzati dalla centrale parigina, ciascuno portandovi proprie esperienze e proprie tradizioni: a Torino sono gli echi dei consigli operai di Gramsci e della rivoluzione liberale di Piero Gobetti; a Milano è la tradizione risorgimentale impersonata da uomini come Parri e Riccardo Bauer e il moderno liberalismo di Ugo La Malfa, il giovane economista che conosce Keynes; nel Mezzogiorno intorno al pugliesi Tommaso Fiore e Michele Cifarelli, all'avellinese Guido Dorso, ai napoletani Pasquale Schiano e Francesco De Martino rinasce il meridionalismo democratico.
Firenze, che coi Rosselli, con Salvemini, con Rossi, con Calamandrei, di GL era stata la culla, fu centro di un episodio di grande interesse nella storia ideale e culturale del movimento: il rapporto che si instaura tra il socialismo liberale di Rosselli e il liberalsocialismo che ebbe in Guido Calogero e in Aldo Capitini i suoi teorici e trovò in Toscana le adesioni di Tristano Codignola, di Enzo Enriques Agnoletti, di Carlo Ludovico Ragghianti di Mario Bracci, di Mario Delle Piane. Lo stesso Codignola, che ne diventerà il rappresentante politico di maggiore originalità e di maggiore spicco, ha raccontato, ricostruendola dall'interno con lucida intelligenza storica, l'avventura intellettuale e politica del gruppo di giovani, maturati sotto il fascismo ma nel solco del crocianesimo, e che per quella via pervennero all'antifascismo militante.
Il cambiamento della politica di Rosselli a partire dal '34 e l'avvicinamento ai comunisti produsse il progressivo allontanamento da GL di elementi come Salvemini, Caffi, Tarchiani e, per ragioni diverse, dello stesso Lussu. Lo storico pugliese non apprezzava il progressivo radicalizzarsi in senso classista e socialista di GL.
Nel '36 GL si schierò da subito al fianco del fronte popolare in Spagna. La risposta dell'emigrazione e dell'antifascismo italiano non si fece attendere. Rosselli fu alla testa di una colonna di esuli antifascisti, sul fronte di Aragona, ed era sicuro che questa esperienza avrebbe condotto alla certezza di poter vincere anche in Italia. Celebre la sua frase, che divenne un vero e proprio motto «Oggi in Spagna, domani in Italia».
Rientrato in Francia, Carlo Rosselli fu ucciso, assieme al fratello Nello, il 9 giugno 1937 a Bagnoles de l'Orne, in Francia, da alcuni sicari mandati da Mussolini.
L'ultimo episodio di rilievo internazionale di Gl fu quello che ha protagonista il primo compagno di Carlo Rosselli, Ernesto Rossi, veterano della galera, deportato a Ventotene, che si associò a un ex-comunista, Altiero Spinelli - finirà anche lui nel Partito d'Azione - per lanciare, in collaborazione col socialista Eugenio Colorni il Manifesto che dall'isola ha preso il nome 'Per una Europa libera e unita', per una federazione europea da costruire sulle rovine della guerra in corso. Sarà opera loro la fondazione a Milano del movimento federalista europeo, che sarà di fatto, con la eccezione di Colorni, una articolazione del Partito d'Azione nella Resistenza e un efficace strumento di collegamento tra i movimenti europeistici fioriti, a partire dal '41, in tutta l'Europa occupata e nella stessa Germania. In Francia sarà un giellista, un amico di Rosselli, Silvio Trentin a dar vita un gruppo di resistenza che ebbe per motto Libérér et fédérer.
9 giugno 2022 in ricordo di Carlo e Nello Rosselli
Parigi, sabato 19 giugno 1937.
33 di Rue La Grange-aux-Belles, quartiere operaio.
Una stradina stretta trasformata in viale fiorito per gran numero di corone e fasci di fiori porta alla «Maison des Syndicats».. Nella grande sala delle assemblee due feretri, drappeggiati di velluto carminio, quasi scompaiono sotto fiori e nastri, rossi, le ghirlande, rosse, foglie di quercia e d'alloro. Sono quelli di Carlo e Nello Rosselli, rispettivamente di 38 e 37 anni.
Erano stati uccisi, il 9 giugno, da un gruppo terroristico filofascista, la «Cagoule», Organisation Secrète d'Action Révolutionnaire Nationale, a Bagnoles-de-l'Orne, una città termale in Bassa Normandia, a circa 230 chilometri da Parigi, famosa per i suoi fanghi benefici alle affezioni del sistema venoso e specialmente alle flebiti. Carlo era arrivato a Bagnoles-de-l'Orne il 17 maggio 1937, per curarsi di una flebite, di cui aveva già sofferto da ragazzo e che si era ridestata in Spagna, dove era al comando di una colonna di antifascisti sul fronte aragonese. Lo aveva poi raggiunto il fratello Nello.
Alle 14 l'orchestra della «Federazione Sinfonica dei Concerti Poulet e Siohan», diretta da Siohan, esegue la Settima sinfonia di Beethoven.
Poi una folla dei grandi appuntamenti storici accompagna i Rosselli al cimitero Père-Lachaise. Li seppelliscono all'ombra degli ippocastani, verso il «Mur des Fédérés», davanti al quale nel 1871 furono fucilati gli insorti della Comune. In tombe vicine, Eugenio Chiesa, Gobetti, Turati, Treves . Sul quotidiano di proprietà del mandante Galeazzo Ciano la notizia del delitto è data sabato 12 giugno 1937 con questo sfrontato sottotitolo: «Si tratta senza dubbio di una "soppressione" dovuta ad odii tra diverse sette estremiste».
Secco l'incipit del documento diffuso dal Comitato centrale di Giustizia e Libertà: «Noi denunciamo in Benito Mussolini il mandante dell'assassinio perpetrato in Francia dai sicari fascisti contro Carlo e Nello Rosselli». Un'accusa che la ricerca storica non invaliderà.
Significative le conclusioni di Renzo De Felice al termine dell' attenta ricognizione di un robusto apparato documentale: «La documentazione oggi disponibile prova senza ombra di dubbio che il delitto fu commesso su mandato del Sim e che la uccisione di Carlo Rosselli era stata studiata almeno dal febbraio nel quadro di un'azione volta a sopprimere varie "persone incomode" e cioè esponenti attivi dell'antifascismo impegnati nel sostegno della Spagna repubblicana e nella denuncia dell'intervento italiano contro di essa».
Mentre le indagini e i procedimenti penali svoltisi in Francia contro gli esecutori materiali del delitto e i loro capi francesi non hanno mai ufficialmente affrontato il problema dei mandanti stranieri, gli elementi emersi nel corso di quelli svoltisi in Italia dopo la caduta del fascismo non lasciano dubbi, anche se alla fine, la serie dei processi celebrati si è conclusa con un'assoluzione generale. Come ha scritto Salvemini che più di ogni altro ha approfondito le vicende del delitto e dei processi ai quali esso ha dato luogo, "è certo che il delitto fu compiuto da cagoulards francesi per mandato ricevuto da un ufficiale del Sim, Navale; che costui ricevé il mandato dal suo superiore del SIM Emanuele; che costui lo ricevette certamente da Galeazzo Ciano". Secondo Salvemini, "è assai difficile per non dire impossibile" pensare che Ciano avesse agito di testa sua "e non per esegire una volontà di Mussolini".
Nel 1951 i familiari ne traslarono le salme in Italia, nel cimitero Monumentale di Trespiano, nel piccolo borgo omonimo, nel comune di Firenze, sulla via Bolognese. La tomba riporta il simbolo della “spada di fiamma”, emblema di GL, e l’epitaffio scritto da Calamandrei: «GIUSTIZIA E LIBERTÀ / PER QUESTO MORIRONO / PER QUESTO VIVONO».
Nello stesso cimitero sono sepolti Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Piero Calamandrei e Spartaco Lavagnini.
Bibliografia:
Giuseppe Fiori – Casa Rosselli – Einaudi 1999
L’Italia in esilio. L’emigrazione italiana in Francia tra le due guerre a cura di:
Archivio Centrale dello Stato Roma
Centre d’Etudes et de Documentation sue l’Emigration Italienne, Paris
Centro Studi Piero Gobetti,Torino
Istituto Italiano di Cultura, Paris
Domenica 10 aprile 2022: viaggio della Memoria a Sestri Levante
Dopo due anni, causa pandemia, una delegazione dell’ANPI di Lissone si è recata a Sestri Levante per ricordare il partigiano lissonese Arturo Arosio, fucilato il 18 marzo 1945 in località Fossa Lupara con altri cinque compagni.
Con una cerimonia si sono commemorati tutti i caduti della vallata durante la guerra di Liberazione.
In rappresentanza dell’Amministrazione comunale era presente l’Assessore Domenico Colnaghi, con fascia e gonfalone.
Uno come sette: la famiglia Cervi
28 Dicembre 1943. Sette fratelli Cervi, democratici e ferventi antifascisti vengono presi torturati e fucilati.
Questi sono i Patrioti!
Leggere e studiare la Storia per non dimenticare e non lasciare spazio a coloro che usano indegnamente la parola Patrioti.
«Uno era come dire sette, sette era come dire uno ». Sopra i sette l'autorità del padre, l'amore quieto della madre. La famiglia Cervi è la famiglia patriarcale che arriva al socialismo senza l'intermediazione borghese: dal medioevo al marxismo. La cascina dei Cervi è a Praticello, fra Campegine e Gattatico, nella provincia di Reggio Emilia. Il padre Alcide, la moglie Genoveffa Cocconi, i sette figli, le mogli, i nipoti: ventidue persone. Il più anziano dei figli, Gelindo, ha 24 anni, poi in ordine di età ci sono Antenore, Aldo, Ferdinando. Agostino, Ovidio, Ettore. Gli sposati sono quattro con dieci figli. La moglie di Gelindo sta aspettandone uno.
I Cervi sono dei bravi agricoltori: entrati come fittavoli nel fondo nel 1934, ci hanno trovato cinque fra vacche e vitelli; adesso nella stalla ce ne sono cinquanta, la terra rende. I Cervi sono istruiti, sono la campagna riscattata dalla predicazione socialista; nella piccola libreria della cascina ci sono opere di Dostoevskij, di Jack London, manuali di agricoltura, le raccolte della «Relazioni internazionali» e della «Riforma sociale» di Einaudi. Aldo è il più colto, con più vivi interessi politici. Nella famiglia ognuno ha la sua specialità, chi si occupa dei campi, chi degli alveari, chi delle macchine, chi della stalla, ma le decisioni importanti le prende babbo Alcide. I Cervi sono antifascisti. «Cosa vuole», dice il padre, «noi siamo fatti così, siamo per la libertà». Il 25 luglio quando è caduto il regime il vecchio Alcide ha raccomandato ai figli: «Ragazzi, niente vendette», e ha offerto tre quintali di farina e venticinque chili di burro e centinaia di uova per la gigantesca mangiata di tagliatelle a cui ha invitato tutto il paese. All'8 settembre i Cervi passano alla resistenza: non una resistenza armata come si fa sulla montagna, ma legata alla famiglia e al lavoro, che fa di ogni atto di vita un atto di guerra, che dà a ogni momento della giornata un significato di cospirazione. Aldo è salito sulla montagna, sul Ventasio e a Toano, a cercare i ribelli, che non ci sono o sono troppo deboli. Allora i Cervi si dedicano ai prigionieri di guerra fuggiti dai campi, ne passano ottanta dal settembre al novembre nella loro cascina.
Il 25 luglio babbo Cervi non ha voluto vendette: un fascista del paese lo ripaga con la spiata. I fascisti di Reggio arrivano al cascinale nella mattinata nebbiosa, lo circondano, bloccano le uscite. L'ufficiale che li comanda grida: «Cervi arrendetevi!». I Cervi corrono alle armi, rispondono sparando. Poi devono cedere: gli assalitori hanno dato fuoco al fienile, se la casa brucia muoiono anche le donne e i bambini. Prima di uscire Aldo dice: «Tutto quello che è accaduto è opera mia, io mi prendo tutta la responsabilità. Al massimo una parte della colpa può prendersela anche Gelindo. Almeno cinque devono tornare vivi». I Cervi escono dalla cascina: primo il padre a braccia alzate; seguono i prigionieri di guerra. I fascisti li fanno salire su un camion:' poi saccheggiano la cascina. Alla caserma del Servi, a Reggio Emilia, li interrogano, li invitano a passare alla repubblica fascista. «Crederemmo di sporcarci», dice Aldo a un Poliziotto che insiste.
La sera del 27 dicembre i gappisti Bagno in Piano uccidono il segretario del fascio Vincenzo Onfiani. La rappresaglia è immediata, il tribunale speciale, istituto ai primi del mese, giudica i Cervi senza farli comparire, li condanna a morte con una sentenza per cui non è occorsa la camera di consiglio. Si apre la porta della cella: «La .famiglia Cervi al completo» grida un milite. Escono ma il milite ferma babbo Alcide: «No, tu no, tu sei troppo vecchio». «Vi portano a Parma» dice un compagno di cella. «Ma che Parma», fa Aldo, «fra mezz'ora non siamo più vivi.». Antenore mentre cammina per il corridoio mormora: «Mi dispiace se ci fucileranno, non vedete che bel cappotto mi sono fatto?».
Babbo Alcide saprà della loro morte solo l’8 gennaio. Quel giorno gli Alleati bombardano Reggio, una bomba cade sul carcere, i prigionieri fuggono. Alcide torna a casa e la trova distrutta. I sopravvissuti tacciono e piangono., Il vecchio guarda le donne, i nipoti e dice: «Su, non c'e tempo da perdere, dopo un raccolto ne viene. un altro». Alla parete bianca della cucina sono appesi sette ritratti. La madre muore dopo un anno, di crepacuore. Babbo Alcide resiste, regge la famiglia.
Bibliografia:
Giorgio Bocca ”STORIA DELL'ITALIA PARTIGIANA”
Casa editrice G. Laterza & Figli, Bari gennaio 1980