Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

resistenza italiana

Le donne nella Resistenza in Lombardia

6 Mars 2021 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Le donne certamente hanno portato nella Resistenza valori specifici e il loro apporto, anche quando facevano le stesse cose, era profondamente diverso da quello degli uomini. Meno politicizzate, sentivano in compenso più forte l'impegno generale per un mondo diverso e migliore; meno militarizzate, erano in compenso più sensibili alla solidarietà nella lotta senza distinzioni di gruppo; meno protagoniste, profondevano anonima abnegazione a piene mani.

[...]

Nei libri scritti da uomini, storici o politici o, più spesso, da ex comandanti partigiani, le donne compaiono poco, talvolta come nota di colore e sono viste quasi sempre in funzione di aiutanti, di collaboratrici anziché di vere e proprie combattenti in prima persona quali sono state. I capi esprimono la loro riconoscenza, quasi che la partecipazione fosse un aiuto da persona a persona e non un intervento diretto in una lotta tesa alla realizzazione di comuni ideali.

Le donne, anzi, avevano un ideale in più: quello della loro personale liberazione, quello di una società diversa in cui diversa fosse la loro collocazione. Di questo non tutte erano consapevoli, soprattutto all'inizio, ma la cosa balza agli occhi nei fogli clandestini, dove si avanzano rivendicazioni quali il voto, la parità salariale e la parità in famiglia.

[ ... ]

Occorre inoltre ricordare che le donne erano tutte assolutamente volontarie, a differenza degli uomini, in particolare dei giovani in età di leva, per i quali una scelta comunque si imponeva: lasciarsi mandare in un campo di lavoro in Germania, entrare nelle Brigate nere o salire in montagna coi partigiani. Le donne avrebbero potuto restarsene a casa tranquille; trovavano facilmente lavoro appunto in sostituzione degli uomini e da amichevoli rapporti coi tedeschi o coi fascisti avevano solamente da guadagnare, in un momento in cui la mancanza di viveri e di altri generi indispensabili, di cui questi largamente disponevano, si faceva sentire in modo drammatico.

Volontarie quindi, e spesso entusiaste, affrontavano rischi e fatiche con uno spirito che stupiva i compagni.

Erano tante. Difficile fare un conto anche approssimato, perché raramente le donne erano iscritte nei ruolini delle formazioni; questo avveniva solo per le combattenti in armi - non poche - che giunsero anche a funzioni di comando con gradi militari poi ufficialmente riconosciuti alla liberazione. La maggior parte assolvevano a compiti di natura diversa, ma non per questo meno pericolosi.

1945-25-aprile-Milano-partigiane.JPG partigiana-in-bicicletta-Modena-liberata.jpg

C'erano le famose staffette, che erano in verità quasi sempre veri e propri ufficiali di collegamento e non solo «battistrada» nelle azioni e negli spostamenti; quel tipo di lavoro era facilitato dalla maggiore possibilità di movimento per le donne, anche in zone controllate dove gli uomini venivano di regola fermati.

C'erano le informatrici, talvolta addirittura infilate come impiegate negli uffici militari o paramilitari tedeschi o fascisti; a queste facevano capo altre, che portavano le notizie interessanti direttamente alle formazioni, a tappe forzate, magari a piedi o in bicicletta, riuscendo spesso a vanificare progettati rastrellamenti.

C'erano le infermiere, che agivano dentro e fuori dagli ospedali nascondendo e curando feriti, o raggiungendoli in formazione; le dottoresse, che sovraintendevano a una complessa rete di ospedaletti da campo.

C'erano le addette alla stampa, che operavano nelle redazioni clandestine e badavano alla distribuzione di giornali e volantini. C'erano le portatrici d'armi, le segretarie dei comandi, le addette alla organizzazione di alloggi clandestini e luoghi d'incontro per i capi militari e politici.

C'era insomma intorno al movimento partigiano, sia in città che sui monti, una fitta ragnatela di donne che facevano tutto, fronteggiando le situazioni più impensate, spostandosi continuamente, aiutandosi fra loro e scegliendosi l'un l'altra con sicuro intuito in cerchi sempre più larghi, sempre più complessi e sempre più fluidi.

partigiane.jpg staffette-partigiane.jpg

Bibliografia: Giuliana Beltrami Gradola - Donna lombarda - a cura di Ada Gigli Marchetti e Nanda Torcellan, Milano, Angeli, 1992. 

________________________________________________________________________________________

Evento previsto per il 10 marzo 2021, ore 18 in diretta streaming

La Resistenza civile delle donne a Milano: Fernanda Wittgens e le altre

Si parlerà della Resistenza civile delle donne a Milano, una Resistenza senz’armi, ispirata a valori etici imprescindibili e combattuta nei musei, nelle case, nel carcere, nei luoghi di cultura, nelle scuole, salvando grandi opere d’arte, ebrei e perseguitati politici.

In particolare, parleremo di Fernanda Wittgens, prima donna direttrice della Pinacoteca di Brera, che ne ha portato in salvo dalla distruzione della guerra il patrimonio artistico, restituendone nel 1950 il Palazzo, distrutto dai bombardamenti, e portando a termine il recupero de il Cenacolo di Leonardo.

Per avere salvato famiglie ebree e antifascisti, scontò il carcere insieme a Adele Cappelli Vegni e le sorelle Tresoldi.

Trasmissione in diretta e interazione sui social network dell’Unione femminile nazionale, di Milanosifastoria e di Anpi provinciale Milano

YouTube: https://www.youtube.com/user/unionefemminile

Facebook:

https://www.facebook.com/unionefemminile

https://www.facebook.com/AnpiProvincialeDiMilano

https://www.facebook.com/milanosifastoria

Lire la suite

Milano, 8 settembre 1943

7 Septembre 2020 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

Nell'estate alcuni Azionisti, tra cui Poldo Gasparotto, organizzano una rete informativa, per segnalare agli alleati gli spostamenti delle truppe tedesche.
Nei primi giorni di settembre, quando appare imminente il rovesciamento delle alleanze militari, Poldo Gasparotto progetta la formazione della Guardia nazionale, struttura militare per il reclutamento di volontari decisi a opporsi ai tedeschi.

I comandi dell’Esercito italiano lasciano agire i tedeschi nell’occupazione della città, nonostante la volontà di molti cittadini decisi ad opporsi.

“A metà agosto 1943 Milano è colpita da terribili bombardamenti aerei; chi può lascia la metropoli, per sfuggire a una situazione insostenibile. Le distruzioni acuiscono l'odio verso la guerra e alimentano la sensazione di un prossimo rivolgimento di fronte.

Nell'estate alcuni Azionisti, tra cui Poldo Gasparotto, organizzano una rete informativa, per segnalare agli alleati gli spostamenti delle truppe tedesche; ne fanno parte l'avvocato Giovanni Barni e il notaio Virgilio Neri. La villa di famiglia in località Cantello Ligurno, a mezza strada tra Varese e la Svizzera, diviene la base logistica dell'attività illegale, avviata nella prospettiva della lotta contro l'occupazione nazista. Le notizie sul dispiegamento militare d'occupazione vengono trasmesse da Neri a Giovanni Gronchi e a Mario Badoglio, figlio del capo del governo.

In agosto si costituisce a Milano il Comitato interpartitico, nello studio dell'avvocato socialista Roberto Veratti. Badoglio ha affidato la difesa territoriale della città al generale Vittorio Ruggero, già comandante della divisione Granatieri, inviato nel capoluogo lombardo col compito di tenere la situazione sotto controllo. L'alto ufficiale cerca di arginare gli scioperi operai e accetta il dialogo col Comitato antifascista; esortato a preparare con i civili misure difensive contro i tedeschi, presenti in città con forze assolutamente esigue, si dice disponibile a trasmettere al governo le richieste presentategli da Alfredo Pizzoni, portavoce di un'ampia area politica, estesa dai comunisti ai liberali.

Nei primi giorni di settembre, quando appare imminente il rovesciamento delle alleanze militari, Poldo Gasparotto progetta con Pizzoni la formazione della Guardia nazionale, struttura militare per il reclutamento di volontari decisi a opporsi ai tedeschi. Al mattino dell'8 settembre il generale Ruggero assicura l'esecutivo antifascista dell'imminente consegna di armi, ma prende tempo. In serata Badoglio rende noto l'armistizio. L'indomani mattina si presenta alla sede del Comando di piazza, in via Brera, una delegazione del Comitato di liberazione nazionale milanese; accanto al comunista Girolamo Li Causi vi è Luigi Gasparotto, tra i più decisi nell'incalzare il titubante generale Ruggero. Pizzoni così ha riassunto il tempestoso incontro: «Ruggero temporeggiava, Gasparotto voleva che si andasse alle barricate, io chiesi ci si dessero le armi e dichiarai che la Guardia nazionale e il popolo milanese avrebbero fatto il loro dovere e avrebbero combattuto contro i tedeschi. Ma lì non si decise nulla e allora noi venimmo via e decidemmo di aprire gli arruolamenti». Li Causi e altri antifascisti presenti all'incontro ricordano la determinazione del vecchio Gasparotto, deciso a trasformare Milano in baluardo della resistenza antitedesca, con la collaborazione dell'esercito e dei civili. Luigi Gasparotto era sospinto dalla sensazione di riprendere le tradizioni familiari, risorgimentali e di rivivere l'epopea della grande guerra.

Il colonnello Alfredo Malgeri, comandante della III Legione della Guardia di finanza, ha tracciato un ritratto emblematico del vecchio radicale, di cui egli ignorava i trascorsi patriottici e persino l'identità:

Una commissione di cittadini si presenta, chiedendo armi per la difesa della città. Fra essi, un vecchio signore mi è rimasto impresso: baffi e barba a pizzo, cappello a larghe falde, figura che ricorda vecchie stampe dei nostri uomini del Risorgimento. Quanta anima ha nei suoi occhi inquieti, quanta decisione nei suoi gesti! Rivivo quel momento di commozione: vedevo col pensiero quell'uomo dietro una barricata e con lui migliaia e migliaia di milanesi rinnovare - in unione coi grigioverdi - le gesta delle Cinque giornate. Era un sogno del mio animo, ritornato per un momento fanciullo, ma un sogno che avrebbe potuto realizzarsi se Milano non fosse stata tradita dagli eventi. Non so chi fosse quel vecchio signore. Il generale Ruggero, uscito dal proprio ufficio, gli dice che penserà lui a tutelare l’onore del Paese e dell'Esercito e lo invita a starsene tranquillo con i suoi compagni.

Il 9 settembre il Partito d'Azione stampa e distribuisce un volantino inneggiante al binomio Esercito e Popolo: «chiunque tenti di spezzare questa unità è nemico del popolo e della nazione italiana», proclamano gli azionisti, nel rivolgere un appello all'arruolamento della cittadinanza:

Italiani! In nome dei martiri della libertà, in nome di Battisti, di Matteotti, di Amendola, di Gobetti, di Gramsci, di Rosselli, in piedi.

Cittadini, formate i vostri comitati di ordine pubblico per la saldatura tra esercito e popolo in ogni fabbrica e in ogni rione. Giovani, si è costituito il Fronte Italiano della Resistenza: arruolatevi nei Volontari della Nazione Armata.

…Antonio Fussi, descrive il clima di fervore patriottico misto a ingenuità, imprudenza e generosità in cui, nel volgere di un paio di giornate, si è consumata l'iniziativa:

La base era in via Manzoni: l'ultima casa di via Manzoni, a sinistra, prima di arrivare ai portici di porta Venezia. C'era, in un cortile, la Società dei radiatori: lì si raccoglievano le iscrizioni alla Guardia nazionale. C'erano Poldo, Ugo di Vallepiana, Martinelli. Una radio funzionava a tutto spiano e dava la posizione dei tedeschi, che occupavano la città. E io mi lamentavo con Martinelli: «Ma senti, è inutile che fai una lista di nomi e cognomi ... non ce n'è bisogno ... ». C'erano decine di persone, giovani e meno giovani, studenti, impiegati ... In uno stanzone una persona faceva un discorso ai giovani: parlava di Mazzini... Ho domandato a Martinelli chi fosse quel tipo che in un momento così particolare aveva tanto fiato in gola per parlare di Mazzini: era il professor Achille Magni, un repubblicano convinto. Nel frattempo Poldo e Vallepiana facevano la spola con l'ufficio del Comando di piazza, tornavano con qualche mezza promessa. Poi, a un certo punto, c'è stato un mezzo tradimento.

L'azionista Giuliano Pischel, partecipe degli eventi, indica la paternità del progetto e ne sintetizza gli immediati sviluppi: «L'idea che aveva ventilato Poldo Gasparotto, della costituzione di una Guardia nazionale, veniva ripresa dal Comitato interpartiti tramutatosi in Comitato di Liberazione Nazionale» Ma l'unità operativa tra esercito e popolo resta un'utopia.

Il generale Ruggero, timoroso delle ritorsioni tedesche, si è limitato a generiche promesse, senza esporsi a livello operativo. Il suo atteggiamento è influenzato dall'arrivo del tenente colonnello dei Carabinieri Candeloro De Leo, presentatosi quale emissario del Comando supremo. De Leo, dirigente del servizio segreto militare, vanta contatti col generale Ambrosio e induce Ruggero alla passività.

Il 10 settembre i rappresentanti del comitato cittadino (Gasparotto, Li Causi, Damiani e Pizzoni) consegnano al comandante di Corpo d'armata una lettera programmatica, per indurlo a rompere gli indugi e ad assecondare l'azione patriottica:

Signor Generale,

a nome di tutti i gruppi antifascisti e in relazione alla conversazione di ieri, riteniamo possibile organizzare la difesa di Milano, in cooperazione colla popolazione.

La nostra convinzione deriva dalla considerazione che la zona di Milano è il centro della produzione bellica, per cui indiscutibilmente si potrà preparare coll'attività di tecnici (che noi stessi potremo mettere a vostra disposizione) un regolare rifornimento di armi e munizioni sia alle forze esistenti che alle nuove unità da costituire.

Siamo inoltre certi che lo spirito della truppa potrà essere galvanizzato se non la si lascerà sotto l'impressione di essere già in partenza disposti a cedere.

Il vostro spirito di cittadino e di militare ci rende certi di avere la vostra adesione d'opera, che sotto la vostra guida, vi proponiamo di svolgere nell'interesse e per l'onore militare della Nazione. Un Comitato Tecnico di ex Ufficiali che vi chiediamo di richiamare in servizio, potrà assolvere a questo compito.

Quel medesimo giorno il generale Ruggero incontra gli emissari del Comando germanico, da lui rassicurati sulla propria disponibilità. Nel pomeriggio un nuovo abboccamento con gli esponenti antifascisti sancisce la rottura dei rapporti: l'alto ufficiale ha infatti concordato coi tedeschi che l'esercito non ostacolerà l'occupazione della città. La defezione del Comando militare si ripercuote sull'opinione pubblica in modo rovinoso, deprimendo gli animi; tramonta bruscamente il progetto della Guardia nazionale, «con vera disperazione di Poldo Gasparotto». Privi di armi, i promotori del CLN tengono un comizio in piazza Duomo e poi passano nella clandestinità. Scontri sporadici con i tedeschi culminano il pomeriggio del 10 settembre nei pressi della stazione centrale: civili armati si oppongono all'occupazione della stazione e negli scontri uccidono tre militari germanici. In serata il generale Ruggero legge alla radio un comunicato in cui informa dell'avvenuta occupazione delle principali città della Lombardia e dell'Emilia Romagna. In sostanza il Comando di piazza, su direttiva di De Leo, ha lasciato agire indisturbati i tedeschi. Da un giorno all'altro la situazione è cambiata e Mario Boneschi si accorge di avere costruito l'edificio della Guardia nazionale su fondamenta di sabbia: «La città era ben diversa da quella del giorno precedente. Esultanza per l'armistizio ed entusiasmo erano spariti. Sui volti si leggevano ansia e sgomento. Era il momento del "si salvi chi può". Ritornai a casa e bruciai le liste».

Al mattino dell’11 settembre i punti nevralgici della metropoli sono sotto controllo germanico. Su istruzione di De Leo, il generale Ruggero scioglie la Guardia nazionale, sulla base della normativa che vieta ai cittadini l'uso non autorizzato delle armi. Le dinamiche del capoluogo lombardo si ripetono con impressionante analogia in numerose altre città: da Torino a Firenze a Roma ... In Lombardia, quel medesimo giorno, reparti germanici assumono pacificamente il controllo di Brescia e di Cremona. l vertici militari restano inerti, quando non collaborano apertamente con l'occupante. Le modalità dell'armistizio, l'ambiguità del comunicato letto da Badoglio alla radio, la fuga del re e dei ministri gettano le forze armate nella confusione, tanto più che i tedeschi sferrano un'impressionante offensiva nella penisola e nei presidi italiani all'estero. Il comportamento di De Leo si chiarirà con l'immediata adesione alla Repubblica sociale italiana, per la quale dirigerà il Servizio informazione militare (SIM).

Il 12 settembre i tedeschi, completata l'occupazione di Milano, perquisiscono i cittadini e fermano i militari, in violazione degli accordi stipulati col generale Ruggero. La popolazione è disorientata e demoralizzata dallo scioglimento dell'esercito, disgregatosi all'apparire del nemico. Lo stesso giorno vengono occupate, senza colpo ferire, Varese, Como e Sondrio.”

 da “Leopoldo Gasparotto – Diario di Fossoli” a cura di Mimmo Franzinelli



Leopoldo Gasparotto, militante del Partito d'azione dal 1942, durante il periodo badogliano è tra i protagonisti della rinascita democratica di Milano. Entrato nella clandestinità, diviene il comandante militare delle forze resistenziali della città e promuove e coordina alcuni gruppi nelle vallate delle province di Como, Varese e Bergamo. Arrestato l'11 dicembre 1943 e rinchiuso a San Vittore, viene torturato dai tedeschi. Il 27 aprile 1944 è internato a Fossoli, dove anima il collettivo dei «politici». Il 22 giugno, su ordine del Comando delle SS di Verona, è prelevato dal campo e ucciso a tradimento. È stato insignito di medaglia d'oro al valor militare alla memoria. 

 

Lire la suite

Omaggio a Firenze e al suo popolo

23 Août 2020 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

immagini di Firenze nell'agosto del 1944
immagini di Firenze nell'agosto del 1944
immagini di Firenze nell'agosto del 1944
immagini di Firenze nell'agosto del 1944
immagini di Firenze nell'agosto del 1944
immagini di Firenze nell'agosto del 1944

immagini di Firenze nell'agosto del 1944

Articolo di Piero Calamandrei pubblicato sul «Corriere di Informazione» di Milano del 12 agosto 1945

LA BATTAGLIA IN CITTÀ

Forse l'Italia del Nord non ha saputo interamente che cosa avvenne a Firenze un anno fa: una battaglia.

Per esser esatti, di battaglie a Firenze ve ne furono due, una dentro l'altra; una strategica, per Firenze, che fu combattuta a distanza, tra le artiglierie alleate schierate a semicerchio sui colli a sud dell'Arno contro quelle tedesche schierate sul semicerchio contrapposto delle colline di Fiesole; l'altra tattica, dentro Firenze, che fu combattuta ad armi corte per le vie e per le piazze della città, tra i nazifascisti e il popolo insorto.

Il piano degli alleati, che fecero quanto era in loro per rispettare la città ed evitarle di diventare un terreno di scontro, era preordinato, a quanto si poté giudicare dal suo svolgimento, a liberarla per manovra: gli eserciti liberatori dovevano sostare a sud della città senza entrarvi, e il passaggio in forza dell'Arno doveva avvenire a monte e a valle di essa, in modo che i tedeschi fossero costretti a ritirarsi verso i monti, senza poter combattere in pianura. Ma i tedeschi e i fascisti avevano un altro piano:trasformare la città. colle sue torri ed i suoi marmi in campo trincerato; barricarsi nelle rovine dei suoi palazzi; attirar l'uragano delle granate sulla parte più preziosa dei suoi monumenti, per lasciarli ridurrre in macerie e rigettar poi sugli alleati l'onta di questo misfatto.

Ad attuare questo programma, la cui preparazione fu tenuta celata fino all'ultimo sotto la truffa della «città aperta», i tedeschi trovarono zelante complicità nella «vecchia guardia» del fascismo repubblicano locale, rincuorato dalla presenza di un degno capo, sceso in persona dal Nord a dare le ultime disposizioni: parlo di Alessandro Pavolini, che la storia ricorderà soltanto per il freddo impegno con cui, in quel luglio del 1944, seppe premeditare l'assassinio della città dove era nato, e predisporre la distruzione di quei ponti di cui egli, dalle finestre del suntuoso albergo ove s'era insediato col suo stato maggiore, poteva, da raffinato conoscitore d'arte qual si vantava di essere, apprezzare la incomparabile leggiadria. Costui, nel suo operoso soggiorno a Firenze, rubò cinque milioni alla Prefettura per distribuirli tra le bande dei suoi manigoldi coll'ordine di rimanere in città come «franchi tiratori» e fare strage alla spicciolata, dai tetti e dalle finestre, di donne e di bambini. E poi, tutto avendo disposto per il meglio, se ne tornò al Nord, dove il governo della repubblica aveva bisogno di lui.

Il 30 luglio il comando tedesco ordinò l'immediato sgombero di due larghe strisce cittadine ai lati dell'Arno: centocinquantamila persone si trovarono da un'ora all'altra senza tetto, sapendo che le loro case e i loro negozi erano abbandonati al saccheggio. Nella notte tra il 3 e il 4 i ponti minati saltarono: per amabilità di Hitler fu risparmiato il Ponte Vecchio, ma, per bloccarne il passaggio di qua e di là, furono fatti saltare in sua vece i due rioni che vi davano accesso, Por Santa Maria, via dei Bardi, Borgo Sant'Jacopo, via Guicciardini e le più antiche e care torri della Firenze di Dante. Così, segnata da questa linea di incendi e di esplosioni, cominciò il 4 di agosto, entro l'anello dei cannoni che si rispondevano dai colli, la battaglia ravvicinata della città.

Per una settimana, le slabbrate spallette dell'Arno segnarono la prima linea: alle mitragliatrici e ai mortai tedeschi, appostati sulla riva destra, pattuglie di cittadini dalla sinistra rispondevano a fucilate. Ma da spalletta a spalletta passavano, in difetto dei ponti crollati, misteriose vie di collegamento: come fantasmi di fango le staffette sbucavano dalle fogne, e attraverso le macerie minate che ostruivano il Ponte Vecchio un segreto filo telefonico, riallacciato sotto le granate, permetteva al Comitato di Liberazione di mantenere l'unità del governo. Così parve segnata la sorte di Firenze, tagliata in due dalla battaglia; mentre a sud dell'Arno i partigiani spergevano di casa in casa i «tiratori» fascisti, e migliaia di senzatetto, ricchi e poveri tutti uguali, bivaccavano fraternamente nei saloni dorati di Palazzo Pitti, e la delegazione d'Oltrarno del Comitato di Liberazione già era in contatto coi primi reparti alleati entrati da Porta Romana, la parte a nord dell'Arno, la più popolosa e la più cospicua, era ancora in balia dei tedeschi; e pareva che tentar di espugnarla in forze volesse dire distruggerla. Furono queste, dal 4 all'11 agosto; le terribili giornate in cui i cuori di tutto il mondo tremarono all'idea che di Firenze non dovesse più rimanere che il disperato ricordo.

Ma qui avvenne il miracolo. Alle 6,15 dell'1 agosto, nell'ansioso silenzio mattutino, i fiorentini già liberi d'Oltramo udirono all'improvviso, al di là del fiume, il martellar delle campane che chiamavano all'armi la parte non ancora liberata: e il filo clandestino annunciò laconicamente che il Comando cittadino, per finir di liberare la città, aveva ordinato l'insurrezione.

Si vide allora, al richiamo della vecchia Martinella, il popolo fiorentino, coi ponti rotti alle spalle, far fronte al nemico. Contro le mitragliatrici piazzate dietro gli alberi dei viali, contro i carri «Tigre» in agguato alle barriere, si spiegò come per magia un esiguo velo di giovinetti febbricitanti e di vecchi canuti, armati soltanto della loro furia. Da un'ora all'altra, quel velo diventò una linea, si organizzò, si consolidò; prese sotto la sua protezione il centro della città; non si limitò alla resistenza, ma osò l'avanzata: e ogni giorno entravano dentro quel cerchio nuove vie e nuove piazze liberate.

Così per quasi un mese, per tutto agosto, il fronte di combattimento si confuse coi nomi favolosi dei giardini e delle passeggiate della nostra infanzia: le Cascine, il Parterre, il Campo di Marte. La pacifica topografia cittadina entrava stranamente nei bollettini di guerra: «piazza san Marco sorpassata»; «via santa Caterina raggiunta»; «contrattacco in piazza Donatello». Ragazzi ed anziani erano attratti da quella linea affascinante. Oggi i genitori e le vedove lo raccontano colle lagrime agli occhi: «Non si reggeva più: volle scendere nella strada disarmato. Disse: 'Bisogna che vada anch'io sul Mugnone a ammazzare un tedesco'. E non tornò». Uscivano ansiosi e inebriati, come se fossero attesi a un appuntamento d'amore: con un vecchio fucile da caccia o con una pistola arrugginita, a battersi contro i mortai e contro i carri armati; e non tornarono. Anche le giovinette uscivano, portando ordini di guerra sotto i loro camici di crocerossine: Anna Maria Enriques, Tina Lorenzoni; e non tornarono. E quel sangue sul marciapiede segnava l'estremo punto al quale era stato portato per quel giorno il confine tra la libertà e la vergogna.

Ma dietro quella linea, nella città liberata, ferveva il lavoro. Ogni tanto una donna scarmigliata, nel traversare correndo la via con un fiasco d'acqua, cadeva, fulminata, sul selciato: allora c'era la battuta sui tetti per scovare la belva dietro il comignolo; e poi, sulla piazza, la giustizia sommaria contro il muro. Non c'erano più lettighe né bare: i morti si seppellivano alla rinfusa, nelle grandi fosse del giardino dei Semplici, tra le aiuole in fiore. E intanto le magistrature popolari già sedevano ai loro posti nei palazzi dei padri; e quando un colpo arrivava a scheggiare quelle antiche pietre, guardavano un istante dalle grandi finestre: «Niente di nuovo: cupole e torri sono sempre in piedi». E la seduta continuava.

Questa fu la battaglia di Firenze, durata tre settimane: dal 4 all'11 agosto attraverso le spallette dell' Arno, dall'11 agosto alla fìne del mese sulla linea di avanzata nei quartieri e nei sobborghi a nord della città. Il bilancio si riassume in pochi dati: un grande squarcio nel cuore della città, una immensa cicatrice che sfigurerà nei secoli il suo volto: centoquaranta partigiani morti in combattimento nelle sue strade e molte centinaia di essi feriti: e quasi ottocento cittadini inermi, in gran parte donne e fanciulli, caduti sotto le granate tedesche o sotto il tiro a segno degli assassini. Ma alla fine di agosto questa città, che nel piano nemico avrebbe dovuto diventare la desolata terra di nessuno, era tornata per intero la terra gelosamente diletta dei fiorentini, sfregiata e sanguinante, ma riscattata per sacrificio di popolo: i tedeschi erano in ritirata verso gli Appennini, e i tiratori erano stati snidati e giustiziati ad uno ad uno, nella armoniosa serenità di queste piazze, come cani arrabbiati.

Questa fu la battaglia di Firenze che segnò una tappa decisiva, e forse un esempio unico, nella nostra guerra di liberazione e nel nostro ritorno alla coscienza civile europea: una battaglia a corpo a corpo durata quasi un mese per le vie di una città, combattuta dal popolo insorto e comandata da un governo insurrezionale di magistrature cittadine, che gli alleati, quando giunsero, lasciarono con rispetto ai posti di comando saggiamente tenuti. Qui la guerra non fu il passaggio di una ventata, qui i tedeschi non erano ancora in disfacimento: e i partigiani dovettero ricacciarli combattendo ferocemente ad armi impari per disinfettare la città, metro per metro, da quella pestilenza che vi si era annidata da vent'anni.

Libertà non donata, ma riconquistata a duro prezzo di rovine, di torture, di sangue. Credo che il grande amore per questa mia città rinnovata dal dolore non mi faccia velo, quando penso che la data dell'11 agosto appartiene non alla storia di Firenze, ma a quella d'Italia.

Bibliografia:

Piero Calamandrei – “Uomini e città della Resistenza” – Ed. Laterza Bari 1955

Lire la suite
Lire la suite

VERSO IL 25 APRILE

5 Avril 2020 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

VERSO IL 25 APRILE

In questi tempi drammatici di questa tremenda pandemia di Coronavirus, il nostro pensiero va a tutte le persone stroncate dall'infezione e al dolore dei loro parenti, ai medici e alle lavoratrici e lavoratori della sanità, a quelle e quelli che lavorano e operano nelle attività necessarie, agli anziani e ai bambini, ai poveri e ai senza dimora, ai migranti, alle persone fragili e bisognose, a noi stessi in clausura domestica.

Dobbiamo resistere mantenendo e possibilmente rafforzando il nostro spirito critico, la nostra volontà di lottare per un mondo diverso e migliore.

Il 25 Aprile è la Festa della Liberazione dal nazifascismo e della fine della seconda guerra mondiale che fece oltre 50 milioni di morti.

Una festa che quest'anno ci vedrà fisicamente lontani, ma umanamente e idealmente vicinissimi, ieri come oggi, agli ideali di libertà e democrazia che nel 25 aprile di 75 anni fa tanti uomini e donne di ogni età, condizione e orientamento politico proclamarono, al termine della lunga battaglia contro il nazifascismo.

Con lo spirito dei partigiani, oggi e nella "tempesta" della pandemia, dobbiamo finalmente pensare, riflettere e intervenire per cambiare il nostro modo di produrre e consumare e il nostro stile di vita in conflitto devastante con la natura e l'ambiente.

Un 25 aprile come mai ci saremmo lontanamente aspettati.

Il nostro confinamento ci impedisce di scendere in piazza. Restiamo a casa perché la salute viene prima di tutto e vogliamo dare il nostro contributo affinché il Coronavirus sia sconfitto presto.  Tuttavia propongo che il 25 aprile alle ore 15, l’ora in cui ogni anno parte a Milano il grande corteo nazionale, venga esposto alle finestre e ai balconi il tricolore e sia intonata Bella Ciao. Così facendo, intendiamo rinnovare l'impegno a difendere e promuovere la memoria e la forza di quegli ideali che hanno unito gli italiani 75 anni fa ed ai quali oggi ci rifacciamo in un tempo così travagliato e drammatico per il nostro Paese, convinti che tutti insieme ce la faremo e costruiremo un futuro migliore.

                                                                              Renato Pellizzoni

VERSO IL 25 APRILE

25 aprile 2020

75mo Anniversario della Liberazione dell'Italia dal nazifascismo

La nostra proposta: il 25 aprile facciamo sentire, in musica, dai balconi, dalle finestre, la forza della Liberazione, della Costituzione, dell'unità. In particolare, per questo tempo.

La nostra proposta: il 25 aprile facciamo sentire, in musica, dai balconi, dalle finestre, la forza della Liberazione, della Costituzione, dell'unità. In particolare, per questo tempo.

VERSO IL 25 APRILE
Giornali di Aprile 1945
Giornali di Aprile 1945
Giornali di Aprile 1945
Giornali di Aprile 1945
Giornali di Aprile 1945
Giornali di Aprile 1945
Giornali di Aprile 1945
Giornali di Aprile 1945
Giornali di Aprile 1945
Giornali di Aprile 1945
Giornali di Aprile 1945
Giornali di Aprile 1945
Giornali di Aprile 1945

Giornali di Aprile 1945

alcune immagini di Milano nei giorni della Liberazione
alcune immagini di Milano nei giorni della Liberazione
alcune immagini di Milano nei giorni della Liberazione
alcune immagini di Milano nei giorni della Liberazione
alcune immagini di Milano nei giorni della Liberazione
alcune immagini di Milano nei giorni della Liberazione
alcune immagini di Milano nei giorni della Liberazione
alcune immagini di Milano nei giorni della Liberazione
alcune immagini di Milano nei giorni della Liberazione
alcune immagini di Milano nei giorni della Liberazione
alcune immagini di Milano nei giorni della Liberazione
alcune immagini di Milano nei giorni della Liberazione
alcune immagini di Milano nei giorni della Liberazione
alcune immagini di Milano nei giorni della Liberazione
alcune immagini di Milano nei giorni della Liberazione

alcune immagini di Milano nei giorni della Liberazione

di seguito: ASCOLTA GLI ANNUNCI di RADIO MILANO LIBERATA

nei giorni di aprile 1945

annuncio di Pertini da Radio Milano liberata

VERSO IL 25 APRILE

 

OGGI VOGLIAMO RICORDARE

Lissonesi fucilati dai nazifascisti

VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE

 

Lissonesi morti nei lager nazisti

VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE

Le loro vite

VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE
VERSO IL 25 APRILE
vie di Lissone a loro dedicate
vie di Lissone a loro dedicate
vie di Lissone a loro dedicate
vie di Lissone a loro dedicate
vie di Lissone a loro dedicate
vie di Lissone a loro dedicate
vie di Lissone a loro dedicate
vie di Lissone a loro dedicate
vie di Lissone a loro dedicate
vie di Lissone a loro dedicate
vie di Lissone a loro dedicate
vie di Lissone a loro dedicate
vie di Lissone a loro dedicate
vie di Lissone a loro dedicate

vie di Lissone a loro dedicate

il nuovo monumento  -  la lapide sulla torre di Palazzo Terragni  -  le pietre d'inciampo
il nuovo monumento  -  la lapide sulla torre di Palazzo Terragni  -  le pietre d'inciampo
il nuovo monumento  -  la lapide sulla torre di Palazzo Terragni  -  le pietre d'inciampo

il nuovo monumento - la lapide sulla torre di Palazzo Terragni - le pietre d'inciampo

*******************************

Da una lettera scritta da un fucilato anonimo alla sua famiglia, 1942

«Ultimo giorno della mia vita, ore 9 del mattino. Sono calmo e pieno di coraggio. Guardo la morte in faccia, perché non ho niente da rimproverarmi della mia vita passata: sono sempre stato un lavoratore. Non bisogna credere che io sia contento di lasciarvi, no, ma il destino ha voluto che io non vivessi fino ai miei 25 anni. È bel tempo oggi e io pensavo di morire in una bella giornata. Ricopiate la mia lettera, perché nel giro di qualche giorno, la matita sarà cancellata e voi non avrete alcun ricordo di me».

*******************************

"L’ALTRA RESISTENZA" o "L’ALTRA FACCIA DELLA RESISTENZA"

La storia degli Italienische Militär-Internierte (IMI), gli oltre 600.000 militari deportati nei lager nazisti che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 rifiutarono di continuare a combattere con la Germania nazista e di aderire alla Repubblica sociale preferendo la dura vita di prigionia, è una pagina assai rilevante della partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale e della Resistenza. Dal «no» degli IMI, protrattosi per lunghi 20 mesi, dal settembre 1943 alla liberazione, deriva un significativo contributo al riscatto italiano dal fascismo e dalla guerra d’aggressione, insieme a quello dato dal movimento partigiano e dal Corpo italiano di Liberazione (CIL) che combatté al fianco degli Alleati.

Gli Internati Militari Italiani nei campi di concentramento in Germania
Gli Internati Militari Italiani nei campi di concentramento in Germania
Gli Internati Militari Italiani nei campi di concentramento in Germania
Gli Internati Militari Italiani nei campi di concentramento in Germania
Gli Internati Militari Italiani nei campi di concentramento in Germania
Gli Internati Militari Italiani nei campi di concentramento in Germania
Gli Internati Militari Italiani nei campi di concentramento in Germania

Gli Internati Militari Italiani nei campi di concentramento in Germania

Gli internati ebbero notizia della Resistenza in Italia e questo tonificò la loro lotta, dando ad essa il carattere di un combattimento comune, per gli stessi ideali e con la stessa tenacia. Notizie dai lager giunsero alla Resistenza italiana, che riconobbe nella decisione degli internati, lo stesso animo e il medesimo ardore combattivo. Il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia espresse il 27 marzo 1944 la sua solidarietà e la sua ammirazione agli internati che "in una suprema affermazione di dignità e di fierezza hanno voluto negare ogni collaborazione e prestazione al nemico"; “solidarietà e ammirazione", prosegue l'ordine del giorno "che è la solidarietà e l'ammirazione dei liberi e degli onesti di tutto il mondo".

"L'altra faccia della Resistenza", come l'ha chiamata Giorgio Bocca, "la meno nota, non la meno importante” ebbe rilievo anche nel determinare la scelta dello schieramento per migliaia di italiani, padri, madri, spose, figli, parenti di internati nei lager, e anche per coloro che avevano visto passare nelle stazioni italiane i carri piombati, che li trasportavano in Germania, e avevano assistito alla brutalità delle sentinelle tedesche.

L'internamento è, dunque, parte integrante della Resistenza e si può capire soltanto inquadrandolo in quella che è la generale ribellione degli italiani ai fascisti e ai nazisti.

Alcuni lissonesi Internati Militari in Germania tornati a Lissone dopo 20 mesi di prigionia
Alcuni lissonesi Internati Militari in Germania tornati a Lissone dopo 20 mesi di prigionia
Alcuni lissonesi Internati Militari in Germania tornati a Lissone dopo 20 mesi di prigionia
Alcuni lissonesi Internati Militari in Germania tornati a Lissone dopo 20 mesi di prigionia
Alcuni lissonesi Internati Militari in Germania tornati a Lissone dopo 20 mesi di prigionia
Alcuni lissonesi Internati Militari in Germania tornati a Lissone dopo 20 mesi di prigionia

Alcuni lissonesi Internati Militari in Germania tornati a Lissone dopo 20 mesi di prigionia

Canto degli internati

Oltre il reticolato / la vita è bella

qua dentro c'è la morte / di sentinella.

Sotto una coltre bianca / sta un internato

ormai non ha più freddo / se ha nevicato.

Per la seconda volta / m'han prelevato

lo schiavo dei Tedeschi / san diventato.

Stanotte per la fame / non so dormire

vorrei chiudere gli occhi / e poi morire.

Ma non posso morire / così per via

devo portar quest'ossa / a mamma mia.

Canzone degli internati, sull' aria di Sul ponte di Perati.

 

Quand'ero in prigionia / qualcuno m'ha rubato

mia moglie e il mio passato / la mia migliore età.

Domani mi alzerò / e chiuderò la porta

sulla stagione morta / e mi incamminerò.

Boris Vian, 1956 (trad. di Ivano Fossati, 1992)

*******************************

MEMBRI DEL COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE di LISSONE

Agostino Frisoni - Gaetano Cavina - Attilio Gelosa - Leonardo Vismara - Riccardo Crippa esponenti di spicco del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) LissoneseAgostino Frisoni - Gaetano Cavina - Attilio Gelosa - Leonardo Vismara - Riccardo Crippa esponenti di spicco del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) LissoneseAgostino Frisoni - Gaetano Cavina - Attilio Gelosa - Leonardo Vismara - Riccardo Crippa esponenti di spicco del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) Lissonese
Agostino Frisoni - Gaetano Cavina - Attilio Gelosa - Leonardo Vismara - Riccardo Crippa esponenti di spicco del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) LissoneseAgostino Frisoni - Gaetano Cavina - Attilio Gelosa - Leonardo Vismara - Riccardo Crippa esponenti di spicco del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) Lissonese

Agostino Frisoni - Gaetano Cavina - Attilio Gelosa - Leonardo Vismara - Riccardo Crippa esponenti di spicco del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) Lissonese

LA NASCITA DEL COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE (CLN) LISSONESE

verbale di costituzione del CLN lissonese

verbale di costituzione del CLN lissonese

verbale del 15 maggio 1944: data di costituzione del CLN lissonese

Trascrizione del documento:

15 maggio 1944

Si sono riuniti in data odierna in Lissone i rappresentanti locali dei partiti D.C., C. e S.U.P. (n.d.r. Democrazia Cristiana, Partito Comunista e Partito Socialista di Unità Proletaria) che hanno di comune accordo approvato il seguente:

ORDINE del GIORNO

Il Comitato di Liberazione Nazionale di Lissone si considera organo periferico del C. di L.N. dell’Alta Italia: deve quindi dare incremento a tutte quelle attività politiche e militari atte a contribuire efficacemente alla lotta ingaggiata da tutto il popolo italiano per la liberazione della patria dalla schiavitù nazi-fascista, ed inoltre creare le basi per la ricostruzione dell’Italia democratica di domani.

Da ciò deriva una serie di punti che devono immediatamente essere messi in pratica.

  1. Creazione di organismi nuovi e maggiore attivazione di quelli già esistenti, necessari gli uni e gli altri alla mobilitazione politica e insurrezionale delle masse popolari (Comitati militari, assistenziali, ecc;)
  2. Dare ogni attività per l’incremento della lotta militare, partigiana, affiancata agli eserciti delle Nazioni Unite incitando quindi le masse al sabotaggio e a tutti quegli atti che servono a scardinare l’efficienza politico militare del nazi-fascismo;
  3. Suddivisione dei compiti fra i membri del Comitato in conformità ai precedenti punti e secondo il Com. di L. N. locale che li suddividerà tra i suoi membri.
VERSO IL 25 APRILE
Il Comitato di Liberazione lissonese e la prima Giunta municipale

Il Comitato di Liberazione lissonese e la prima Giunta municipale

Forze  armate degli ALLEATI attraversano il centro di Lissone
Forze  armate degli ALLEATI attraversano il centro di Lissone
Forze  armate degli ALLEATI attraversano il centro di Lissone
Forze  armate degli ALLEATI attraversano il centro di Lissone
Forze  armate degli ALLEATI attraversano il centro di Lissone
Forze  armate degli ALLEATI attraversano il centro di Lissone

Forze armate degli ALLEATI attraversano il centro di Lissone

Lissonesi nel Corpo Italiano di Liberazione (C.I.L.)

Arosio Ennio, Arosio Giuseppe, Ballabio Oreste, Galimberti Renzo, Mussi Mario, Paltrinieri Bruno, Rivolta Franco, Rovera Massimiliano, Sala Giulio

Lissonesi che hanno dato il loro valido contributo alla lotta per la Liberazione

Ha scritto l’ex Sindaco di Lissone Angelo Cerizzi:

«È doveroso segnalare inoltre i nominativi di quei Partigiani, Patrioti e Benemeriti che in misura diversa ed in modi vari hanno dato il loro valido contributo alla lotta per la Liberazione, sia di coloro che hanno avuto l'attestazione della apposita Commissione Riconoscimento Qualifiche Partigiani Lombardia dell'allora Ministero Assistenza Postbellica, sia di coloro che parimenti operarono attivamente per il successo, sia infine di coloro che sentirono l'anelito alla Libertà ed aderirono alla Resistenza.

Innanzitutto ricordiamo le seguenti persone per le loro particolari funzioni svolte: Frisoni Agostino - Gelosa Attilio - Cavina Nino, quali componenti del C.L.N. locale, Costa Federico promotore del C.L.N. dal quale poi si dimise sempre comunque svolgendo attività clandestina, Crippa Riccardo comandante militare della Piazza di Lissone, Vismara Leonardo comandante militare con funzioni di collegamento col locale CLN, Arosio Angelo (Genola) Sindaco della Liberazione; quindi i Sigg.:

Consonni Luigi - Camnasio Mario - Donghi Luigi - Foglieni Luigi - Piatti Attilio - Casati Erino - Parravicini Giuseppe fu Mario - Perego Franco - Tassinato Tiziano - Vavassori Luigi - Zappa Pierino - Arosio Alfredo - Arosio Giulio (Tan) - Arosio Luigi (American) - Beggio Giovanni - Beretta Alfredo - Besana Celestino - Brambilla Gerolamo - Carabelli Casimiro - Casati Bruno - Cerizzi Angelo- Cesana Carlo - Colombo Emilio - Colzani Francesco - Colzani Luigi - Crippa Arturo - Crippa Giuseppe - Donghi Giuseppe - Donghi Luciano - Erba Andreina - Erba Natale - Fedeli Lino - Ferrario Isacco - Foglieni Risveglia - Fumagalli Giovanni - Fusi Attilio - Galli Nino - Galimberti Giancarlo - Gelosa Giuseppe - Lambrughi Santino - Meroni Ezio - Meroni Fausto - Meroni Giulio (Tricil) - Molteni Carlo - Muschiato Bruno - Mussi Mario (Griset) - Mutti Celeste - Negrelli Mario - Nespoli Augusto - Parma Anna – Parravicini Oreste, Perego Francesco, Perego Augusto - Pirola Gabriele - Pozzi Alfredo - Pozzi Pierino - Redaelli Attilio - Riva Augusto - Rovati Carlo - Rovati Giulio - Sala Felice - Sala Mario - Sacchetti Luciano - Scali Edoardo - Sironi Chiara - Terenghi Felice - Tromboni Eugenio - Ziroldi Augusto».

 

 

 sfilata del I° maggio 1945 nel centro di Lissone
 sfilata del I° maggio 1945 nel centro di Lissone
 sfilata del I° maggio 1945 nel centro di Lissone
 sfilata del I° maggio 1945 nel centro di Lissone
 sfilata del I° maggio 1945 nel centro di Lissone

sfilata del I° maggio 1945 nel centro di Lissone

Il primo Sindaco di Lissone Angelo Arosio e i componenti della Giunta dopo la LiberazioneIl primo Sindaco di Lissone Angelo Arosio e i componenti della Giunta dopo la Liberazione

Il primo Sindaco di Lissone Angelo Arosio e i componenti della Giunta dopo la Liberazione

Gli appelli del Sindaco ai cittadini lissonesiGli appelli del Sindaco ai cittadini lissonesi

Gli appelli del Sindaco ai cittadini lissonesi

VERSO IL 25 APRILE
Lire la suite

Da “I miei sette figli” di Alcide Cervi

23 Novembre 2018 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

«Io l'ho detto al Presidente: bisogna cambiare, è il sistema che non va, e io riunirei la Camera poi metterei insieme le buone proposte di tutte le parti come si è fatto per la Costituzione e chiamerei tutti gli italiani a stare uniti per salvare lo Stato e la nazione ...

Che il cielo si schiarisca, che sull'Italia torni la pace e la concordia, che i nostri morti ispirino i vivi, che il loro sacrificio scavi profondo nel cuore della terra e degli uomini». Alcide Cervi

Il 25 novembre 1943 venivano catturati nella loro casa di Campegine i fratelli Cervi . 

 Nell’introduzione del libro "I miei sette figli" di papà Cervi, Sandro Pertini ha scritto:

«La storia dei Cervi dimostra come si possa diventare antifascisti partendo dai valori più elementari ed essenziali: l'amore per l'uomo, il culto della famiglia, la passione per il lavoro dei campi». 

  papà Alcide Cervi mamma Cervi

«I miei figli hanno sempre saputo che c'era da morire per quello che facevano, e l'hanno continuato a fare, come anche il sole fa l'arco suo e non si ferma davanti alla notte. Così lo sapevano i tanti partigiani morti, e non si sono fermati davanti alla morte.

i sette fratelli Cervi

E ora essi sono con noi in questa terra di Emilia dove le viti si abbracciano alle tombe, dove un lume e un marmo è la semente di ogni campo, la luce di ogni strada».

(In Emilia le pietre funerarie, che indicano il luogo ove fu fucilato un partigiano, sono situate in mezzo ai campi).

Nella vita eravamo così: otto eravamo uno e uno tutti e otto.

Uno che conosce l'agricoltura emiliana, sa che la maggiore produzione sta nel latte, che il “capitale” sono le vacche. Ma tutto dipende dal foraggio, che dev’essere parecchio e di buona qualità. Così il latte viene abbondante, grasso e saporoso ...

Nei dintorni di Campegine c’eran tutte gobbe e buche, e con una terra così il foraggio non viene bene, perché l'irrigazione è difettosa, l'acqua stagna nelle buche e fa il marcio. Il foraggio viene poco e cattivo, il latte magro e misero, il contadino povero e disperato.

Aldo studiava sempre come si poteva fare per cambiare metodo e leggeva libri. Era abbonato a riviste di agricoltura e alla Riforma Sociale che era diretta da Einaudi.

Lì c’era un articolo che parlava dei terreni come i nostri, a gobbe e buche, e spiegava come si poteva livellare.

Cercano un nuovo terreno non più a mezzadria ma in affitto: lo trovano ai «Campi rossi» di Gattatico.

E così facemmo San Martino (significava fare trasferimento) in una giornata di novembre, il mese di San Martino.

Il primo carro prese il cammino, e dietro gli altri. lo e Genoveffa avanti sul biroccio, poi i carri con le donne e i bambini in cima, dietro le bestie, e intorno, avanti e sempre cambiando posto, i sette figli in bicicletta.

La sera ci mettemmo tutti a studiare il piano per lo sterro. Aldo dirigeva l'impianto vagoni e binari, Gelindo doveva fare con gli altri fratelli le squadre sterratori e i turni, Agostino e io pensavamo ai picchetti per il livello.

E tutto il giorno si lavorava e si cantava. La sera,ci riunivamo nella stalla e si faceva il bilancio del giorno e si fissavano i metodi di scavo per l’indomani.

Da allora tutti i contadini della zona impararono a livellare. E oggi nel reggiano non si trovano più appezzamenti a gobbe e buche.

Intanto Aldo fa sempre attività politica, e adesso ha trovato un altro sistema per organizzare la gente. Ci sono i confinati politici, tanti in quella epoca, che là dove stavano gli davano poco da mangiare, così Aldo va nelle case dei contadini, a Campegine, e chiede se vogliono mandare un pacco a persone bisognose che lottano anche per loro, e lì approfittava per fare la predica. Gli emiliani sono stati sempre di cuore per queste cose, anche gente non politica, e quasi sempre il pacco veniva fuori. Così la popolazione si affezionava e veniva all'antifascismo. Poi Aldo faceva le collette, le sottoscrizioni, e tutti volevano che andasse alla casa loro, perché gli piaceva sentirlo parlare.

In quel tempo tenemmo nascosti anche molti ricercati politici.

Certi contadini, ormai, ci guardavano preoccupati e qualcuno aveva persino paura a parlare con noi, ma i più ci seguivano nella lotta. Così Aldo pensò che bisognava incoraggiare, far capire che il fascismo non ci fermava nel progresso e che noi eravamo sempre in testa nel lavoro e nella tecnica.

A quel tempo, di trattori quasi non ce n'erano nella bassa, i contadini aravano ciascuno per proprio conto e a fatica. Invece se avessimo comperato un trattore, lo si sarebbe prestato anche agli altri, sarebbe stato un modo per rinvigorire l'amicizia con i contadini più sospettosi. Così Aldo andò a Reggio e comprò un trattore Landini, con quello venne fino a casa, e imboccò la strada nostra tra gli sguardi di tutti i vicini. Molti andavano appresso, altri correvano per rivederlo passare e guardare bene i cingoli e gli ingranaggi, per avere cognizione. Aldo salutava tutti in cima al trattore, e teneva vicino un mappamondo, che girava e rigirava, secondo le buche. - Porto a spasso il mondo, - diceva allegro, - e voleva far capire che il progresso tecnico si può fare se si guarda anche fuori dal campo, se si hanno gli occhi sul mondo.

Intanto si arriva al 1940, e l'Italia entra in guerra.

Aldo andava in giro per le case di sera a leggere e spiegare L'Unità, l’Avanti, e qualche quaderno di Giustizia e Libertà.

Diceva di Hitler che invadeva l'Europa e spiegava che cos'è l'imperialismo. Faceva l'esempio degli industriali che ci sono in Italia, di quanto rubano al contadino e all' operaio, sulla forza lavoro, sulla luce elettrica, sui concimi chimici, sui prezzi dei prodotti agricoli, sugli attrezzi industriali, e spiegava la concorrenza tra i monopoli, italiani ed esteri, così i contadini capivano la ragione della guerra come se leggessero sul libro dei conti.

Un bel giorno la Lucia (era un’amica dei Cervi) portò nella nostra casa una macchina a inchiostro per stampare i manifestini antifascisti. Aldo li scriveva, per i mezzadri, gli affittuari, gli artigiani, con una parola buona per ciascuno, e poi Gelindo faceva funzionare la macchina, che era divenuto un lavoro di casa come gli altri.

Per il socialismo i miei figli avevano una venerazione grande, perché ci vedevano la giustizia sociale e l'uomo emancipato. Ci vedevano i sogni fatti dai padri, dai primi predicatori reggiani dell'emancipazione, il vangelo che diventa terra, ferro, e leggi per la contentezza dell'uomo, contro i prepotenti e i ladri. Tutta la mia famiglia ha sempre sentito che gli uomini sono uguali e che devono essere uniti per il progresso.

Ferdinando aveva passione per le api perché ci vedeva la società giusta, organizzata nel lavoro, come quella socialista, diceva.

Intanto l'Annona (L'Annona era un servizio comunale preposto al razionamento dei generi alimentari durante la guerra), per dare grano e carne ai banditi fascisti, tortura i contadini con le spiate, le persecuzioni, i ricatti. Tutto all'ammasso, grida il fascio, e invece l'organizzazione clandestina diceva: niente all'ammasso! (Conferire all'ammasso era un obbligo sancito dal governo fascista per cui tutti i prodotti alimentari venivano contingentati). I miei si mettono subito a convincere i contadini, che non sapevano come difendere il «capitale» dalla requisizione. Aldo ha un'idea strategica. Ai contadini che avevano dato tutto il bestiame all'ammasso e non avevano carne per sfamarsi, dà carne a volontà, ma a prestiti di breve scadenza, così quei contadini dovevano salvare qualche capo dalla requisizione per restituire il dato. E quando si presentavano operai di Reggio, e spesso operai delle officine meccaniche Le Reggiane, dove si riparavano aerei tedeschi e si fabbricavano aeroplani italiani, Aldo dava carne e farina, purché gli portassero pezzi di motore degli aeroplani. Così la resistenza alla guerra non era più fatta solo sulla propaganda, ma sulla lotta per vivere. Una volta un operaio delle Reggiane portò la testa di un cilindro di uno Stukas e Aldo disse che il sistema cominciava a funzionare.

Insieme alla carne e alla farina, Aldo ci metteva in sovrappiù la stampa clandestina, così i contadini capivano il perché di quel baratto. Noi non davamo un grammo all'ammasso.

Il 25 luglio eravamo sui campi e non avevamo sentito la radio. Vengono degli amici e ci dicono che il fascismo è caduto, che Mussolini è in galera. È festa per tutti. La notte canti e balli sull' aia.

Facciamo subito un gruppo di contadini e andiamo a Reggio, per la strada tutti si aggiungono e la colonna diventa un popolo.

Aldo  propone:

- Papà, offriamo una pastasciutta a tutto il paese.

Facciamo vari quintali di pastasciutta insieme alle altre famiglie.

A Campegine, chi in piedi e chi seduto, il pranzo ha riempito la piazza grande, e tutti fanno onore alla pastasciutta celebrativa. Ma si avvicinano i carabinieri, e vogliono disperdere l'assembramento. Gelindo si fa avanti e dice:

- Maresciallo, rispondo io di tutta questa gente. Accomodatevi anche voi.

E i carabinieri si mettono a mangiare.

Intanto i fascisti erano spariti come scarafaggi nei buchi.

A Reggio il governo Badoglio si fece capire nemico del popolo, più che in tutte le altre zone d'Italia. Erano nove i morti, nove operai che volevano la pace. Era il 28 luglio 1943.

Le Reggiane diventarono un centro di lotta contro la guerra. Se ne accorsero poi i tedeschi quando facevano riparare i loro Stukas che non si riparavano mai, o quando sparivano casse di proiettili, o pezzi di mitraglia, che finivano in montagna per i partigiani.

Arriva l'8 settembre.

La notte del 9 le divisioni corazzate delle SS occupano la città. Alla mattina i tedeschi fanatici sfilano per le vie del centro cantando.

La popolazione faceva come le sabbie mobili e inghiottiva i soldati per salvarli dai tedeschi. Venivano fatti entrare per le finestre, dai balconcini si calavano le corde, carri di fieno portavano soldati nascosti, donne si mettevano a braccetto con uomini mai visti, cosi che al distretto di Reggio su 200 soldati i nazisti ne trovarono solo tre. Lo stesso si faceva per i prigionieri anglo-americani scappati. Anche la nostra casa diventò una stazione di smistamento. Ma noi facevamo in modo diverso. Non soltanto volevamo che i soldati ci dessero le armi, e in cambio gli davamo i vestiti, ma a quelli che si presentavano senza armi gli dicevamo di andarne a trovare una e portarla. Così dopo qualche giorno i fienili sono diventati arsenali, e abbiamo finanche una mi­tragliatrice. La casa è piena di soldati e le donne la sera preparano il rancio. Intanto i ragazzi sono in giro per cercare abiti civili, perché quelli che abbiamo non bastano. Alla notte c'è il trasferimento. I soldati, vestiti da contadini, se ne partono a gruppi, con biciclette che ci siamo fatti dare in prestito.

Intanto in tutto il reggiano i contadini e gli operai cominciano a muoversi e ci arrivano le direttive contro l'invasore tedesco. Cominciano gli atti di sabotaggio, e i contadini assaltano gli uffici dell'ammasso per non lasciare il grano ai tedeschi.

Nascono i GAP (Gruppi di azione patriottica).

I miei figli organizzano un piano per far scappare i prigionieri del campo di Fossoli. Di notte vanno ai lati del campo, tagliano il filo spinato. I prigionieri scappano e trovano sulla strada donne in bicicletta che li portano a casa mia. Così se prima la casa sembrava una. caserma, adesso somigliava alla Società delle Nazioni. Ci sono diverse nazionalità, inglesi, americani, russi, neozelandesi, e parlano ognuno la propria lingua.

C'erano tutti gli alleati. Una sera dopo cena, ci mettiamo a cantare canzoni ognuno del proprio paese e d'improvviso viene fuori il canto dell'Internazionale. La sapevano tutti e la cantavano nella loro lingua, ma quella sera c'era una lingua sola e un cuore solo: l'Internazionale.

Tutti vogliono partire tranne i russi che chiedono di combattere.

Aldo si mise poi in contatto con i compagni che già lavoravano in montagna.

Veniva l'inverno, difettavano i collegamenti, così dal Comitato di Liberazione di Reggio viene l'ordine di ritirarsi dalla montagna.

Ormai, però, i prigionieri erano diventati troppi a casa mia, allora erano trenta. Ai primi di novembre, il Comitato di Liberazione vuole sfollati i prigionieri, ché il rischio è troppo grande. L'ultimo scaglione deve partire il giorno 25.

Così viene la notte, quella notte del 25 novembre, quando i fascisti, sicuri di trovare i prigionieri, perché avevano avuto la spiata, circondano la casa nostra.

Non era ancora l'alba, pioveva a dirotto, e noi dormivamo tutti. A un certo punto ci svegliano i lamenti del bestiame e colpi di fuoco ... Sparano dai campi intorno alla casa ... - Cervi, arrendetevi!

Non diciamo parola e prendiamo subito le armi. Le donne trascinano nelle stanze le cassette delle munizioni ...

Intanto noi abbiamo infilato le pistole tra gli scuri, Aldo ha un mitra e apre il fuoco. Anche gli stranieri sparano con noi. Ci rispondono altri colpi e il fuoco dura qualche minuto. Poi noi cominciamo a scarseggiare nei tiri finché ci guardiamo tutti e ci parliamo nelle stanze, le munizioni sono finite. Aldo guarda dalla finestra verso il fienile, vede un bagliore, e dice: brucia, non c'è più niente da fare.

Io dico: non mi arrendo a quei cani, andiamo giù tutti quanti, è meglio morti che vivi. Aldo mi ferma e dice: no, papà, che ci sono le donne e i bambini. Meglio arrendersi.

Aldo ci riunisce e dice: - Sentitemi bene. Quando ci interrogheranno, solo io e Gelindo ci prenderemo la responsabilità. Gli altri non sanno niente, è chiaro?

Entrarono nell'aia due autocarri, poi ho saputo che erano venuti in 150 uomini per prenderci. La casa bruciava, e ora si vedevano i fascisti armati fino ai denti ...

La madre li abbracciava tutti come poteva, e se li stringeva al petto, e li carezzava sul capo, e piangeva e diceva: meglio morire, meglio morire ... Ci portano via, mentre le donne e i bambini restano soli nella casa che brucia.

Continua a piovere, così forse l'incendio finirà presto.

Ma poi ho risaputo che sì, l'incendio è finito presto, ma che i fascisti, appena andati via noi, si sono messi a rubare e a saccheggiare tutto, mobili, macchine, copertoni, e poi bruciarono i libri, li strapparono e se li misero sotto i piedi.

In carcere vengono interrogati e pestati. I sette fratelli pensano un piano di fuga.

I fascisti aprono la porta della nostra cella e gridano: Famiglia Cervi, fuori!

Io esco in testa, ma mi dicono: - Tu che vuoi, sei vecchio, torna indietro.

- Sono il capo famiglia, e voglio stare insieme ai miei figli. Ma intanto viene un contrordine, tutti di nuovo nella cella, ancora non è pronto.

Ci dicono: tornate a dormire, sarà per domattina.

All'alba nuova chiamata, ed escono i miei sette figli. Chiedo dove li portano.

- A Parma, per il processo, - mi rispondono. E li portano via alla svelta, faccio in tempo appena a salutarli.

Il 7 gennaio 1944 il carcere viene bombardato.

Le mura del carcere crollano in mezzo a un iradiddio di schianto e di polvere. Io mi infilo dentro il buco che serviva per l'accettazione dei pacchi, e salto nella strada, altri nascosti dalla polvere passano attraverso il crollo ... io prendo la Via Emilia ... mi volto verso Reggio: vedo fiamme e fumo, nel cielo arancio ... una famiglia che conoscevo mi dà una bicicletta ... Arrivo a casa alle 23 e tutti dormivano. Entro, guardo l'attaccapanni, i figli non erano tornati ... - Si sa niente dei figli?

La moglie risponde come distratta: - Se non lo sai tu, noi non sappiamo niente ... - Li hanno portati a Parma per il processo ... - E se non li avessero portati a Parma, se fosse una bugia? - diceva la moglie ... - Se non li hanno portati a Parma li avranno deportati in Polonia a lavorare ...

Per un mese e mezzo non mi disse parola sui figli. Aspettava sempre che mi rimettessi dall'ulcera e dalla prigione, e così ogni sera andava a letto con il segreto nel cuore e in più con me che non capivo e parlavo di loro come se fossero vivi ...

- I nostri figli non torneranno più. Sono stati fucilati tutti e sette. Le nuore mi si avvicinarono, e io piansi i figli miei. Poi, dopo il pianto, dissi: - Dopo un raccolto ne viene un altro. Andiamo avanti.

Dopo che avevo saputo, mi venne un grande rimorso ... li avevo salutati con la mano, l'ultima volta, speranzoso ... invece andavano a morire. Loro sapevano, ma hanno voluto lasciarmi l'illusione, e mi hanno salutato sorridendo; con quel sorriso mi davano l'ultimo addio.

Che ne sa la morte dei nostri sacrifici, dei baci che mi avete dati fino a grandi, delle veglie che ho fatto io sui vostri letti, sette figli, che prendono tutta una vita.

Maledetta la pietà e maledetto chi dal cielo mi ha chiuso le orecchie e velati gli occhi, perché io non capissi, e restassi vivo, al vostro posto!

La certezza della loro causa, i partigiani, le donne, i compagni, gli operai, i fiori, le lapidi, gli affetti, che da tutte le parti abbracciano i miei figli, mi hanno dato una forza enorme che mi fa resistere alla tragedia.

Così si erano svolti i fatti che avevano portato all'uccisione: un gappista, il 27 dicembre, fece giustizia del segretario fascista di Bagnolo in Piano. I gerarconi della provincia si riunirono funebremente la notte stessa davanti al morto, e giurarono vendetta: - Uno contro dieci, - gridavano quelli che avevano imparato dai tedeschi. Ma qualcuno suggerisce l'idea: - Fuciliamo, i sette fratelli Cervi ... Infatti li portano al Poligono di tiro ...

A casa, Genoveffa aveva lasciato la direzione dei lavori alla nuora più anziana ... gli occhi suoi non erano più di questa terra e la mente era lontano, coi figli suoi ...

I fascisti ci avevano bruciato la casa quando ci arrestarono, poi ci ammazzarono i figli, ma non gli bastava e vennero a bruciarci ancora il 10 ottobre del 1944. A quella data eravamo solo due vecchi, quattro donne e undici bambini ... Così vennero di notte e diedero fuoco al fienile, poi scapparono via.

Usciamo dalla casa e ci mettiamo a gettar acqua, con i bambini e tutti. Genoveffa quando vide le fiamme, risentì quella notte, quegli spari, quei figli con le mani alzate nel cortile, e gli addii, e il furgone che parte. Cosi cadde di colpo e il cuore non resse, gli era venuto l'infarto. Rimase a letto per un mese ... Morì il 14 novembre del 1944, senza avere conoscenza ...

(Siamo nel 1955, quando è uscito il libro)

Io l'ho detto al Presidente: bisogna cambiare, è il sistema che non va, e io riunirei la Camera poi metterei insieme le buone proposte di tutte le parti come si è fatto per la Costituzione e chiamerei tutti gli italiani a stare uniti per salvare lo Stato e la nazione ...

Che il cielo si schiarisca, che sull'Italia torni la pace e la concordia, che i nostri morti ispirino i vivi, che il loro sacrificio scavi profondo nel cuore della terra e degli uomini».

Lire la suite

L’eccidio dei 67 Martiri di Fossoli

5 Juillet 2018 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

dal sito della Fondazione Fossoli

dal sito della Fondazione Fossoli

L’eccidio dei 67 Martiri di Fossoli

articoli sul campo di concentramento di Fossoli nel sito ANPI Lissone

Domenica 8 luglio avrà luogo la commemorazione dell’eccidio dei 67 Martiri di Fossoli

 

Lire la suite

I GRUPPI DI DIFESA DELLA DONNA

2 Mars 2018 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Nel solco della formazione del CLN si avviò a Milano, nel novembre 1943, su iniziativa del partito comunista, un'organizzazione femminile di massa denominata "Gruppi di difesa della donna e per l'assistenza ai combattenti della libertà". Le militanti che praticamente vararono l'associazione appartenevano ai partiti comunista, socialista e d'azione; si posero l'obiettivo di coinvolgere nel movimento resistenziale donne di diversa estrazione sociale e con diversi percorsi ideologici, perché era evidente che la stessa resistenza armata non avrebbe potuto svilupparsi e sopravvivere senza una partecipazione popolare alla lotta. A questo primo nucleo dei Gruppi di difesa della donna si aggregarono con il passare dei mesi anche gruppi organizzati di altri partiti (democristiano, repubblicano, liberale) o gruppi di donne che non avevano riferimento in una forza politica ma che comunque erano già impegnate in attività resistenziali.

La loro diffusione nelle regioni del Nord e del Centro fu capillare.

Il 28 novembre il partito comunista emanò anche le "Direttive per il lavoro tra le masse femminili" in cui precisava che, con gli scioperi e le dimostrazioni di massa, le donne dovevano porsi come obiettivi: l'aumento delle razioni alimentari, l'alloggio alle famiglie sfollate e sinistrate, il riscaldamento e i vestiti, l'aumento dei salari in rapporto al costo della vita, i locali necessari per le scuole; più specificamente per le donne: la proibizione del lavoro a catena, del lavoro notturno, delle lavorazioni nocive; salario uguale a quello degli uomini; assistenza nel periodo precedente e seguente il parto; possibilità di allevare i figli; partecipazione all'istruzione professionale; possibilità di accedere a qualsiasi impiego e scuola (unico criterio di scelta: il merito) e di partecipare alla vita sociale nei sindacati, nelle cooperative, nei corpi elettivi.

A fare da spinta nelle diverse realtà locali per la costituzione dei Gruppi di difesa della donna furono le militanti comuniste.

I primi temi su cui i Gruppi di difesa della donna presero posizione, facendosi conoscere dalla popolazione furono la mobilitazione contro la chiamata alle armi dei giovani della RSI, il sostegno alle lotte operaie, la protesta contro le deportazioni.

Nell'agosto 1944, le diverse componenti partitiche aderirono ai Gruppi di difesa della donna. Nell'ottobre il CLNAI riconobbe nei Gruppi di difesa della donna "un'organizzazione unitaria di massa" in cui erano "rappresentate tutte le correnti politiche" e la cui azione si svolgeva "sulla linea e nello spirito della lotta di liberazione di cui il CLNAI è la guida unitaria".

In tutte le regioni i Gruppi di difesa della donna furono attivi e le loro militanti, solitamente valutate in settantamila, riuscirono a diventare promotrici di eventi e di manifestazioni di piazza che coinvolsero centinaia di migliaia di altre donne, di operai nelle fabbriche e di contadini nelle campagne. Non ci fu una struttura resistenziale altrettanto capillare e capace di mobilitazione al di fuori della propria cerchia militante.

L'organo dei Gruppi di difesa era "Noi Donne", che usciva in varie edizioni regionali; gli si affiancavano gli organi prodotti dai gruppi femminili di partito, che trattavano temi quali la parità salariale, il tempo libero, la ristrutturazione della società rispetto ai ruoli maschili e femminili, il superamento del concetto di politica come competenza soltanto degli uomini, il diritto di rappresentanza.

Nell'estate 1944, in realtà territoriali più dinamiche, si diede avvio alla costituzione di gruppi di "Volontarie della libertà" con donne particolarmente che si sentivano disposte a compiere atti di sabotaggio delle comunicazioni telefoniche, azioni dimostrative, atti di liberazione di prigionieri, colpi contro donne collaborazioniste. In questo contesto vanno collocati la liberazione di partigiani dagli ospedali, la posa di fiori e di corone sulle tombe delle vittime dei nazifascisti nella notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre 1944, l’organizzazione del “Natale del partigiano”, le manifestazioni della “Giornata internazionale delle donne” dell’8 marzo 1945 per “affermare la nostra volontà di farla finita con la guerra e il regime di Mussolini e di Hitler; nel volantino di quest’ultima mobilitazione si ricordava che il governo democratico dell’Italia liberata aveva concesso alle donne “il diritto di voto, il diritto di partecipazione attiva alla vita sociale e politica del paese, come riconoscimento del contributo dato da tutte le donne alla lotta di liberazione nazionale”.

 

NOI DONNE”, organo ufficiale dei GRUPPI DI DIFESA DELLA DONNA

1945 gen NOI DONNEAll’attività della stampa clandestina si dedicarono diversi gruppi di donne antifasciste che nel giro di dodici mesi diedero vita ad almeno 42 testate femminili clandestine. Di queste oltre trenta erano riconducibili ai Gruppi di difesa della donna, il cui organo ufficiale fu denominato "Noi Donne", titolo che era stato coniato a Parigi nel 1937 dalla militante comunista Teresa Noce; le altre testate erano prodotte dai partiti (tre socialiste, due democristiane, due azioniste, due Giustizia e Libertà, una liberale).

La produzione delle testate dei Gruppi di Difesa così avveniva: un Comitato centrale dei Gruppi per il Nord, formato dalla dirigenza, preparava le copie redazionali del giornale per poi inviarle ai suoi organi periferici, con l'indicazione di riprodurle tutte o in parte con ogni mezzo possibile. Queste tracce, composte da articoli di carattere generale, spesso venivano integrate dalle redazioni locali con interventi relativi a fatti svoltisi nelle zone circostanti. Laddove non esistevano redazioni cittadine, oppure non era possibile modificare i testi ricevuti, i giornali venivano riprodotti tali e quali. [...] Le testate femminili dei partiti, a differenza di quelle prodotte dai GDD avvalendosi delle tracce ricevute dal Comitato Centrale, costituivano l'espressione diretta delle singole redazioni che le producevano.

Le regioni più dinamiche nel produrre stampa clandestina furono il Piemonte con 12 testate (di cui 8 promosse dai GDD), la Liguria con 9 testate (7 dai GDD), la Lombardia con 7 testate (4 dai GDD), l'Emilia Romagna con 6 testate (4 dai GDD), il Friuli con due testate promosse dai GDD e una ciascuna per le regioni Toscana, Lazio e Veneto.

I primi numeri di "Noi Donne" furono editi nel maggio 1944 a Torino, Bologna e Ravenna.

Un primo fondamentale scopo della stampa femminile era quello di spronare le donne, di fronte alle sofferenze causate dalla guerra e dalla violenza nazifascista, a reagire partecipando alle attività resistenziali, liberandosi così dal tradizionale atteggiamento di passività, di isolamento nello spazio privato familiare.

Tra il 1944 e il 1945 sulla stampa femminile cominciò ad affermarsi anche una dimensione di emancipazione, in primo luogo sul piano lavorativo e più in generale sul piano dei diritti.

Sull'organo provinciale torinese dei Gruppi di difesa della donna venne trattato il tema della parità salariale.

In un manifestino i Gruppi di difesa della donna chiedevano che la donna non venisse più "trattata come un semplice oggetto", perché aveva una sua personalità, dava "il suo contributo in ogni campo della vita sociale" e sentiva "il dovere di intervenire nella costruzione del mondo"; per questo rivendicava "libertà di pretendere la parità di diritti, libertà di dire che vuole la pace, il pane, il lavoro, libertà di assurgere alla funzione dirigente come vera compagna dell'uomo".

Il cammino di emancipazione femminile ricevette dalla Resistenza e dai fogli della stampa femminile un forte impulso: le donne intendevano nel dopoguerra consolidare il ruolo conquistato nella clandestinità, nella convinzione, ribadita in diverse edizioni regionali di "Noi Donne", che "non vi può essere democrazia vera senza partecipazione femminile". In particolare veniva rivendicata la gestione degli ambiti pubblici legati alla cura, all'assistenza, all'educazione, come già si era sperimentato in alcune "repubbliche libere" partigiane.

Nell'edizione emiliano-romagnola di Noi donne del settembre 1944 si esprimeva l'esigenza di una piena partecipazione alla direzione della vita pubblica, locale e nazionale: «Dobbiamo perciò prepararci fin d'ora a governare. [ ... ] Le donne che in questo momento sanno guidare le masse femminili e le portano a dare il loro contributo alla guerra di liberazione [...] sapranno certo anche domani collaborare alla direzione dello Stato e saranno, ne siamo sicure, delle ottime dirigenti».

Il riconoscimento del diritto di voto alle donne da parte del governo Bonomi nell'Italia liberata, con decreto del 1° febbraio 1945, stimolò i gruppi organizzati delle donne a intensificare i canali di comunicazione: negli ultimi tre mesi di guerra sorsero 14 nuove testate, che focalizzarono l'attenzione sui futuri compiti delle donne nell'ambito politico.

Le testimonianze delle donne ci svelano i sacrifici e i rischi che comportavano la redazione, la stampa, la distribuzione di un giornale.

 

Bibliografia:

Ercole Ongaro, Resistenza nonviolenta 1943-1945, I Libri di Emil Editore, 2013

Lire la suite

Suore durante la Resistenza

2 Mars 2018 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

copertina-libro-Ongaro-Resistenza-non-violenta.jpgLa storia della Resistenza al fascismo e nazifascismo è storia di lotta armata, di eroismi e di tragedie. Ma la Resistenza è stata segnata anche da una grande partecipazione nonviolenta. La racconta Ercole Ongaro nel libro “Resistenza nonviolenta 1943-1945”. Ercole Ongaro è direttore dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea (Ilsreco)

«La resistenza attuata con tecniche non violente ha avuto un ruolo importante nella lotta di liberazione nazionale, favorendone sicuramente l'esito positivo» scrive Giorgio Giannini, segretario del Centro Studi Difesa Civile.

«Resistere è per prima cosa trovare la forza di dire 'No' [...] Caratteristica dell'atto di resistenza è la volontà di non cedere alla dominazione dell'aggressore che si manifesta in un atteggiamento radicale di non cooperazione e di confronto con l'avversario» afferma Jacques Sémelin.

La Resistenza civile può essere scandita in due forme fondamentali, sulla base di due diversi obiettivi: la prima consiste "nel ricorso a mezzi non armati per agevolare o rafforzare la lotta armata", quali l’aiuto della popolazione ai partigiani, la cura medica dei loro feriti, il favoreggiamento della loro fuga dagli ospedali, la mediazione per lo scambio di prigionieri, il ruolo delle staffette, l'intervento sulla segnaletica stradale, il posizionamento di chiodi sulla sede stradale. La seconda consiste "in un ricorso a forme di mobilitazione e cooperazione intese a difendere obiettivi civili", a contestare la legittimità dell'autorità occupante e collaborazionista, ad aiutare persone o gruppi perseguitati, a costruire nuove forme di legittimità, a impedire le deportazioni, a lottare per la dignità delle persone e per il loro diritto alla sopravvivenza, a lottare contro i diktat dell'occupante e la sua razzia di beni, di risorse, di persone.

In questa forma di resistenza si inserisce il comportamento di molte suore durante la Resistenza.

La scarsa visibilità delle donne nella storiografia della Resistenza è stata ancora più marcata nei riguardi delle suore, cui solo nell'ultimo quindicennio sono state dedicate ricerche specifiche per valorizzare il ruolo avuto da esse, singolarmente o come comunità religiose. La loro emarginazione può essere ricondotta sia alla loro stessa scelta di vita, per molti incomprensibile, sia alla loro "ritrosia a confrontarsi con il passato in nome di una modestia che è virtuosa sul piano personale ma non su quello della memoria collettiva".

Molte suore furono partecipi del salvataggio degli ebrei e tredici di loro (sette di Roma, quattro toscane e due piemontesi) furono insignite del titolo di "Giusta" dalla Fondazione Yad Vashem di Gerusalemme.

Numerosi conventi del Centro-Nord aprirono le loro porte offrendo un provvisorio o a volte un prolungato rifugio. In Piemonte numerosi istituti accolsero intere famiglie ebree o i loro bambini. Il cardinale di Torino Maurilio Fossati fu tra i presuli più attivi nel dare indicazioni in tal senso e nell'ispirare reti di sostegno attraverso il suo segretario don Barale. Nel convento delle Domenicane di Morozzo furono ospiti i membri della famiglia Bachi di Torino; le Domenicane dell'Istituto Sacra Famiglia di Dogliani accolsero la madre e la zia di Marco Levi, un imprenditore di Mondovì. La madre e la sorella di Luciano Jona, ex dirigente della Banca San Paolo di Torino, trovarono sistemazione presso l'asilo infantile delle suore Salesiane di Canelli. Nel convento delle Domenicane di Fossano (Cuneo) fino alla fine della guerra suor Maria Angelica Ferrari accolse la piccola Regina Schneider, mentre suo fratello era collocato in un istituto maschile e la loro madre nell'ospedale cittadino prima come degente e poi come dipendente. Tre bambine di ebrei croati trovarono rifugio nell'asilo del convento di San Giovanni a Rivalta per intervento di suor Maria Anna Operro, mentre i loro familiari vennero ospitati dalla famiglia contadina di Luigi Operro, fratello della suora. La direttrice del piccolo ospedale di Borgo San Dalmazzo nel Cuneese, Suor Anna Volpe, trovò un nascondiglio per undici bambini ebrei nella case del Cottolengo di Bra e della Morra. Le suore dell'istituto delle Figlie di Nostra Signora di Lourdes, a Casale Monferrato, accolsero nei primi mesi dopo l'8 settembre gruppi di ebrei in attesa che l'avvocato Giuseppe Brusasca prendesse di volta in volta accordi per il loro spostamento a Olgiate Comasco, da dove dei contrabbandieri li accompagnavano al confine svizzero.

Nel Bergamasco, a Torre Boldone, le suore Poverelle, che gestivano l'ospedale dell'Istituto Palazzolo e un orfanotrofio, prestarono soccorso dall'autunno 1943 prima a ex prigionieri alleati e poi a ebrei in fuga: gli ebrei venivano fatti passare per degenti fino a quando erano sicuri i contatti per il loro passaggio in Svizzera ad opera della rete clandestina OSCAR, organizzata presso il Collegio Arcivescovile San Carlo di Milano. Ma il 30 maggio 1944 una perquisizione dell'Ufficio politico investigativo accertò la presenza di alcuni di loro sotto falso nome: furono catturati i fratelli Guido, Mario e Vittorio Nacamulli, di origine greca, Giuseppe Weinsrein, di origine boema, Oscar Tolentini e Gustavo Corrado Coen Pirani. La superiora madre Anastasia Barcella riuscì a darsi alla fuga. Le indagini portarono poi la polizia fascista a interessarsi a una struttura collegata, l'Istituto Palazzolo di Milano, che aveva un ospizio femminile in via Gattamelata e uno maschile in via Aldini; il 14 luglio nell'ospizio femminile furono individuate soltanto tre anziane ebree, poiché altre dodici ebree erano state portate in un appartato ripostiglio dell'istituto. Furono recluse a San Vittore madre Donata Castrezzati e la sua segretaria suor Simplicia Vimercati. Il 17 luglio fu perquisito l'ospizio maschile e arrestata madre Clara Filippini, che aveva però fatto a tempo a mettere in salvo gli ebrei ospitati. L’intervento del cardinal Schuster riuscì a ottenere il 3 agosto il rilascio delle tre religiose, acconsentendo al loro "confino" nell'istituto per Frenastenici di Grumello al Monte (Bergamo). Dalla documentazione raccolta risulta che le suore Poverelle, tra ebrei e altri ricercati (resistenti e renitenti), accolsero 200 persone in via Aldini e 165 in via Gattamelata.

Un'altra oasi di salvezza per ebrei e ricercati fu il convento di clausura di S. Quirico ad Assisi, dove era abbadessa madre Giuseppina Biviglia, che fu indotta ad aprire le porte del suo convento dal vescovo Giuseppe Placido Nicolini. A portarvi i primi ebrei fu il guardiano del convento di San Damiano padre Rufino Niccacci; vi furono ospitate le famiglie Kropf, Gelb, Baruch, Jozsa e altre. Gli uomini stazionavano in un dormitorio, le donne e i parenti anziani nei locali della foresteria. A tutti vennero forniti documenti d'identità contraffatti per iniziativa di padre Rufino che coinvolse nell'impresa rischiosa il tipografo assisano Luigi Brizi, che produsse documenti falsi anche per la rete clandestina toscana (ritirati dal ciclista Bartali). Tutto funzionò a dovere fino al 26 febbraio 1944, quando qualcuno dei rifugiati, che era uscito dal monastero, fu fermato e rivelò di essere alloggiato a San Quirico. Ci fu una perquisizione, ma mentre madre Giuseppina teneva testa ai funzionari di polizia, gli ebrei riuscirono a mettersi al sicuro negli antichi sotterranei del monastero, da dove nelle notti seguenti uscirono per altre destinazioni.

A Roma nel 1943-44 vi erano 475 case religiose femminili; circa 150 offrirono ospitalità a ebrei e ricercati. Gli oltre 4.400 ebrei nascosti a Roma in strutture religiose erano collocati in maggioranza presso istituti di suore. Molte madri superiore si mossero di loro iniziativa, altre attesero indicazioni da parte di sacerdoti amorevoli in contatto con il Vaticano, soprattutto quando doveva essere violata la clausura. Un documento del 1945 ha assegnato il maggior numero di ospiti ebrei ai seguenti istituti: Suore di Nostra Signora di Sion (187), Suore Adoratrici del Preziosissimo Sangue (136), Suore del Buono e Perpetuo Soccorso (133), Maestre Pie Filippini (114), Oblate Agostiniane di Santa Maria dei sette dolori (103), Suore Orsoline dell'Unione Romana (103), Suore della Presentazione (102), Adoratrici Canadesi del Prezioso Sangue (80), Clarisse Francescane Missionarie del SS. Sacramento (76), Figlie del Sacro Cuore di Gesù (69), Suore Compassioniste Serve di Maria (63), Suore di San Giuseppe di Chambery (57).

Le suore furono inoltre molto attive negli ospedali per nascondere i ricercati, per far fuggire i degenti che rischiavano la deportazione o la fucilazione: all'Ospedale di Niguarda a Milano suor Teresa Scalpellini e poi suor Giovanna Mosna, dell'Istituto di Carità delle Sante Capitanio e Gerosa, furono protagoniste di molti interventi in questo campo e si mossero in sintonia con i medici Cazzullo, Rizzi, Gatti-Casazza, Grossoni e con le infermiere Minghini, Berti, Modone e Colzani.

Preziosa si rivelò la presenza delle suore nelle carceri, dove alcune figure ricevettero un attestato unanime di stima e di riconoscenza. A suor Giuseppina De Muro, religiosa delle Figlie della Carità con convento nel quartiere popolare di San Salvario a Torino, era stata affidata la responsabilità del settore delle detenute politiche nelle carceri, controllato dai tedeschi, sottoposto a disciplina molto rigida. Con le sue consorelle, una decina, fece entrare di nascosto in carcere indumenti e generi alimentari da distribuire alle detenute bisognose, in particolare alle ebree anziane prelevate in fretta e furia dalle case di riposo dove erano ricoverate. Poi ottenne di fornire medicinali ai detenuti: questo le permise di portare loro viveri, di diventare il tramite per informazioni familiari e politiche, di provvedere ai bisogni di una ventina di sacerdoti arrestati per aiuto a ebrei e partigiani. Su iniziativa delle Figlie della Carità fu anche allestita una infermeria.

A San Vittore fu suor Enrichetta Alfieri a conquistare i cuori dei detenuti. Vi era arrivata nel 1923. Fernanda Wittgens, direttrice della Pinacoteca di Brera, detenuta a San Vittore dal luglio 1944 ha testimoniato che suor Enrichetta "si prodigava per tutti, sempre presente, sempre carica nel soggolo, nella cuffia, nelle vesti, fin nelle scarpe, di messaggi, cibi, denari, nonché di lime d'acciaio". Molte decine furono i detenuti politici liberati e centinaia quelli a cui fu dato qualche soccorso. Per aver fatto uscire dal carcere un biglietto di una detenuta ai familiari e avervi a sua volta scritto alcune frasi, suor Enrichetta fu arrestata il 23 settembre 1944 con l'accusa di spionaggio e intesa col nemico e posta in una cella di isolamento. L'intervento del cardinal Schuster ottenne la sua liberazione il 7 ottobre, a condizione di un suo allontanamento: suor Enrichetta raggiunse le tre suore dell'Istituto Palazzolo confinate a Grumello al Monte. Fece ritorno a San Vittore il 6 maggio 1945, accolta con entusiasmo dai detenuti. Del gruppo di suore di San Vittore ha scritto Maria Massariello Arata, detenuta a San Vittore nei mesi di luglio e agosto 1944 e poi deportata a Ravensbruck:

 «Ricordo con animo pieno di commossa gratitudine le revende suore di San Vittore: la madre superiora suor Enrichetta Alfieri, suor Gasparina, suor Vincenza, suor Onorina e le altre ancora. Sono anch'esse nobili figure della resistenza milanese. Con i maniconi della loro veste, le loro S. Messe in San Vittore, quanti biglietti portarono fuori dal carcere! Erano biglietti di collegamento dei carcerati con l'attività clandestina esterna che continuava, erano avvisi salutari, esortazioni alla prudenza. E tutto questo con grave pericolo. Vegliavano anche sugli interrogatori che avvenivano in una camera con finestra ad inferriate che dava sul giardino. Una sera quando il mio interrogatorio si prolungava più del consueto tra minacce di torture varie, approfittando di un'assenza del tenente e dei suoi collaboratori che erano andati a rifocillarsi, suor Vincenzina comparve tra le sbarre e mi porse un rosso d'uovo con marsala».

Un altro "angelo" delle carceri fu suor Demetria Strapazzon, che operava nella prigione di San Biagio a Vicenza. Si occupò soprattutto dei detenuti che mancavano di tutto, di vestiti e di viveri supplementari. Nell' autunno del 1943 si curò in particolare dei detenuti slavi, che da un anno non avevano contarti con le famiglie. Nei mesi seguenti ebbe a interessarsi dei resistenti torturati, cui medicava le piaghe, somministrava calmanti; assistette i condannati a morte, trascorrendo con loro le ultime ore e confortandoli con amore materno; introduceva in carcere viveri. Sentendosi spiata ed accusata, teneva preparata una valigetta nel caso venisse deportata all'improvviso. A fine guerra il capitano partigiano Gaetano Bressan la ringraziò con una lettera per l'opera da lei svolta "con tanto spirito di abnegazione e di cristiana pietà nei riguardi dei patrioti detenuti nel periodo della dominazione nazifascista".

Queste donne coraggiose uscite dall'anonimato, rappresentano centinaia di altre suore che nelle carceri, negli ospedali e nei loro istituti si sono schierate dalla parte delle vittime e di chi era nel bisogno: con scarsa o nessuna coscienza politica inizialmente, poi man mano sempre più consapevoli delle loro scelte orientate a salvare vite in nome del senso umanitario e della carità cristiana che faceva loro riconoscere nei sofferenti il volto del Signore a cui si erano consacrate.

Bibliografia:

Ercole Ongaro, Resistenza nonviolenta 1943-1945, I Libri di Emil Editore

Lire la suite

Il contributo delle Forze Armate regolari nella Resistenza e nella Guerra di liberazione

26 Décembre 2017 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Dalla conversazione di LEANDRO GIACCONE, tenuta il 24 gennaio 1975 nell'Aula magna dell'Università Cattolica di Milano

 

Il 10 giugno 1940, anche se l'esercito francese si era dissolto come nebbia al sole, le autorità militari italiane rimasero assolutamente contrarie al nostro intervento nel conflitto. Per tenere la Libia avremmo dovuto conquistare il dominio, aeronavale del Mediterraneo, e per tenere l'Africa Orientale avremmo dovuto conquistare l'Egitto. Non eravamo in grado di affrontare con logiche probabilità di successo né l’uno né l'altro compito, perché il nostro potenziale aeronavale e - mezzi e basi - era nettamente inferiore a quello del nemico, e né in Italia né in Africa avevamo moderne unità corazzate.

Mussolini conosceva benissimo il pensiero e le ragioni dei militari, ma dichiarò egualmente la guerra, convinto che l’Inghilterra fosse sul punto di chiedere anch'essa la pace subito dopo la Francia. Ma ciò non accadde e le ostilità proseguirono. Le Forze Armate, il popolo italiano seguitarono a combattere per quaranta mesi quella guerra che era stata intrapresa dai responsabili politici, dal regime fascista, nella sciagurata certezza che dovesse concludersi in pochi giorni.

Nel 1941, entrati nel conflitto gli Stati Uniti, la vittoria tedesca era ancora possibile: dipendeva dalla eventualità di una richiesta di pace da parte della Russia. Alla fine del 1942 il crollo della Russia non era più credibile, il potenziale bellico degli Alleati cresceva ogni giorno, mentre ogni giorno diminuiva quello dell'Asse; in Estremo Oriente il Giappone aveva perso l'iniziativa senza speranza di poterla recuperare. La guerra scatenata da Hitler era irrimediabilmente perduta.

Spettava ai politici dell'Asse trarre le conclusioni, e chiedere la pace nell'interesse dei popoli di cui reggevano le sorti. Ma l'unico responsabile della politica tedesca, Hitler, e l'unico responsabile della politica italiana, Mussolini, non vollero accettare la dura realtà della sconfitta: loro sopravvivenza politica diventava incompatibile con il bene supremo dei due paesi.

Le masse popolari avevano sensazione istintiva che la guerra fosse ormai perduta e desideravano solamente la pace; ma non potevano far valere le loro istanze, perché le organizzazioni di massa facevano tutte capo ai gerarchi del Partito Unico.

Per cessare la guerra bisognava liquidare i due regimi e la difficoltà maggiore non era l'estromissione di Mussolini o l'eliminazione di Hitler con un attentato, ma la possibilità di neutralizzare istantaneamente tutti i reparti della Milizia fascista in Italia, tutti i reparti delle SS in Germania: solo gli eserciti regolari potevano tanto.

Il 25 luglio, appena caduto Mussolini, Hitler dette immediata esecuzione al piano già preordinato per neutralizzare le conseguenze strategiche di una nostra possibile pace separata. Oltre alle otto divisioni tedesche già in Italia, la notte del 26 cominciarono ad affluire un’altra diecina, tante quante furono giudicate sufficienti a neutralizzare istantaneamente le forze italiane dislocate nella Penisola. Così le nostre Autorità politiche e militari tra il 25 luglio e l'8 settembre agirono sapendo che l'alleato da cui si stavano dissociando era di fatto padrone della situazione.

Quando gli Alleati proclamarono al mondo l’avvenuto armistizio, l'Alto Comando fu in grado di impartire ordini operativi di reale consistenza solo alle forze capaci di movimento autonomo: la Marina e l'Aeronautica. Che ubbidirono raggiungendo Malta e gli aeroporti dell'Italia liberata. Per le forze terrestri le possibilità strategiche erano pressoché nulle; ai vertici della gerarchia non vi erano personalità di eccezione capaci di affrontare il disastro incombente, e l'esercito si dissolse.

Solo a livello dei minori reparti, eccezionalmente di Divisione, si verificarono ovunque resistenze cruente contro i tedeschi che procedevano al nostro disarmo. Furono episodi fatalmente di breve durata, ed irrilevanti sul piano strategico; ma di enorme importanza sul piano psicologico e politico. Quei fatti d'arme spontanei, ed ancor più il rifiuto di tutti i militari italiani di proseguire la guerra accanto ai tedeschi, furono la conferma plebiscitaria che le masse avevano aderito alle decisioni di vertice di scindere il nostro destino dal destino dell'alleato nazista.

Secondo le clausole dell'armistizio gli Alleati affiancarono al Governo italiano una Commissione di controllo che era arbitra di ogni nostra attività politica: era composta da rappresentanti di Russia, Inghilterra e Stati Uniti d'America. Al nostro Stato Maggiore affiancarono una Commissione di controllo che era arbitra di ogni nostra attività politica: era composta da rappresentanti di Russia, Inghilterra e Stati Uniti d'America. Al nostro Stato Maggiore affiancarono una Missione, che era arbitra di ogni nostra attività militare: composta da ufficiali inglesi, aveva la sigla MIIA e noi la chiamammo subito “Mammamia”.

Era stato promesso un trattato di pace più o meno duro a seconda del nostro apporto alla guerra contro la Germania, e subito sollecitammo l'impiego sul fronte italiano delle quattro Divisioni che in Sardegna ed in Corsica si erano salvate dal crollo generale. “Mammamia” rifiutò le nostre offerte, altrimenti l'alleanza di fatto si sarebbe fatalmente trasformata in alleanza di diritto, sarebbe stato impossibile a fine guerra imporci un trattato di pace punitivo.

Ma la politica inglese tendeva pure a mantenere pure in piedi le strutture fondamentali dello Stato italiano, per assicurare alla fine del conflitto una certa stabilità politica generale nell'area del Mediterraneo; cosi in seno alla Commissione politica sosteneva la Corona, e non poté esimersi dal concederci almeno di far entrare in linea, nel novembre 1943, il I Raggruppamento Motorizzato.

Si trattava solo di pochi Battaglioni e di qualche Gruppo di artiglieria raggranellati in Puglia, che, inseriti nella V Armata americana sul fronte di Cassino, portarono a termine con grande sacrificio di sangue l'azione tattica della conquista di Montelungo.

Quel primo nucleo dell'esercito italiano che si ricostituì nel Sud sotto la guida di ufficiali di stato maggiore del governo Badoglio, era composto inizialmente da 10.000 uomini e in seguito, sia per il buon rendimento che per altre ragioni di ordine politico, portato a 25.000 e infine a 50.000 con armi ed equipaggiamenti "made in USA."

Il primo nucleo di combattenti del CIL era formato in genere da soldati lombardi e bergamaschi della divisione Legnano, reduci quasi tutti dai fronti russo, africano, greco-albanese, che l'armistizio aveva sorpreso nelle Puglie.

Il contributo delle Forze Armate regolari nella Resistenza e nella Guerra di liberazione
Il contributo delle Forze Armate regolari nella Resistenza e nella Guerra di liberazione
Il contributo delle Forze Armate regolari nella Resistenza e nella Guerra di liberazione
Il contributo delle Forze Armate regolari nella Resistenza e nella Guerra di liberazione
Il contributo delle Forze Armate regolari nella Resistenza e nella Guerra di liberazione

Frattanto gli Stati Uniti perseguivano in Italia una politica diametralmente opposta a quella dell'Inghilterra. Essi erano favorevoli all'impiego massiccio di nostre Grandi di Unità per farci poi ottenere lo status di alleati, ma temporaneamente davano il loro appoggio a quelle correnti politiche che tendevano a liquidare le Forze Armate, ancora legate alla Corona dal loro giuramento di fedeltà.

A sua volta la Russia perseguiva in Italia una politica diversa sia dall'Inghilterra sia dall'America. Essa da tre anni stava sopportando il maggior peso della macchina bellica tedesca, ed era sottoposta ad uno sforzo sovrumano: le incombenti necessità militari condizionavano ogni sua scelta politica. Era suo interesse che contro i tedeschi entrassero subito in linea le maggiori possibili forze Non aveva nessuna importanza che sul bianco delle bandiere ci fosse o non ci fosse lo scudo sabaudo, e poiché l’efficienza dell'esercito era in quel tempo naturalmente condizionata dalla Corona, Stalin, meno ambiguo di Churchill e più razionale di Roosevelt, ne aveva tratto tutte le logiche conseguenze.

Nel marzo 1944 Togliatti sbarcava a Napoli e dichiarava che il problema istituzionale doveva essere accantonato per costituire un Governo capace di creare un esercito il più forte possibile, che entrasse al più presto in linea contro i tedeschi. Cosi furono i russi e il ricostituito Partito Comunista a dare il più incondizionato appoggio politico e morale alle nostre Forze Armate regolari, che si andavano faticosamente ricostituendo tra inenarrabili difficoltà.

Nel gennaio 1944 il giovane generale di Brigata Utili fu inviato ad assumere il comando del I Raggruppamento, che "Mammamia" aveva già deciso di sciogliere inviando i suoi 5000 uomini a reparti lavoratori nelle retrovie. Utili non si rassegnò, saltò tutta la gerarchia, e riuscì a farsi ricevere dal generale Clark, comandante della V Armata americana. Il colloquio fu lungo e a momenti drammatico, ma alla fine ad Utili fu consentito di fare il tentativo di mettere in piedi validi reparti combattenti,  se in quelle condizioni era un'impresa ai limiti delle possibilità umane.

Alle truppe, Utili chiese il massimo che potevano dare ed affrontò combattimenti a mano a mano più impegnativi, nella misura in cui il morale dei reparti andava migliorando, anche se i disagi materiali seguitavano ad essere gravi, specie per l'insufficiente equipaggiamento.

Nel marzo 1944, a sottolineare la positiva valutazione del comportamento bellico dei nostri reparti, fu consentito che il complesso delle forze italiane combattenti assumesse il nome di Corpo Italiano di Liberazione, CIL. La nostra estrema debolezza politica non era in grado di smuovere l’Italia dalla equivoca posizione di "cobelligerante," ma i militari, con chiara visione degli obiettivi politici della nostra partecipazione alla guerra, riuscivano a porsi, almeno nel nome, sullo stesso piano degli alleati.

A fine maggio 1944 il CIL venne trasferito nel settore adriatico, e per tre mesi consecutivi fu impiegato senza soste all'inseguimento del nemico che con perfetta manovra ripiegava sulla linea Gotica, imbastendo successive valide linee di resistenza. Così molte genti d'Abruzzo, delle Marche e della Romagna ebbero il privilegio di non essere liberate da truppe straniere.

A fine agosto il CIL fu ritirato dalla linea di combattimento mento, ed il generale Browing, capo in testa di "Mammamia," venne a farci un discorso: " ... Voi del CIL avete reso un grande servizio all'Italia; se voi non aveste combattuto bene, gli Alleati non avrebbero mai accettato di costituire una più numerosa forza combattente italiana". Si trattava finalmente, di sei Divisioni.

Friuli" e "Cremona," che l'8 settembre si erano validamente battute contro i tedeschi in Sardegna ed in Corsica, erano già in approntamento; con il CIL si costituirono la "Legnano" e la "Folgore"; successivamente si sarebbero armate la "Mantova" e la "Piceno." Ma poi agli Alleati sembrò di aver concesso troppo: le Divisioni italiane si sarebbero chiamate Gruppi di Combattimento, e non sarebbero stati impiegati riuniti in un'Armata italiana, ma suddivisi alle dipendenze di Corpi d'Armata alleati. Tutto per attenuare le conseguenze politiche del nostro concorso allo sforzo bellico comune.

Tra gennaio e marzo 1945, Cremona, Friuli, Folgore e Legnano furono schierate sulla linea Gotica. Tutte presero parte all'offensiva generale che iniziò il 9 aprile sul fronte dell'VIII Armata inglese; il 14 entrò in azione la V Armata americana; il 21 aprile cadeva Bologna, saltava tutto il sistema difensivo tedesco, e sul piano strategico la guerra in Italia era conclusa e vinta.

Due Armate, centinaia di migliaia di tedeschi in armi si arresero con i loro comandi di Corpo d'Armata e di Divisione, perché sopravanzati dalle colonne corazzate che precludevano ogni via di ritirata aprendosi a ventaglio su tutta la Valle Padana.

Le nostre Forze Armate regolari avevano concorso vittoria con:

60.000  soldati del CIL e dei Gruppi di Combattimento

75.000 marinai che con le navi battenti bandiera italiana dopo l'8 settembre avevano compiuto cinquantamila azioni di guerra;

30.000 aviatori che con gli apparecchi italiani salvati dalla catastrofe avevano effettuato undicimila voli nel cielo nemico;

38.000 militari che al di là delle linee avevano combattuto nella quinta colonna, in formazioni partigiane “Autonome”, non alle dipendenze di questo o quel partito, ma riconoscendosi solo parte integrante delle Forze Armate regolari.

180.000 militari, infine, erano in forza alle Divisioni ausiliarie aggregate alla V e all'VIII Armata, o erano presenti nei reparti territoriali per gli indispensabili servizi delle retrovie.

Tra il settembre 1943 e l'aprile 1945 caddero in combattimento, o morirono nei lager tedeschi, o furono fucilati come partigiani, oltre 86.000 militari con le stellette.

Ma il più massiccio, il più martoriato, il più incredibile contributo alla Resistenza, fu dato dai seicentomila militari catturati dai tedeschi nel settembre 1943. Essi rimasero nei lager fino all'aprile 1945.

Bibliografia:

1945/1975 ITALIA. Fascismo antifascismo Resistenza rinnovamento.

Conversazioni promosse dal Consiglio regionale lombardo nel trentennale della Liberazione.

Feltrinelli Editore aprile 1975

Lire la suite
<< < 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 > >>