resistenza italiana
Concetto Marchesi ed Egidio Meneghetti, due figure del mondo della cultura nella Resistenza
di Ezio Franceschini (*)
Da una conversazione tenuta il 23 gennaio 1975 nell'Aula magna dell'Università Cattolica di Milano
Fra le non molte figure di combattenti che l'Università italiana diede alla Resistenza due delle maggiori furono certamente quella di Concetto Marchesi e di Egidio Meneghetti, rettori dell'Università di Padova immediatamente prima e immediatamente dopo la liberazione: antifascisti da sempre, ma che solo le vicende del 1943-45 misero in piena luce.
Il primo, Concetto Marchesi, catanese ma padovano di elezione, appartenuto fin dalle origini (1921) al Partito Comunista Italiano, universalmente famoso, allora, per la sua Storia della letteratura latina (1925), diffusissima e strumento non ultimo dell'amore alla libertà nei pochi giovani che vi credevano; noto farmacologo l'altro, il Meneghetti. Entrambi nell'Università di Padova avevano tenuto deste le speranze in tempi migliori vivendo, per quanto riguarda il fascismo, in modo che curialescamente, in altro piano, si sarebbe detto passivo: cioè nulla facendo per il regime che li aveva relegati a Padova in una specie di domicilio coatto, ma che non impediva loro di insegnare, timoroso del loro prestigio, purché non gli dessero troppe noie. E, in verità, troppe noie non gli diedero fino al 25 luglio 1943.
La caduta del regime trovò i due, come tutti del resto, impreparati. Concetto Marchesi stava riposando nella casetta di Cavo all'isola d'Elba. Traversò in barca lo stretto di Piombino e cominciò, per il suo partito, una vita febbrile fra Pisa e Milano, Milano e Roma, Roma e Padova, finché il 1° settembre fu nominato Rettore dell'Università di Padova dal Governo Badoglio, essendo ministro della Pubblica Istruzione Leonardo Severi. Nel rinnovare il Senato Accademico volle accanto a sé uomini di sicuro passato antifascista; fra gli altri, Manara Valgimigli, preside di Lettere, e - appunto - Egidio Meneghetti, preside di Medicina, dal 1° novembre anche pro rettore.
Ma intanto gli eventi precipitavano. Entrati i tedeschi a Padova, il 15 settembre Marchesi presentava le dimissioni; ma essendo state respinte dal nuovo Ministro Biggini (28 settembre) decise di rimanere al suo posto, unico fra i rettori di nomina badogliana, fra il malumore e le dei suoi stessi compagni di partito: in realtà, come egli stesso dirà agli studenti nel proclama del 1° dicembre, sperava di mantenere l'Università immune dalla offesa fascista e dalla minaccia tedesca, e di poter difendere gli studenti da servitù politiche e militari.
E difatti nei mesi di ottobre e di novembre furono numerosi gli esempi di indipendenza e di fierezza che ancora si ricordano a Padova; non ultimo il discorso del 9 novembre con cui apriva l'anno accademico "in nome dell’Italia dei lavoratori, degli artisti, degli scienziati"; e in cui si dicevano, fra l'altro, ad una gran folla di studenti non mancavano militi fascisti e osservatori tedeschi (il ministro Biggini e il prefetto di Padova erano presenti in forma privata), parole come queste: "Sotto il martellare di questo immane conflitto cadono per sempre privilegi secolari e insaziabili fortune; cadono signorie, reami, assemblee che assumevano il titolo della perennità; ma perenne e irrevocabile è solo la forza e la podestà del popolo che lavora e della comunità che costituisce la gente invece della casta. Signori, in questa ora di angoscia, fra le rovine di guerra implacata, si riapre l'anno accademico della nostra Università. In nessuno di noi manchi, o giovani, lo spirito della salvazione. Quando questo ci sia, risorgerà tutto quello che fu malamente distrutto, si compirà tutto quello che fu giustamente sperato. Giovani, confidate nell'Italia. Confidate nella sua fortuna se sarà sorretta dalla vostra disciplina e dal vostro coraggio; confidate nell'Italia, che deve vivere per la gioia e il decoro del mondo, nell'Italia che non può cadere in servitù senza che si oscuri la civiltà delle genti”.
In questo periodo Marchesi aveva dato origine con Meneghetti e con un altro grande esule da Venezia, Silvio Trentin, rientrato dalla Francia, al primo centro operativo ed organizzativo del Comitato Veneto di Liberazione e delle forze che venivano armandosi contro i tedeschi e i fascisti. Operavano alla luce del sole: protetti dalla loro alta carica e dal loro personale prestigio.
Ma non poteva durare così. Alla fine di novembre i tedeschi avevano deciso l'arresto di Marchesi. Ma questi, avvisato, si diede alla macchia; in un primo tempo a Padova stessa, nascosto nella casa di un compagno di partito, per preparare alcuni documenti da diffondere nei giorni seguenti (la lettera di dimissioni da Rettore, in data 28 novembre, è di questo periodo; e così pure il proclama agli studenti datato 1° dicembre) e prendere tutte le misure per la sua vita clandestina. Doveva, infatti, mettere al riparo da ogni possibile rappresaglia la moglie e la figlia che trovavano, allora, alle Muraccia, sul crinale appenninico fra Pisa e Lucca. Esse, avvertite subito, si nascosero con falsi documenti prima a Sanremo, poi in un paesetto della Liguria (Apricale) vicino al confine francese, ove rimasero indisturbate fino alla fine del conflitto. Rassicurato sotto questo aspetto, il Marchesi lasciò di nascosto il suo rifugio e venne a Milano, dove già si trovava il 29 novembre.
Pochi giorni dopo (5 dicembre) a Padova veniva diffuso in migliaia di volantini il suo noto proclama agli studenti in data 1° dicembre, che segnò l'inizio ufficiale della Resistenza armata nel Veneto, e il suo centro animatore l’Università. Esso, ripetuto a varie riprese da Radio Londra, e pubblicato in seguito infinite volte, è troppo noto per si debba ripetere qui. Basti la parte finale.
«Studenti: non posso lasciare l'ufficio di rettore dell'Università di Padova senza rivolgervi un ultimo appello. Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra Patria; vi ha gettato tra cumuli di rovine: voi dovete tra quelle rovine portare la luce di una fede, l'impeto dell'azione, e ricomporre la giovinezza e la Patria. Traditi dalla frode, dalla violenza, dall’ignavia, dalla servilità criminosa, voi, insieme con la gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia dell'Italia e costituire il popolo italiano. Non frugate nelle memorie o nei nascondigli del passato i soli responsabili di episodi delittuosi; dietro ai sicari c’è tutta una moltitudine che quei delitti ha voluto o ha coperto con il silenzio e la codarda rassegnazione: c'è tutta la classe dirigente italiana sospinta dalla inettitudine e dalla colpa verso la sua totale rovina.
Studenti: mi allontano da voi con la speranza di ritornare a voi, maestro e compagno, dopo la fraternità di una lotta insieme combattuta. Per la fede che vi illumina, per lo sdegno vi accende, non lasciate che l'oppressore disponga ancora della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l'Italia dalla servitù e dalla ignominia, aggiungete al labaro della vostra Università la gloria di una nuova più grande decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace mondo».
Dopo più di due mesi passati a Milano dove era facile restare nascosti, anche per molto tempo, ma non un uomo come lui, Marchesi prese contro voglia la via della Svizzera (9 febbraio 1944).
E gli altri? Silvio Trentin, che era stato arrestato alla fine del novembre 1943, moriva in un ospedale di Padova 12 marzo 1944 pronunciando parole che è bene ricordare "Che io muoia senza vedere la luce della faticata vittoria, dell'invocata giustizia, della riconquistata libertà ... che io chiuda. per sempre gli occhi in una camera d'ospedale … ch'io abbia perduto ogni bene e abbia veduto i migliori amici uccisi, dispersi, imprigionati, percossi dalle più disumane avventure, tutto questo non importa purché l’Italia si salvi".
Egidio Meneghetti aveva anch'egli una famiglia che adorava; ma questo caro legame di affetti gli fu crudelmente strappato dal bombardamento aereo del 16 dicembre 1943 che gli uccise la moglie e la figlia, già sue attive collaboratrici nella Resistenza.
Ecco dunque i due amici divisi: il Rettore, esule in Svizzera, dove i suoi amici, non lui, lo avevano voluto in salvo, l'altro, il prorettore, al suo posto di lotta, a Padova nella loro università, privo ormai anche di quei sacri affetti che rendono di solito titubanti, specialmente gli intellettuali davanti alle decisioni più gravi. Ora, a distanza di tanti anni, si capisce quanto sia stato giusto e provvidenziale che sia stato cosi: Marchesi, uomo dalle grandi visioni storiche, aveva come arma micidiale la parola, detta o scritta, ma era incapace di maneggiare una rivoltella, e non sapeva distinguere il nord dal sud; Meneghetti, uomo pratico per eccellenza, valoroso combattente della prima guerra mondiale, aveva il genio dell’organizzazione e sapeva scegliere gli uomini. Così, divisi materialmente, furono uniti quanto altri mai nella lotta, ciascuno a modo suo; e un frequentatissimo andare e venire clandestino di lettere ne coordinava l'azione: merito, questo, anche dell'industriale padovano Giorgio Diena (e della sorella Wanda) che, uomo di grande attività, era diventato in Svizzera il factotum di Marchesi.
Marchesi fu attivissimo presso i comandi alleati a Lugano, Zurigo, Berna; e tanto tempestò e fece che ottenne ogni aiuto possibile per il Comitato Veneto di Liberazione: armi, munizioni, esplosivi, materiali bellici di ogni genere, attraverso lanci aerei; per ottenere i quali quando gli pareva che fossero, come erano per necessità, troppo scarsi o lenti, egli scriveva lettere di questo tenore al Capo dei servizi tecnici alleati a Berna: "Le trasmetto con qualche esitazione una nuova richiesta di lancio. Una volta mi pareva che tali richieste riguardassero un'opera di comune utilità: e le presentavo con animo più sicuro. Ora comincio ad avere l'impressione di essere un mendico che continua a battere alla porta di un ricco signore che ci consigli di appartenere all'esercito della pazienza anziché a quello della Resistenza" (lettera del 20 luglio 1944, da Lugano).
Nella sua ansia di aiutare i partigiani non si accorgeva nemmeno, il Marchesi, di diventare ingiusto: perché gli Alleati avevano tutta l'Europa oppressa e angariata dai nazisti cui pensare e provvedere, non soltanto quella piccolissima parte che era il Veneto. Ma tale era il fascino della sua parola e della sua personalità che molto egli ottenne nei mesi che vanno dal maggio al dicembre di quel cruciale 1944; persino il tono dei "messaggi speciali bianchi" con i quali Radio Londra annunciava la venuta degli aerei sul Veneto e altrove, aveva il suo sigillo inconfondibile. È cessata la pioggia - il vento è spento - l'acqua va al mare - Nino legge il breviario - teorema di Pitagora - l'ippopotamo del Nilo: e cento altri.
E questo finché, cessati nel novembre i lanci, il 4 dicembre 1944 egli lasciò la Svizzera per Roma (via Francia) su invito del governo Bonomi, con alcuni altri illustri fuorusciti: Einaudi, Colonnetti, Boeri, Gasparotto, Facchinetti, Gallarati Scotti, Carnelutti, Jacini, Alessandrini (il viaggio, in aereo, da Lione ebbe luogo il 10 dicembre).
Cessava cosi la lunga parentesi svizzera e il rimorso Marchesi di non essere stato fra i combattenti veri della Resistenza: in realtà egli non fu mai, come in quel periodo, un vero combattente, con le sole armi che sapeva usare.
Ma torniamo ora nel Veneto, dove ferveva la lotta clandestina. Col passare del tempo le file degli umili si rinforzavano, quelle dei capi si diradavano; Norberto Bobbio era in prigione a Verona; Diego Valeri, condannato a trent’anni di reclusione, si era sottratto alla pena passando in Svizzera (5 aprile 1944). Restava imperterrito Meneghetti, capo indiscusso del movimento di Resistenza; dapprima a faccia scoperta; poi, dalla fine di settembre 1944 (aveva avuto l'incredibile abilità e audacia di resistere fino a quella data) ridotto a vita clandestina: "... lo e il fratello di Paola (prof. Zancan) ricercatissimi", scrive a quella data, "ordine di sparare a vista su di noi. Ma, aggiunge, "non ci vedono”.
Il 3 ottobre 1944 giungeva tuttavia un appello pressante: "Qui mi danno una caccia affannosa... ora stanno preparando un ricatto di questo genere. Se entro 15 giorni da oggi 3 ottobre non riescono a prendermi, i Tedeschi hanno deciso di prendere 200 ostaggi da mandare in Germania se io non mi consegnerò nelle loro mani. Bisognerebbe che Radio Londra trasmettesse che è felicemente arrivato in Svizzera il prof. M., farmacologo dell'Università di Padova e prorettore durante il rettorato Marchesi". Per opera di Marchesi, profondamente angustiato e preoccupato per le sorti dell'amico, che per evitare i 200 ostaggi si sarebbe certamente consegnato ai tedeschi, il desiderio venne prontamente accolto. Prima Radio Londra comunicò e poi tutti i giornali della Svizzera riportarono notizia dell'entrata nella Confederazione del prof. Meneghetti il 9 ottobre. Così i tedeschi, creduloni come sempre alle cose che avevano l'aspetto del vero, rinunciarono alla minaccia degli ostaggi e Meneghetti poté continuare a vivere e a operare a Padova. Aveva il tempo di pensare anche al futuro della città; ed era lieto di annunziare (9 ottobre) a Marchesi che per delibera del Comitato Veneto di Liberazione il primo prefetto di Padova libera sarebbe stato lui Marchesi, e il primo sindaco Lanfranco Zancan.
Ma poi fu la fine della stretta collaborazione Padova-Milano-Svizzera, proseguita ininterrottamente per dieci mesi. Il proclama Alexander (10 novembre 1944) poneva termine ai lanci; gli arresti del 20 novembre disperdevano il gruppo milanese, che non cessava tuttavia la sua attività; la cattura di Meneghetti a Padova, il 7 gennaio 1945, dava un duro colpo alla Resistenza veneta privandolo del suo capo. Meneghetti fu arrestato nella clinica del prof. Palmieri; condotto a Palazzo Giusti fu torturato, battuto con catene di ferro, tenuto costantemente ammanettato. Tenne sempre un contegno magnifico, ammirato dagli stessi nemici. Si era nel gennaio 1945 e i tedeschi, ormai sicuri della sconfitta vicina, erano favorevoli ai cambi di prigionieri. Così avvenne che attraverso vicende infinite Meneghetti ebbe salva la vita e in attesa di essere scambiato con un nipote del gen. Wolff, fatto prigioniero in Africa e portato in America, fu tenuto in Italia: prima a Padova, poi a Verona, poi nel campo di concentramento di Bolzano dove lo trovò la liberazione il 30 aprile 1945.
I due amici, Marchesi e Meneghetti, si rividero il mese dopo e ripresero il governo dell'Università: ma rivolgere agli studenti il loro saluto, essi avevano davanti agli occhi gli impiccati, i fucilati, i torturati, i non più tornati dai campi di sterminio della Germania, dell'Austria, della Polonia; pochissimi e non i professori, molti e dai nomi ignoti gli studenti: «Universitari padovani! Nel riprendere la direzione del vostro Ateneo, il nostro primo pensiero è rivolto a quelli che nella suprema battaglia di liberazione si offrirono alla Patria con l'eroico sacrificio. I loro nomi resteranno nella perpetuità della memoria. L'Università di Padova, che nel novembre 1943 iniziava il nuovo Risorgimento italiano e prima fra tutte sosteneva sino alla fine la lotta contro la più vile e feroce delle oppressioni, comincerà col nome dei suoi caduti i fasti della Sua gloria rinnovata.
Voi restituirete agli italiani il senso lieto della vita la coscienza della libertà che è la gioia di espandere il proprio pensiero e il proprio volere; restituirete la serenità dello spirito e delle opere a questo popolo nostro che nei tempi luminosi ha donato al mondo miracoli di arte e civiltà. La nuova Italia risorgerà con il lavoro che non si interrompe e con la fede che non vacilla; sorgerà dal lungo travaglio, calma e sicura come tutti i grandi sacrifici destinati a vivere nei secoli. "Il destino ha voluto fecondare dinanzi a voi tutti i germi del male. Quest'albero attossicato dalla terra lo conoscete voi nati e cresciuti alla sua ombra. Recidetene i rami, non dimenticate la radice. Questa bisogna estirpare e distruggere. È profonda ma è visibile: la rintraccerete se non avrete dimenticato il dolore della terra. E finché ci basti la vita noi maestri vi saremo compagni nel vostro cammino». (26 maggio 1945).
Il 12 novembre 1945 Ferruccio Parri, capo del primo governo dell'Italia libera, appuntava sul labaro dell'Università la medaglia d'oro al valor militare della Resistenza: unica fra le università italiane. La motivazione, dettata da Concetto Marchesi, dice:
«Asilo secolare di scienza e di pace, ospizio glorioso munifico di quanti da ogni parte d'Europa accorrevano ad apprendere le arti che fanno civili le genti, l'Università Padova nell'ultimo immane conflitto seppe, prima fra tutte, tramutarsi in centro di cospirazione e di guerra; né si piegò per furia di persecuzioni e di supplizi; dalla solennità inaugurale del 9 novembre 1943, in cui la gioventù padovana urlò la sua maledizione agli oppressori e lanciò aperta la sfida, sino alla trionfale liberazione della primavera 1945, Padova ebbe nel suo Ateneo un tempio di fede civile e un presidio di eroica resistenza; e da Padova la gioventù universitaria partigiana offriva all'Italia il maggiore e più lungo tributo di sangue. Al labaro dell’Università padovana, che conobbe altre insegne di virtù militari si aggiunga ora la più alta decorazione al valore, testimonianza di un sacrificio e di una vittoria che resteranno ammonimento ed esempio».
Concetto Marchesi morì a Roma il 12 febbraio 1957. L’11 febbraio 1961 ne fu tenuta la commemorazione ufficiale all’Accademia dei Lincei alla presenza di Luigi Einaudi, allora presidente della Repubblica, che gli era stato vicino in Svizzera e compagno nel volo Lione-Roma del 10 dicembre 1944. Meneghetti, senza dir nulla a nessuno, volle essere presente: e ritornò a Padova in silenzio come era venuto. Fu l'ultima volta che lo vidi: tre settimane dopo anch’egli moriva (4 marzo 1961).
In questi due uomini l'Università di Padova ebbe due Rettori di eccezione in tempi difficilissimi; la scuola italiana due esempi di vita; la Resistenza due combattenti valorosi. E merito loro, e di pochi altri, se il mondo dei docenti universitari, chiuso nei suoi egoismi e pavido nella avversità per i troppi beni, o creduti tali, che ha da difendere, non ha trascorso anche quest'ultimo Risorgimento avvolto nella nebbia dell'indifferenza, dell'assenteismo e della paura.
In conclusione dobbiamo amaramente dire che anche nella Resistenza del 1943-45 riscontriamo molto diffuso il fenomeno noto col nome di “tradimento degli intellettuali” Se ancora una volta gli umili non fossero assurti a guida della storia, le pecore accademiche starebbero ancora facendo la loro tranquilla siesta paghe di non essere disturbate e la loro abbondante lana fornirebbe l'orbace alle quadrate legioni.
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(*)Ezio Franceschini capitano degli Alpini, è stato partigiano combattente: il suo gruppo si chiamava FRAMA (dalle iniziali sue e di Concetto Marchesi), e operò dal novembre 1943 fino alla Liberazione. È stato professore ordinario all'Università Cattolica di Milano dopo esserne stato rettore dal 1965 al 1968, e per molti anni preside della Facoltà di Lettere e Filosofia.
Bibliografia:
1945/1975 ITALIA. Fascismo antifascismo Resistenza rinnovamento.
Conversazioni promosse dal Consiglio regionale lombardo nel trentennale della Liberazione.
Feltrinelli Editore aprile 1975
La scuola che resiste
Nel novembre 1943, all'apertura dei corsi universitari la ribellione si estende alla scuola. La Resistenza veneta è guidata da tre professori universitari: Silvio Trentin rientrato clandestinamente dall'esilio francese, Concetto Marchesi, Egidio Meneghetti: l'antica Università padovana non mancherà la dichiarazione di guerra al nazifascismo. Bisogna però attendere che si apra l'anno accademico. Così fino a novembre il mondo universitario combatte il fascismo nelle città e nelle campagne, i professori partecipano ai convegni della cospirazione, gli assistenti Pighin, Carli, Zancan percorrono il Veneto per organizzarla; e il CLN tiene le sue sedute proprio nel palazzo Pappafava dove ha posto la sua sede il ministero della Educazione nazionale repubblichino.
La battaglia nella scuola si accende alla data fissata. Il 9 di novembre il rettore Concetto Marchesi apre l’ anno accademico con un primo inequivocabile gesto di ostilità al nazifascismo: dal suo ufficio non è partito alcun invito alle autorità per assistere alla cerimonia. Ci vengono in forma «privata» il ministro Biggini e il prefetto Fumei. Il fascismo padovano cade in un grossolano errore, manda nell’aula una squadra di giovani armati che salgono sul palco proprio mentre entra il rettore magnifico seguito dal professor Mereghetti. I due docenti si gettano d'impulso contro i fascisti mentre l'adunanza degli studenti urla «via gli armati!». Gli intrusi sono costretti ad allontanarsi e il rettore pronuncia la memorabile allocuzione, l'atto di fede nella libera Università: «Qui dentro si raduna ciò che distruggere non si può». Marchesi esalta nel mondo del lavoro una civiltà opposta alla nazifascista e dichiara aperto l'anno accademico nel nome « del lavoratori, degli artisti, e degli scienziati». Il 28 novembre il rettore deve rassegnare le dimissioni e trasferirsi sotto falso nome a Milano; ma lascia un nobile messaggio agli studenti: «Oggi non è più possibile sperare che l’Università resti asilo indisturbato di libere coscienze operose, mentre lo straniero preme alle porte dei nostri istituti e l'ordine di un governo, che per la defezione di un vecchio complice ardisce chiamarsi repubblicano, vorrebbe convertire la gioventù universitaria in una milizia di mercenari e di sgherri massacratori... Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra patria; vi ha gettato tra cumuli di rovine. Voi dovete tra quelle rovine portare la luce di una fede, l’impeto dell'azione e ricomporre la giovinezza e la patria. Traditi dalla frode, dalla violenza, dalla ignavia, dalla servilità criminosa, voi insieme con la gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia dell'Italia e costituire il popolo italiano».
La resistenza della scuola romana prende invece l’avvio da gruppi studenteschi di formazione spontanea: l'Associazione rivoluzionaria studentesca guidata da Ferdinando Agnini e da Gianni Corbi; il gruppo azionista promosso da Pier Luigi Sagona; quello comunista di Dario Puccini e di Carlo Lizzani. Di fronte alla minaccia fascista di escludere dagli esami universitari quanti non si sono presentati ai distretti i vari gruppi si uniscono, danno vita a un Comitato studentesco di agitazione e a un Comitato tecnico diretto da Maurizio Ferrara che si mette alla testa della prima grande manifestazione antifascista del 17 gennaio. Gli studenti di medicina entrano nel Policlinico, stracciano i registri, percuotono i fascisti. di guardia. Maurizio Ferrara, salito su una panchina, incita i colleghi alla ribellione. Si forma un corteo, c'è uno scontro a fuoco, un giovane è ferito, altri arrestati.
A Milano e a Torino, capitali della resistenza armata le Università sono i distretti della ribellione, da esse partono i quadri delle bande. Gli ultimi mesi del 1943 insegnano che la partecipazione attiva alla Resistenza (lo scrive a un amico Giaime Pintor) è l'unica possibilità aperta a un intellettuale che voglia operare per il riscatto del Paese. Gli studenti universitari, in particolare, non possono mancare la prova. Sono i giovani borghesi giunti all'antifascismo attraverso il fascismo: la guerra partigiana è il suggello delle conversioni sincere.
Il lungo viaggio
Gli studenti o i laureati fra i venti e i trent'anni che partecipano alla Resistenza vi giungono da esperienze diverse, ma tutte compiute dentro il fascismo. Il loro è stato un lungo cammino che ora, essendo resistenti, ripercorrono con la memoria, senza mentire a se stessi. Fino al 1938, la maggioranza ha partecipato al fascismo: rassegnata alla sua inevitabilità, sedotta da certe proposte. Non quella di un fascismo sociale che promette un socialismo «più umano, più moderno», riservata a pochi ingenui; ma le altre dei vantaggi concreti, offerti ai giovani borghesi da una dittatura borghese. Fino al '38 i giovani sono fascisti o filofascisti non solo per la ragione ovvia di essere nati dentro il fascismo, ma perché credono di poter ottenere dal fascismo occasioni e promozioni gradite al loro forte appetito, tanto forte da soffocare nei più i primi dubbi e il fastidio morale per le menzogne e le sopraffazioni del regime. I giovani vedono nel fascismo tre possibili vantaggi: una promozione dei ceti medi, una maggiore efficienza amministrativa, una crescente disponibilità di impieghi. Vantaggi in gran parte illusori, ma ci vorrà il lungo cammino fino al '43 per capirlo. Prima del '38 la gioventù borghese e studiosa capisce poco e male la struttura sociale del fascismo:
La personalità di Mussolini nasconde, ai suoi occhi, il «consorzio dei privilegi»; l'avventura imperialistica la distrae dall'affarismo autarchico. E poi il grande capitale faccia pure i suoi affari purché lasci ai borghesi famelici la sua rappresentanza politica e amministrativa. È difficile per i giovani capire che la promozione dei ceti medi è dovuta ai tempi più che al regime; per loro coincide con esso: allevati in famiglie assillate dal pensiero del posto sicuro, essi vedono nel fascismo imperialistico una fabbrica di nuovi posti, e non hanno motivi per rifiutare la propaganda sull'efficientismo del regime. Il regime non è privo di scaltrezza, concede ai giovani una libertà vigilata, li lascia scrivere, dibattere fino a un certo limite sui giornali studenteschi o durante le competizioni culturali come i «littoriali».
L'appetito dei giovani è robusto, la loro preparazione culturale mediocre; eppure il fastidio morale c'è e cresce, molti giovani sono già entrati nel lungo cammino e non lo sanno, sarà l'anno 1938 a rivelarlo, con turbamento e dolore. Il 1938 è l'anno in cui la Germania nazista annette l'Austria e in cui l'Italia fascista si accoda alla persecuzione razziale: così ammettendo pubblicamente la sua qualità di nazione subalterna, al rimorchio dell'imperialismo germanico. È soprattutto la persecuzione razziale, con la sua ignominia gratuita, a far «precipitare» tutti gli scontenti morali per l'ipocrisia, per il conformismo, per la servilità della dittatura. Con la vigilia della guerra e con la guerra il distacco morale trova le conferme della ragione, diventa distacco definitivo: non solo e non tanto perché la guerra dimostra l'inefficienza del regime e fa cadere le proposte e le speranze dei vantaggi, ma perché si capisce, da alcuni in modo oscuro, da altri con un principio di chiarezza, che è sbagliata la scelta in sé, la scelta della guerra imperialistica. Una guerra per il dominio mondiale in cui l'Italia entra avendo già perso quello fra i Paesi fascisti, e proprio quando l'imperialismo capitalistico sta per rinunciare dovunque ai rapporti coloniali, quando la rivoluzione industriale esclude lo schiavismo del tipo barbarico. La guerra mette a nudo la povertà intellettuale e morale del regime, segna il naufragio dell'intera classe dirigente.
I giovani assistono umiliati, delusi. Alcuni reagiscono rifugiandosi in quella indifferenza che è già disponibilità per una nuova scelta; altri, i più razionali, si sorprendono a desiderare la vittoria del nemico, a rallegrarsi se l'Inghilterra o la Russia resistono, se l'America interviene: preferendo essere liberi nella sconfitta che schiavi nella vittoria; altri ancora, i più sentimentali, i più sensibili ai tormenti delle responsabilità personali, cercano la bella morte sui campi di battaglia, come Giani, Pallotta, Sigieri Minocchi. C'è anche una minoranza di intellettuali come Alleata, Ingrao, Pintor, che possono passare all'antifascismo militante; ma per la maggioranza il lungo viaggio non è ancora finito, passa per gli anni della guerra, per la vergogna della disfatta, anche per i primi mesi della Resistenza. Perché i resistenti borghesi che sul finire del '43 ripensano il lungo cammino capiscono solo ora di avere ignorato gli altri ceti e la loro oscura pena: ora che stanno nella guerra di tutti, con gli operai e con i contadini.
Bibliografia:
Giorgio Bocca ”STORIA DELL'ITALIA PARTIGIANA”
Casa editrice G. Laterza & Figli, Bari gennaio 1980
Carlo e Nello Rosselli a 80 anni dalla morte
9 giugno 1937 - 9 giugno 2017
Parigi, sabato 19 giugno 1937.
33 di Rue La Grange-aux-Belles, quartiere operaio.
Una stradina stretta trasformata in viale fiorito per gran numero di corone e fasci di fiori porta alla «Maison des Syndicats».. Nella grande sala delle assemblee due feretri, drappeggiati di velluto carminio, quasi scompaiono sotto fiori e nastri, rossi, le ghirlande, rosse, foglie di quercia e d'alloro. Sono quelli di Carlo e Nello Rosselli, rispettivamente di 38 e 37 anni.
Erano stati uccisi tre giorni prima, il 9 giugno, da un gruppo terroristico filofascista, la «Cagoule», Organisation Secrète d'Action Révolutionnaire Nationale, a Bagnoles-de-l'Orne, una città termale in Bassa Normandia, a circa 230 chilometri da Parigi, famosa per i suoi fanghi benefici alle affezioni del sistema venoso e specialmente alle flebiti. Carlo era arrivato a Bagnoles-de-l'Orne il 17 maggio 1937, per curarsi di una flebite, di cui aveva già sofferto da ragazzo e che si era ridestata in Spagna, dove era al comando di una colonna di antifascisti sul fronte aragonese. Lo aveva poi raggiunto il fratello Nello.
Alle 14 l'orchestra della «Federazione Sinfonica dei Concerti Poulet e Siohan», diretta da Siohan, esegue la Settima sinfonia di Beethoven.
Poi una folla dei grandi appuntamenti storici accompagna i Rosselli al cimitero Père-Lachaise. Li seppelliscono all'ombra degli ippocastani, verso il «Mur des Fédérés», davanti al quale nel 1871 furono fucilati gli insorti della Comune. In tombe vicine, Eugenio Chiesa, Gobetti, Turati, Treves .
Sul quotidiano di proprietà del mandante Galeazzo Ciano la notizia del delitto è data sabato 12 giugno 1937 con questo sfrontato sottotitolo: «Si tratta senza dubbio di una "soppressione" dovuta ad odii tra diverse sette estremiste».
Secco l'incipit del documento diffuso dal Comitato centrale di Giustizia e Libertà: «Noi denunciamo in Benito Mussolini il mandante dell'assassinio perpetrato in Francia dai sicari fascisti contro Carlo e Nello Rosselli». Un'accusa che la ricerca storica non invaliderà. Significative le conclusioni di Renzo De Felice al termine dell' attenta ricognizione di un robusto apparato documentale: «La documentazione oggi disponibile prova senza ombra di dubbio che il delitto fu commesso su mandato del Sim e che la uccisione di Carlo Rosselli era stata studiata almeno dal febbraio nel quadro di un'azione volta a sopprimere varie "persone incomode" e cioè esponenti attivi dell'antifascismo impegnati nel sostegno della Spagna repubblicana e nella denuncia dell'intervento italiano contro di essa. Mentre le indagini e i procedimenti penali svoltisi in Francia contro gli esecutori materiali del delitto e i loro capi francesi non hanno mai ufficialmente affrontato il problema dei mandanti stranieri, gli elementi emersi nel corso di quelli svoltisi in Italia dop la caduta del fascismo non lasciano dubbi, anche se alla fine, la serie dei processi celebrati si è conclusa con un'assoluzione generale. Come ha scritto Salvemini che più di ogni altro ha approfondito le vicende del delitto e dei processi ai quali esso ha dato luogo, "è certo che il delitto fu compiuto da cagoulards francesi per mandato ricevuto da un ufficiale del Sim, Navale; che costui ricevé il mandato dal suo superiore del SIM Emanuele; che costui lo ricevette certamente da Galeazzo Ciano". Secondo Salvemini, "è assai difficile per non dire impossibile" pensare che Ciano avesse agito di testa sua "e non per esegire una volontà di Mussolini".
Nel 1951 i familiari ne traslarono le salme in Italia, nel cimitero Monumentale di Trespiano, nel piccolo borgo omonimo, nel comune di Firenze, sulla via Bolognese. La tomba riporta il simbolo della “spada di fiamma”, emblema di GL, e l’epitaffio scritto da Calamandrei: «GIUSTIZIA E LIBERTÀ / PER QUESTO MORIRONO / PER QUESTO VIVONO».
Nello stesso cimitero sono sepolti Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Piero Calamandrei e Spartaco Lavagnini.
Bibliografia:
Giuseppe Fiori – Casa Rosselli – Einaudi 1999
L’Italia in esilio. L’emigrazione italiana in Francia tra le due guerre a cura di:
Archivio Centrale dello Stato Roma
Centre d’Etudes et de Documentation sue l’Emigration Italienne, Paris
Centro Studi Piero Gobetti,Torino
Istituto Italiano di Cultura, Paris
gli scioperi del marzo 1944 nell'Italia occupata
1° marzo 1944, ore 10: la quasi totalità delle maestranze dell'Italia settentrionale e della Toscana entra in sciopero.
Il proletariato industriale era quello che più vigorosamente partecipava alla lotta contro i tedeschi e i fascisti e lo aveva dimostrato con gli scioperi del 1943 e si accingeva a dimostrarlo, ancora una volta, con un grande sciopero che dal gennaio si stava preparando nelle città industriali del Nord. I motivi economici di questo nuovo sciopero erano di un'estrema evidenza: nulla era stato accordato ai lavoratori di quanto era stato loro promesso nel novembre e nel dicembre: i supplementi alimentari non venivano più concessi; la razione di pane a Milano era stata ridotta di 100 grammi; in alcuni stabilimenti non si completava il pagamento del premio di Natale (500 lire più paga per 192 ore di lavoro); il costo de a vita continuava ad aumentare, mentre la borsa nera s'inaspriva sempre più. Ma accanto ai motivi economici, ve ne erano altri politici: impedire il trasferimento del macchinario e l'invio degli operai in Germania (nel mese di febbraio la stampa clandestina annunciava che gli sporadici invii di uomini sarebbero ben presto stati seguiti da un invio in massa: Milano avrebbe dovuto fornire entro il mese di marzo ben 130.000 lavoratori); far cessare la produzione bellica e imporre la ripresa di quella civile; mettere fine alle cruente repressioni dei partigiani. Tutto ciò significava compromettere in maniera irreparabile lo sforzo bellico tedesco e si poteva immaginare come sarebbe stata violenta la reazione dei tedeschi e dei fascisti; ma gli operai l’affrontarono senza timore, consapevoli dei loro insopprimibili diritti e forti della loro segreta organizzazione che li dirigeva con abilità.
Il 10 febbraio il Comitato segreto d'agitazione del Piemonte, della Lombardia (il Comitato di agitazione di Lissone era diretto da Giuseppe Parravicini) e della Liguria diramava un manifesto in cui, dopo aver specificato le rivendicazioni economiche (un effettivo aumento delle paghe, proporzionato all'aumentato costo della vita; un effettivo aumento delle razioni alimentari per tutti; l'effettivo pagamento delle gratifiche promesse in dicembre), si chiedeva che cessassero tutte le violenze fasciste e naziste contro gli operai. «Dobbiamo rifiutarci di continuare a produrre per la guerra fascista»; i lavoratori italiani dovevano restare in Italia a lavorare per il popolo italiano e doveva essere sventato il piano tedesco di trasportare l'industria del nostro paese in Germania.
Si annunciava inoltre che il Comitato segreto di agitazione del Piemonte, della Lombardia e della Liguria avrebbe chiamato ben presto tutti i lavoratori allo sciopero generale : «Scioperate allora compatti, come avete fatto in novembre, in dicembre e in gennaio».
Questo appello era subito accolto dai Comitati d'agitazione clandestini (anche dal Comitato di agitazione clandestino di Lissone) costituitisi nelle varie regioni, nelle varie città e in tutte le fabbriche, dimostrando che la preparazione di questo sciopero era stata veramente minuta e accurata, a differenza degli scioperi precedenti, scoppiati per estemporanee iniziative.
A Milano ad esempio i delegati rappresentanti i comitati agitazione clandestini dei grandi stabilimenti della città della provincia, riunitisi per esaminare la insopportabile e triste condizione che s'è venuta a creare fra la massa lavoratrice, denunciano:
«che le irrisorie concessioni strappate con l'azione di dicembre e gennaio sono già superate dal vertiginoso aumento dei prezzi; che i pochi generi alimentari concessi in dicembre, sono già stati dimezzati, con tendenza a farli sparire; che il tentativo bloccare i prezzi, ha servito solo a far eclissare dal mercato i generi calmierati; che i generi di vestiario, combustibile, gomme per biciclette, ecc., non furono distribuiti, o lo furono in misura esigua da non soddisfare nessuno;
che le promesse fatte nel momento in cui i lavoratori erano in sciopero, sono state negate e disconosciute allorché le masse hanno ripreso il lavoro; che l'assicurazione data di una revisione di salari alle categorie a paghe basse, non è stata praticata; che la liberazione Patrioti e l'eliminazione delle violenze fasciste, si tradusse moltiplicarsi degli arresti, di persecuzioni, violenze, instaurando la fucilazione sommaria dei Patrioti o dei loro familiari ...
Per il raggiungimento delle rivendicazioni su esposte e per rigettare le manovre infami di divisione escogitate dalla reazionaria coalizione, non vi è altra via per le masse lavoratrici che
quella tracciata dall'appello lanciato dal Comitato segreto di agitazione del Piemonte, Lombardia, Liguria, per una rapida preparazione allo sciopero generale, che abbracci tutte le forze dell'Italia occupata dal barbaro tedesco. Essi affermano inoltre che ad eventuali tentativi del nemico di soffocare con la violenza le sacrosante aspirazioni dei lavoratori, questi risponderanno con la violenza, legando la propria azione a quella dei Distaccamenti Garibaldini, avanguardia armata del proletariato ...
Dall’Archivio del C.L.N.A.l. Milano. La mozione è firmata dai delegali delle fabbriche: Breda, Pirelli, Caproni, Marinelli, Acciaierie e Ferriere Falk , Borletti, Motomeccanica, Brown-Boveri , Innocenti, Magnaghi, Alfa Romeo».
In un altro proclama del 26 febbraio, il C.L.N.A.l. richiedeva il concorso attivo di tutta la popolazione per salvare i giovani che non intendevano arruolarsi: «Cittadini, i despoti fascisti, affiancati dall'invasore tedesco, chiamano alle armi i giovani delle classi '22, '23, '24, '25, minacciando la fucilazione a chi non rispondesse all'appello. Sappiate che incombe su loro la minaccia di partire per la terra tedesca, per combattere su fronti lontani o per costruire opere guerresche e rendere più salda la roccaforte della tirannia nazista. I giovani che non rispondono alla chiamata del sedicente governo di Mussolini, non sono disertori. Sono fierissimi cuori che vogliono dare, se occorre, la loro giovinezza per difendere, non opprimere la patria».
Avvicinandosi la data fissata per l’inizio dello sciopero, le autorità, scorgendo la decisa volontà della massa operaia, cercarono di correre ai ripari e rendere meno grave la sconfitta che ormai prevedevano certa, con provvedimenti di emergenza, con contromisure che si riveleranno inefficaci. Anzitutto obbligarono alcune aziende a chiudere, proprio a cominciare dal 1° marzo e per la durata di una settimana, con la scusa della mancanza di energia elettrica; in talune città passavano anche alle aperte minacce, ed a Genova il capo della Provincia pubblicava, la mattina del 1° marzo, un manifesto con cui tentava di intimorire gli operai lasciando loro intravvedere la deportazione in Germania.
Pur con tutto ciò, alle ore 10 del 1° marzo la quasi totalità delle maestranze dell'Italia settentrionale e della Toscana scioperò. Secondo le stesse statistiche di parte fascista, sospesero il lavoro, in quella prima settimana di marzo, più di duecentomila operai e per quanto tale cifra fosse ritenuta esigua da parte dei fascisti in confronto ai lavoratori occupati, tuttavia essa sta a dimostrare che lo sciopero raggiunse una notevole imponenza.
Lo sciopero proseguì compatto fino all'8 marzo quando i responsabili antifascisti diedero l'ordine della ripresa del lavoro, senza lasciarsi allettare da lusinghe né intimorire da minacce.
A Milano sospesero il lavoro anche i tranvieri, reclamando il miglioramento della mensa e della «massa vestiario », oltre alla soluzione della dibattuta questione della fermata durante gli allarmi aerei; asportarono i manettini della marcia e delle valvole per impedire che si tentasse di riprendere il servizio. Elementi fascisti della «Muti» e della «X Mas» fecero uscire ugualmente alcune vetture, ma causarono notevoli danni alle linee ed alle stesse vetture, tanto che ritennero meglio cercare di far ritornare al lavoro i tranvieri. E allora, il 2 marzo, squadristi armati bloccarono alcune loro abitazioni e dopo averli condotti in caserrna li obbligarono a riprendere in parte il servizio. Molti riuscirono a fuggire, mentre una sessantina venivano deportati in Germania, da cui ben 38 non dovevano più ritornare.
«Il podestà Eccellenza Parini ha preso, nei confronti dei tranvieri e operai dell'Azienda che hanno partecipato allo sciopero, un provvedimento inteso ad ammonirli che non si scherza in tempo di guerra. Poiché ci sono stati dei danni, è giusto che li paghino i tranvieri. Fatto fare un preciso conto, il minor introito avutosi sui tranvai, nelle giornate del 2, 3 e 4 marzo, ammonta a L. 1.243.866,65; a questa somma va aggiunta quella di L. 782.000 per i danni causati, in seguito agli urti di 121 vetture, dai tranvieri improvvisati. Un totale, quindi, di lire 2.025.866,65 che i tranvieri rimborseranno all'Azienda mediante trattenuta che sarà divisa in varie rateazioni, detratte le giornate di paga non riscosse ».
Il CLN con un comunicato del 15 marzo promise ai tranvieri il rimborso da parte del Comune di Milano, a liberazione avvenuta: i fondi sarebbero stati prelevati dai beni delle autorità fasciste e da quelli del P.F.R.
Sempre a Milano entrarono in sciopero anche le maestranze del “Corriere della Sera”, per due giorni, togliendo in tal modo ai fascisti la possibilità di mantenere il contatto con la popolazione. Al “Corriere della Sera” il lavoro venne ripreso solo in seguito alla minaccia tedesca di smontare le macchine e di trasferirle in Germania.
Bibliografia:
Franco Catalano – Storia del C.L.N.A.I. – Laterza 1956
Sandro Pertini
Alessandro Pertini ha 47 anni quando, il 25 luglio 1943, cade Mussolini e più di 13 ne ha trascorsi in carcere o in domicilio coatto. Nel '68 diventa presidente della Camera e nel 1978, ottantaduenne, capo dello Stato. Nel corso del settennato ottiene grande prestigio e uno straordinario consenso popolare.
Questo è il racconto di Pertini Alessandro, del fu Alberto e di Muzio Maria, avvocato, socialista, confinato politico nell'isola di Ventotene.
25 luglio 1943: come vissero quel giorno
«Domenica 25 luglio: una serata come tutte le altre. Quando la radio diede il comunicato ci avevano già rinchiusi nel camerone. Eravamo più di settecento, nella stragrande maggioranza comunisti: Longo, Terracini, Scoccimarro, Camilla Ravera, Secchia. Poi c'erano Ernesto Rossi e Riccardo Bauer del Partito d'Azione, e anche degli anarchici, gente che veniva dalle prigioni, naturalmente, che aveva fatto la guerra in Spagna, che era stata nei campi di concentramento francesi.
Alcuni di noi, ritenuti "pericolosissimi", godevano di un trattamento speciale: venivano sorvegliati a vista. La mattina del 26 notai che i militi che avevano la consegna di pedinarmi erano costernati. Un agente gridò: "C'è una comunicazione importante: tutti in piazza". Era lì che ci riunivano per l'appello; quando veniva letto il nostro nome bisognava rispondere "Presente". Una guardia non seppe star zitta, e si lasciò scappare una notizia che aspettavamo da vent'anni: "Hanno arrestato Mussolini".
Scoprimmo così che c'era un nuovo governo, presieduto dal maresciallo Badoglio, che la guerra continuava. Scoppiò un applauso, ma non si videro scene di esultanza clamorose; il sentimento che prevalse fu un senso di angoscia per quel che ci aspettava: una eredità fallimentare.
Presi subito contatto con alcuni compagni: "Se non stiamo attenti," dissi "può accadere qualcosa di grave". Costituimmo un comitato, ne facevano parte, ricordo, anche un albanese, che fu ucciso al ritorno in patria, e un libertario, Giovanni Damaschi, impiccato poi durante la lotta partigiana.
Chiedemmo di essere ricevuti dal direttore della colonia penale, il commissario Guida, che diventò poi questore di Milano. Lo trovammo nel suo ufficio, era pallido, nervoso, aveva già fatto togliere il ritratto del duce. Gli spiegai che da quel momento era il comitato che comandava, e lui doveva collaborare con noi, e come primo gesto, come prima prova di conversione, era opportuno che impartisse l'ordine alla Milizia smetterla di tenerci dietro, e quei giovanotti avrebbero fatto anche bene a togliersi la camicia nera e i distintivi e le cimici come le chiamavamo. Il dottor Guida poteva, saggiamente per evitare inconvenienti, incorporarli nell'Esercito. Gli chiedemmo di far presente, con forte urgenza, al ministero dell'Intemo, che c'era una logica conseguenza dei fatti: dovevamo essere tutti liberati e senza troppe formalità [...].
Il tempo, nell'attesa, passava lentamente, continuava ad arrivare il battello che partiva da Gaeta e trasportava i rifornimenti, la posta, i giornali; quando doveva sbarcare bestiame non c'era attracco, lo buttavano in acqua, con forti urla lo spingevano alla riva.
Vedemmo arrivare anche una corvetta, che gettò l'ancora in una insenatura. A bordo c'era Mussolini. Scesero dei funzionari della Sicurezza, e avevano già deciso: lo avrebbero scaricato lì, ma ad un tratto si imbatterono in un ufficiale tedesco. Chiesero a Guida cosa ci stava a fare e così seppero che sulla costa c'era una batteria antiaerea, con cento soldati. Allora pensarono di cambiare rotta. Non tenevano in alcun conto la nostra presenza e il rischio che comportava. Andammo subito dal direttore per fargli presente il pericolo; ci disse: "So perché siete venuti, ma state tranquilli. Lo hanno già portato a Ponza".
«Lo misero nella casa dove lui aveva fatto alloggiare Ras Imerù, l'abissino che aveva guidato le truppe del Negus e che, dopo la sconfitta, rifiutò di sottomettersi. Era un uomo pieno di dignità, alto, severo, portava un lungo mantello nero.
«Mussolini io lo vidi dunque una sola volta: all'arcivescovado di Milano, nell'aprile del 1945, lui scendeva le scale, io le salivo. Era emaciato, la faccia livida, distrutto [...].
Ed ecco il fausto momento: partì finalmente il primo veliero, ci furono molti abbracci, e quelli che se ne andavano stavano aggrappati alle sartie per salutarci, e noi eravamo lì sul molo, quelli sventolavano i fazzoletti, c'era un confinato che aveva portato con sé il bombardino, lo aveva salvato nelle trincee delle Asturie, nei campi di Vichy, attaccò l'Inno di Mameli e noi ci mettemmo a cantare, con passione, con ira, "va fuori d'Italia", e quelli della Wehrmacht, che capivano, ci fissavano cupi [...].
Un giorno il direttore mi mandò a chiamare: "Ho una bella novità per voi. E arrivato un telegramma che dispone per la vostra liberazione". Grazie, dissi. Però non me ne vado finché qui resta uno solo di noi. Ma Camilla Ravera, che diede sempre prova di una straordinaria forza morale, Terracini e altri, mi convinsero che dovevo partire, per andare a perorare la causa dei detenuti, così non diedi pace a Senise, Capo della Polizia, e a Ricci, che era agli Interni, li andavo a trovare ogni giorno con Bruno Buozzi. Erano restii, avevano nei confronti dei comunisti paura e odio. Minacciammo uno sciopero generale, e l'argomento li convinse. Quando arrivò l'ultimo di Ventotene, potei andare a trovare mia madre. Era molto vecchia e mi attendeva. Stava sempre seduta su un muretto che circondava la nostra casa. "Che cosa fa, signora?" le domandavano. "Aspetto Sandro", rispondeva. Poi rientrai nella capitale. Ero diventato, con Nenni, con Saragat, membro dell'esecutivo del partito e con Giorgio Amendola e Bauer facevo parte della Giunta Militare.
Venne l'8 settembre e fui a Porta San Paolo, c'erano anche Longo, Lussu e Vassalli, e gli ufficiali dei granatieri sparavano e piangevano: "Il re ci ha lasciati, il re ci ha traditi”. Vittorio Emanuele III e Badoglio fuggivano verso Pescara, i tedeschi si preparavano a liberare Mussolini, cominciava un'altra triste e lunga storia».
Bibliografia
Enzo Biagi - la Seconda guerra mondiale – Parlano i protagonisti - Corriere della Sera 1990
Campo di concentramento di Fossoli, 12 luglio 1944
Il 12 luglio 1944, 67 internati politici, prelevati dal vicino campo di concentramento di Fossoli, furono trucidati dalle SS naziste all’interno del poligono di tiro di Cibeno.
L’ANPI di Monza, domenica 11 luglio, per la celebrazione del 66° anniversario dell’eccidio, deporrà una corona d’alloro sul luogo della tragedia.
I sei antifascisti brianzoli fucilati:
ANTONIO GAMBACORTI PASSERINI nato a Monza il 14/06/1903
AROSIO ENRICO nato a Monza il 13/11/1904
GUARENTI DAVIDE nato a Monza il 28/08/1894
CARLO PRINA nato a Monza il 28/06/1908: apparteneva alla 25° Brigata del Popolo
CAGLIO FRANCESCO nato a Lesmo nel 1909: apparteneva alla Brigata del Popolo
MESSA ERNESTO nato a Monza il 28/08/1894
Il campo di concentramento di Fossoli era situato nei pressi di Carpi, in provincia di Modena.
23 giugno: viene ucciso a tradimento Poldo Gasparotto
Venti giorni dopo, il 12 luglio, 67 internati antifascisti vengono fucilati.
In quel periodo anche Don Paolo Liggeri era internato a Fossoli. Nelle pagine di luglio 1944 del suo diario (pubblicato nel libro “Triangolo rosso – Dalle carceri milanesi di san Vittore ai campi di concentramento e di eliminazione di Fossoli, Bolzano, Mauthausen, Gusen Dachau) scrive:
«Sono inquieto questa sera, e, per quanto cerchi di dominarmi, non riesco a calmare il mio nervosismo. Dio mio, mi sembra un delitto il solo pensare certe cose, ma dal momento in cui me ne hanno prospettato la possibilità ... Dunque le cose stanno così!
Questa sera, durante la solita adunata per l'appello, è sopraggiunto il maresciallo Hans delle SS con un gran foglio in mano, e ha fatto semplicemente annunciare che coloro che sarebbero stati chiamati avrebbero dovuto lasciare le file e inquadrarsi a parte. Abbiamo avuto tutti il solito brivido di sgomento che ci coglie ogni volta che si presenta la poco lieta prospettiva di una deportazione in Germania.
L'odioso appello è stato subito iniziato, e, contrariamente alle altre volte, è stato lo stesso maresciallo a chiamare ad alta voce il numero di matricola di ogni internato prescelto. Era una breve lista (settanta uomini), ma ci è sembrata interminabile; e l'atmosfera intorno era divenuta stagnante, pregna di amarezza, di neri presentimenti, non so, non riesco a definire.
Siamo tornati alle nostre baracche con le spalle curve e il cuore stretto ... Io anche questa volta, non sono fra i chiamati. Sono andato a portare la comunicazione al mio vicino di pagliericcio,. il generale della Rovere che non era venuto all’appello perché indisposto. Appena gli ho comunicato che era stato incluso nella lista, l'ho visto trasalire: un attimo; subito si è ricomposto, mi ha stretto la mano, e guardandomi con fermezza negli occhi, mi ha detto:
Non ci vedremo più! ...
Davanti e dentro la 21 A, una ressa indescrivibile: gente che trasporta bagagli e pagliericci, abbracci e baci pieni di effusione che si alternano alle calorose strette di mano del più riservati, e uno schiamazzo continuato, un misto di richiami, di saluti ad alta voce, di promesse, di giuramenti, di auguri, di esortazioni, .di parole d’incitamento di esclamazioni di ogni genere, di espressioni fiere ...
C’e chi grida: La va a pochi! (e mi ricorda Gasparotto ... ). C'è chi è visibilmente commosso, non solo fra quelli che partono, ma anche fra quelli che restano ... , come se volessero scacciare un nero presentimento.
Il fischio stridulo della ritirata ha messo fine ai commiati.
Quando sono rientrato nella mia baracca, G. mi ha chiesto:
- Lo sai?
- Che cosa?
- Degli ebrei ... ?
- Non so nulla di nulla. Spiegati!
Saranno stati una ventina. Sono stati portati fuori del campo con un camion, equipaggiati con piccone e pala. Sono usciti prima di mezzogiorno e non sono ancora rientrati.
- Be', che vuoi dire?
- Non capisci, o non vuoi capire?
- Parla chiaro! che vuoi dire?
- Li uccideranno ...
- Chi, gli ebrei?
- No, quegli altri.
- Li ucci ... Ma sei tu che dovresti farti impiccare, una buona volta! - Ero così furibondo che l'avrei strozzato - Io non capisco che gusto ci provate tu e molti altri a far circolare sempre le notizie più catastrofiche e a far star male tanti compagni che ne hanno già d'avanzo senza le vostre mal augurate fantasticherie.
Ma gli ebrei non sono tornati.
- Segno che sono andati ad aggiustare qualche strada, o a sgombrar macerie.
- Ma anche Fritz l'interprete si è lasciato sfuggire qualche cenno ...
- Fammi il piacere, non parlarne più con nessuno.
Dio mio, adesso ch'è notte, ci penso ancora e non riesco a tranquillizzarmi. Se fosse vero ... Sciocchezze! Abbiamo, tutti, i nervi malati ... Eppure con le SS tutto è possibile. Basti ricordare Gasparotto ...Ma Gasparotto era uno, questi sono settanta. Sarebbe enorme!
Della mia baracca (la 16 A) sono stati scelti diciassette, fra cui i miei due vicini di pagliericcio: li rivedo. Questa sera non mi daranno la «buona notte» ...
Rivedo anche gli altri, tutti amici cari ... Olivelli, Carlo Bianchi, l'avvocato Vercesi, Passerini, Prina, Francesco Caglio, Arosio, Guarenghi, il colonnello Panceri, e Nilo (simpatico bersagliere padovano), Gulin (oh, quella fuga malriuscita), e Kulziski il capo baracca, e gli altri di cui in questo momento non ricordo i nomi. Penso alle loro famiglie ... il colonnello Panceri mi ha parlato questa mattina della sua Mimma e Carlo Bianchi mi ha mostrato la foto dei suoi «pupi». Attende il quarto ...
No, no! Ho i nervi malati. Sono pazzo. È impossibile!
Fòssoli - 12 luglio 1944
Li hanno ammazzati tutti!
Questa mattina, all'alba, li hanno ammazzati come cani, poveri fratelli miei! È terribile!
L’artiglieria dell'altoparlante
La funzione della trasmissioni radio durante la guerra di Spagna (17 luglio 1936 – 1 aprile 1939)
Durante la guerra di Spagna, gli antifascisti cominciano ad avere a disposizione, sin dall'inizio, un'arma (quella che Vittorio Vidali chiamerà «l’artiglieria dell'altoparlante»: la radio. Fino a quel momento, in Italia, le trasmissioni radiofoniche erano state soltanto monopolio del regime fascista e anche un suo potente mezzo di corruzione di massa.
Da Radio Barcellona, da Radio Madrid, Radio Valenza si possono captare in Italia le voci dell'antifascismo, in trasmissioni speciali in lingua italiana (il PCI avrà poi, sino alla fine della guerra, la possibilità di utilizzare una sua radio trasmittente da cui manda anche direttive ai propri seguaci clandestini in Italia).
Ha scritto Elio Vittorini: «Quanto si poteva afferrare tendendo l’udito di dentro alla cuffia di un apparecchio a galena, verso le prime voci non fasciste, che finalmente giunsero fino a noi. Madrid, Barcellona ... Ogni operaio che non fosse un ubriacone e ogni intellettuale che avesse le scarpe rotte, passarono curvi sulla radio a galena ogni loro sera, cercando nella pioggia che cadeva sull'Italia, ogni notte, dopo ogni sera, le colline illuminate di quei due nomi. Ora sentivamo che nell’offeso mondo si poteva essere fuori della servitù e in armi contro di essa».
Da Radio Barcellona, il 13 novembre 1936, Carlo Rosselli lancia lo slogan che può sintetizzare la prospettiva comune del volontariato antifascista italiano in Spagna: «Alla Spagna proletaria tutti i nostri pensieri. Per la Spagna proletaria tutto il nostro aiuto. Oggi in Spagna. Domani in Italia. Anzi, oggi stesso in Italia, perché l’esempio dei fratelli spagnoli può e deve essere seguìto. Gioventù d’Italia, sveglia! Antifascisti italiani, sveglia! Uomini liberi, in piedi!».
A partire dal giugno-luglio del 1937, la stampa di regime ammette sempre più chiaramente che l'Italia è impegnata in Spagna con un proprio contingente.
Dalle emittenti radio della repubblica spagnola ogni sera gli antifascisti - dopo più di dieci anni di silenzio - riescono a parlare al popolo italiano. Vi è la Radio di Stato della repubblica che ha numerose trasmissioni da Madrid e da Valenza in lingue estere. Vi è la radio Generalitat a Barcellona. Vi è infine una emittente, «Radio Milano», che trasmette da Aranjues vicino a Madrid, tutte le sere intorno alle 23,45, che è esclusivamente dei comunisti italiani. A giudicare dalla massa enorme di lavoro che essa dà alla polizia italiana, si direbbe che l'ascolto é diffusissimo e ha una importanza nonché un rilievo psicologico e politico notevole. Gli antifascisti italiani dunque esistono, parlano dell'Italia e del resto del mondo, si battono: ecco ciò che scoprono per la prima molti italiani.
La voce che giunge dalla Spagna (e spesso disturbatissima) non si sa quanto incida sulle coscienze. Si tenga presente anche che l'apparecchio radio è ancora un lusso per le masse più povere e diseredate. Ma, appunto, le denunce della polizia e la stessa ripresa di azioni squadristiche su vasta scala per reprimere o intimidire quanti osano sintonizzare il proprio apparecchio sulla lunghezza d'onde di Radio Milano ne danno un quadro vivissimo. Si apprende che l'ascolto spesso non é individuale o familiare ma spesso viene organizzato, nel retrobottega di un locale pubblico, in una sala di caffé, chiuse le saracinesche verso la mezzanotte, persino in circoli Dopolavoro o della Opera nazionale combattenti. Il che mostra certo una notevole dose di imprudenza (é in questi casi che la sorpresa, la retata degli agenti di PS o dei militi fascisti, la delazione di un finto antifascista, sortiscono i migliori risultati), ma denota nondimeno un bisogno di testimonianza in comune oltre che una sete di informazioni inestinguibile. In qualche caso, la polizia riferirà che all'inizio e alla fine delle trasmissioni, quando risuonano le note dell'inno di Garibaldi e dell'Internazionale, gli ascoltatori si alzano in piedi e salutano con il pugno chiuso.
Non c’é solo solo la curiosità di sentire l'altra campana, di venire a sapere quanto la stampa fascista tace o deforma. C’è anche l’ansia di tanti congiunti di avere qualche notizia del figlio o del marito spedito in Spagna da Mussolini (dopo la battaglia di Guadalajara per settimane si trasmettono messaggi, testimonianze dirette dei prigionieri italiani).
Infatti, i «legionari» italiani, al comando del generale Roatta - dai primi trentamila arriveranno a cinquantamila - erano truppe il cui carattere di volontari è quanto mai discutibile; spesso si trattava di soldati mandati in Spagna a loro insaputa, reclutati per formare «battaglioni lavoratori» nell’impero africano da colonizzare.
La battaglia di Guadalajara del marzo 1937 ha una grande eco internazionale. Celebri restano, tra tutte, le corrispondenze di Ernest Hemingway, che aveva conosciuto i combattenti italiani sul fronte della prima guerra mondiale. Hemingway scrive dopo la battaglia, vedendo i caduti fascisti: «Il caldo dà lo stesso aspetto a tutti i morti, ma questi morti italiani con le loro facce grige, di cera, se ne stanno stesi sulla pioggia, molto piccoli e pietosi ... Il generale Franco scopre adesso che non può fare molto conto sugli italiani, non perché gli italiani siano vili, ma perché gli italiani i quali difendono il Piave e il Grappa sono una cosa e gli italiani mandati a combattere in Spagna mentre credevano di andare in guarnigione in Etiopia sono un’altra».
E parlando da Radio Madrid, il 27 marzo 1937, della fuga dei legionari di Mussolini, Randolfo Pacciardi, repubblicano, comandante del battaglione “Garibaldi”, dice: «Sono scappati non perché sono vigliacchi. Sono scappati perché avevano tanks, cannoni, mitragliatrici, fucili, moschetti, ma non avevano idee. Non si combatte per il piacere di combattere».
La battaglia di Guadalajara é stata il culmine della partecipazione dei garibaldini italiani alla guerra di Spagna.
Guadalajara: un volontario antifascista si rivolge col megafono alle truppe di Mussolini durante una sosta della battaglia. All’invito di passare nelle file repubblicane risponderanno positivamente molti “volontari” fascisti.
Nel marzo del 1937 (dopo Guadalajara) il capo della polizia Bocchini così telegrafa ai prefetti del regno: «Viene rilevato come molti ascoltatori radio cerchino di ascoltare iniqua et falsa propaganda radiodiffusa da Barcellona aut da altre stazioni spagnole nonché da Mosca. A tale scopo cercano anche di riunirsi in comitiva presso apparecchi riceventi di casa aut locali pubblici. Fenomeno est particolarmente osservabile presso operai, contadini, piccola borghesia. Est necessario in modo assoluto intervenire prontamente et energicamente con azioni preventive et repressive procedendo a fermi, a provvedimenti di polizia, a chiusura dei pubblici esercizi dove viene effettuata ascoltazione et a ritiro degli apparecchi in caso di flagranza. Vorranno all'uopo predisporre servizi et ricorrere ove sia necessario anche servizio di fiduciari. Si gradirà al riguardo sollecita segnalazione di ogni emergenza».
La prevenzione e la repressione auspicate da Bocchini si sviluppano largamente. Spesso vengono intercettate lettere inviate dall'Italia all’indirizzo di Radio Barcellona nelle quali si formulano elogi oppure richieste di spostare l'ora della trasmissione.
Le trasmissioni, da quel che possiamo arguire attraverso i resoconti registrati dalla polizia italiana, sono efficaci giacché risultano trattati temi che concernono direttamente la guerra di Spagna (notizie sulle battaglie, sullo schieramento internazionale, sulle denunce alla Società delle Nazioni, sull'afflusso di nuove truppe fasciste) sia argomenti che riguardano la vita delle masse popolari italiane. E qui si parla dell'aumento dei prezzi che in effetti è notevole nel 1937 e annulla i vantaggi del generale aumento dei salari e degli stipendi agli impiegati, delle condizioni di vita dei contadini e degli operai, dei profitti delle grandi aziende. E si insiste sulla crescente sudditanza dell’Italia alla Germania nazista.
Bibliografia:
Paolo Spriano - Storia del Partito comunista italiano – Einaudi 1970
Resistenza armata e resistenza civile, due forme di risposta del popolo italiano alla crisi aperta dall’8 settembre 1943
Uno scenario squallido e desolato: è questa la prima impressione che si fanno dell’Italia gli anglo-americani al momento del loro sbarco in Sicilia nel luglio 1943.
Una distesa di campi spogli in cui si affacciano villaggi fatiscenti; e la gente porta, impressi addosso, i segni di una miseria endemica.
Il regime fascista è giunto al suo epilogo. L’esercito è sul punto di sfasciarsi. Sotto i colpi della disfatta andranno sbriciolandosi anche le strutture dello Stato.
A provocare, in quelle giornate fatidiche, lo sgretolamento dello Stato italiano è l’armistizio dell’8 settembre.
Con la partenza precipitosa di Vittorio Emanuele III e del governo Badoglio da Roma, il mattino del 9 settembre, si apre la fase più drammatica e dolorosa della storia unitaria d’Italia. Solo pochi giorni dopo Mussolini, prelevato da un commando tedesco e trasferito al nord, dà vita alla Repubblica Sociale Italiana. Due governi rivendicano il diritto di rappresentare il paese, l’esercito è abbandonato al suo destino senza precise direttive. Un intero popolo, duramente provato dalla guerra, dalla miseria e dalla fame, è allo sbando.
Il fascismo aveva contribuito alla nazionalizzazione delle masse in Italia. Mentre il Risorgimento si fondava sul binomio nazione e libertà - «Patriae unitati, civium libertati» sta scritto sul monumento in Roma a Vittorio Emanuele III – nel processo di nazionalizzazione operato dal fascismo il secondo di questi valori era del tutto negato e calpestato.
Badoglio annunciando l’armistizio ha dato la direttiva ambigua di reagire agli attacchi «di qualsiasi provenienza»: si finge di ignorare la minaccia tedesca incombente. La memoria operativa n°44 inviata ai comandanti delle truppe, in Italia e all’estero, ha indicato nei tedeschi il nemico da cui difendersi. Ma un dispaccio del 9 settembre, prescrivendo di «reagire immediatamente e energicamente et senza speciali ordini at ogni violenza armata germanica», aggiungeva che non doveva «essere presa iniziativa di atti ostili contro germanici» e che non si doveva fare causa comune con la resistenza locale.
I comportamenti dei comandi sono incerti e contraddittori. Solo in alcuni casi i comandi locali tentano una disperata resistenza (vedi a Roma a Porta San Paolo, a Cefalonia). Ma nel suo insieme già il 10 settembre l’esercito italiano si è disfatto. Alla mancanza di direttive dall’alto, nasce nell’animo di centinaia di migliaia di soldati un imperativo spontaneo: «tutti a casa». Ma non tutti percorrono la via di casa: in alcuni nasce la scelta della resistenza. C’è anche chi si schiera con i tedeschi. Le due scelte sono incomparabili: si combatte da una parte per il “nuovo ordine” nazista che ha insanguinato l’Europa e mandato nei campi di sterminio milioni di ebrei, si combatte dall’altra parte per la libertà.
Resistenza armata e resistenza civile, due forme di risposta del popolo italiano alla crisi aperta dall’8 settembre. Episodi di insurrezione popolare si verificano in molti centri del sud: a Matera, a Rionero in Vulture, a Lanciano.
Anche per coloro che vogliono andare a casa non è facile la via del ritorno. I tedeschi hanno messo prontamente in opera il piano Student per occupare militarmente il territorio della penisola e contrastare l’avanzata degli alleati dal sud. Sbarcati a Salerno il 9 settembre, gli alleati, dopo tenaci combattimenti, avanzano fino alla linea che va da Cassino a Pescara, la cosiddetta linea Gustav, dal nome del generale che comandava le forze tedesche. Molti dei soldati che cercano la via delle loro case cadono nelle mani dei tedeschi. Oltre seicentomila fra soldati e ufficiali sono internati in Germania e saranno posti di fronte alla scelta fra l’adesione alla Repubblica Sociale o la prigionia; solo un’esigua minoranza sceglierà di combattere ancora per Mussolini a fianco dei tedeschi. I soldati in fuga trovano solidarietà e aiuto nella popolazione che fornisce vitto, alloggio, abiti civili e indicazioni sulla dislocazione dei reparti tedeschi. Significativa è anche la solidarietà della popolazione per i prigionieri alleati in fuga dai campi di prigionia in Italia: i tedeschi promettono una ricompensa a chi ne segnali la presenza. Non mancano delazioni, ma ben più numerose sono le offerte di aiuto.
Lo riconobbe Churchill al termine della guerra: «Non fu certo fra le minori imprese della Resistenza italiana l’aiuto dato ai nostri prigionieri di guerra che l’armistizio aveva colto nei campi di concentramento [...] almeno diecimila [...] furono condotti in salvo grazie ai rischi corsi dai membri della Resistenza italiana e dalla semplice gente di campagna».
Altrettanto significativa fu la spontanea mobilitazione in favore degli ebrei.
In un paese precipitato nel caos più totale, l’unica voce che si leva, per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza, è quella del fronte antifascista. Esso annuncia la costituzione di un Comitato di Liberazione Nazionale, composto dai rappresentanti di tutte le forze politiche (dal Partito Socialista al partito Comunista, dal Partito d’Azione alla Democrazia Cristiana, dal Partito Liberale alla Democrazia del Lavoro).
L’appello lanciato in quelle ore drammatiche, perché si formino in ogni parte d’Italia dei comitati regionali di liberazione, viene raccolto da alcuni gruppi di militanti antifascisti e di soldati sfuggiti ai tedeschi.
Occorreranno ancora venti lunghi mesi di lotta, fra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, per giungere alla liberazione della penisola dall’invasione tedesca, al definitivo riscatto dell’Italia dalla dittatura e al ripristino delle istituzioni democratiche.
Bibliografia:
- Storia d'Italia dall'unità al 2000, Istituto Luce, 2000
Aprile 1945: l' insurrezione popolare
Nei primi mesi del 1945 i due grandi fronti della guerra contro la Germania si rimisero in movimento. Il 12 gennaio veniva sferrata la grande offensiva invernale russa, al termine della quale, nel febbraio, le armate sovietiche, oltrepassato l'Oder, si trovavano a cento miglia da Berlino; l’aviazione anglo-americana sconvolgeva tutto il territorio tedesco, mentre Eisenhower, il 10 marzo, portava le sue truppe ad attestarsi sul Reno. I russi riprendevano intanto l’offensiva, e dopo aver occupato la Slesia e attraversato rapidamente la Cecoslovacchia puntavano su Vienna. Sembrava che la fortezza tedesca non potesse resistere più a lungo, e sempre più disperati apparivano gli appelli e le esortazioni di Goebbels.
Questo favorevole andamento delle operazioni sui fronti occidentale e orientale aveva ripercussioni, naturalmente, anche nell'Italia settentrionale, sebbene fino alla fìne di marzo non fosse ancora iniziata l'offensiva decisiva per le sorti della guerra nel nostro paese.
Nel mese di febbraio, il 14, manifestarono gli studenti dell'Università Bocconi a Milano: dopo aver bloccato tutte le entrate e rastrellato le aule convogliando gli studenti, i professori e gli inservienti nell'atrio della segreteria, uno studente aveva parlato ai presenti, esortandoli a lottare contro i tedeschi e i fascisti. Alcuni agenti, presentatisi all’ingresso dell'edificio, furono assaliti e, nel breve combattimento, uno di essi fu ucciso e un altro ferito gravemente. Il C.L.N.A.I, su proposta del partito d'azione, approvò il 16 febbraio una mozione di plauso e di solidarietà per quegli studenti che, dietro invito dell'Associazione universitaria studentesca, aderente al Fronte della gioventù, avevano affrontato i fascisti con le armi in pugno, contribuendo a dimostrare quanto debole fosse orma il potere che questi esercitavano.
Nel mese di marzo si rimettevano in movimento gli operai e dopo parecchie dimostrazioni, il 28, entravano in sciopero le maestranze degli stabilimenti industriali di Milano e dei principali centri della Lombardia. Anche in questa occasione il C.L.N.A.I. esprimeva il suo «fervido» plauso a quei lavoratori che, con la loro lotta, preparavano la «ormai prossima insurrezione di popolo per l'estirpazione radicale del nazismo e del fascismo e per il trionfo di una democrazia progressiva».
All' inizio di aprile partivano all'attacco le formazioni partigiane: «Ai primi di aprile Alba è riconquistata dai Volontari della Libertà. La Val Pellice è riconquistata, il Pinerolese è invaso. Le formazioni del Monferrato bloccano ogni trasporto nazifascista tra Asti, Alessandria e Torino, occupano quella rete ferroviaria, giungono fin sulle colline attorno a Torino ... In tutta l'Italia le nostre divisioni sono pronte ad affrontare quelle tedesche».
Il 16 aprile il C.L.N.A.I. rivolgeva ai Comitati di agitazione, agli operai, ai tecnici le sue istruzioni e indicava i compiti cui essi dovevano assolvere nella imminente insurrezione: difendere le fabbriche e gli uffici pubblici dalle distruzioni del nemico e passare poi all'attacco per ingrossare le file dei partigiani e per occupare i punti più importanti della città. Da notare che in queste istruzioni il compito di salvare gli impianti produttivi e di pubblica utilità, il patrimonio industriale, non era inteso passivamente bensì attivamente, come pronto e rapido passaggio dalla difesa all’offensiva, ben sapendo come, anche in questo caso, l’unico modo per raggiungere l'intento fosse quello di non rinchiudersi nelle fabbriche, ma di attaccare appena possibile.
Il 18 aprile, quasi raccogliendo subito questo appello, «Torino proclama un grande sciopero ... definendolo la prova generale dell' insurrezione. Lo sciopero si estende al Biellese, Vercellese e Novarese» . Il 19 aprile, il C.L.N.A.I. esortava i ferrovieri e i lavoratori dei trasporti dell’Italia occupata a seguire l'esempio dei loro compagni piemontesi, che da tempo avevano abbandonato il lavoro al servizio del nemico e si mantenevano compatti in sciopero. Mentre invitava formalmente i comitati di agitazione compartimentali a organizzare l'abbandono immediato e in massa del lavoro, con particolare riguardo al personale di macchina, dichiarava che era giunta l'ora di rifiutarsi a un lavoro che era un servizio al nemico e che metteva a repentaglio, con l'onore nazionale, anche l'avvenire e la vita degli stessi lavoratori.
Le direttive erano applicate senza indugio: il 23 i ferrovieri milanesi dichiaravano lo sciopero generale, contribuendo in misura decisiva a paralizzare i movimenti e il traffico dell'avversario.
Il fascismo però sembrava voler tentare una estrema resistenza, ora accentuando la politica repressiva, ora quella distensiva. Erano le due tendenze che, già inconciliabili in precedenza, tendevano adesso, per l'avvicinarsi dell'estremo pericolo, ad allontanarsi ancor di più l'una dall'altra. Continuavano da un lato gli arresti, i rastrellamenti, la sconfessione degli elementi che cercavano una «pacificazione».
D'altro lato, al contrario, il fascismo proseguiva i suoi esperimenti di socializzazione, forse illudendosi ancora di poter attrarre a sé la classe lavoratrice. Il 15 febbraio i giornali annunciavano che presso l'Università di Torino sarebbe stato ben presto inaugurato un corso sulla socializzazione «destinato ai lavoratori, capi delle aziende e dirigenti di imprese ». Il 21 febbraio il «duce» elogiava Padova per la sua «fede nella socializzazione»: «Voi avete camminato - aveva detto alla commissione della città recatasi a trovarlo a Gargnano - con passo celere, verso quello che ormai comunemente si chiama lo Stato del Lavoro, e cioè la Repubblica sociale italiana, secondo i primi e immutabili principi del Fascismo. Oltre la socializzazione, cardine fondamentale della Repubblica, le classi operaie hanno ora la responsabilità amministrativa dei Comuni e quella dei problemi annonari che interessano così da vicino il popolo». Il 23 marzo, nell'annuale della fondazione dei fasci, con grandi titoli su tutta la pagina, si scriveva che «la marcia rivoluzionaria continua per la difesa dell'avvenire dell'Italia e la conquista di una più alta giustizia per il popolo». Ancora il 1° aprile il «Corriere della Sera» annunciava che il 21 aprile si sarebbe proceduto «alla socializzazione di due importanti categorie di imprese industriali. Non a caso è stata scelta la data del Natale di Roma. Quest'anno, la festa del lavoro segnerà un nuovo e decisivo progresso campo sociale. Il ritmo della socializzazione diviene infatti sempre più vivace ...».
Il C.L.N.A.I. denunziò (12 aprile) come criminali di guerra i membri del direttorio fascista, e (13 aprile) diede disposizioni alle formazioni partigiane sul modo comportarsi verso i nazifascisti che si arrendevano.
Poi, il 25 aprile, mentre l'insurrezione era nel pieno del suo vittorioso svolgimento, il C.L.N.A.I. abrogava ogni legge e disposizione del governo fascista repubblicano sulla «socializzazione »: rispondeva in tal modo alla politica «sociale» del fascismo, che tanta diffidenza e ostilità aveva incontrato fra i lavoratori per il suo persistente corporativismo paternalistico, e apriva la via alla lotta sindacale libera e democratica.
La seduta del C.L.N.A.I. che aveva dato inizio alla insurrezione era stata quella del 19 aprile, in cui era stata approvata la mozione sui ferrovieri. Nella stessa seduta fu decisa anche, su proposta comunista, la proclamazione di una «Giornata dei Martiri e degli Eroi», e si suggerì al governo di Roma di indire tale celebrazione il 2 giugno, anniversario della morte di Garibaldi; venne inoltre discusso e approvato un lungo proclama con cui il C.L.N.A.I. quale delegato del governo italiano, intimava «formalmente» alle forze armate tedesche e fasciste, ai funzionari civili del governo fascista repubblicano, e a quelli dell'apparato di occupazione germanico, di «arrendersi o perire».
Gli Alleati, dopo aver simulato il 5 aprile un attacco sul litorale tirrenico – attacco che li portava a liberare Massa il 10 e Carrara l'11, con l'aiuto dei partigiani, come riconosceva il generale Clark – iniziavano il 9 aprile l'offensiva principale sul fronte dell’VIII Armata schierata sull'Adriatico. Nella notte fra il 20 e il 21 Bologna, la città lungamente contesa, era liberata e vi entravano per primi i soldati italiani della «Legnano», mentre Forlì, Ravenna, Modena, Ferrara venivano liberate dai partigiani. Il 23 aprile insorgeva Genova: le SAP entravano in azione e le formazioni dei patrioti scendevano dai monti circostanti; il giorno dopo il C.L.N. assumeva i pieni poteri.
Intanto il generale Clark, nei giorni precedenti la liberazione di Bologna, annunziava alle forze partigiane dell’Italia settentrionale che la battaglia finale per la liberazione d'Italia e la distruzione dell'invasore era cominciata: «Voi siete preparati a combattere, ma il momento della vostra concertata azione non è ancora giunto. A certe bande sono già state impartite istruzioni speciali. Altre bande si concentreranno nella protezione delle loro zone e delle loro città dalla distruzione, quando il nemico sarà costretto a ritirarsi... A quelle bande che non hanno avuto compiti specifici per l'immediato futuro: voi dovete alimentare la vostra forza e tenervi pronte alla chiamata. Non fate il giuoco del nemico agendo prima del tempo scelto per voi. Non sperperate la vostra forza. Non lasciatevi tentare ad agire prematuramente. Quando verrà il momento, ciascuno di voi e tutti voi sarete chiamati a far la vostra parte nella liberazione dell'Italia e nella distruzione dell'odiato nemico». Ma i partigiani, come non avevano aspettato questo proclama per mettersi in azione, così non rispettarono questi inviti alla prudenza e all'attesa, desiderando mostrare agli Alleati quanto fosse stato decisivo il contributo degli italiani alla liberazione del loro paese. Lo stesso Clark dovrà riconoscere che «i servizi resi dai partigiani furono molti e molto importanti, compresa l'occupazione di parecchie città e di parecchi villaggi».
Il C.L.N.A.I. dal canto suo continuava a preoccuparsi della difesa degli impianti industriali e di utilità pubblica, poiché sarebbe stata certamente una liberazione pagata a troppo caro prezzo se quegli impianti fossero andati distrutti. Perciò inviava il 21 aprile ai vari C.L.N. e al Comando generale del Corpo Volontari della Libertà una « circolare per l'emergenza» in cui - prevedendo che, favoriti dallo stato d'assedio, reparti di guastatori nemici potessero tentare di «mettere in esecuzione il piano di distruzioni di fabbriche» ecc. e che reparti polizieschi procedessero «al fermo di elementi della Resistenza o ritenuti tali» - dava disposizioni su come rompere il coprifuoco e attaccare ogni pattuglia nazifascista in circolazione. Il 23 aprile poi, dietro proposta del partito liberale, stabiliva le pene per chi si fosse reso responsabile di distruzioni di vie di comunicazione, di impianti industriali e in genere dell'attrezzatura produttiva.
Il C.L.N.A.I. si preoccupava anche di altri problemi che potrebbero apparire meno importanti ma di cui pure ci si doveva interessare per garantire uno sviluppo il più possibile ordinato della vita nell'immediato dopoguerra e per evitare nuove difficoltà. Ad esempio, il 23 aprile approvava deliberazione sulla nomina dei conservatori agli archivi della Repubblica sociale, con cui intendeva assicurare la conservazione degli archivi dei vari ministeri fascisti, salvando il materiale che avrebbe potuto risultare prezioso per una migliore conoscenza - anche ai fini penali - di tanti aspetti di quella repubblica.
Il 24 poi diffidava le autorità tedesche e fasciste dal continuare i maltrattamenti contro gli ebrei rinchiusi nel carcere di San Vittore di Milano con una mozione che era nel tempo stesso una chiara condanna del razzismo e una significativa promessa di un domani ben diverso.
Giunse finalmente l'insurrezione di Milano, la città che aveva guidato per tanti mesi la lotta partigiana: come quasi tutte le città e quasi tutti i villaggi dell'Italia settentrionale, anche Milano voleva liberarsi da sola e presentare agli Alleati una ripresa ordinata e pacifica della vita. Il 29 marzo era stato costituito un Comitato insurrezionale del C.L.N.A.I., composto da Valiani, Pertini e Sereni, che svolse un'azione molto importante vincendo le esitazioni di coloro che non avevano fiducia nell'insurrezione popolare. Il 24 aprile le formazioni partigiane cittadine raccolsero un appello dal C.L.N. milanese perché prendessero le armi; e il giorno seguente, mentre le maestranze occupavano le fabbriche mettendosi agli ordini del C.L.N., la battaglia raggiunse il suo culmine e si profilò senza più incertezze la vittoria.
Mussolini riallacciò attraverso il cardinal Schuster i rapporti con il C.L.N.A.I. per un ultimo, disperato tentativo di salvezza; ma di fronte alla richiesta dei rappresentanti del Comitato di arrendersi senza condizioni, prese tempo e si allontanò dall'Arcivescovado, dove si era svolto il colloquio nel pomeriggio del 25, dicendo che avrebbe dato la sua risposta. Invece partì poco dopo, nella speranza di poter riparare in Svizzera e consegnarsi agli Alleati evitando la resa al C.L.N.A.I., che doveva apparirgli umiliante e penosa. Ormai non gli era rimasto nulla per negoziare da una posizione di forza, giacché i tedeschi avevano già da tempo svolto trattative a sua insaputa e le milizie fasciste non erano più organizzate ed efficienti.
Il C.L.N.A.I. aveva assunto pubblicamente i poteri civili e militari con due proclami emanati il mattino del 25 aprile: il primo che incitava la cittadinanza allo sciopero generale e all'insurrezione sotto la guida del Comitato; e il secondo che dava le prime disposizioni con cui il C.L.N.A.I., delegato del governo italiano, intendeva «assicurare la continuazione della guerra di liberazione a fianco degli Alleati, per garantire e difendere contro chiunque la libertà, la giustizia e la sicurezza pubblica».
Nello stesso giorno, a perfezionare il precedente proclama, veniva emanato un decreto sull'amministrazione giustizia. Occorreva fissare norme precise affinché la punizione dei delitti fascisti fosse sottratta alla indignazione popolare e avvenisse con una sanzione di legalità: norme, naturalmente, che tenessero conto dello stato d'animo generale e che traducessero tale stato d'animo in termini giuridici. Con tale decreto, che mirava ad «assolvere il molto delicato compito di offrire alla popolazione seria garanzia che giustizia sarà fatta con serenità e con sollecitudine», il C.L.N.A.I. insediava le Commissioni di giustizia per la funzione inquirente, le Corti d'Assise del popolo per quella giudicante e i Tribunali di guerra per lo stato di emergenza.
Erano gli ultimi atti del dramma che aveva schierato in due campi opposti il nostro popolo: non desiderio di vendetta né spirito di rappresaglia animavano quelle deliberazioni del C.L.N.A.I., ma la naturale aspirazione a ridare alle cose umane e ai valori morali la loro giusta importanza e la loro esatta misura, non più in base a un sogno di oppressione bensì a un ideale di libertà e di giustizia, a quell’ideale che aveva animato gli uomini della Resistenza, che li aveva resi capaci di sopportare con animo sereno tante dure prove.
Ora si era giunti al termine e si poteva ripensare con soddisfazione alle difficoltà superate, ai sacrifici sofferti, si potevano rievocare con un acuto senso di rimpianto e di gratitudine i compagni caduti lungo la strada, quelle «file di morti che non tornano più».
I partigiani guardavano con fierezza ai risultati della loro tenacia: l'esercito che fin dall' inizio si erano sforzati di creare ora esisteva veramente, dopo che era stata vinta la contrarietà dei nemici da un verso e degli Alleati dall'altro. Quell'esercito aveva contribuito efficacemente, e spesso in maniera decisiva, al successo e alla rapida avanzala delle armate anglo-americane, come dovevano riconoscere gli stessi alti Comandi alleati e come ammetterà, nelle sue memorie, perfino Churchill. Basti leggere il rapporto della Special Force (cui spettava il compito di tenere i contatti con le formazioni partigiane, di dirigerne i movimenti e di coordinarli con l'azione tattica dei reparti alleati), in cui si avverte chiaramente la meraviglia per l'appoggio fornito dai patrioti, superiore al previsto e non limitato al controsabotaggio: «Il contributo partigiano alla vittoria alleata in Italia fu assai notevole e sorpassò di gran lunga le più ottimistiche previsioni. Colla forza delle armi essi aiutarono a spezzare la potenza e il morale di un nemico di gran lunga superiore ad essi per numero. Senza queste vittorie partigiane non vi sarebbe stata in Italia una vittoria alleata così rapida, così schiacciante o cosi poco dispendiosa».
Gli uomini della Resistenza potevano dirsi contenti dei risultati raggiunti sul piano politico: anche qui avevano dovuto lottare, contro la tendenza degli Alleati a limitare e a ridurre il significato e il valore dei C.L.N., ma ora, nel momento dell'insurrezione vittoriosa i C.L.N. assolvevano pienamente al loro importante compito, dirigendo lo slancio popolare, assumendo funzioni di governo, riedificando rapidamente e con grande capacità tutta la struttura di una nuova vita libera e democratica. Il riconoscimento più ampio venne reso proprio dagli inglesi, i quali, nel rapporto citato sopra, parlarono dell'eccellente lavoro compiuto dai C.L.N. prima dell’arrivo dell'A.M.G.: « ... Quanto essi hanno fatto, lo hanno fatto bene e il prestigio del movimento di resistenza italiano non e mai stato più alto che in queste ultime settimane, risultando dell'ottimo lavoro compiuto dal C.L.N.A.I. dai suoi Comitati regionali e provinciali ... Si può dire che essi hanno assolto le loro funzioni nella maniera più soddisfacente e il tempo mostrerà quali conseguenze ciò potrà avere per il futuro politico dell' Italia». Gli inglesi furono pure colpiti dalla consapevolezza e dalla disciplina con cui erano state accolte le disposizioni dei Comandi alleati: «... Tutte le armi e le munizioni vennero consegnate a Pavia, Voghera e nelle città lungo la via Emilia in quasi tutti i casi senza incidenti e in una atmosfera che smentì completamente qualsiasi possibilità di una seconda Grecia». Le gravi preoccupazioni e i timori degli alleati si dimostrarono perciò vani: la Resistenza italiana diede un esempio di compattezza, di unità, di ardore combattivo mai disgiunto dal senso dei limiti entro cui la propria azione doveva essere mantenuta perché fosse veramente efficace: la Resistenza svelò il profondo e diffuso spirito democratico del popolo italiano.
Il 26 aprile segnò la conclusione di questo travagliato e drammatico periodo: i combattimenti continuarono per alcuni giorni ancora, perché i partigiani assalirono con successo, costringendole alla resa, le colonne tedesche che dal Piemonte, dal Piacentino e dalla bassa Lombardia cercavano di aprirsi il varco verso il Brennero; ma in quel giorno il C.L.N.A.I. pose termine all'attività clandestina, passando al nuovo periodo dell'attività pubblica e palese, Il 26 veniva pubblicato il manifesto per l'assunzione dei poteri:
Il Comitato di Liberazione Nazionale per l'Alta Italia, delegato del solo governo legale italiano, in nome del Popolo e dei Volontari della Libertà assume tutti i poteri di amministrazione e di governo per la continuazione della guerra di liberazione al fianco delle Nazioni Unite, per l'eliminazione degli ultimi resti del fascismo e per la tutela dei diritti democratici.
Gli italiani devono dargli pieno appoggio. Tutti i fascisti devono fare atto di resa alle Autorità del C.L.N. e consegnare le armi. Coloro che resisteranno saranno trattati come nemici della Patria e come tali sterminati.
In quello stesso giorno, in un altro documento, si profilava il primo e basilare problema da risolvere per la ricostruzione pacifica di un nuovo ordinamento democratico: all'unanimità il C.L.N.A.I. approvava una mozione sulla riforma del futuro governo, manifestando una fiducia che non poteva andar delusa. poiché solo in essa c'erano le possibilità di un profondo rinnovamento della vita italiana, di quel rinnovamento che era stato uno dei più segreti e costanti ideali della Resistenza:
Il Comitato di Liberazione Nazionale per l'Alta ltalia in in vista della riforma del governo che certamente seguirà alla liberazione del Nord, esprime al C.L.N. centrale il voto che i Ministeri decisivi per la condotta della guerra e per il rinnovamento democratico del paese, e in particolare il Ministero degli Interni, siano affidati a uomini che abbiano decisamente combattuto il fascismo sin dal suo sorgere e che diano prova di saper degnamente esprimere i bisogni di vita e di giustizia sociale e le profonde aspirazioni democratiche delle masse lavoratrici e partigiane che sono state all’avanguardia della nostra guerra di liberazione.
Questa mozione apre nuovi problemi, prospetta l’inizio di una nuova lotta politica: la vita, nel suo infaticabile corso, non si arrestava e rapidamente portava con sé altri compiti, facendo svanire a poco a poco nel ricordo le sofferenze, i dolori, le pene e lasciando nell'anima la traccia di una più alta vita morale e l'incitamento a mantenersi sempre degni della grande esperienza della Resistenza.
Bibliografia:
Franco Catalano – Storia del C.L.N.A.I. – Laterza 1956