Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

resistenza italiana

Giovanni Emilio Diligenti: partigiano in Brianza

22 Avril 2014 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

In occasione del 25 aprile, 69° anniversario della Liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo, pubblichiamo una testimonianza di Giovanni Emilio Diligenti (1924–1998) sulla sua attività di resistente negli anni dal 1943 al 1945.

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Il precoce contatto col mondo del lavoro e dell’antifascismo

«Sono nato a Milano nel 1924, ma dall'infanzia abitai a Monza. Ero maggiore di sei fratelli. Mio padre, ragioniere, proveniva da una famiglia piccolo borghese di Siena. Mia madre invece era di provenienza operaia e lavorò alla Magneti Marelli fino al 1930. Io feci a quattordici anni il mio ingresso in fabbrica. A sedici, e cioè nel 1940, venni assunto dal cappellificio Vezzani, dove lavoravo 15-16 ore al giorno come meccanico addetto alla manutenzione dei macchinari.

Il mio capo reparto era Amedeo Ferrari: non era un caso, anzi era stato lui a farmi entrare in quella fabbrica. Fin dalla più tenera età, infatti, ero cresciuto all'ombra del fondatore del Pci in Brianza.

  La mia famiglia abitava in via Beccaria 13 e la nostra casa era attigua a quella dove Ferrari venne ad abitare nel settembre del 1929, dopo aver scontato i due anni di carcere a cui era stato condannato dal Tribunale Speciale.

Era inevitabile che dai Ferrari ci sentissimo quasi come nella nostra seconda casa, tanto più che il “vecchio” anche se metteva una certa soggezione, non era tipo da spaventarci, nonostante la sua alta statura e la sua faccia seria. Anzi, Ferrari esercitava un suo fascino su di noi, sia per il temperamento generoso che non poteva non manifestarsi anche verso i ragazzi, sia per il suo carattere profondamente umano.

Nel 1936 Ferrari si trasferì in via Amati 22 (corte Venturelli), al primo piano. Qui, si può dire, il movimento comunista brianzolo trovò la sua sede centrale, il suo punto di riferimento e di direzione. Non bisogna dimenticare, poi, che il 1936 fu l'anno delle guerre d'Etiopia e di Spagna.

 

Fu un periodo di intensa attività politica e organizzativa: i legami del “centro” di Monza col resto della Brianza si estesero notevolmente. Avevo dodici anni, ma ricordo di aver visto giungere nella casa di Amedeo Ferrari un gran numero di compagni e di antifascisti: da Cavenago Giovanni Frigerio, Felice Brambilla, Erba e Raineri, Fumagalli; da Caponago Besana e Brambilla; da Burago Casiraghi (“Lisandrin”); da Omate Davide Pirola, Giovanni Ronchi e Berto Girardelli; da Bernareggio, Tornaghi (“Piscinin”) e Stucchi (“Bersagliere”); da Concorezzo Domenico Cogliati e Casiraghi; da Vimercate Frigerio e Scaccabarozzi.

Erano loro che, in mezzo a mille rischi, costruivano poco a poco le cellule comuniste nei rispettivi paesi; lo stesso lavoro era svolto da Novati e Mascheroni a Desio, da Figini e Fumagalli (“Marsell”) a Muggiò, da Vanzati a Vedano, da Leonardo Vismara a Lissone. Si riuscì anche a impiantare una specie di tipografia clandestina dotata di un ciclostile a Omate, nella casa di Pirola, che era in piazza Principe Trivulzio.

 

La conferma della vitalità del movimento clandestino giunse quando maturò la necessità della costituzione delle Brigate Internazionali per la Spagna. Anche Monza e la Brianza diedero il loro contributo, inviando sul fronte spagnolo, per la difesa della libertà e della democrazia dall'attacco fascista, i comunisti Spada dì Monza, Pirotta e Farina di Villasanta, Vismara di Lissone e Frigerio di Vimercate.

L'organizzazione clandestina antifascista, cogli incontri al caffè “Romano” di via Carlo Alberto ai quali partecipavano, fra gli altri, Citterio, Stucchi, Antonio Passerini, entrava in una nuova fase: quella della costituzione di una rete organizzativa permanente, di una più intensa e organica attività politica e di proselitismo, di un continuo allargamento e approfondimento dei temi politici.

 

Il periodo tra la guerra d'Etiopia e lo scoppio del conflitto mondiale fu quindi caratterizzato da un'intensa attività dei comunisti brianzoli, che gettarono le basi della lotta antifascista e di liberazione. Era un continuo susseguirsi di riunioni, due delle quali mi rimasero particolarmente impresse. La prima ebbe luogo al Parco (in località San Giorgio) nell'estate del 1938 per discutere un ordine del giorno riguardante i collegamenti e l'organizzazione del partito (relatore Ferrari).

L'altra si svolse a Bernareggio nel dicembre del 1939 presso il bar “Francolin”, con la scusa di mangiare la lepre in salmì. Si trattò di una specie di “Comitato di Zona” del Pci con un ordine del giorno particolarmente importante, che comprendeva l'esame della situazione politica dopo lo scoppio della guerra e la firma del patto di non aggressione tra Germania e Unione Sovietica. Inoltre, da un punto di vista organizzativo, in quella riunione vennero posti in discussione i collegamenti con le fabbriche. Fra i partecipanti, ricordo Ferrari che era il relatore, Brambilla di Cavenago, Tornaghi e Stucchi di Bernareggio, Cogliati di Concorezzo e Casiraghi di Burago. Mio fratello Aldo, il figlio di Ferrari, Vladirniro e io, sia nella prima che nella seconda riunione ci trovammo sul posto col compito di fare la guardia e la spola in bicicletta nei dintorni, per segnalare eventuali movimenti della polizia fascista.

Ferrari mi chiamava spesso e mi dava una lettera, incaricandomi di portarla a qualcuno: Colombo (“Colombina”), Broggi, Caccia, Ferruccio, Messa; oppure mi inviava da un “signore” al quale avrei dovuto consegnare “certi” plichi. Attraverso questi contatti ebbi modo di conoscere diversi compagni e antifascisti, tra i quali Gianni Citterio.

 

In seguito alla riunione del dicembre 1939, il Pci estendeva i collegamenti con le fabbriche: per esempio con la Singer (dove operavano Mentasti, Nanni e Amaglio), la CGS (fratelli Ratti), la Gilera (Melloni) e la Pirelli (Gandini).

Nello stesso tempo diventavano sempre più stretti i rapporti con gli altri partiti antifascisti, cosicché in casa di Ferrari s'incontravano ogni giorno facce nuove: l'avv. Scali, Nino Ratti, Enrico Mauri, Colombo, Sala, Gandini, il giudice Gambalò, “Tom” Beretta, il farmacista Carlo Casanova e Antonio Passerini.

In via Pallavicini, nella casa di Emilio Ghisolfi, insegnante, ebbe inizio in quel periodo anche la scuola di Partito. Ai primi corsi parteciparono con me Vladimiro Ferrari, mio fratello Aldo e Franco Varisco. D'estate questi corsi erano condotti da Carlo Sala, un vecchio militante comunista, ex confinato a Ventotene.

Le lezioni si tenevano in un prato antistante lo stabilimento di cascami Santamaria, nei pressi del passaggio a livello di via Buonarroti.

 

Anche il movimento giovanile acquistò nuova ampiezza; fra i nomi nuovi di giovani antifascisti che allora cominciai a conoscere credo debbano essere ricordati quelli dei compagni Silvio Arosio (“Silvietto”), Cavalli (“Spoldi”), Aurelio Sioli (“Lo Studente”), Barbieri, Franco Varisco e Alberto Colombo, nipote di Ferrari. In conclusione, si può affermare che alla vigilia dell'entrata in guerra dell'Italia il movimento comunista di Monza e della Brianza era un centro di vita e di lotta politica abbastanza organizzato ed efficiente. Per i compagni che avevano bisogno di aiuto funzionava il Soccorso Rosso, il cui recapito era presso il piccolo stabilimento del padre di Citterio, “La Musicografica”, in via Volta, dove aveva pure sede la redazione monzese de “L'Unità”.

Ferrari aveva anche fatto ricorso a un'efficace attività di copertura. Aveva fondato la società sportiva dei “Giovani calciatori”, con sede presso il caffè Venturelli, in via Amati. La presenza sempre più estesa ed articolata del partito impose la necessità di sdoppiare il centro di direzione di Monza: Ferrari restò in contatto con la Brianza orientale, mentre il gruppo di Enrico Bracesco, Nino Ratti e Feliciano Gerosa mantenne i legami con l'altra parte della Brianza. A Carlo Bracesco, coadiuvato dalla cognata Matilde, dalla moglie Maria e dal figlio Emilio, venne inoltre affidata la direzione del Soccorso Rosso. Quando Mussolini decise di entrare in guerra, sui muri di Monza comparve un manifesto: “10 giugno 1924: assassinio Matteotti - 10 giugno 1940: Guerra fascista”.

Per quest'azione la città era stata divisa fra due gruppi: quello di Ferrari, che comprendeva suo figlio Vladimiro, me, mio fratello Aldo e Franco Varisco, operò nelle vie adiacenti Largo Mazzini spingendosi poi, lungo corso Milano, fino al Molinetto; l'altro gruppo, capeggiato dal socialista Casanova e da Buzzelli, si occupò dell'affissione dei manifesti partendo da piazza Roma per spingersi fino al tribunale e oltre il Ponte dei Leoni.

 

Un episodio analogo si ebbe un anno dopo, in seguito all'aggressione tedesca all'Unione Sovietica (22 giugno 1941). Ci riunimmo di notte in casa mia; erano presenti Varisco, Ferrari e suo figlio, mio fratello Aldo e io. Ferrari mi comunicò ufficialmente che facevo parte del partito e passammo subito all'azione.

Con l'occorrente, pennelli e vernice, ci portammo, camminando a piedi, fino a Brugherio, all'incrocio della “Carrozzetta” di Monza col tram di Vimercate, per scrivere sull'asfalto e sui muri nei luoghi più frequentati dagli operai: «W l'armata rossa»; «Morte al nazismo»; «W Stalin».

Nel frattempo la “tipografia” di Omate stampava notte e giorno materiale di propaganda, ma in misura insufficiente, per cui squadre di giovani, di notte, si riunivano per riprodurre altro materiale scrivendo a mano, a “ricalco”.

Spesso mi recavo anch'io a Omate, di notte, per ciclostilare volantini di cui poi curavo la distribuzione. Ero infatti diventato la staffetta di collegamento con tutti i paesi della Brianza.

 

Venni anche nominato responsabile dei giovani comunisti, coi quali intensificai la propaganda: scrivevamo sui muri, affiggevamo manifesti, lanciavamo volantini nei cinematografi.

Anche le riunioni clandestine divennero più frequenti; me ne ricordo in particolare una, tenutasi a casa mia, perché vi partecipò, oltre a Ferrari e a Citterio, anche Giuseppe Gaeta, che era il vice-segretario della Federazione milanese del partito. Terminata la riunione, che ebbe luogo verso la fine del 1942 o all'inizio del 1943, Gaeta si fermò a casa mia e per tutta la notte, mentre a turno facevamo la guardia, ci parlò dello situazione politica in Unione Sovietica.

Poco dopo, nel gennaio 1943, Ferrari fu arrestato, ma venne rilasciato dopo una decina di giorni.

 

Erano i tempi della disfatta nazifascista in Africa e a Stalingrado; si stava avvicinando il crollo del fascismo e gli operai decisero di affrettarlo. Nel marzo 1943 anche a Monza ebbero luogo i primi scioperi dopo vent'anni di dittatura. Alla loro riuscita contribuì in misura notevole il capillare lavoro organizzativo di Enrico Mentasti. È da segnalare particolarmente il fatto che gli operai della Hensemberger e della Singer non si limitarono a presentare rivendicazioni economiche, ma chiesero esplicitamente la destituzione del governo Mussolini e la fine della guerra.

Le loro aspirazioni sembrarono realizzarsi di lì a poco: la sera del 25 luglio si diffuse la notizia della caduta di Mussolini. Il giorno successivo, a mezzogiorno, io e Varisco, partendo dal “Molinetto” percorremmo le vie di Monza su un “tandem” per lanciare volantini tra la popolazione che si era riversata per le strade. Giunti ai negozi Motta, nei pressi dell'Arengario, fummo inseguiti da alcuni militari che, a un certo punto, in corso Vittorio Emanuele, ci spararono pure una fucilata. La popolazione indignata li circondò impedendo loro di inseguirci. Un episodio analogo succedeva in via Italia. Il compagno Arosio di Muggiò, mentre distribuiva gli stessi volantini, veniva arrestato. Ma anche qui numerosi cittadini costringevano i militari a rilasciarlo.

Un folto corteo percorse le vie di Monza con bandiere rosse e tricolori inneggiando alla caduta del fascismo e reclamando la fine della guerra. Mentre il governo Badoglio si mostrava indeciso sulla via da seguire, i tedeschi preparavano l'invasione del Paese, portandola rapidamente a conclusione all'annuncio dell'armistizio».

(continua)

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Giovanni Emilio Diligenti: partigiano in Brianza (parte II)

22 Avril 2014 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Le prime azioni partigiane nel lecchese, nel varesotto e a Milano

 

Fiume-Adda-retro.jpg«L'8 settembre cominciò la guerra partigiana. Gianni Citterio parlò ai monzesi dal balcone del municipio in piazza Carducci. Si raccolsero adesioni alla “guardia nazionale”. Un gruppo di antifascisti riuscì a impadronirsi delle prime armi presso la caserma Pastrengo.

lo non fui diretto testimone di quegli avvenimenti, poiché mi trovavo a Cremona dov'ero stato chiamato 15 giorni prima a prestare il servizio militare. Ero in un reparto di artiglieria e l'8 settembre il comandante della mia batteria decise di non capitolare senza combattere; con una ventina di altre reclute sparai sui tedeschi sino a mezzogiorno.

Poi la resa e il campo di concentramento a Mantova, in cui rimasi per poco tempo. Fuggii con altri compagni da un tunnel che portava al Mincio e tornai a Monza.

 

Mi incontrai subito con Ferrari, nella casa di suo fratello Luigi, in via Pallavicini, ed esaminammo insieme la situazione. L'occupazione tedesca si era già consolidata. A Monza riprese la sua feroce attività il famigerato squadrista Luigi Gatti, detto Gino, responsabile di numerosi omicidi a partire dal 1920.

Ferrari decise infine di unirsi alla formazione partigiana dislocata al Pian dei Resinelli. Non era giovane come me, che non avevo ancora vent'anni; lui ormai ne aveva 48, eppure, senz'alcuna esitazione, stabilì di intraprendere la dura e pericolosa vita del partigiano, in montagna. Presa la decisione, partimmo subito, la mattina seguente, all'alba. Alla stazione di Lecco c'era ad aspettarci il compagno “Farfallino” (poi fucilato dai fascisti), che ci accompagnò alla Capanna Stoppani, dove aveva la sua base la “banda” partigiana e dove trovammo altri antifascisti brianzoli.

Brianza-dai-monti-lecchesi.JPGLa zona montana in cui erano dislocati i reparti partigiani era di considerevole importanza strategica: vi passavano le statali dello Spluga e dello Stelvio, vie di transito per la Svizzera, e la ferrovia della Valtellina. Si può pertanto capire la preoccupazione del comando tedesco, che fece affluire nella zona due battaglioni di alpini germanici di stanza a Bassano del Grappa, dando inizio il 17 ottobre a un vastissimo rastrellamento.

Partendo da Mandello, da val Calolden, da val Grande e dalla rotabile del Lario, i tedeschi, dopo aver bloccato i centri abitati, tentarono di accerchiare i reparti partigiani, che ebbero però l'ordine di ripiegare per far fallire il tentativo nemico di eliminare con un'unica, grandiosa operazione tutte le forze partigiane dalla bassa Valtellina alla Bergamasca. Infatti, ripiegammo lentamente, sparando con parsimonia, a colpo sicuro, e ingaggiando talvolta brevi ma violentissimi combattimenti per permettere lo sganciamento di altri gruppi. Il 18 ottobre, per esempio, il gruppo “Grassi” di Campo de' Boi e la formazione “Stoppani” costrinsero i tedeschi a ripiegare a valle in seguito alla vittoriosa resistenza opposta all'Alpe di Cassin, Balisio e nella zona di Pasturo.

 

Il giorno successivo si ebbero altri scontri alla Bocchetta di Erna, a Campo de' Boi, a Costa Balasca e al Passo del Fo'. Il 20 ottobre, quarto e ultimo giorno della battaglia, nuovi combattimenti si ebbero a Cascina Stoppani, a Cascina Monzese e a Cascina Grassi. Lo stesso giorno i partigiani completarono l'operazione di sganciamento, dirigendosi a piccoli gruppi verso il Nord, mentre i reparti tedeschi sfogavano la loro rabbia incendiando case, baite, fienili, e imprigionando un centinaio di civili accusati d'aver aiutato i partigiani. Tra i tedeschi si ebbero 11 morti e 32 feriti, tra i partigiani 4 morti, 5 feriti, 20 prigionieri - quasi tutti ex-prigionieri di guerra Alleati -. Da notare che nessun partigiano armato era stato catturato dal nemico.

Mi aggirai su quelle montagne assieme ad altri otto compagni, per tre giorni e due notti; i pastori ci informavano dei movimenti delle truppe tedesche, aiutandoci a sfuggire alle loro ricerche. Infine a Brivio trovammo un barcaiolo che ci traghettò sull'altra sponda dell'Adda, contentissimo di aiutare coloro che si battevano contro “quei cani di tedeschi e di fascisti”. Costeggiando la statale N° 36, io e mio fratello Aldo raggiungemmo a piedi Usmate e da lì Cavenago, roccaforte antifascista e base partigiana. Ci rifugiammo in casa del compagno Raineri Fumagalli, in attesa di riprendere i contatti con l'organizzazione clandestina. Ferrari non era con noi, perché qualche giorno prima del rastrellamento era sceso a Lecco per partecipare a una riunione del locale CLN, presieduta dal compagno Gabriele Invernizzi».

 

La battaglia sul San Martino

    san-Martino.jpg«Un mese dopo mio fratello e io partecipammo a un'altra battaglia, quella di S. Martino, dove ci aveva inviati l'organizzazione clandestina comunista. Nella fortezza di S. Martino, sopra Varese, si era stanziato il gruppo Cinque Giornate, costituito poco dopo l'armistizio dal colonnello Carlo Croce. La formazione era composta per lo più da ex-avieri ed ex-ufficiali, ma in seguito vi affluirono molti operai di Cinisello Balsamo e di Brugherio, inviati dall'organizzazione clandestina di Sesto S. Giovanni.

Il colonnello Croce e gli ufficiali che guidavano la formazione si dichiaravano genericamente “badogliani” e seguivano una linea “attesista”. Il reparto si era impossessato di una notevole quantità d'armi e di viveri con una serie di riuscite operazioni, come quella alla caserma della guardia di Finanza a Luino. Tutto era stato raccolto nella fortezza, che avrebbe dovuto diventare una base inespugnabile da cui sarebbe partita, in concomitanza con l'arrivo delle truppe alleate, la decisiva offensiva contro i nazi-fascisti.

 

Inutilmente Gianni Citterio, inviato dal CLNAI, cercò di convincere il colonnello Croce della necessità di dislocare le forze partigiane - circa centocinquanta uomini - in gruppi meno numerosi e più mobili, localizzati in diversi punti strategici. Prevalse purtroppo la mentalità degli ufficiali, illusi di aver creato una base inattacabile.

Lo sbaglio fu pagato a caro prezzo: il 14 novembre più di duemila tedeschi mossero all'attacco, appoggiati da cannoni, mortai e anche da tre Stukas. La resistenza durò quarantotto ore, al termine delle quali il gruppo Cinque Giornate si disperse; la maggior parte dei suoi componenti si rifugiò in Svizzera. I partigiani morti in combattimento furono appena due, mentre trentasei furono fucilati dopo la cattura. Ben più pesanti le perdite nemiche: duecentoquaranta morti e un apparecchio (fui testimone oculare dell'abbattimento dello Stukas: un partigiano robustissimo, un vero gigante, prese sulle spalle una delle dieci mitragliatrici Breda pesanti di cui era fornito il reparto, fungendo da piazzola semovente; due altri sostenevano i piedi della mitragliatrice e un quarto sparava, finché riuscì a colpire l'aereo.

 

La difesa ad oltranza della posizione, concezione che esulava da una corretta conduzione della guerriglia, aveva sì provocato gravissime perdite tra le truppe attaccanti, ma aveva anche causato la fine di una formazione che, per la qualità e la quantità di mezzi e di uomini, avrebbe potuto rappresentare una grossa spina nel fianco dei nazi-fascisti per ancora molto tempo. Durante la battaglia fui ferito alla gamba destra: la pallottola mi fu estratta con un paio di forbici da don Mario Limonta, un sacerdote di Concorezzo che fungeva da cappellano e dal medico del gruppo. Di notte, don Limonta cercò di guidare me ed altri sei partigiani feriti nella discesa verso la pianura. L'impresa mi riuscì difficile, perché la ferita mi impediva di camminare, cosicché mio fratello Aldo dovette caricarmi sulle sue spalle. Dopo un po' perdemmo i contatti con gli altri feriti ma, sia pure a fatica, raggiungemmo la provinciale.

Attraversata la strada a una curva, procedendo un po' carponi e un po' sulle spalle di Aldo, arrivammo in un paese dove, all'alba, salimmo su un trenino che ci portò a Varese. Da qui in ferrovia a Saronno, poi in corriera a Monza e infine di nuovo a Cavenago. Nascosto in casa di Fumagalli, fui curato da Innocente e Mario, rispettivamente cugino e fratello di Raineri. In seguito, per ragioni di sicurezza e per curare meglio la ferita, fui trasferito a Milano dal compagno Giacinto Parodi. In via Padova al 26, Parodi aveva un laboratorio artigiano di guarnizioni, mentre la sua abitazione era al n° 40 della stessa via.

 

In casa di Parodi fui curato da un medico che mi guarì completamente. Ristabilitomi, l'organizzazione clandestina del partito mi inviò nuovamente nel Lecchese. Con Aldo e due compagni che abitavano in via Brembo a Milano (Lucio e il fratello minore di Chiesa) fummo ospitati per una settimana in casa di un compagno macellaio di Castello di Lecco e poi ci recammo sul “Prà Pelà” ad Airuno. Qui ritrovai Ferrari insieme a Chiesa (Leo) e a una decina di partigiani sovietici e jugoslavi “disertori” della Todt tedesca, che l'organizzazione clandestina di Monza aveva inviato in quella formazione. Più tardi ci raggiunse anche Livio Cesana di Biassono.

A gennaio venne a farci visita Gianni Citterio che, dopo aver discusso coi comandanti Ferrari e Chiesa, ripartì il mattino seguente, Fu l'ultima volta che vidi Citterio, che era ormai diventato uno dei massimi esponenti del Partito. La notizia della sua morte me la comunicò il dottor Casanova, nella farmacia al Ponte di via Lecco.

 

Ero sceso dalla montagna per prendere contatti con alcune nostre “basi” di pianura a Cavenago, Omate, Vimercate, Bernareggio, ecc. (bisognava predisporre l'organizzazione delle Brigate Sap), e per ritirare in farmacia una pomata a base di zolfo contro una fastidiosa malattia, la scabbia, da cui molti partigiani erano affetti.

La formazione del “Prà Pelà” non ebbe una vita molto lunga. Dopo una ventina di giorni arrivò un contadino trafelato, che ci avvisò che i fascisti erano giunti in forze in paese e si preparavano a salire. Ferrari e Chiesa decisero di sganciarsi subito, anche perché, ci dissero, Citterio aveva dato disposizioni in tal senso, tenuto conto del fatto che con noi vi erano i sovietici e gli jugoslavi, che dovevano essere inviati in altre località. L'intera formazione, sedici uomini in tutto, riuscì a eludere l'attacco nemico.

Soltanto Lucio, che si era slogato una caviglia alcuni giorni prima, fu catturato dai fascisti; lo avevamo nascosto in casa di un contadino, ma fu scoperto e arrestato, nonostante il contadino avesse spinto la sua solidarietà fino al punto di dichiarare che era un suo parente, sbandato dopo l'armistizio. Lucio fu inviato in un campo di concentramento tedesco. Intanto noi, passando attraverso i boschi, riuscimmo a raggiungere la pianura sul far della sera. Nascoste le armi nel fienile di un contadino appartenente all'organizzazione della Resistenza, a sera inoltrata, su un carro bestiame, viaggiammo fino alla stazione di Usmate-Velate. Poi, a piedi, camminando tutta la notte, arrivammo ancora a Cavenago, dove il compagno “Zobi” ci alloggiò nella sua stalla.

Rimanemmo a Cavenago alcuni giorni, finché l'organizzazione del partito inviò i sovietici e gli jugoslavi in montagna, Ferrari in Val Grande, io e mio fratello a Milano ancora da Parodi, i due fratelli Chiesa in altra località».

(continua)

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Giovanni Emilio Diligenti: partigiano in Brianza (parte III)

22 Avril 2014 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Nei Gap (Gruppi di azione patriottica) a Milano

«A Milano rimasi fino al marzo 1944 militando nei Gap, che erano i nuclei clandestini per eccellenza. Ogni Gap era composto da tre o quattro uomini; solo il comandante era collegato col comando dei Gap esistente in città.

Le precauzioni cospirative erano ferree e scrupolosamente rispettate: io e mio fratello venivamo presentati da Parodi come suoi cugini di Ovada, suo paese di origine, a tutti i militanti antifascisti con cui avevamo occasione di incontrarci. Avevamo inoltre documenti falsi, da cui non potevamo risultare renitenti alla leva o sbandati dopo l'armistizio. Aldo aveva veramente i diciott'anni risultanti dai documenti e, quanto a me, la corporatura minuta e il viso, ancora da ragazzino, convincevano anche le guardie fasciste che talvolta mi fermavano della veridicità di quei diciassette anni assegnatimi dai nostri falsificatori.

 

Fra le azioni compiute dai Gap, ne ricordo in particolare una per un pericoloso incidente che si verificò. Erano i primi giorni di marzo e si stava svolgendo in tutt'Italia il grandioso sciopero generale proclamato dal CLNAI. Era necessario appoggiare, con atti di sabotaggio, lo sciopero dei tranvieri per cui Parodi, mio fratello e io ricevemmo l'ordine di far saltare con la dinamite gli scambi dei tram di piazzale Loreto.

Avevamo avuto quattro tubi di dinamite, numerati, appositamente preparati dai nostri artificieri per esplodere simultaneamente. Senonché, mentre stavamo innescando il terzo, uno dei due tubi già sistemati esplose all'improvviso. In fretta innescammo le due ultime cariche e via a gambe levate, verso il laboratorio di Parodi, a 300 metri da piazzale Loreto. Ancor oggi non riusciamo a spiegarci cosa fosse accaduto.

Durante la permanenza da Parodi presi parte a qualche altra azione: disarmo di fascisti che a sera inoltrata si trovavano isolati per le strade; affissione di volantini e manifesti antifascisti; lancio di chiodi a tre punte costruiti in modo particolare perché, comunque cadessero per terra, una punta rimaneva sempre rivolta verso l'alto e quindi, penetrando nelle ruote degli automezzi tedeschi e fascisti, ne faceva scoppiare il pneumatico. Ebbi anche l'occasione di conoscere alcuni antifascisti milanesi amici di Parodi, fra i quali, in particolare, Giovanni “l'infermiere” che veniva per curare Parodi e approfittava dell'occasione per farci delle vere lezioni di antifascismo. Conosceva bene la storia del movimento operaio e delle sue lotte perché era stato anche lui “all'università degli antifascisti”, cioè in carcere. Oltre a lui, conobbi in quel periodo Tino Camera, Tonino Abba e altri».

 

La costituzione della Divisione “Fiume Adda”

«La mia esperienza gappista ebbe termine alla fine di marzo, quando il partito mi mandò di nuovo in Brianza per preparare la costituzione delle Sap (Squadre di azione patriottica), che formeranno in seguito le Brigate Garibaldi inquadrate nella Divisione “Fiume Adda”.

 giornale SAP provincia Milano

I tempi erano ormai maturi per intensificare la lotta armata anche in pianura. Nei primi mesi del 1944 il movimento partigiano era una forza reale, radicata nella popolazione e gli stessi Alleati erano costretti a riconoscerlo. Le “missioni” paracadutate dal Comando alleato scoprirono un'Italia nuova, con valli libere e organizzate, con migliaia di uomini armati, con migliaia di caduti. I partigiani c'erano e combattevano seriamente contro i nazi-fascisti. Strappando loro le armi, avevano meritato quelle degli .anglo-americani. Le richieste dei partigiani agli Alleati erano sempre le stesse: armi, e la prova del fuoco per gli uomini. Contemporaneamente, la Resistenza si organizzava anche sul piano politico; sorgevano dovunque i Comitati di liberazione nazionale, espressione dei partiti antifascisti. Nei primi mesi del 1944 si stavano intensificando anche le lotte operaie, che si esprimevano non solo con gli scioperi, ma pure con ripetuti atti di sabotaggio alla produzione bellica.

In questo quadro si inseriva la necessità di estendere la guerriglia anche in pianura, affiancandola e coordinandola alle lotte operaie. Occorreva attaccare le vie di comunicazione (strade, ponti, linee ferroviarie) e compiere azioni contro i reparti nazi-fascisti nei paesi, nei loro posti di ritrovo e di transito, nelle loro caserme.

 

Venni dunque inviato in Brianza dal Comando delle Brigate d'assalto Garibaldi per costituirvi i primi distaccamenti delle Sap; ricevettero lo stesso incarico mio fratello, Giordano Cipriani (“Bassi” Contardo Verdi, Andrea Galliani e Mascetti.

Prendemmo dapprima contatto a Monza con i compagni Rinaldo Vegetti e “Comin”, che ci ospitarono per qualche giorno nella loro stalla alla cascina San Bernardo, in viale Libertà. Poi Vegetti ci accompagnò a Concorezzo dal compagno Casiraghi, un artigiano generoso e coraggioso. Egli non esitò un attimo ad accoglierci in casa sua, ben sapendo il grave rischio cui andava incontro unitamente alla sua famiglia. Iscritto al Pci dal 1921, era originario di Burago Molgora, un centro rosso della Brianza Vimercatese. In casa sua passavano molti partigiani e molti appartenenti all'organizzazione clandestina. Veniva Albertino Paleari a ritirare la stampa clandestina del Pci che giungeva direttamente a Concorezzo da Milano; da Trezzo d'Adda veniva con lo stesso compito Luigi Radaelli (“Gigio”). Casiraghi aveva ospitato per due notti anche Ferrari, prima della sua partenza per la Val Grande. Facendo “visite” saltuarie in casa Casiraghi (di volta in volta eravamo a Vimercate da Levati, a Ornate da Berto Gilardelli, a Cavenago da Fumagalli, “Zobi” e altri, a Burago da “zio Modesto”, a Gorgonzola, ecc.), ci mettemmo subito al lavoro. I documenti falsi, indispensabili a causa dei nostri frequenti spostamenti, ci venivano forniti anche dalla figlia di Casiraghi, Iride, una ragazzina di diciassette anni che dopo la Liberazione diventò mia moglie. Iride lavorava alle poste ed ebbe così modo di conoscere un impiegato del Comune, da cui si procurava le carte d'identità false.

 

A Concorezzo, in casa del compagno Rurali, vicino. alla Roggia Ghiringhella, installammo il Comando della 103aBrigata Garibaldi; il Comandante era Verdi (“Ciro”), il vice-comandante io, il vice-commissario mio fratello Aldo.

Iniziammo il raggruppamento delle squadre di distaccamenti. Vennero costituiti quello di Vimercate (comandante: Igino Rota), Concorezzo (comandante: Adriano Radaelli; commissario: Ottorino Cereda), Brugherio (comandante: Nando Mandelli), Cavenago (Comandante: Mario Fumagalli), Trezzo, Arcore, Bernareggio, Caponago, Omate, Ornago, Rossino.

Non era soltanto un'attività organizzativa. Man mano che si formavano i distaccamenti si agiva, si effettuavano azioni di guerra: disarmo di fascisti; assalti notturni alle caserme e ai posti di blocco; sabotaggi alle linee ferroviarie e lancio sulle strade di chiodi a tre punte; blocchi e at­tacchi a convogli tedeschi e fascisti sull'autostrada Milano-Bergamo, In un'operazione di quest'ultimo tipo rimase ferito Tommaso Crippa (“Maso”) del distaccamento di Concorezzo; fu portato all'ospedale di Vimercate dove, curato e protetto da medici e suore appartenenti alla Resistenza, dovettero amputargli una gamba.

 

Il primo distaccamento che si costituì fu quello di Vimercate, dove alcuni “vecchi” antifascisti (Frigerio, Scaccabarozzi, Galbusera e altri ancora) avevano già riorganizzato le file del movimento clandestino, nel quale era entrato un giovane deciso e coraggioso, di poche parole, ma efficaci e precise: Igino Rota. Fu lui a informare il Comando dell'esistenza a Vimercate di alcuni giovani disposti a combattere; occorreva però organizzarli e armarli. La loro base era il cascinale del “Mancino”, a poca distanza dalla provinciale Milano-Trezzo-Bergamo.

Io stesso consegnai un pomeriggio a Rota due mitra Beretta calibro 9, dopo averli portati a Vimercate avvolti in un sacco legato sulla canna di una bicicletta. In poco tempo si formò il distaccamento, comandato da “Acciaio”, lo pseudonimo assunto da Rota.

Gli altri componenti erano: Mario Cazzaniga, Emilio Cereda, Pierino Colombo, Carlo Levati, Aldo Motta, Renato Pellegatta, Luigi Ronchi, Verderio e infine mio fratello Aldo e io. Consideravamo componente del distaccamento anche Enrico Assi, un giovane sacerdote di Vimercate, oggi vescovo.

Parecchie furono le azioni compiute dal distaccamento di Vimercate, al quale il Comando affidava quasi sempre le imprese più impegnative e rischiose. Sabotaggi alla linea ferroviaria Milano-Lecco-Sondrio, attacchi alle colonne nazi-fasciste, in particolare sull'autostrada Milano-Bergamo e sulla statale 36, disarmo di soldati nemici, recupero di armi. Ma le operazioni più importanti furono gli attacchi alla caserma della G.N.R. di Vaprio d'Adda e al campo di aviazione di Arcore».

 

Gli attacchi alla caserma della G.N.R. di Vaprio d'Adda e al campo di aviazione di Arcore

«L'azione di Vaprio, svoltasi il 6 ottobre 1944, fu compiuta dal distaccamento di Vimercate assieme a reparti della 119aBrigata Garibaldi, che operava nella Brianza Occidentale al comando di Alberto Gabellini (“Walter”).

 

Travestiti da fascisti, di notte, disarmammo la ronda mentre stava uscendo da un caffè nel centro del paese; portammo i tre fascisti catturati alla loro caserma e li costringemmo, sotto la minaccia delle armi, a dire la parola d'ordine alla guardia che s'era affacciata allo spioncino. L'improvvisa irruzione di una decina di partigiani sorprese i militi fascisti che stavano mangiando, ignari e incapaci di immaginare che i partigiani potessero osare tanto. Dopo pochi attimi i fascisti, una quindicina, erano a mani in alto addossati al muro, pieni di paura. Avevamo ricevuto ordini precisi, in base ai quali dovevamo giustiziare il comandante lasciando liberi tutti gli altri fascisti. Ebbene, quando i nostri compagni scovarono il brigadiere che comandava la caserma, il “bandito” Gabellini non fu capace di eseguire l'ordine. Si accontentò di assestargli un poderoso calcio nel sedere e di ammonirlo: «Non farti incontrare un'altra volta sulla mia strada».

manifesto-Pessano-fucilazione-Walter.JPG“Walter” sarà fucilato a Pessano il 9 marzo 1945 assieme ad altri sei partigiani (Angelo Barzago, Romeo Cerizza, Claudio Cesana, Dante Cesana, Mario Vago, Angelo Viganò). Catturati in seguito a una spiata, i sette “banditi”, come venivano chiamati i partigiani dai fascisti, furono condannati a morte. Una ricerca condotta dal Comitato Antifascista di Pessano così ricostruisce la loro morte: «I sette partigiani vengono lasciati sul carro tutto coperto. Luigi Gatti, gerarca di Monza, legge la sentenza di morte: i banditi sono rei confessi di appartenere al movimento insurrezionale; di aver svolto attività terroristica e rapine a mano armata. Poi il Maggiore Wernik dà ordine di affiggere ai muri di Pessano il manifesto della incriminazione e fucilazione. Alle ore 17,45 viene gridato l'ordine di procedere, il carrozzone parte seguito da una macchina berlina. Il corteo passa per le vie Vittorio Veneto, Vittorio Emanuele e Monte Grappa fermandosi davanti a casa Colombo. Luigi Gatti fa allineare gli altri contro il muro. Sulla riva del torrente Molgora due fascisti con il loro Mab spianato sono già pronti a sparare. Alle ore 18.00 due violente raffiche di mitra lacerano l'aria. È testimoniato che tra la prima e la seconda raffica Gabellini, il famoso Walter, ha il tempo di gridare: «SPARATE SU DI ME, VIGLIACCHI, NON SU QUESTI RAGAZZI». Vago, Mario, Cesana, Cerizza e altri riescono a sussurare: «VIVA L'ITALIA! VIVA I PARTIGIANI!». Poi i sette corpi cadono a terra».

Così morì “Walter” che, iscritto da tempo al Pci, aveva conosciuto per alcuni anni le galere fasciste per la sua attività e, pur combattendo coraggiosamente, non si sentiva di odiare nessuno. La 103a Brigata Garibaldi aveva assunto il nome di suo padre, Vincenzo, ucciso e pugnalate dai fascisti e abbandonato in una roggia a Cambiago, nel 1921.

 

Igino Rota morì durante un'azione al campo d'aviazione di Arcore. La sera del 20 ottobre 1944 il distaccamento che lui comandava si riunì nella base per studiare in tutti i dettagli l'attacco all'aeroporto, avvalendosi delle preziose informazioni fornite dai CLN di Arcore e di Vimercate. Stabilito il piano, verso le dieci di sera, sei partigiani, travestiti da repubblichini e armati di mitra, si incamminarono in fila indiana lungo il bordo della strada provinciale Oreno-Arcore, avvicinandosi all'aeroporto.

1944-20-ott-campo-volo-Arcore-aereo-distrutto.JPGGli altri componenti del distaccamento e un gruppo di giovanissimi patrioti del Fronte della gioventù si diressero verso l'obiettivo attraverso i campi.

I sei partigiani fecero irruzione nella sede del corpo di guardia, immobilizzando le dieci sentinelle fasciste. Tagliati i fili del telefono e lasciato un garibaldino di guardia, il gruppetto si ricongiunse con gli altri partecipanti all'azione e tutti insieme si diressero verso gli hangar. Le torce elettriche illuminarono cinque aerosiluranti tipo Savoia Marchetti 79, pronti a spiccare il volo per le loro missioni di morte. Dopo aver ammucchiato intorno agli apparecchi bidoni di olio lubrificante, fusti di benzina, bombole di acetilene e di ossigeno e tutto il materiale infiammabile che riuscimmo a scovare, lanciammo alcune bottiglie “molotov”.

Ormai lontani, nei campi, sentimmo violente esplosioni e scorgemmo bagliori accecanti che illuminavano l’obiettivo della nostra azione. L'operazione, conclusasi con la distruzione di tutti gli aerei, meritò una citazione solenne da parte del Comando di Divisione e venne menzionata anche nel corso del notiziario trasmesso dr Radio Londra.

 

Due mesi dopo, il 29 dicembre 1944 il distaccamento decise di ripetere l’attacco. Si unirono a noi alcuni partigiani del Fronte della gioventù e della 13a Brigata del Popolo, la formazione dei cattolici vimercatesi guidata da Felice Sirtori. Ci dividemmo in due squadre: la prima, al comando di “Acciaio”, doveva disarmare la ronda forzare l'ingresso nel campo e infine catturare tutti i militi del presidio; a questo punto sarebbe entrata in azione la seconda squadra, guidata da Carlo Levati, con il compito di distruggere gli apparecchi.

Stava già concludendosi la prima fa e dell'attacco quando un banale incidente fece fallire l'operazione, causando la morte di Igino Rota. L'ultima sentinella, disarmata davanti alla sede del presidio, riuscì a dare l'allarme, cosicché la sorpresa non fu completa. Nello scontro con i fascisti, il comandante del distaccamento fu abbattuto da una raffica di mitra. Immediatamente iniziò una furibonda sparatoria. I militari fascisti non ancora catturati erano asseragliati nella palazzina del comando e da qui sparavano a zero con tutte le armi automatiche a loro disposizione; noi rispondevamo al fuoco, nel disperato tentativo di recuperare il corpo del nostro comandante, essendo ormai impossibile concludere l'operazione prefissata. Tutto, però, fu inutile, perché il nostro armamento era inferiore e inoltre eravamo in una posizione precaria, in mezzo al campo, illuminato dalla luna piena, assolutamente allo scoperto. Fu perciò necessario ritirarsi, lasciando in mani fasciste il corpo di Rota. Le perdite del nemico non furono mai comunicate ufficialmente ma, da notizie raccolte dai CLN di Arcore e di Vimercate, risultò che almeno dieci furono i fascisti messi fuori combattimento.

 

ordine-fucilazione-5-partigiani-Vimercate.JPGPurtroppo, il triste bilancio dell'azione non si limitò alla perdita di “Acciaio”: identificato il caduto, divenne facile per i fascisti, aiutati da una spia del luogo, risalire alla cerchia di conoscenti e amici di Rota. Perquisizioni, arresti, interrogatori, minacce e lusinghe ai familiari portarono alla cattura di una parte dei componenti il distaccamento nella notte tra l'1 e il 2 gennaio 1945, poche ore prima che ci si ritrovasse per spostarci in un'altra zona e sottrarci alle ricerche. Riuscirono a sfuggire all'arresto solamente pochi partigiani, tra cui Carlo Levati, che si lanciò seminudo dalla finestra al primo piano della sua abitazione e percorse a piedi nudi otto chilometri nei campi ricoperti di neve, prima di trovare rifugio nella base di Cavenago.

Arrestati, interrogati, torturati, i giovani patrioti vennero poi rìnchiusi nelle carceri milanesi di San Vittore. Qui, la mattina del 2 febbraio, sfogliando il “Corriere della Sera” i familiari che attendevano davanti al portone per consegnare ai loro cari viveri e capi di vestiario appresero la tremenda notizia: Cereda, Colombo, Motta, Pellegatta e Ronchi erano stati fucilati alle quattro del mattino nello stesso aeroporto di Arcore che aveva visto le loro imprese.

 

Il tribunale fascista di Milano che aveva emesso la sentenza condannò a trent'anni di carcere, data la minore età, altri quattro giovanissimi patrioti, appartenenti al Fronte della gioventù, che vennero liberati dai partigiani il 25 aprile. Anche don Enrico Assi, in due riprese, e Felice Sirtori furono arrestati; in particolare, il comandante della 13a Brigata del Popolo fu torturato a lungo nelle carceri di Monza, ma i fascisti non riuscirono a strappargli né un nome né un'informazione e furono così costretti a rilasciarlo dopo alcune settimane.

Fu un momento terribile per la 103a Brigata Garibaldi: alla perdita di compagni con cui avevamo condiviso rischi, trepidazioni, gioie e dolori, si aggiungeva la dissoluzione del distaccamento di Vimercate, il più attivo della Brigata. Coloro che riuscirono a sottrarsi alla cattura si diedero alla macchia, mentre io fui inviato nella 105aBrigata, sempre in qualità di vice-comandante. Rimasi nel distaccamento di Gorgonzola fino alla liberazione, che era ormai vicina».

 

Emilio Diligenti assessore.jpgAlla fine della guerra, smessi i panni del partigiano, Emilio Diligenti cominciò subito la sua attività come segretario della Camera del Lavoro di Lissone e dopo qualche tempo fu eletto Consigliere comunale della nostra città. In seguito fu Consigliere provinciale e quindi Assessore. Nel 1981 fu premiato dalla Provincia di Milano con il premio Isimbardi per aver “costantemente lottato per la progressiva attuazione degli ideali di giustizia sociale, unendo alle capacità di iniziativa dinamica e realizzatrice, l’interesse per la storia della Brianza”. Emilio Diligenti ci ha lasciato un importante libro sulla storia del nostro territorio, scritto con l’amico giornalista Alfredo Pozzi, dal titolo “La Brianza in un secolo di storia italiana (1848-1945)”.

libro-Storia-della-Brianza.jpg 

La nostra Sezione A.N.P.I. di Lissone è a lui intitolata.

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in ricordo di Gianni Citterio, medaglia d’oro al valor militare

12 Février 2014 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Sabato 22 febbraio 2014: la cerimonia di commemorazione a Monza

Gianni Citterio-copie-1


Nato a Monza il 13 giugno 1908, caduto a Megolo (Novara) il 13 febbraio 1944, laureato in Legge, Medaglia d’oro al valor militare alla memoria.


L’incontro e la morte di Gianni Citterio

dal libro “Tornim a baita. Dalla campagna di Russia alla Repubblica dell'Ossola” di Giovanni Battista Stucchi.

 

Gianni Citterio nacque a Monza il 13 giugno 1908. Figlio di Giuseppe, vecchio militante socialista (nel 1945 sarà sindaco di Monza) e di Angela Sacconaghi. Gianni frequentò le elementari alla scuola Dante Alighieri di Monza, poi il ginnasio allo Zucchi, il liceo Berchet di Milano e l’università a Pavia dove nel 1913 si laureò in legge.

Quando Stucchi si trovava sul fronte del Don, i maggiori esponenti dell'antifascismo monzese si riunivano clandestinamente nel retro della farmacia Casanova o nello studio legale Scali: ebbene, promotore e animatore di quegli incontri era Gianni, il più giovane di tutti.

Gianni Citterio era stato uno degli organizzatori del Partito Comunista italiano.

Il 26 luglio 1943, tra la città esultante per la destituzione di Mussolini, Gianni Citterio, dopo aver guidato un lungo corteo di popolo, parlò nel salone affollato della trattoria Santa Lucia, in via Manara, incitando tutti ad organizzare la resistenza.

L’8 settembre parlò per l’ultima volta pubblicamente ai monzesi: aveva 35 anni. Tenne un comizio dal balcone del municipio, in piazza Carducci, attorniato da rappresentanti dei partiti democratici. Più tardi, questi dirigenti antifascisti riuscivano ad ottenere le prime armi dal comandante della caserma Pastrengo, mentre i tedeschi occupavano la città.

Dopo l’8 settembre 1943, Gianni Citterio era stato mandato in montagna, con nome di battaglia Diomede, nella formazione partigiana di Filippo Beltrami (architetto milanese) a rappresentare il Comitato militare del CLN Alta Italia, allora diretto da Ferruccio Parri.

Nell’assolvere la sua funzione di commissario politico della formazione, aveva assunto il nome di Redi.

Nel breve periodo che seguì la partenza da Milano, costretto con gli uomini della banda Beltrami alle estenuanti marce di trasferimento dalla Valle Strona a Premosello prima e a Megolo d'Ossola poi, Gianni non si concesse riposo. I pochi sopravvissuti ricordano ancora il commissario politico Redi, l'alta figura dell'”avvocato di Milano” con i pantaloni alla cavallerizza, presente ovunque col consiglio pieno di senno, con la parola d'incoraggiamento.

«Gli uomini, una sessantina, avevano trovato temporaneo riparo in vecchie baracche di legno situate su di un ripiano del pendio alle spalle del paese. A una proposta di tregua avanzata il giorno precedente dal comando tedesco era stata data risposta con le parole suggerite da Gianni: «Col nemico non si tratta».

Erano le sei del mattino del giorno 13 quando un partigiano arrivò di corsa trafelato ad annunciare che i tedeschi provenendo su automezzi dalla bassa valle, stavano occupando Megolo. In pochi minuti gli uomini si portarono ai rispettivi posti di combattimento, come già stabilito.

Il fuoco incessante delle mitragliatrici, dei mortai e dei cannoncini a tiro rapido da parte nemica incominciò subito e con tale estensione e intensità da far capire che non sarebbe stato facile uscire indenni da quell'inferno. Per di più i tedeschi avevano quasi effettuato l'accerchiamento su tre lati il quarto era costituito dal fianco del monte in quel tratto inaccessibile. Il capitano Beltrami, appena se ne rese conto, ordinò ai suoi uomini la ritirata, restando egli fermo in luogo per proteggerla assieme agli altri componenti del comando.... Ha scritto un superstite fortunosamente scampato al massacro: «Sulla nostra destra si era appostato Gianni Citterio (Redi). Ma poco dopo anche da quella parte venne un lamento. "Ritirati, ritirati", gridò il capitano. Ci parve che si muovesse e poi sentimmo un rantolo. Era finita. Anche Gianni era morto».

Inutilmente nei giorni che seguirono il giudice istruttore del Tribunale di Verbania cercherà di accertare l'identità del «commissario Redi». Fu sepolto in anonimo, come se nessuno lo avesse mai visto né conosciuto. Non era vero: molti erano stati coloro che lo avevano conosciuto e amato. Quando una settimana dopo potei recarmi al piccolo cimitero di Megolo, vidi che sul tumulo di terra fresca della sua tomba, l'ultima a destra del vialetto centrale, era stata deposta una grande corona di fiori: recava la testimonianza di amore e di riconoscenza degli operai della Rumianca (azienda chimica con stabilimento in Val d’Ossola)».

 

 

 


 

 

 

Militante nel Partito comunista dal 1940, fu tra gli organizzatori degli scioperi milanesi del marzo 1943. Il giorno dopo l’annuncio dell’armistizio, Citterio parlò da un balcone del palazzo municipale di Monza, incitando i suoi concittadini alla lotta contro gli invasori tedeschi. Si diede quindi all’organizzazione, a Milano e in Lombardia, dei primi Gruppi d’Azione Patriottica e delle prime bande partigiane. In rappresentanza del Partito comunista, il giovane avvocato entrò nel primo Comitato militare del CLNAI e, come ispettore del Comando generale delle Brigate Garibaldi, fece la spola tra Milano e la Val d’Ossola, finché il Comando stesso reputò opportuno che Citterio si fermasse nell’Ossolano, per accelerare l’organizzazione di quel movimento partigiano.

Nel ruolo di commissario politico della banda dell’architetto Filippo Beltrami, Citterio (che aveva scelto il nome di battaglia di "Redi") esercitò un grande ascendente sui giovani che cominciarono, sempre più numerosi ad entrare nella formazione. Il progetto di Redi, mirante a trasformare le prime bande di combattenti in vere e proprie Brigate, non fu portato a compimento da lui. Cadde, con il capitano Beltrami e con altri valorosi antifascisti, nello scontro di Megolo.

Nella motivazione della ricompensa al valore assegnata alla memoria di Citterio è scritto: "Attivissimo organizzatore della resistenza partigiana, prese parte a tutte le più rischiose imprese della sua formazione, accoppiando intrepido coraggio alle supreme idealità. Mentre con un pugno di audaci rientrava da un'ardita impresa compiuta, venne attaccato da forze nemiche venti volte superiori, e senza esitare accettò la disperata battaglia. Benché ferito ripetutamente, mentre attorno a lui cadevano tutti i suoi compagni, sostenne l'impari lotta, finché colpito da una raffica di mitraglia esalava lo spirito invincibile".

 

Scritto da GIANNI CITTERIO nel giornale clandestino “PACE E LIBERTA’” il 25 giugno1943

SPEZZIAMO LA SCHIAVITU

"L’italiano, dopo vent’anni di fascismo, si può paragonare ad un ammalato di lunga estenuante malattia che cerca sottrarsi al male che lo porta alla morte ma che non trova in sé la forza di reagire. Immaginiamoci di essere guidati da un medico che cerchi di sviluppare a gradi le nostre energie latenti, fino a che le forze irromperanno rigogliose a nuova vita. Nell’attesa di rompere con lo stato di schiavitù al quale siamo soggetti, vediamo di ridiventare liberi cittadini degni di questo nome con quotidiane modeste manifestazioni di forza:

“Cessate di portare il distintivo, ne seguirà il provvedimento di espulsione e sarete automaticamente ridiventati liberi di voi stessi.

Non salutate romanamente.

Non usate il voi nei luoghi dove è imposto.

Nei ritrovi pubblici cercate la compagnia di color che sapete essere antifascisti.

Non andate a manifestazioni a carattere politico.

Quando vi si chiede il consenso per l’operato del fascismo, tacete.

Non parlate mai di politica con fascisti. Quando qualcuno di essi tiene conferenza in riunioni di amici o al caffè allontanatevi.

Dite sempre a voi stessi: «La rovina di tutti sarà anche la mia rovina e quella dei miei cari. Bisogna fare qualche cosa contro i nostri carnefici. Bisogna fare qualche cosa.

Siate decisi e fermi in questa convinzione e non tarderà chi vi indicherà quello che dovete fare.”

 

MEGOLO 13 Febbraio 1944 - Resistenza eroica.

Caduti: Arch. Cap. Filippo Maria Beltrami – Avv. Cap. Gianni Citterio (Redi) – Ten. Antonio Di Dio – Carlo Antibo – Bassano Bassetto – Aldo Carletti – Angelo Clavena – Bartolomeo Creola – Emilio Gorla – Paolo Marino – Gaspare Pajetta – Elio Toninelli.

Erano le 6.30 del 13 febbraio 1944. Dei reparti di SS appoggiati da una compagnia della Guardia Nazionale Repubblichina, coperti dalla fitta nebbia delle prime ore del mattino, nascosti gli automezzi in un avvallamento a qualche centinaio di metri da Megolo, invasero la piccola frazione del comune di Pieve Vergonte.

Prima facile preda del nemico furono Bassano Bassetto e Bartolomeo Creola, colti nel sonno in una camera dell’Osteria del Remo. I due partigiani riposavano in attesa che l’oste alle 7 li svegliasse perché avrebbero dovuto raggiungere i distaccamenti dislocati in altre località della valle.

Vennero trascinati alla presenza del cap. Simon, comandante delle forze nazi-fasciste. Pur essendo frustati, bastonati e torturati, i due giovanissimi partigiani rimasero nel più assoluto silenzio e infine vennero consegnati ai militi. I fascisti ripresero la bastonatura dei due ragazzi e quindi li fucilarono in una piazzetta a lato dell’osteria.

Il capitano Beltrami, con calma e sicurezza, dispose i suoi partigiani su una linea di circa 200 metri e quindi prese il proprio posto di combattimento. Cinquantatré uomini con una mitragliatrice, due mitragliatori, un mitra, e una cinquantina di moschetti erano pronti a difendersi dall’attacco condotto da oltre cinquecento nazi–fascisti armati di un cannoncino, due mortai, una mitragliera da 20 mm., tre mitragliatrici pesanti, fucili mitragliatori e mitra.

Il Capitano aveva respinto per la seconda volta l’invito alla resa del Comandante tedesco: con tutti i suoi partigiani, aveva accettato il combattimento.

Alle 7 del 13 febbraio 1944, la nebbia era dispersa dai raggi del sole che illuminava la valletta di Megolo. I partigiani, distesi lungo la linea di difesa, assistevano immobili all’avanzata della colonna tedesca, a al successivo disporsi per l’attacco delle forze nemiche. I tedeschi avanzavano in tre linee, distanziate l’una dall’altra di qualche metro: la GNR, rinforzata reparti di SS, avanzava sulle due ali.

Era necessario attendere: l’esiguo numero di uomini e la scarsa potenza di fuoco consigliavano di attendere che il nemico fosse giunto a breve distanza. L’attesa era estenuante, snervante. Le SS erano ad una trentina di metri dalla balza dietro cui era appostato il gruppetto di comando. Il mitra del Capitano ruppe, con il suo crepitare, il silenzio della valle. Tutte le armi della difesa risposero al richiamo e la prima linea dell'avversario fu costretta a ripiegare in disordine lasciando sul terreno alcune decine di morti.

Non vi furono soste nella battaglia; dall’una e dall’altra parte si continuò con sempre maggior accanimento. Purtroppo, l’unica arma pesante si inceppò e dovette essere abbandonata. Un colpo di mortaio raggiunse la piazzola del mitragliatore all’ala sinistra della difesa, uccidendo il servente al pezzo.

Alle 10, dai Presidi dell’Ossola giunsero rinforzi al nemico: da quel momento la situazione volse a favore delle forze nazi–fasciste.

Nel tentativo di spostarsi verso il centro, il cap. Citterio venne colpito da una raffica e abbattuto. Era una grave perdita: Redi, uno dei valorosi della vecchia guardia di Beltrami, era un coraggioso, un abile ufficiale e un prezioso consigliere del Capitano. La scarsità di munizioni non permetteva di resistere a lungo e con scarse possibilità di successo. Bisognava tentare una sortita e Beltrami avvertì gli uomini di tenersi pronti. Approfittando di uno dei frequenti avvicendamenti nella prima linea del nemico, diede l’ordine di contrattaccare e i partigiani balzarono in avanti all’assalto. Sorpresi dall’ardita azione di un pugno di uomini ormai decisi a tutto, la prima linea nemica si ritirò disordinatamente, travolgendo e disorganizzando anche le linee di rincalzo. La fuga nazi–fascista ebbe termine nell’abitato di Megolo. Entrarono in azione i rinforzi sopraggiunti dal Nord; i giovanissimi della ‘banda’, lasciatisi trascinare dell'entusiasmo, anziché retrocedere e prendere posizione su una nuova linea, abbandonarono ogni prudenza e si spinsero allo scoperto fino alle prime case, dove vennero falciati dalle raffiche delle mitragliatrici.

Caddero Antibo, Gorla, Clavena, Toninelli, Carletti. Anche Marino venne abbattuto poco dopo da una raffica di mitra sulla soglia di una casa.

Intanto il Capitano tentava di riorganizzare i propri uomini su una nuova linea di difesa ma, ormai convinto di non poter reggere ai nuovi attacchi, dava disposizione per evitare l’accerchiamento e per operare un’azione di sganciamento, nel caso in cui la situazione fosse ancora peggiorata. Mentre, ritto accanto ad un grosso castano, osservava le posizioni, il Capitano venne colpito da una raffica al petto e alla gola. Antonio e Gaspare gli furono subito accanto e tentarono di trasportarlo in una baita che sorgeva sul pianoro a una trentina di metri dal luogo in cui era stato ferito. Ma il Capitano, intuendo la sua prossima fine, a cenni fece comprendere ai due giovani di ritirarsi prima che fossero accerchiati dal nemico. La sua posizione venne individuata e diventò un bersaglio sicuro: un colpo di mortaio troncò ad un tempo la vita di Beltrami, Di Dio e Pajetta. Dopo quattro ore di combattimento accanito, al termine delle munizioni, senza la guida del loro Capitano, i superstiti furono costretti a ripiegare e disperdersi fra le rocce e nella boscaglia, cercando poi di raggiungere gli altri distaccamenti.

Ultimo atto della tragedia: un fascista, raggiunto il Capitano, infierì ripetutamente con il pugnale sul corpo esanime.

Il Cap. Simon, invece, riconoscendo la generosità, il valore, il coraggio, la nobiltà dei sentimenti dell’eroico comandante partigiano gli fece tributare gli onori militari da un reparto di SS. Era infatti caduto combattendo, alla testa dei suoi ragazzi, un uomo le cui epiche gesta avevano attirato l’attenzione non solo del popolo e del nemico nella nostra provincia, ma di tutta l’Italia occupata e dal Comando supremo nazista.


Ha detto il  Presidente della Repubblica GIORGIO NAPOLITANO:

«Dobbiamo rendere onore a tutti coloro che sono stati tra i protagonisti della lotta antifascista, che hanno pagato con il carcere, il confino e l’esilio il loro amore per la libertà e la democrazia e sono stati fra gli ispiratori e i protagonisti della lotta per la liberazione dell’Italia.»

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I cappellani militari internati in Germania

16 Décembre 2013 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Furono circa 400 i cappellani che subirono la medesima sorte dei militari che assistevano religiosamente: una sessantina di loro fu rilasciata nei primi giorni dopo la cattura, 339 invece furono internati nei lager: successivamente anche a loro fu proposta l'adesione alla RSI, ma la maggior parte rifiutò e rientrò in Italia solo dopo la fine del conflitto.

Il dramma della deportazione degli "internati militari" è stato a lungo misconosciuto e la loro testimonianza non è stata adeguatamente valorizzata nel contesto della Resistenza. Eppure essi appartengono pienamente alla vicenda resistenziale, perché - come risulta dai loro diari o dalle loro memorie autobiografiche - anche ad essi fu chiesto di fare una scelta a favore o contro il nazifascismo, la scelta di ritornare subito liberi o di restare reclusi e sfruttati nei lager. Anzi, su circa 25 milioni di prigionieri del Reich, gli italiani furono gli unici a cui fu offerta la possibilità del rimpatrio. Ma, in grande maggioranza (80-85%) scelsero di rimanere prigionieri, nonostante avessero già sperimentato le condizioni di disagio, di vessazione, di violenza tipiche dei lager. Il loro è stato un consapevole No alla guerra e al fascismo che la guerra l'aveva voluta e voleva ancora continuarla: ha impedito alla RSI sia di acquisire credibilità di fronte ai tedeschi e alla popolazione italiana sia di sconfiggere sul nascere la Resistenza armata in Italia. Il loro No ha rappresentato il distacco definitivo di una generazione dal fascismo, anticipando il fenomeno di massa della renitenza dei diciottenni chiamati alla leva della RSI. Infine gli "internati militari" hanno scritto una pagina alta della Resistenza per la dignità e la forza con cui hanno vissuto l'esperienza del lager a fronte di quotidiane privazioni, umiliazioni, violenze; anche i diari che alcuni di loro scrissero con costanza e con fatica per conservare memoria precisa della vita nei lager costituiscono un atto di resistenza di particolare valore.

Accanto ai soldati catturati dai tedeschi rimasero anche molti cappellani militari: preferirono, anche quando fu offerta loro la possibilità di mettersi in salvo, condividere la sorte dei propri reparti. Don Olindo Pezzin, al generale tedesco che gli dava la possibilità di andarsene: rispose: "Con che coscienza lascio i miei soldati? Sono tre anni che viviamo insieme". E don Giuseppe Carrara, che aveva avuto l'offerta da un ufficiale della Marina di scappare con lui in aereo, declinò l'invito: "Sono qui per assistere i soldati, non per fuggire". Furono circa 400 i cappellani che subirono la medesima sorte dei militari che assistevano religiosamente: una sessantina di loro fu rilasciata nei primi giorni dopo la cattura, 339 invece - secondo lo storico Maurilio Guasco - furono internati nei lager: successivamente anche a loro fu proposta l'adesione alla RSI, ma "la maggior parte rifiutò e rientrò in Italia solo dopo la fine del conflitto". Tra di loro padre Onorino Marcolini, dell'Oratorio della Pace di Brescia, ingegnere, cappellano degli Alpini; lo scrittore Mario Rigoni Stern, suo compagno di prigionia, ha ricordato che l'8 settembre, catturati dai tedeschi a Colle Isarco, incolonnati a piedi verso Innsbruck, padre Marcolini camminava con i suoi soldati, "l'unico ufficiale"; Rigoni Stern gli confidò che era determinato a tentare la fuga:

Padre Marcolini incominciò a parlarmi sottovoce, in dialetto, come si fa per calmare un bambino irritato. 'Non andare' mi diceva. 'E i tuoi compagni? E le reclute che sono qui con noi? Non puoi abbandonarle anche tu ... Vedi, anch'io ho scelto questa sorte perché loro hanno bisogno di me ... Non dobbiamo lasciarli'.

Condivise la sorte dei suoi soldati ogni giorno, rinunciando ai gradi di ufficiale, rifiutando ogni agevolazione, difendendo i diritti degli altri, assistendo gli ammalati, dando pietosa sepoltura ai morti, cercando di convincere i compagni che, "malgrado tutto, dobbiamo sentirci più liberi di quei soldati che ci puntano le armi contro".

 

Bibliografia:

 

Ercole Ongaro, Resistenza nonviolenta 1943-1945, I Libri di Emil Editore

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Silvio e Bruno Trentin: biografie di due protagonisti della Resistenza italiana

23 Août 2013 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

«Voglio soltanto testimoniare che quel poco di valido e di utile che ho saputo produrre nel corso della mia lunga vita, lo debbo interamente al suo insegnamento e al suo esempio; alla sua radicale incapacità di separare l'etica della politica dalla propria morale quotidiana, pagando sempre di persona i propri convincimenti».  

Bruno Trentin parlando del padre Silvio

 

Ai primi di settembre 1943 Silvio Trentin torna dall'esilio con la moglie e i due figli maschi Giorgio e Bruno. Nato a S. Donà nel 1885, docente di diritto dal 1911, volontario nella prima guerra mondiale, deputato nel '19, grande giurista antifascista, in seguito all' emanazione del decreto legge del 24 dicembre del '25 che privava tutti gli impiegati dello Stato della loro libertà politica e intellettuale, si era dimesso dall'insegnamento con una nobilissima lettera di denuncia dell'incompatibilità dell'obbedienza alla legge fascista con il rispetto delle proprie idee. Soltanto altri due docenti in Italia compiono allora lo stesso gesto: Gaetano Salvemini e Francesco Saverio Nitti.

Nel febbraio del 1926 decide di espatriare in Francia. Lo accompagnano la moglie Beppa Nardari, trevigiana, e i due figli Giorgio e Franca, di otto anni e mezzo e sei. È stato per loro un viaggio di distacco doloroso - dalla patria, dagli affetti, per i due bambini dai giochi con gli amici, dalla lingua.

Trentin per sopravvivere si dedica per molti anni ai lavori più umili, di agricoltore e di operaio tipografo, ma continua a studiare, scrive molti trattati giuridici; è fra i promotori della concentrazione antifascista, fra i fonda tori con Carlo Rosselli del movimento Giustizia e libertà; ospita nella sua libreria di Tolosa le figure più note dell'antifascismo italiano ed europeo.

numero unico giornale Liberer et Federer 

Durante la guerra civile spagnola si reca più volte al fronte. E tra i più attivi organizzatori della resistenza francese fin dagli esordi nel '40. Fonda il movimento Libérer et fédérer. Dopo l'11 novembre 1942, allorché le truppe tedesche occupano l'intero territorio metropolitano francese, è costretto a passare in clandestinità.

Dopo quasi 18 anni di esilio, per Silvio Trentin, sua moglie, il figlio primogenito Giorgio, questo, del settembre '43, è stato indubbiamente un viaggio di ritorno. Un ritorno in patria. Un ritorno a casa. La casa del padre di Beppa, Francesco Nardari, in via Filippini, a Treviso.

Per Bruno era invece un viaggio di andata. In un paese sconosciuto. Un'andata che comportava l'abbandono di quella che considerava la sua patria - la Francia -, la sua città - Tolosa.

Bruno è nato dieci mesi dopo l'arrivo in Francia della famiglia, nel dicembre del '26. La sua nascita segna - cronologicamente e simbolicamente - l'inizio di una vita nuova per i coniugi Trentin. Bruno giunge in una famiglia con un passato a lui sconosciuto, che non gli appartiene. I fratelli possiedono il sentimento della nostalgia per un passato che continua ad esistere nella loro fantasia, nei loro ricordi. Hanno la consapevolezza, come possono averla dei bambini, del quando e del perché è avvenuto questo mutamento radicale della loro esistenza.

Bruno conosce solo le scomodità della vita d'esilio, l'incongruenza tra gli stenti patiti e la magnificenza degli antichi mobili veneziani che la madre era riuscita a portare con sé (ma di cui sarà presto costretta a disfarsi per avere di che vivere). Vive da bambino povero, ma figlio di un padre che percepisce come prestigioso, un padre di cui essere orgoglioso, un padre con una doppia vita, che di giorno lavora come operaio in una tipografia e la sera, nell'«altra sua esistenza» di militante antifascista, scrive trattati di diritto, riceve persone importanti che vengono da lontano, organizza l'attività clandestina che si svolge in Italia.

Bruno fa fatica anche a comprendere la lingua dei genitori.

In una lettera ad un amico di famiglia di S. Donà, del novembre del '28 - Bruno ha due anni - la madre scrive: «le prodezze di Bruno che comincia a parlare una dolce lingua misto di francese e d'italiano costituiscono la nostra sola distrazione». Bruno stesso parla divertito di questa lingua mista che si era costruito nel tempo, «uno swahili, [...] fatto di francese, di veneto, di un po' d'italiano». Vive con un certo disagio questa «alterità» rispetto ai genitori che sente quasi come stranieri, «non solo italiani - dice - ma veneti». Lui cresce sentendosi completamente francese. La mediazione avviene con i fratelli con i quali anche in casa parla esclusivamente in francese. Ha l'esigenza primaria di integrarsi con gli altri bambini, «il bisogno - dice - di essere riconosciuto dai miei simili ... liberandomi da tutte le tracce possibili della mia origine». Arriva a cambiarsi il nome, a farsi chiamare dagli amici non Bruno ma Jacques. Cresce con questo «sentimento di una vita divisa», con «la percezione di questa anomalia di cui ero molto anche compreso e fiero, nello stesso tempo l'avvertivo come il segno di un paese diverso, di una storia diversa che non mi apparteneva».

Con il padre ha un rapporto di identificazione e di conflitto. Era un uomo «intransigente, con un'altra faccia assolutamente contraddittoria, e cioè il gusto per lo scherzo gioioso, e quindi io ho vissuto nella storia della mia infanzia queste due facce, compreso il conflitto con la faccia austera e severa di un uomo [...] "tutto d'un pezzo" con il quale avevo un rapporto di timore e anche di rivolta, e dall'altra parte un uomo che esprimeva una capacità di comprendere gioiosamente la vita». Ma tutta la famiglia «era una famiglia piena di allegria e di rigore». D'altra parte il padre stesso, pur così severo ed esigente con lui, non poteva non riconoscersi nell'esuberanza ribelle di Bruno. Silvio, studente brillante, si era fatto cacciare dal Collegio Nardari da quello che sarebbe poi diventato suo suocero, il commendatore Francesco Nardari, per episodi piuttosto sconvenienti di mancanza di rispetto delle regole vigenti nel prestigioso convitto di via Filippini, frequentato dai figli della crème della borghesia veneta. Nel lessico familiare dei fratelli Trentin ricorre spesso il racconto delle «farse di famiglia», delle burle e dei travestimenti del padre, lui così austero e riservato con gli estranei (e anche in questo aspetto Bruno gli assomiglierà!).

Il padre si portava appresso Bruno, nei fine settimana, nelle festività, durante le vacanze scolastiche, in passeggiate in campagna di decine e decine di chilometri, per l'intera Gua­scogna, alla ricerca dei luoghi mitici dei moschettieri, di D'Artagnan, del Graal, dei catari, e questa passione Bruno la coltiverà sempre, per i miti, per i cavalieri solitari, per i templari, per gli antichi manieri. Ricorderà sempre con grande tenerezza questi lunghi «pellegrinaggi a due», questi momenti di intimità e complicità con il padre. Divenne un lettore appassionato di libri di avventura. In una lettera non datata ad un amico di famiglia di S. Donà, elenca i libri appena letti e ne «ordina» altri, la saga di Sandokan, ad esempio. «Fin da piccolo - ricorda la sorella Franca - ci dava preoccupazioni, perché era un ribelle permanente, pieno di progetti di riabili­tazione dei vinti della storia e aveva sempre delle iniziative spericolate». Quando scopre poi la storia degli indiani, si appassiona alla loro sorte, ne fa una bandiera della lotta contro l'ingiustizia e la sopraffazione, tanto da tenere frementi comizi casalinghi alla sorella - la sua protettrice! - contro Davy Crockett e Buffalo Bill. Dopo la guerra, quando va negli Stati Uniti d'America, ad Harvard, acquista sei incisioni di capi indiani e le appenderà in camera sua, prima qui a Treviso, e poi nelle sue abitazioni di Roma, dove resteranno appese, fino alla fine.

Ma spesso la sua esplosiva voglia di autonomia doveva essere contenuta, castigata. Ecco allora i frequenti tentativi di fuga: aveva una sua valigetta, ci metteva dentro qualche indumento, un libro, e scappava. E il fratello doveva poi andare alla sua ricerca per le colline intorno ad Auch. Nel '36 - a dieci anni - all'epoca del naufragio dell'esploratore Charcot, organizza una spedizione con una banda di amici per andare alla ricerca delle sue spoglie, preparando uno zaino in cui ripone tutte le scorte di latte condensato messe sotto chiave dalla madre che scopre in tempo il furto e si mette in allarme.

Partecipa con i fratelli alle attività scoutistiche, ma, da adolescente, capeggia delle bande quasi «con dei rischi delinquenziali». Il suo cruccio è sempre quello: il peso di questa «duplice identità», «di figlio di un militante, figlio di un uomo molto impegnato nella lotta politica di cui ero molto fiero; e poi l'identità di uno che voleva essere altro, che si sentiva un francese che cercava [...] di ricostruire una identità alternativa a quella di mio padre».

Nel '34 la famiglia si trasferisce a Tolosa dove con l'aiuto di familiari e amici può acquistare una libreria.

Silvio Trentin a Tolosa

A otto anni Bruno assiste ad una scena che colpisce molto la sua fantasia: gli scontri tra una manifestazione di sinistra contro i tentativi di putsch della destra e le guardie repubblicane a cavallo, la carica delle guardie, i dimostranti che fanno scivolare su delle biglie d'acciaio i cavalli che stramazzano a terra: «la prima mia immagine di come una battaglia politica potesse diventare un fatto drammatico». Non è più una storia d'invenzione, un'av­ventura di Sandokan, ma la percezione che le cose di cui si occupa suo padre possono rivestire aspetti emotivamente coinvolgenti, di alta tensione.

La guerra di Spagna è lo spartiacque, «il primo grande momento di presa di coscienza che ha attraversato le giovani generazioni di tutte le culture», un fenomeno di dimensioni internazionali. La libreria e la casa Trentin diventano il centro di smistamento, meta dei volontari che accorrono da vari paesi in soccorso dei repubblicani spagnoli, un va e vieni continuo di giovani dalle varie nazionalità e lingue. I tre ragazzi Trentin cedono spesso i loro letti in quei mesi, dormono su giacigli di fortuna. Bruno s'infiamma ai racconti rivoluzionari di questi giovani volontari. Alcuni di questi non torneranno indietro, muoiono al fronte, e Bruno ne prova un acuto dolore. Gli resta la «cattiva coscienza» per non aver partecipato a questa guerra, nonostante non fosse che un ragazzino. Dopo la sconfitta la libreria e la casa ridiventano luoghi di passaggio all'incontrario, molto più mesti. Arrivano, oltre ai volontari, gli spagnoli che fuggono da Franco, perfino ex ministri del governo repubblicano. Casa Trentin divenne allora una sorta d'ambasciata, dirà Lussu. Bruno si impegna molto nell'aiutare i suoi a soccorrere gli esuli spagnoli nei campi di concentramento vicino a Tolosa.

Proprio grazie alla guerra di Spagna matura la volontà di aderire alla stessa battaglia di suo padre: «si è precisato [...] questo bisogno di partecipare alla stessa avventura di mio padre e di essere invece su un altro fronte». C'è sempre questa esigenza di autonomia, di marcare la sua identità diversa. Legge Kropòtkin, un grande libertario russo, teorico dell'anarchia, anzi teorico di un comunismo libertario a base federalistica e solidaristica. Sfida il padre: «il primo confronto serio [...] è stato quando io ho palesato in modo molto ingenuo [...] le mie prime letture entusiaste per i teorici dell'anarchia, mi ricordo il primo fu un libro di Kropòtkin che io divorai [...] E lui cercò di aprire un dialogo manifestando molto rispetto. Io invece mi inalberai di fronte a quella che ritenevo un po' essere una sottovalutazione della mia scoperta».

Questo confronto-scontro con il padre - dove è lui a cercare lo scontro - «accelerò in me il bisogno di impegnarmi ma nello stesso tempo di impegnarmi appunto in un mondo diverso». Così nel '41, a 15 anni, costituisce un suo gruppo, il Gif (Gruppo insurrezionale francese), di tendenze anarchiche, con altri compagni del suo liceo. Producono anche un giornale clandestino - è il periodo della repubblica di Vichy e Bruno utilizza ritagliandola la carta intestata della libreria di suo padre: un segno di infantilismo incosciente, ma anche la riprova che si trattava innanzitutto di «tentativi di ribellione all'autorità paterna». Organizzano delle uscite di attacco alle nuove formazioni fasciste del '42, ai cagoulards. Una notte riempiono i muri della città - siamo ormai nell'autunno - di scritte antifasciste. Vengono arrestati. Un commissario feroce li sottopone a duri interrogatori conditi da bastonate. E sconvolto dalla durezza della prova e in cella è rincuorato da un anarchico spagnolo: «ricordo che una prima notte ho avuto proprio la tentazione, sia pure molto adolescenziale [...] del suicidio [...] Chi mi salvò fu un anarchico spagnolo [...] che aveva appena fatto un attentato [...] mi ha coperto di un affetto straordinario in quelle due notti che ho passato in guardina prima di essere trasferito alla prigione, coprendomi con una coperta fra un interrogatorio e l'altro».

Viene chiamata la madre che accorre con la figlia. Il padre è già nella clandestinità, nascosto nelle campagne nei pressi di Tolosa dove sta organizzando la resistenza. Lui si presenta alla madre ammanettato, fiero e coraggioso. La madre gli va incontro e gli dà uno schiaffo violento, sibilandogli, quasi con «un tono velenoso», una frase: «Se fai il nome di tuo padre ti ammazzo». Questa frase inizialmente lo ferisce, ma poi dirà: «è uno dei ricordi più belli che ho». Questo schiaffo non fu salutare solo per la sua maturazione, ma anche dal punto di vista processuale, in quanto derubricò la faccenda quasi a ragazzata. Dopo un periodo di carcere e il processo - Bruno compie 16 anni in prigione - i ragazzi sono condannati alla detenzione in un campo di concentramento, ma nei fatti la gendarmeria li lascia fuggire, data la situazione di cambio della guardia con l'arrivo in città delle truppe tedesche. Il ragazzino piccolo e grassottello (soprannominato petit cul dagli amici) piuttosto spavaldo dopo pochi mesi di carcere - ricorda la sorella - era diventato un ragazzo serio, magro e con i pantaloni a mezz'asta, da tanto era cresciuto. Non può però tornare a casa. Si nasconde allora in una colonia di combattenti spagnoli rifugiati in alcune case contadine, dove alternano il lavoro dei campi ad azioni di maquis, organizzati nel Moi, il movimento di resistenza della manodopera immigrata.

C'è una figura qui che lo attrae particolarmente: è Horace Torrubia, un eroe della guerra di Spagna, uno studente di medicina, comunista, che aveva lasciato gli studi per combattere e aveva partecipato ad azioni quasi leggendarie, in Spagna e ora nella Francia occupata: Horace avrà una grande influenza, politica e psicologica, su Bruno, quasi un fratello maggiore - diventerà in seguito suo cognato - che incarna i suoi ideali rivoluzionari e una spregiudicatezza anche fisica che lo affascina. Per non perdere l'anno scolastico Bruno affianca i lavori dei campi allo studio, uno studio molto disordinato, discontinuo. Alla fine riuscirà a fare gli esami finali clandestini grazie alla complicità di alcuni insegnanti. Vive l'esperienza di questa vita comunitaria, coinvolto nell'ideazione e nell'organizzazione di attentati. Il 25 luglio - una notte di tempesta - arriva un compagno spagnolo con la lanterna e annuncia: è caduto Mussolini. Tutti si girano verso di lui, l'unico italiano. E lui non capisce perché, percepisce solo che era successo qualcosa di importante che riguardava suo padre. Solo due giorni dopo capisce, quando il padre lo fa chiamare e s'incontrano nel suo rifugio, gli spiega la situazione, che si era finalmente verificato il momento tanto sperato, che lui doveva rientrare in Italia perché ora si trattava di organizzare la resistenza militare. E gli propone di andare con lui. Bruno è restio ad accettare, sente che il suo posto è lì, in Francia, a fianco dei suoi amici anarchici e dei compa­gni spagnoli: «io vivevo ancora un'altra storia».

La trattativa padre-figlio si risolve con un patto scritto: Bruno accetta di seguire il padre in Italia, ma dopo questa breve parentesi sarebbe stato libero di rientrare in Francia per partecipare alla rivoluzione. E nell'intervista del '98 racconta: «Io accettavo [...] di seguirlo in Italia, di collaborare quindi col suo movimento, la formazione Giustizia e libertà, ma io mi sentivo sempre anarchico [...] e il mio grande obiettivo era quello di tornare in Francia appena la guerra fosse finita, per me il mio paese era quello; accettavo dal momento in cui la Resistenza era diventato un fatto internazionale, una grande battaglia internazionale; per me qualsiasi paese andava bene e quindi anche l'Italia».

Agenti del controspionaggio organizzano il ritorno - piuttosto rocambolesco - di Trentin con i due figli attraverso Andorra, Portogallo, Algeria, Sicilia, da dove sarebbe stato paracadutato nell'Italia del Nord. Ma la traversata dei Pirenei si rivela drammatica per un attacco di cuore di Silvio. Devono tornare indietro. Si tenta un'altra strada: attraversare la frontiera fra Nizza e Ventimiglia. Ma nel frattempo una delibera del Governo Badoglio permette agli esiliati di ottenere i passaporti legali, che infatti vengono rilasciati ai Trentin verso il 20 di agosto. Attendono la Beppa che li raggiunge. Solo Franca resta, la sola naturalizzata francese. Sembra una scelta provvisoria: li raggiungerà appena possibile. Invece non sarà più possibile fino alla Liberazione, nell'estate del '45. Resterà tagliata fuori, a lungo senza notizie della famiglia, per due anni (Franca aveva organizzato con la madre e i fratelli l'accoglienza degli esuli spagnoli nei campi di concentramento; durante l'attività antifascista del padre, nel movimento Libérer et fédérer e poi in clandestinità, aveva svolto il ruolo di staffetta per tenere i collegamenti con il Comitato clandestino di Giustizia e libertà. Dopo la partenza della famiglia, dà in gestione la libreria e si rifugia nella casa mezzadrile degli spagnoli repubblicani, continuando a fare la staffetta fino alla liberazione di Tolosa. Sposa nel marzo del '44 Horace Torrubia, ma apprenderà solo dopo parecchio tempo della morte del padre. Riuscirà a raggiungere la madre e i fratelli soltanto nell'estate del '45. Nel viaggio, si ferma a Milano dove riesce ad incontrare Bruno).

Questo viaggio verso l'Italia, visto inizialmente come qualcosa di provvisorio, cambierà la vita di Bruno, i suoi progetti per il futuro, e soprattutto il rapporto con il padre: «da quel momento lì fino [...] alla sua morte io [...] ho ritrovato mio padre da tutti i punti di vista, cioè si è costruito quel rapporto che era in parte mancato nella prima adolescenza, un rapporto straordinario, io ho lavorato con lui e per lui nelle prime organizzazioni delle bande nel Veneto».

E in un'altra intervista, dice: «dal punto di vista personale, questo è il periodo più bello della mia vita, in Italia, con mio padre».

Viaggiano in treno verso il Veneto. Il 4 settembre arrivano a Mestre, il 5 a Treviso. Il «Gazzettino» preannuncia l'arrivo. E succede una cosa incredibile per Treviso: una folla festante accorre spontaneamente e li accoglie alla stazione. Un impatto esaltante, commovente, per Silvio, i figli, e la Beppa (una soddisfazione personale per lei, cui la scelta coraggiosa di seguire il marito con i figli nel faticoso esilio - era stata più volte rimproverata proprio nell'ambito dei familiari e degli amici della sua città).

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Vanno a casa del nonno Nardari, un francesista, liberale, anticlericale, che era stato anche sottosegretario, un illuminista europeo. Qui cominciano ad arrivare telegrammi e telefonate di felicitazioni, per due giorni c'è un susseguirsi di visite di omaggio. Trentin è festeggiato dagli esponenti locali del Partito d'azione. La sera un giornalista del «Gazzettino» si fa ricevere. L'articolo appare martedì 7 settembre: si esaltano il coraggio e il patriottismo, la rettitudine morale e le doti scientifiche e di educatore, la sua «fede nella virtù del popolo» e la grande dedizione alla patria.

Il 6 Silvio si reca con Bruno a S. Donà, sua città natale: un'accoglienza trionfale.

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L'8 settembre, l'armistizio. Il giorno dopo a Bruno in Comune a Treviso viene rilasciata la carta d'identità: avrà la residenza a Treviso fino al '49.

Silvio avvia da subito i primi contatti per organizzare la Resistenza. Bruno, in un colloquio con Zannoner nel 1974, ricorda tra le prime persone conosciute negli incontri avuti dal padre, Aldo Damo di S. Donà, rappresentante del Pci appena uscito di prigione, e il professor Antonio Giuriolo (cui Silvio affiderà la traduzione del suo saggio teorico Libérer et fédérer). Nei primi giorni dopo l'armistizio Bruno accompagna il padre in alcuni incontri con i generali Coturri, Loasses e Nasci a Treviso e a Feltre, per tentare - invano - di convincerli a distribuire armi alla Resistenza. Trentin è il primo a impostare nel Veneto un'attività di sabotaggio nei trasporti ferroviari. Tornano a S. Donà per cercare un rifugio, ma questa volta tutte le porte gli vengono chiuse. Silvio prende contatti con Marchesi e Meneghetti a Padova per creare il Comitato di liberazione regionale e viene eletto all'unanimità presidente del primo Esecutivo militare regionale.

Stende un Appello ai Veneti guardia avanzata della nazione italiana, che verrà pubblicato il 1° novembre sul giornale del Pda veneto «Giustizia e Libertà», sollevando molte discussioni, anche per la radicalità del linguaggio: la missione rivoluzionaria del proletariato, la necessità di darsi alla macchia, di armarsi e battersi non solo per scacciare i tedeschi, ma per rovesciare «il regime grottesco e crudele» del fascismo. Il 23 ottobre Trentin scrive una lunga lettera a Emilio Lussu in cui spiega la ragione per cui non accetta di entrare nella direzione centrale del CLN a Roma - il suo posto è qui, dove molti sono i giovani pronti a battersi, e che devono essere guidati - e ribadisce la sua posizione critica nei confronti di certe posizioni del Pda: la sua - ribadisce - è una posizione rivoluzionaria, per la volontà di «riorganizzare dalle fondamenta la società politica italiana» e non certo ripristinare sotto nuove vesti l'«Italietta piccolo-borghese» prefascista.

Nei mesi di settembre e ottobre padre e figlio cambiano spesso nascondiglio: per un periodo restano nascosti presso la famiglia Franceschini a Castelfranco, a casa Naletto a Noale, quindi a Mira nella villa del dottor Fortuni, e poi a Stra, ma si recano quasi quotidianamente in corriera a Padova, dove si incontrano regolarmente nell'ufficio di Marchesi, situato nello stesso edificio, il Palazzo Papafava, in cui ha sede il Ministero dell'Educazione nazionale. Un giorno - rievoca divertito Bruno nel colloquio con Zannoner - avviene una scena tragicomica. I due Trentin assieme a Camillo Matter, il tesoriere del Cln, stanno organizzando con Marchesi la spartizione dei denari raccolti per il movimento, sparsi sulla scrivania di Marchesi, quando improvvisamente entra Carlo Alberto Biggini: Marchesi balza in piedi e provoca il maggior caos possibile per distogliere l'attenzione del ministro, mentre i due Trentin raccolgono in gran fretta il denaro e fuggono da una porta laterale.

Sono presenti all'inaugurazione dell'anno accademico con Marchesi, un episodio che colpisce molto Bruno: «Un episodio che mi ha molto colpito [...] come giovane francese arrivato in un paese per me ancora sconosciuto come l'Italia, è stato l'inaugurazione dell'anno accademico all'università di Padova nel novembre del 1943 [...] siamo arrivati all'università mischiando ci fra gli studenti ma evitando proprio di figurare in qualche modo, dato, che l'ateneo era pieno di poliziotti e poi c'era un gruppo di fascisti molto bellicosi; e ricordo questa cerimonia abbastanza strana per uno come me perché sopravvivevano ancora dei riti nell'Università di Padova anche nel vestire degli uscieri, naturalmente dei docenti, del senato accademico, dei presidi e dei rettori, che dava veramente l'impressione di una [...] storia di altri tempi. Poco prima che iniziasse la cerimonia questo drappello di fascisti [...] hanno occupato il palco [...] cercato di arringare la folla degli studenti, [...] con atteggiamenti molto aggressivi, [...] ed è in quel momento che, in modo molto teatrale [...] con un usciere con l'alabarda che si è presentato sul palco battendo tre colpi, [...] è entrato il senato accademico dell'Università di Padova, e in mezzo ai docenti, ai presidi, [...] è avanzato un piccolo uomo col mantello di ermellino, era Concetto Marchesi, che si diresse direttamente verso il palco dove parlava il capo di questo manipolo di fascisti, lo prese per la collottola e lo buttò giù dal palco letteralmente di fronte allo stupore attonito degli altri fascisti e di fronte all'ammirazione e all'entusiasmo di questa folla di studenti che aspettavano [...] un segno [...]; dopo pochi minuti Marchesi cominciò il suo discorso di inaugurazione dell'anno accademico [...] in nome del popolo lavoratore "Inauguro l'anno accademico. 1943-44 ... " sviluppando poi il discorso sul ruolo del lavoro nella civiltà e sulla indissociabilità tra lavoro e libertà».

Da fine ottobre o dai primi di novembre si sono trasferiti a Padova, a casa dei signori Monici, in via del Santo 47. La signora Dina Monici, in una testimonianza rilasciata dopo la guerra, ricorda le discussioni accese tra padre e figlio, a volte perfino dei litigi - Bruno era impaziente di agire, non tollerava le lunghe riunioni che gli sembravano inutili - ma anche l'intransigenza aspra, il linguaggio duro, aggressivo, di Silvio quando parlava dei compatrioti fascisti. Il 15 novembre Trentin viene avvertito che stanno per arrestarlo e allora con Bruno si nasconde, come degente, presso la clinica oculistica del professor Palmieri (aderente al Partito d'azione), rifugio di molti ebrei e ricercati per tutto il periodo della Resistenza. Cessato l'allarme, tornano a casa Monici, ma la sera del 19 vengono arrestati dalla squadra d'azione «Ettore Muti» di Al­fredo Allegro. Nel percorso verso la sede della federazione fascista, in via Padovanino, Bruno ingoia tutti i documenti compromettenti («ho mangiato tutto quello che ho potuto»), tanto che durante la notte in cella ha un'occlusione intestinale e li scopre la tenerezza del padre: ricorda con commozione in un'intervista recente la premura affettuosa con cui l'ha assistito. Quindi la polizia fascista ritrova addosso ai Trentin solo i falsi documenti di Trentin padre, la carta d'identità autentica di Bruno, rilasciata dal Comune di Treviso, il sommario manoscritto di un'opera di Silvio, qualche ritaglio di giornale e un foglietto con dei versi scritti a mano - con vari errori ortografici - da Bruno: «La patria al cui soccorso/ Graziani vi esorta ad accorere (sic) / dei carnefici e dei predoni, dei / massacratori e degli sbiri» (sic), che sarà così giustificato da Silvio nel suo interrogatorio: «gli scarabocchi scritti sul mezzo foglio di carta protocollo son frutti della fantasia di mio figlio», e da Bruno stesso come: «parole [...] scritte da me allo scopo di mettere su carta le idee che mi affluivano nella mente». Nell'interrogatorio, avvenuto due giorni dopo presso la Questura di Padova, Bruno fa mettere a verbale (non senza ironia): «Nego di aver mai fatto propaganda contraria al Partito repubblicano fascista per il quale invece ho sempre avuto una certa simpatia essendo io un antimonarchico». Trasferiti nel carcere giudiziario dei Paolotti, ricevono la visita della Beppa.

Così Bruno passa anche questo compleanno incarcerato, o almeno in libertà vigilata, dato che lui il 29 novembre, suo padre il 2 dicembre, vengono scarcerati per l'aggravarsi dei disturbi cardiaci di Silvio e affidati alla Questura di Treviso.

Silvio viene ricoverato all'ospedale di Treviso presso il reparto del professor Pennati dove resterà fino all'11 febbraio quando dopo i primi bombardamenti viene trasferito alla clinica Carisi di Monastier. È sempre piantonato. Anche Bruno deve regolarmente presentarsi in Questura. Durante questi mesi, fino alla morte, Bruno e Giorgio assistono il padre, ma anche gli organizzano incontri politici con esponenti del Pda, Zwirner, Meneghetti, Armando Gavagnin, Fermo Solari. Molto frequenti le visite degli esponenti azionisti trevigiani Opocher e Ramanzini. Anche Valiani viene a trovarlo all' ospedale e in quell'incontro ambedue riconoscono la necessità di un'alleanza politica tra il Pda e il Pci. È in quell'occasione che, secondo le testimonianze dei familiari, Silvio «affida» il figlio Bruno al grande dirigente del Partito d'azione - l'affido del suo «erede», perché ne fosse garantita una continuità nella formazione anche dopo la sua morte (e così sarà: dall'autunno del '44 fino alla Liberazione e poi nei primi anni dopo la guerra Valiani si terrà sempre al suo fianco Bruno).

Silvio in gennaio redige l'ultimo appello «ai lavoratori delle Venezie» e detta proprio a Bruno una bozza di Costituzione per il nuovo Stato italiano. Bruno la scrive a mano, e una volta dattiloscritta, sarà poi corretta a mano da Silvio.

Dall'arrivo in Italia in settembre fino alla malattia e alla morte, Bruno è sempre stato l'ombra del padre, un padre che vede efficientissimo, pragmatico, pieno di iniziative, un grande organizzatore, un uomo del fare, e insieme lo studioso che esamina, ascolta, riflette e chiama a riflettere, non nasconde le complessità, non tende a semplificare, stende piani strategici, patti costituzionali. Il sognatore e l'organizzatore di uno Stato nuovo, di una società nuova. Il pensiero e l'azione, il sapere e il fare; l'attitudine alla ricerca, al dubbio, alla messa in discussione, senza chiusure dogmatiche, ideologiche, il senso austero del dovere in nome del bene comune: una scuola determinante che sarà per sempre anche lo stile di Bruno Trentin. Per Vittorio Foa, suo grande amico e maestro, Bruno «ha ereditato [...] l'apertura mentale del padre, [...] il non credere, il non dare per scontato nulla», un «atteggiamento di ricerca» come etica di vita quotidiana. Bruno ha sempre avuto un grande riserbo nel parlare di suo padre. Lasciava volentieri alla sorella Franca l'incombenza di seguire tutte le iniziative dedicate alla sua memoria, come quelle del Centro studi Silvio Trentin di Jesolo. Ma pochi anni fa, il 13 settembre del 2002, nel ricevere la laurea ad honorem dalla Università Ca' Foscari di Venezia, iniziava la sua lectio doctoralis dicendo: «Voi potete comprendere la mia emozione, in questo momento, non solo per l'onore che mi fate, forse impropriamente, con questa candidatura, ma per la scelta che avete compiuto di tenere questa riunione nell'aula che porta il nome di mio padre. Sono sempre stato restio a parlare di lui, non cambierò oggi il mio atteggiamento. Voglio soltanto testimoniare che quel poco di valido e di utile che ho saputo produrre nel corso della mia lunga vita, lo debbo interamente al suo insegnamento e al suo esempio; alla sua radicale incapacità di separare l'etica della politica dalla propria morale quotidiana, pagando sempre di persona i propri convincimenti».

Durante la degenza del padre, Bruno entra in contatto con Ettore Luccini, docente di storia e filosofia al Liceo Canova, amico e «allievo» di Curiel. Va a lezione privata da lui: vuole migliorare il suo italiano e prendere lezioni di filosofia per completare la sua preparazione in vista del ritorno in Francia.

Ma il padre peggiora. Il 12 marzo muore. Il 14 marzo è sepolto nella tomba di famiglia a S. Donà. Le autorità vietano il corteo funebre. Dietro il carretto con la bara ci sono solo Beppa, i due figli e l'amico Matter.

La morte del padre segna indelebilmente la vita di Bruno. Vive la tragedia del padre: ora che cominciava a delinearsi finalmente l'esito positivo di quest'avventura straordinaria cui aveva dedicato tutta la vita, a lui, che della nuova Italia avrebbe potuto essere uno dei leaders più prestigiosi, questo esito positivo non era concesso di vivere (Nenni, appena appresa la notizia della morte di Trentin, nota sul suo diario: «Sarebbe stato certamente uno dei capi della nuova Italia, uno dei maestri della nuova generazione. Invece ... »). Ma i due ragazzi non si lasciano sopraffare, il dolore per il padre non può essere rielaborato che proseguendo la lotta. Bruno continuava ad essere sotto sorveglianza (doveva presentarsi in Questura ogni giorno), quindi scappa ed entra completamente in clandestinità.

Ora la resistenza, fino a quel momento «mediata» dal padre, diventa un'esperienza tutta «sua». Con il fratello partecipa a varie azioni delle formazioni di GL nei dintorni di Treviso: attacchi a presidi militari fascisti e tedeschi, organizzazione di alcuni lanci degli Alleati in un'azienda agricola di S. Biagio di Callalta. Giorgio ricorda ancora la «disavventura» vissuta un giorno con il fratello: il bagno involontario prolungato nelle acque gelide di una palude per recuperare il materiale di un lancio, e poi la sosta ristoratrice nella casa colonica dove scoprono le virtù terapeutiche della grappa.

Mentre il fratello Giorgio resta in zona (abita con la madre, sfollata da Treviso, in una casa sulle rive del Sile a Silea all'altezza del traghetto sul fiume), come commissario politico del battaglione GL comandato da Vito Rapisardi, Bruno passa alle dirette dipendenze del Comando militare regionale.

Durante i mesi estivi resta nella pedemontana trevigiana, inviato in una formazione autonoma, con il compito di ripianare delle difficoltà di collaborazione tra questa e le altre formazioni partigiane della zona.

Dopo questo primo periodo in cui è chiamato a svolgere trattative e risolvere conflitti («ero considerato specializzato in grane»), si butta nello scontro militare vero e proprio. Partecipa a diverse azioni con la dinamite contro camion militari ad attentati alla rete ferroviaria al Ponte della Priula. Per l'occasione si dedica allo studio e all'uso degli esplosivi, ai vari sistemi di innesco della dinamite.

Vive l'esperienza della resistenza trevigiana nella sua fase più esaltante e drammatica: la liberazione di quasi tutta la pedemontana - ad opera soprattutto delle brigate garibaldine Tollot e Mazzini - e poi i durissimi rastrellamenti pagati a caro prezzo sia dai partigiani che dalle popolazioni. «È stato un apprendistato difficile e doloroso», dice, anche per i limiti della strategia militare partigiana, la «follia» di occupare e presidiare zone troppo esposte o troppo vaste rispetto al rapporto di forze, con metodi di guerra inadeguati: «Era un fronte molto lungo con migliaia di partigiani armati, anche lì l'errore fu l'illusione di poter occupare un territorio tenerlo con le regole di una guerra di posizione, quando i rapporti di forza lo rendevano assolutamente impossibile. Furono liberati interi paesi, villaggi anche importanti, è stata un'esperienza da un certo punto di vista molto bella, si eleggono i primi sindaci, però fu pagata cara quando cominciò la repressione».

In quelle settimane tutta la zona pedemontana (Miane, Follina, Cison, Revine, Tarzo) è infatti zona libera. Nel mese di agosto a Revine si tengono anche le elezioni amministrative, viene eletto il sindaco, nominata una giunta democratica. I partigiani provvedono alla distribuzione di alimenti alla popolazione, con una specie di autoamministrazione. Per Bruno sarà un'esperienza fondamentale: sente che si tratta di quella guerra di popolo per cui il padre si era tanto battuto:

«Questa scoperta della Resistenza come guerra di popolo che credo che soltanto in Italia, a parte la Jugoslavia, si è potuto vivere in Europa occidentale [...] E questo dato che mi ha profondamente turbato, conquistato e che mi ha fatto scegliere di restare in Italia, anche prima della fine della guerra».

In questo periodo, in cui Bruno con il suo gruppo è stanziato tra Tarzo e il lago di Revine, lo raggiunge per ben due volte il fratello Giorgio che gli porta delle armi, ma che poi rientra dalla madre in modo rocambolesco attraversando le linee tedesche durante il rastrellamento.

Dall'11 agosto i tedeschi arrivano a Pieve di Soligo con un grande dispiegamento di forze, coadiuvati dalle brigate nere di Treviso. Bruno in quei giorni partecipa alla battaglia per la difesa di Pieve di Soligo ma anche alla ritirata rapida, con la perdita di tutti i mezzi, armi, viveri. Per ben cinque giorni i tedeschi tentano di avanzare verso Solighetto, ma i partigiani tengono le posizioni e alla fine costringono alla ritirata reparti superiori a loro sia per mezzi che per uomini. Alla fine di agosto e ai primi di settembre il rastrellamento si intensifica (per il 3 settembre erano state organizzate le elezioni amministrative a Tarzo ma non possono svolgersi per l'avanzata delle truppe tedesche): «Quando i tedeschi arrivarono da un lato con un treno semiblindato che poteva sparare cannonate e mitragliatrici a raffica sui versanti della pedemontana, quando aggredirono questi villaggi con i partigiani che avevano [...] pochissime munizioni per poter reggere un fatto di questo genere, ci fu, dopo due giorni di battaglia anche eroica, un tracollo totale. Io ho vissuto un altro otto settembre in quei giorni nel senso che bisognava sgomberare dei paesi in fretta e furia, far saltare tutti i depositi sia di viveri che di mezzi di trasporto [...] e poi purtroppo lasciare le popolazioni alla mercè della vendetta. Tutti questi paesi furono bruciati, incendiati, e i partigiani ripiegarono sulle montagne fino a quando non furono poi costretti anche lì a passare in pianura, in qualche modo a disperdersi per alcuni mesi almeno».

Anche il gruppo di Bruno risale in montagna, cerca di attraversare il Fadalto per raggiungere le formazioni garibaldine in Cansiglio, ma non ci riesce; scendono quindi di notte per i crinali della montagna e nei dintorni di Tarzo hanno degli scontri a fuoco. Sono ridotti a otto, di cui un pilota afroamericano e un ufficiale tedesco prigioniero. Sono costretti a sciogliersi per raggiungere individualmente la pianura. Bruno torna a Padova. Il CLN regionale lo destina al Comando regionale lombardo e al Comitato di liberazione Alta Italia. Qui ritrova Valiani, il suo padre putativo. A Milano gli viene assegnato il lavoro di collegamento delle varie formazioni GAP della città. Sarà un gappista determinato, audace, con un sangue freddo incredibile, e un grande organizzatore: forma i nuovi adepti, addestra alla clandestinità, impone regole, di­stribuisce incarichi, fissa obiettivi. Compie allora 18 anni. La sua partecipazione alla lotta armata ha cambiato completamente segno: non più vita di brigata, inserita in un contesto geografico e sociale in qualche modo protettivo, come era stata l'esperienza nella pedemontana trevigiana, ma clandestinità totale, mimetizzazione, cambio continuo di residenza, organizzazione di azioni individuali ad estremo rischio che comportano quasi sempre il trauma della violenza, dell'usare violenza, del dare anche morte. Organizza dei commando anche spericolati per liberare prigionieri, acquisire armi, giustiziare spie. Si muove spesso travestito da SS in camion militari di nazisti o fascisti. Una volta, sotto un bombardamento, in un camion tedesco, teme che il destino gli stia giocando un macabro scherzo: farlo morire confuso con gli SS, come uno di loro. In divisa da SS italiana e con documenti della polizia tedesca nel febbraio del '45 viene mandato a Verona per organizzare un'impresa praticamente suicida: la liberazione di Parri (fortunatamente interrotta per sopravvenuto scambio con un generale tedesco). Nelle ultime settimane precedenti l'insurrezione conosce Vittorio Foa.

Negli ultimi giorni a Bruno viene assegnata la gestione della radio che doveva guidare la liberazione di Milano e il comando della brigata Rosselli. Come comandante di questa brigata partecipa alla liberazione della città, andando ad occupare la sede dei giornali, liberando l'arena che era un deposito di armi e bombe della Wehrmacht, sostenendo duri combattimenti con le sacche di resistenza fascista. Il giornale del PdA, «Italia libera», dopo la fine della guerra scriverà di questa eroica Brigata Rosselli comandata da Bruno - alla testa dell'insurrezione - che la mattina del 26 aprile passa - sono tutti giovani, completamente armati - su una colonna di autocarri, tra due file di folla plaudente; in piazza della Scala hanno uno scontro a fuoco con i fascisti, un combattimento molto lungo che lascia morti e feriti anche tra i giovani della Rosselli che però hanno la meglio; il giorno successivo nuova imboscata fascista ma tutti i fascisti vengono uccisi o catturati, permettendo così che si possa tenere il grande comizio della Liberazione. E sul palco di Piazza Duomo, il 28 aprile, dopo Pertini, Longo, Moscatelli, sarà Bruno Trentin a prendere la parola a nome di tutti i giovani partigiani protagonisti dell'insurrezione.

Dato che era diventato un esperto di esplosivi, alla Liberazione Bruno viene mandato a Venezia, al porto di Marghera, a disinnescare delle navi tedesche minate. A Treviso nel frattempo, il 28 aprile, il CLN emana un decreto con cui designa il sindaco (Vittorio Ghidetti del Pci) e la giunta popolare tra i cui componenti, espressione dei vari partiti del CLN, risulta essere anche Bruno Trentin a nome del PdA.

Per la sua partecipazione alla Resistenza gli verrà assegnata la croce al valor militare con la seguente motivazione: «Partigiano combattente - brigate G.L. - Partecipava con grande slancio alla lotta partigiana. Benché giovanissimo, dimostrava ottime capacità nell'organizzare alcune formazioni, alla testa delle quali compiva numerose azioni e concorreva efficacemente ai vittoriosi combattimenti delle giornate insurrezionali - Treviso-Milano settembre 1943 - aprile 1945».

Si ferma a Milano ancora per diverso tempo, nella redazione del giornale del Pda, «Italia libera». È qui che nell'estate riuscirà a trovarlo la sorella Franca, in viaggio dalla Francia. Quasi non lo riconosce: era diventato un ragazzone robusto con una grande barba, un po' scontroso: «era cresciuto, non era più il bambino che proteggevo. Quando mi ha vista ha manifestato una sorta di stupore come se mi avesse dimenticata, come se gli ricordassi la vita francese sepolta».

Dopo la fine della guerra, Bruno, pur riconoscendo che la Resistenza ha condizionato totalmente tutte le scelte della sua vita futura, sente la necessità di tagliare - non aderisce nemmeno alle associazioni di ex partigiani -, di proiettarsi oltre l'esperienza della lotta di liberazione. Soltanto negli ultimi anni accetterà di parlare della «sua» Resistenza. Lo fa con il rammarico di aver «attraversato» quel periodo «con la furia di un ragazzo che aveva solo voglia di divorare, di divorare conoscenze, luoghi, persone», vissuti in modo molto intenso, ma «con la fretta e la furia di scoprire la sensazione che il mondo fosse nelle tue mani», senza poter, di quel periodo, trattenere, e rielaborare appieno, la ricchezza che esprimeva.

Partecipa comunque a tutte le commemorazioni ufficiali in memoria del padre. Nel dicembre del '45 al Teatro comunale di Treviso, affollatissimo, l'orazione per Silvio Trentin è tenuta da Egidio Meneghetti, rettore dell'Università di Padova, presentato dal prefetto di Treviso Leopoldo Ramanzini; dopo la commemorazione viene scoperta nella piazza ora chiamata Silvio Trentin una lapide a cura della locale federazione del Partito d'azione.

Bruno continua ad andare a Milano, per lavorare al giornale diretto da Riccardo Lombardi, «Il giornale di mezzogiorno», e fa la spola tra Milano, Padova, dove è iscritto a Giurisprudenza, e Treviso. Come delegato del movimento giovanile del Pda fa una serie di viaggi internazionali. E alla prima Conferenza mondiale della gioventù a Londra, nel novembre del '45.

«[...] fino al 2 giugno del '46, ho di fronte agli occhi un magma quasi indistinto di corse in vari posti d'Italia, in Inghilterra, in Francia». Sono esperienze che vive con entusiasmo e una certa frenesia: ha fame di vedere, conoscere, capire, aprirsi a nuove realtà. Si sente cittadino del mondo, come si sentiva suo padre.

Iniziano i suoi primi frequenti viaggi a Roma per partecipare alle riunioni del Partito d'azione e per organizzare il movimento giovanile del Pda di cui diventa segretario nazionale. Nel '47 si reca negli Stati Uniti, a un convegno internazionale di giovani, ma coglie l'occasione di frequentare l'università e di dedicarsi già alla tesi di laurea sulla Corte suprema degli Stati Uniti, ad Harvard, dove incontra Salvemini. Per un mese e mezzo lavora nella biblioteca del Campus universitario. Seguono dopo il rientro in Italia due mesi di un seminario universitario, sempre dell'Università di Harvard, in Austria, a Salisburgo, anche li un crocevia di persone di tutta Europa e degli Stati Uniti.

Tra un viaggio e l'altro, torna a Treviso e a frequentare l'Università a Padova, dove si reca da pendolare. L'esperienza universitaria non è molto felice. Innanzitutto la scelta della facoltà è stata determinata più da un obbligo morale verso il padre che da una vocazione personale (fin da ragazzino, in Francia, si sentiva portato per diventare economista). Si era già iscritto nell'autunno del '43, evidentemente su consiglio del padre, come «copertura», per avere maggiore libertà di movimento, ma la sua decisione personale - di perseguire effettivamente la strada degli studi di giurisprudenza - matura soltanto nel '46. Affronta gli esami con grande ansia, a volte con crisi vere e proprie di panico, per l'handicap della lingua italiana che ancora non padroneggia perfettamente e che lo danneggia nei voti. Soltanto nell'Istituto di Filosofia del diritto, dove insegnano Bobbio e Opocher, si trova a suo agio, tanto da accettare di collaborarvi per un periodo. Si laurea nel '49 con una tesi dal titolo La Funzione del giudizio di equità nella crisi giuridica contemporanea (con particolare riferimento all'esperienza giuridica americana), con il professar Enrico Opocher come relatore.

Così racconta il suo percorso politico: «in quegli anni, in quei mesi così intensi certamente quello che era un compromesso più o meno finto fatto con mio padre quando accettai di venire in Italia scomparì, e divenni un militante da tutti i punti di vista, del movimento di Giustizia e libertà e del Partito d'azione poi, partecipando anche a quel tanto di lotta politica che allora iniziava anche all'interno del Partito d'azione, una lotta politica che aveva come uno dei suoi aspetti fondamentali il rapporto con la sinistra e si può dire con la sinistra nuova che era rappresentata dal Partito comunista».

Il 21 ottobre '45 esce su «Giustizia e Libertà», settimanale veneto del Pda, un suo articolo a quattro colonne, Esperienze federaliste, in cui a commento del primo congresso della sezione italiana del Movimento federalista europeo (cui ha partecipato nei giorni precedenti), a seguito di quello tenuto si prima a Parigi, afferma che entrambi si sono chiusi con un sostanziale fallimento, poiché il Movimento federalista continua nella «sua piccola vita di movimento di élite, senza contatto con le masse popolari e le loro esigenze». L'errore di valutazione da parte del Mfe è stato, secondo lui, quello di «identificare le forze del federalismo [...] nel piccolo movimento federalista europeo», mentre le forze che effettivamente potranno avviare la realizzazione di un'Europa federale sono i partiti politici di massa e le forze del lavoro che «costituiscono il vero esercito della rivoluzione federalista». Conclude: «chi scrive si sente molto più vicino [a questa opzione] [...] Effettivamente se si crede nella capacità rivoluzionaria di queste forze politiche uscite dall'esperienza internazionale della Resistenza, e di queste forze di lavoratori (le quali hanno effettivamente possibilità di portare la loro voce di federalisti anche in seno ai governi, su problemi concreti), non si può pensare che il federalismo sia in crisi, ma bensì in atto». Auspica il coinvolgimento del partito comunista e del proletariato internazionale, poiché ritiene che «il Pc non possa non appoggiare la rivoluzione federalista europea anche perché esigenze storiche [...] lo portano a lottare in terreno democratico». A nemmeno 19 anni Bruno dimostra non solo di aver fatto propria la lezione del padre sulla concezione federalista e sulla necessità del coinvolgimento dei partiti di massa e delle forze del lavoro, ma anzi di saperla portare più avanti, rielaborando sia la propria esperienza diretta nella Resistenza come fatto di massa sia i legami internazionali in cui si è formato. Il processo di unità europea - sostiene - è indispensabile alla costruzione della pace ma può essere messo in moto solo se legato ai problemi concreti dei lavoratori. Si sta già delineando in fondo quello che sarà anche nel suo futuro di dirigente politico e sindacale, e alla fine di deputato europeo, il suo approccio al problemi politici e sociali, in particolare la sua attenzione alla concretezza della realtà e della storia come base e condizione di qualsiasi progresso.

Resta fino alla fine nel Partito d'azione, partecipando con passione alle discussioni interne, confrontandosi con i massimi dirigenti del partito.

Vittorio Foa ci ha raccontato un episodio significativo di quel periodo appassionato, che ha portato a lacerazioni dolorose, e in particolare al distacco di Bruno dai suoi grandi padri, Lussu e Valiani. Ma è lo stesso Valiani - come racconta Foa nella sua intervista - a «preannunciargli», con determinazione, la scelta futura - l'adesione al Pci -, ancora in incubazione in Bruno, come per rassicurarlo che l'abbandono del «padre» è nelle cose e non va vissuto come una colpa.

In effetti, dopo lo scioglimento del Pda, Bruno non segue gli ex compagni che confluiscono nel Psi. Già nelle discussioni nel periodo finale del partito, si riconosce nelle posizioni critiche di chi esprime dure riserve verso l'atteggiamento che i socialisti hanno avuto con il fascismo. È da «francese» soprattutto che sposa questa tesi, rifacendosi alle posizioni del padre: «Il Partito d'azione e Giustizia e libertà era molto segnato in questo senso - c'era un dato comune con i comunisti - da una riflessione profondamente critica sul modo in cui il Partito socialista, non solo in Italia ma anche in Francia era crollato e si era anche disgregato di fronte all'avventura fascista, insomma, non c'erano soltanto gli episodi dell'inizio del fascismo che. hanno visto per esempio metà della CGIL tentare di salvarsi attraverso un compromesso con il nuovo regime, ma anche la fine ingloriosa di un Parlamento come quello francese in cui la maggioranza dei deputati socialisti praticamente votò la fiducia a Pétain, ecco [...] aveva segnato di sé molto fortemente anche un movimento che nasce [...] come socialista, come Giustizia e libertà, e quindi il rapporto con i comunisti era una questione che ci attanagliava allora già fortemente, era l'assillo di mio padre e diventò anche una mia profonda convinzione, non a caso appunto nel momento in cui il Partito d'azione praticamente si sciolse, iniziò il suo percorso, la sua diaspora, io scelsi di entrare nel Partito comunista».

Ma non entra subito nel Pci. Presenterà domanda formale di iscrizione al partito solo alla fine del '49 dopo essere entrato all'Ufficio studi della Cgil, chiamato da Vittorio Foa, perché voleva essere accettato per quello che era e non in «quota» del partito: «la scelta, diciamo così, politica e ideale era già fatta nel '48, però io rimasi per alcuni anni indipendente, pur militando in tutti i movimenti vicini al Partito comunista; mi iscrissi alla fine del '49».

Al Pci ha aderito soprattutto in quanto partito che rappresenta interi settori sociali, come forza di cambiamento che coinvolge le masse popolari: è il «partito del lavoro». Dalle testimonianze raccolte, sembra sia stata più una scelta metodologica ed etica, che dottrinale, ideologica. E un'adesione alla ricchezza umana del partito e dei suoi organismi di massa, alla sua potenza organizzativa, alla capacità di agire sulla realtà. Quando, in un'intervista recente, ipotizza che forse anche il padre, se fosse vissuto, avrebbe potuto fare la scelta del Pci, Bruno dice: «per cambiare il PCI». Mentre lo dice, probabilmente pensa a se stesso, alla motivazione della sua scelta.

La CGIL offriva allora prospettive do grande respiro intellettuale, di libertà ideativa, da coniugare con progetti concreti, senza i condizionamenti ideologici e i compromessi tattici dei partiti. È la CGIL di Di Vittorio e di Foa. L’Ufficio studi vuol diventare il laboratorio per trasformare le piccole battaglie sindacali di corto respiro in lungimiranti progetti di grandi riforme per la nuova società tutta da inventare e da costruire.

 

 

Bibliografia

Iginio Ariemma e Luisa Bellina - Bruno Trentin dalla guerra partigiana alla CGIL - Nuova Iniziativa Editoriale 2008

 

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Bruno Trentin dalla guerra partigiana alla CGIL

23 Août 2013 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

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1926     Il 7 gennaio il padre di Bruno, Silvio Trentin, si dimette dall'insegnamento universitario; in febbraio, con la moglie Giuseppina e i due figli Giorgio e Franca, arriva esule in Francia. Il 9 dicembre Bruno nasce nel piccolo villaggio di Pavie.

1928     La famiglia Trentin si trasferisce ad Auch, capoluogo del Dipartimento del Gers, a circa 80 chilometri da Tolosa. Silvio Trentin lavora come operaio in una tipografia.

1929     Silvio Trentin aderisce a Giustizia e Libertà di Carlo Rosselli.

1932     Bruno inizia a frequentare la scuola elementare ad Auch.

1934     In seguito al licenziamento di Silvio Trentin dalla tipografia, la famiglia si trasferisce a Tolosa, dove Silvio Trentin acquista e gestisce una libreria.

1940     Dopo l'invasione della Francia da parte delle truppe hitleriane e l'instaurazione della repubblica collaborazionista di Vichy, Silvio Trentin entra a far parte del Réseau Bertaux e la sua libreria diventa il centro della cospirazione antinazista.

1941     A casa Trentin, in ottobre, viene sottoscritto il Patto di Tolosa per l'unione di tutte le forze antifasciste italiane (Pda, Pci, Psi). Bruno fonda, con alcuni compagni di liceo, il Gif (Gruppo insurrezionale francese), di tendenze anarchiche.

1942     In estate Silvio Trentin costituisce il movimento politico Libérer et fédérer che presto diventerà uno dei gruppi principali della Resistenza francese. Alla fine dell'autunno, Bruno viene arrestato con i compagni del Gif; compie 16 anni e passa le vacanze di Natale in carcere. Dopo il processo viene inviato in un campo di detenzione, ma con i compagni riesce a fuggire.

1943     Bruno si rifugia in un villaggio nelle vicinanze di Tolosa presso una colonia di esuli spagnoli collegati con il Moi (Movimento manodopera immigrata). Dopo la caduta del fascismo, il 25 luglio, è chiamato dal padre a seguirlo in Italia insieme al fratello Giorgio. Con l'aiuto dei servizi segreti tentano la traversata dei Pirenei, ma devono tornare indietro per un malore del padre. Si dirigono verso Nizza.

Il 20 agosto ottengono i passaporti. Arrivano a Mestre il 4 settembre e il 5 settembre a Treviso, dove prendono alloggio presso il nonno materno di Bruno, Francesco Nardari. Il 9 settembre a Bruno viene rilasciatala carta d'identità n. 12472183 dal Comune di Treviso. Segue il padre nell'organizzazione del movimento di liberazione nel Veneto.

Il 9 novembre, con il padre, Bruno assiste all'inaugurazione dell'anno accademico dell'Università di Padova, da parte del rettore Concetto Marchesi. Si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza, ma comincerà a frequentare i corsi e a sostenere esami soltanto nel 1946. Il 19 novembre viene arrestato insieme al padre. Resta in carcere fino al 29 novembre. Dopo la scarcerazione del padre, il 2 dicembre, tornano a Treviso dove Sil­vio Trentin viene ricoverato all'ospedale civile.

1944     Nel mese di gennaio, dettata dal padre, Bruno scrive la bozza di una Costituzione per il nuovo Stato italiano. L'11 febbraio Silvio Trentin viene trasferito nella clinica di Monastier. Bruno, insieme al fratello Giorgio, partecipa alle attività di una formazione locale di Giustizia e Libertà.

Il 12 marzo Silvio Trentin muore. La madre di Bruno e il fratello Giorgio, in seguito ai bombardamenti su Treviso, si trasferiscono in una casa sul Sile, a Silea. Bruno si reca invece a Padova, mettendosi a disposizione del CLN regionale che lo invia come ispettore presso la formazione «Italia libera» del maggiore Pierotti, all'Archeson, sul Monte Grappa. Da luglio ad ottobre Bruno resta nella pedemontana trevigiana e partecipa ad attentati contro camion tedeschi e alla linea ferroviaria Venezia-Udine, nonché all'organizzazione delle zone libere del Quartier del Piave e ai combattimenti a Pieve di Soligo e Solighetto. In seguito ai rastrellamenti delle truppe tedesche e alla conseguente «pianurizzazione» delle formazioni partigiane di montagna, Bruno torna a Padova. Da qui viene inviato al Comando militare del CLN di Milano, alle dirette dipendenze di Leo Valiani. A Milano gli viene affidato il coordinamento dei GAP del Pda.

1945     In febbraio Bruno viene inviato a Verona con l'incarico di formare un commando per la liberazione di Ferruccio Parri. Nelle settimane che precedono la Liberazione, gli viene affidato il comando della brigata Rosselli, con compiti precisi per l'insurrezione della città di Milano.

Il 28 aprile, dopo Pertini, Longo e Moscatelli, prende la parola al comizio di piazza del Duomo. Terminata la guerra, Bruno si ferma a Milano a lavorare nella redazione di «Italia Libera» e poi al «Giornale di mezzogiorno» diretto da Riccardo Lombardi. In agosto riceve la visita della sorella Franca che, con mezzi di fortuna, dalla Francia cerca di raggiungere la famiglia in Veneto. A novembre viene inviato come rappresentante dei giovani azionisti al Congresso mondiale della gioventù a Londra, dove viene fondata la Federazione mondiale della Gioventù democratica (Fmjd).

1946     Partecipa alla vita politica del Partito d'azione nazionale. Viene nominato segretario nazionale del movimento giovanile del Pda. Inizia a frequentare le lezioni e a sostenere esami all'Università di Padova.

1947     Si reca negli Stati Uniti come delegato ad un convegno internazionale. È ospite di un'amica di famiglia a New York; ad Harvad, per due mesi presso la Biblioteca del campus, lavora alla sua tesi sulla Corte Suprema degli Stati Uniti. Qui incontra Gaetano Salvemini.

1948     Partecipa alla campagna elettorale del Fronte popolare a Treviso, e a iniziative del Pci locale.

1949     Il 16 ottobre si laurea a Padova con una tesi dal titolo La funzione del giudizio di equità nella crisi giuridica contemporanea (con particolare riferimento all'esperienza giuridica americana), relatore il professor Enrico Opocher.

In autunno la famiglia Trentin si trasferisce da Treviso a Venezia. Bruno accetta la proposta di Vittorio Foa di lavorare per l'Ufficio studi della CGIL nazionale e si trasferisce a Roma.

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Bibliografia

Iginio Ariemma e Luisa Bellina - Bruno Trentin dalla guerra partigiana alla CGIL - Nuova Iniziativa Editoriale 2008

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Le donne nella Resistenza

2 Mars 2013 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Le donne affrontarono tra il 1940 e il 1945 un periodo dei più scuri: figli e mariti al fronte, a casa razionamento e bombardamenti. L'8 settembre anche la loro rassegnazione doveva trasformarsi: la donna, partecipa attivamente alla lotta di liberazione e prende coscienza del suo ruolo nella nuova società italiana. Lo dimostrano alcuni brani di lettere di donne della Resistenza condannate a morte:

«... A voi conver il dovere di addolcire il dolore di mia madre; ditele che sono caduta perché quelli che verranno dopo di me possano vivere liberi come l'ho tanto voluto io stessa. Sono morta per attestare che si può amare follemente la vita e insieme accettare una morte necessari.

 

«Caro figlio, non posso scriverti tutto quello che sento, ma quando sarai grande e ti immedesimerai nella mia situazione, allora capirai. Non consideratemi diversamente da un soldato che va sul campo di battaglia: sento il volere di Dio e con letizia voglio che esso si compia. Credo che questa sera avverrà. Avrei tanto voluto vedere i tempi nuovi».

 

«Mio caro marito, il mio ultimo respiro sia ancora di ringraziamento al destino che mi ha concesso di amarti e di vivere sette anni con te. Avrei tanto voluto vederti ancora una volta, ma poiché non mi sono concessi favori, sono troppo fiera per fare una richiesta inutile».

 

Ha scritto Thomas Mann:

«Tutto ciò sarebbe stato invano, inutile, sciupato il loro sogno e la loro morte? No, non può essere. Non c'è stata idea per cui gli uomini abbiano combattuto e sofferto con cuore puro ed abbiano dato la vita che sia andata distrutta ».

 

La Resistenza fu un fenomeno europeo. Il termine coniato dai francesi indicò l'opposizione che l'Europa fece al nazismo. Fu insieme lotta armata, resistenza passiva, movimento popolare, rivolta patriottica.

In Italia la Resistenza prese l'aspetto di un secondo Risorgimento; un moto che unì e saldò per la prima volta nella storia nazionale uomini diversi per provenienza di classe e per ideali politici. Fu l'incontro delle grandi masse popolari con i partiti antifascisti.

Vi persero la vita 35.000 partigiani; 10.000 civili furono uccisi in azioni di rappresaglia; 33.000 militari perirono nei campi di concentramento; 8.000 furono deportati nei «Lager» per motivi politici; 32.000 caddero combattendo nelle formazioni partigiane che si organizzarono all'estero. Le donne vi parteciparono largamente: 70.000 presero parte ai gruppi di difesa; 35.000 in azioni di guerra partigiana; 16 furono decorate di medaglia d'oro. Perché? Cosa fu che le mosse? Ne abbiamo intervistate alcune.

 

Lidia Beccaria (Cuneo): «Avevo alcuni amici ebrei per cui non riuscivo a capire la presa di posizione contro di loro. non riuscivo a rendermi conto del perché io avrei dovuto rifiutare alcune amicizie che fino al giorno prima mi erano state molto care. Successivamente penso che il colpo maggiore me l'abbiano dato i miei fratelli di ritorno dalla Russia, quando mi hanno raccontato e quello che era successo durante la ritirata e quello che avevano fatto i tedeschi e quello che avevano visto sia in Polonia che in Russia. L'ultimo colpo certamente, a parte il 25 luglio, avvenne il 12-13 settembre quando i primi carri armati tedeschi sono entrati a Mondovì».

 

Sandra Codazzi (Reggio Emilia): «Era assolutamente assurdo, ingiusto, che i tedeschi portassero via gli uomini in quella maniera e sopratutto vedere (vicino al treno nel quale mio padre si trovava, un treno piombato che portava i deportati in Germania) un gruppo di tedeschi e di fascisti che sparavano su noi donne che eravamo andate là per cercare i nostri genitori, fratelli, eccetera. Ecco, ebbi una ribellione enorme e forse per la prima volta nella mia vita ho provato una cosa che poi non ho provato forse più: ho provato cioè che cosa è l'odio ».

 

A. Ciccetti (Milano): «Mettevano dentro la busta-paga un tagliandino dove c'era scritto "Deve pagare 5 lire (ricordo benissimo) per il Partito Fascista, per la tessera del Partito Fascista". Ci ho scritto su: "Rifiuto". Dopo due o tre giorni mi chiamano in direzione e mi dicono: "Tu sei passabile per il Tribunale speciale". "Perché?". "Perché hai rifiutato la tessera del fascio". "lo la rifiuto semplicemente perché è appena morto mio fratello, in guerra. Aveva vent'anni... Dunque la guerra mica l'ho voluta io, l'avete voluta voi. E basta"».

 

Marta Pellegrino (Cuneo): «L'8 settembre, quando, diciamo, si è sfasciato l'esercito, naturalmente ho scelto questa strada, perché ho capito che questi ragazzi in montagna avevano bisogno anche dell'apporto delle donne. Loro da soli non potevano, perché quelli che erano lassù, in montagna, non potevano naturalmente venire in città, perché sarebbero stati arrestati. Ed allora mi sono decisa a fare la staffetta. Ho cominciato ad andare avanti e indietro, a Boves, con la mia bicicletta, a portare armi, munizioni, documenti, notizie, medicinali, viveri, secondo quello che poteva servire».

 

Con la Resistenza la donna diventa protagonista di un avvenimento storico a fianco degli uomini. Accetta la guerra come individuo che vi partecipa responsabilmente di persona; accetta la guerra con le sue regole di violenza; e la guerra non le risparmierà alcuna violenza. Le donne arrestate, condannate, torturate, sono 4.563; le donne fucilate o che nel corso di azioni armate caddero, furono 623; le donne deportate in Germania furono circa 3.000. In montagna parteciparono a tutte le azioni delle formazioni partigiane; e in montagna la donna scopre un'altra dimensione di sé. L'occasione le dimostra che se necessario può prendere il controllo della situazione, può condurre una azione, guidare una formazione. Oltre cinquecento sono state le donne cui sono stati affidati compiti di comando anche militare. Ne abbiamo incontrato alcune; ecco le loro storie nelle interviste di Liliana Cavani:

La sera del 7 novembre a Bologna si combatte contro i tedeschi la battaglia di porta Lame, decisiva per le formazioni partigiane. Fu una ragazza di 17 anni, Germana Boldrini, a dare il segnale dell'attacco partigiano.

 

Germana Boldrini (Bologna): «In quel momento io mi sganciai dai miei compagni di gruppo ed arrivai a Porta Lame, circa un sei-sette minuti prima; e Il ci fu l'attacco, in piazza della Porta, insomma. E quando arrivai a Porta Lame, con la mia arma automatica e le bombe a mano lanciai il fuoco. I miei compagni mi seguirono e ci fu un grande combattimento. Ci furono delle perdite da parte nostra e delle perdite da parte dei tedeschi».

 

Liliana Cavani: «Da dove le veniva questo grande coraggio? ».

Germana Boldrini: «Forse perché in casa mia si è sempre vissuti in quella atmosfera, date le circostanze del mio povero babbo che aveva vissuto dodici anni di confino e quando era a casa era molestato quasi tutti i giorni dai fascisti; e ne ha subito di tutti i colori ed io essendo la più grande, si vede che mi son messa nel sangue quel certo spirito di coraggio per difendere mio padre fino alla morte, perché aveva passato una gioventù tanto crudele, tanto brutta, che mi rimpiangeva il cuore solo a sentirlo parlare, tante volte. E dopo la morte, la morte brutta, fucilato ... ».

 

Liliana Cavani: «Che cosa era accaduto a suo padre? ».

Germana Boldrini: «Mio padre è stato fucilato. Prima hanno minato la casa e poi l'hanno fucilato sulle macerie della casa».

Liliana Cavani: «E lei, allora, che ha fatto?».

Germana Boldrini: «Ho pensato che volevo difenderlo, volevo vendicarlo ... Questo è stato tutto quello che ho fatto, poiché io non l'ho visto. L'ho visto due giorni prima di morire, poi non l'ho più visto, neanche sono stata al funerale, niente; ché non gli han fatto un funerale civile, gli han fatto un funerale con un carro da buoi, perché non gli hanno dato il permesso neanche di dargli una carrozza, niente ».

 

Nel 1944, Norma Barbolini aveva 24 anni; era in montagna da tempo con una brigata partigiana comandata dal fratello. Uno degli scontri più violenti con i tedeschi fu quello di Ceresologno, nel Modenese, nel corso del quale Norma prese il comando della brigata.

 

Norma Barbolini: «Poiché mio fratello rimase ferito e abba­stanza gravemente (eravamo impegnati in una battaglia molto impegnativa, anche perché quella lotta si svolse così, quasi a tu per tu tra i tedeschi e partigiani e di conseguenza a un certo momento noi eravamo circondati, dopo che la postazione di mio fratello l'hanno messa a tacere, quindi noi abbiamo dovuto cercare con tutte le nostre forze di resistere a questo combattimento) e poiché lì persone che potessero in quel momento prendere delle decisioni non ne vedevo (c'era anche un certo caos) decisi di prendere io quelle decisioni che ritenevo più opportune e ero sicura che i partigiani mi avrebbero appoggiata; si è fatto tutto il possibile, e di conseguenza lì siamo riusciti a portare a termine la battaglia con un enorme successo, fra l'altro ... ».

Liliana Cavani: «Lei che grado aveva? ».

Norma Barbolini: «Io di capitano e avevamo una taglia, io e mio fratello, di 400.000 lire ».

 

In carcere sono sottoposte a interrogatori estenuanti; come i loro uomini, sono al corrente di cifrari, di codici, dei nomi dei capi, della forza numerica delle formazioni. Il nemico non risparmia mezzi per estorcerglieli.

Subito dopo l'8 settembre, Adriana Locatelli raccolse nella sua casa di Bergamo un gruppo di militari sbandati; li guidò per oltre un anno in azioni partigiane, sin quando i tedeschi riuscirono a catturarla e tentarono di farla parlare con ogni mezzo, nel corso di massacranti interrogatori.

In realtà il contributo delle donne italiane non si limitò alle azioni dirette. Nel 1944 le donne partecipano ai grandi scioperi del Nord, di più, li organizzano, sostituiscono i loro uomini quando chiedono pane, vestiti, carbone, migliori condizioni che mitighino la durezza del conflitto armato. E muoiono in quelle manifestazioni. La prima cade a Forlì, nel corso di uno sciopero. È una madre di 5 figli. Nelle case assolvono ai compiti che la tradizione ha loro affidato: lavorano, tagliano, cuciono, preparano indumenti caldi, confezionano pacchi cui aggiungono i viveri che altre donne porteranno in montagna ai partigiani.

 

Norma Barbolini (Modena): «Indubbiamente noi non avremmo potuto far niente senza le donne montanare, anche perché, quando noi siamo arrivati in montagna, nei primi tempi in cui i fascisti hanno cominciato a fare propaganda contro le bande partigiane (perché le chiamavano le bande partigiane, banda, proprio come dei banditi) e quindi noi ci presentavamo nelle famiglie, con queste donne si discuteva, si parlava, e dopo poco quelle donne erano disposte a dividere il loro pane e qualche volta a darci il loro letto, e quando avevamo dei feriti ci aiutavano. Sono state per noi, le donne della montagna, proprio un appoggio indispensabile».

 

In città fanno muro nel corso dei rastrellamenti a difesa degli uomini e ne salvano a migliaia. In campagna avvertono i partigiani del pericolo. Non distinguono tra i propri figli e i figli degli altri e rischiano la vita dei propri per salvare quella degli altri.

Anna Maria Enriquez Agnoletti, fiorentina, era collegata ad una organizzazione che metteva in salvo gli ebrei. Venne catturata, e dopo essere stata brutalmente percossa, fu sottoposta a continui interrogatori, di giorno e di notte, per una settimana. Alla fìne i tedeschi la fucilarono. In carcere, con lei, ma separatamente, era stata rinchiusa la madre.

 

Maria Montuoro venne catturata a Milano e in seguito portata al campo di sterminio di Ravensbruck.

Nei campi le italiane ebbero una vita particolarmente dura. Alla brutalità dell'organizzazione nazista si aggiungeva la diffidenza delle donne degli altri Paesi, che, specie nei primi tempi, consideravano tutti gli italiani responsabili della guerra fascista. Ma ci fu anche per le italiane l'incontro con mondi differenti dal loro. Per la prima volta si trovarono a vivere in una comunità che abbracciava individui diversi per nazione, con un diverso modo di pensare, diverse regole, diverso tipo di comportamento.

Uscirono dai campi di concentramento, dalla lotta partigiana, dalla clandestinità, delle donne diverse.

 

Nelle immagini seguenti: Elisa Sala, Iris Versari, Salvatrice Benincasa

 Elisa-Sala.jpg Iris-Versari.jpg  Salvatrice Benincasa donna-partigiana.jpgpartigiana-in-bicicletta-Modena-liberata.jpg tina anselmi

Bibliografia:

Liliana Cavani e Paolo Glorioso in AA.VV - Dal 25 luglio alla repubblica - ERI 1966

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Lissonesi che sono transitati dal lager di Bolzano

5 Janvier 2013 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Lissonesi che sono transitati con certezza dal lager di Bolzano diretti verso i lager nazisti (dati ANED). Nessuno è tornato a Lissone:

 

Avvoi Ambrogio

 

Bettega Mario

 

Cassamagnago Fernando

 

Colzani Giulio

 

De Capitani da Vimercate Gianfranco

 

Mazzi Attilio

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il campo di concentramento di Bolzano (DURCHGANGSLAGER BOZEN)

5 Janvier 2013 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

lager Bolzano

SS-POLIZEI (LICHES) - SAMMEL–u  DURCHGANGSLAGER BOZEN (BOLZANO-GRIES)

lager Bolzano 1

da inizio luglio 1944

prima decade, interna e matricola i primi deportati politici;

25-31 luglio 1944

arrivo di un numeroso gruppo dedetenuti evacuati dal DL Fossoli, per l'ampliamento e allestimento del nuovo lager;

25-31 luglio 1944

in vari trasporti si internano detenuti evacuati da Fossol i;

2 agosto 1944

si conclude l'evacuazione da Fossoli con l'internamento degli ultimi 45 detenuti addetti a mansioni speciali e di funzionamento dell'ex lager emiliano;

2 agosto 1944

primo concentramento di un trasporto di deportazione con 450 detenuti destinati a: Birkenau, Dachau, Buchenwald, Ravensbruk;

2 agosto 1944

trasporto con 327 politici al KL Mauthausen;

17 agosto 1944

internamento di 532 detenuti provenienti dal carcere di Milano-S.Vittore, di cui 191 uomini e 30 donne politiche, 291 uomini e 21 donne scioperanti;

4 settembre 1944

trasporto con 450 detenuti politici al KL Flossenburg;

7 settembre 1944

arrivo di 154 politici dal carcere di S.Vittore - Milano;

20 settembre 1944

arrivo di un altro convoglio di detenuti da Milano-S.Vittore;

8 Ottobre 1944

trasporto con 600 detenuti, di cui 484 al KL Dachau;

24 ottobre 1944

trasporto ad Auschwitz-Birkenau di 350 detenuti di cui 200 politici e 150 ebrei;

novembre-dicembre 1944

partenza di vari trasporti per i KL d'oltralpe;

ultimi trasporti

 

7 gennaio 1945

501 detenuti politici diretti al KL Mauthausen;

18 gennaio 1945

408 detenuti politici diretti al KL Flossenburg;

fine gennaio 1945

917 detenuti politici diretti al KL Mauthausen

4-5 febbraioio 1945

384 detenuti politici diretti al KL-Mauthausen;

vari

 

29 aprile 1945

rilascio di un certificato di scarcerazione (liberazione) a circa 500 detenuti;

30 aprile 1945

estensione del certificato di scarcerazione o dirilascio dal lager a tutti i restanti 2800 detenuti;

30 aprile-10 maggio 1945

il lager passa sotto la direzione del C.I.C.R. di Ginevra fino alla partenza di tutti i detenuti;

4 maggio 1945

chiusura del lager e Liberazione città da parte dei partigiani.

lager Bolzano 2

Note documentarie:

Il campo di Bolzano-Gries fu installato nell'area del magazzeno-garage dell'ex Reggimento Genio-Artiglieria, sito in via Resia alla periferia nel quartiere di Gries. Fin dall'inverno 1943 fu adattato per sistemare e rieducare alcuni detenuti altoatesini, civili e militari, che allora funzionò provvisoriamente come una specie di compagnia di disciplina. Trovandosi il lager di Fossoli in zona "infestata" da "ribelli" partigiani, il comando germanico del Bds a Verona stabilì il trasferimento in zona più sicura e, il 21 luglio 1944, con l'arrivo a Gries di un gruppo di detenuti provenienti da Fossoli, iniziarono i lavori di ampliamento ed allestimento del campo, per ricevere un gran numero prigionieri provenienti da molteplici prigioni di mezza Italia.

Nel nuovo lager fu subito creata una bassa costruzione-bunker con 48 piccole celle di m.1,30 x 3, sempre zeppe di detenuti ritenuti pericolosi, tutti soggetti a molteplici torture, anche a morte.

Furono installati nuovi settori interni per ospitare vari laboratori: falegnameria (30 detenuti addetti), officina meccanica (15/18 detenuti), elettricità (15 detenuti), calzoleria (12), tipografia (10), sartoria (8), cucina (4), infermeria (3), muratori (10), lavanderia, ecc.

Diversamente che a Fossoli, a Bolzano le baracche dimora erano contrassegnate da una lettera. Nell'Hangar-rimessa erano sistemati i blocks dalla A alla F, mentre i blocchi dalla G alla M furono sistemati con la costruzione di un nuovo baraccamento.

Il blocco "A" ospitava circa 130 lavoratori interni fissi; il "B" circa 200 "Arbeiter" dei vari kommandos; il "C" circa 200 detenuti; il "D" circa 250; l"'E" con circa 250 detenuti considerati pericolosi, trasferiti a metà novembre 44 al blocco "F"; l'''F'' ospitava un minimo di 100 donne, sia politiche che ebree ed altre, trasferite poi al blocco "E"; il "G" variava; l"'H" circa 300; l'''I'' circa 250; l'''L'' riservato agli ebrei maschi; etc.

 

Furono internati e transitarono dal campo oltre 15.000 prigionieri di cui 369 tra italiani e stranieri. Dei menzionati, 139 ebrei rimasero nel lager, mentre altri 3350 detenuti furono trattenuti e adibiti a lavori nel lager, nei kommandos di città e nelle dipendenze esterne. Un kommando importante di città era quello operante nella Galleria del Virgolo, dove la ditta I.M.I., trasferiti gli impianti da Ferrara, vi costruiva cuscinetti a sfera; un'altro era in una fabbrica di tende militari dove le detenute cucivano occhielli alle tende.

Le dipendenze esterne di lavoro erano dislocate a: MERANO (400 detenuti), SARENTINO (oltre 200), CERTOSA (50+), VIPITENO (in una fabbrica di armi sfollata qui da Cremona), indi MOSO (Moos), Kdo OT, BRESSANONE, CAMPO TORES, COLLE ISARCO, GARRUTI, MALLES e NURAN.

Questi erano gli orari del campo, per la stagione estiva e per quella invernale:

- sveglia        ore 5 e 5,30 per le donne;

ore 5,30 e 6 per gli uomini;

- adunata      ore 6 e 18 per la conta dei presenti;

- lavoro        ore 7 - 12 e 13 - 17;

- rancio         ore 12 e 17,30;

- silenzio       ore 20 e 21 con chiusura nelle baracche

lager Bolzano 3 lager Bolzano 5

I timbri tondi in questione furono usati dal comando tedesco per autenticare documenti inerenti il lager. La corrispondenza spedita dal campo di Bolzano non porta quindi alcun timbro del lager ma solo il timbro lineare di censura (inchiostro viola).

Ai detenuti lavoratori erano di spettanza i due "pasti" giornalieri mentre per gli inattivi - ammalati o invalidi un solo "pasto".

I contrassegni di categoria conosciuti erano i seguenti:

TRIANGOLO ROSSO      assegnato a comunisti, attivisti politici, partigiani, scioperanti; tutti assegnati a lavori pesanti e destinati ai campi SS di 3° e 2° categoria.

TRIANGOLO ROSA        a sospetti politici di relativo interesse e a rastrellati, adibiti a lavori fuori del campo, con la possibilità di diventare liberi lavoratori o nel peggio dei casi di essere destinati a campi di primo grado. 

TRIANGOLO GIALLO      a ebrei; adibiti a lavori vari all'interno del campo, tutti destinati alla deportazione. Non fu loro assegnata matricola. 

TRIANGOLO BIANCO     (o VERDE) a detenuti considerati ostaggi: personalità varie, famiglie o parenti di partigiani e politici ricercati. È quasi certa la non assegnazione della matricola. 

"ARBEITER"                 non ben definito il motivo del loro arresto. Non portavano alcun distintivo di qualifica ne il numero matricolare. Erano adibiti a lavori leggeri e in seguito destinati a scarcerazione dal campo.

 

VORARBEITER         detenuti specializzati addetti ai laboratori sorti nel lager.

 

lager Bolzano celle


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Doppia cartolina in dotazione al carcere milanese di San Vittore. Cartolina di risposta indirizzata il 6 agosto 1944 al detenuto politico Bruno Galmozzi, nato a Milano il 29/9/1907. Catturato dalla Gestapo il 20 maggio 1944 mentre trasportava verso l'Alto Novarese un grosso carico d'armi e munizioni, fu rinchiuso a S.Vittore al 5° indi al 6° raggio ed ebbe la matricola n°274 US indi la n° 2764. Dieci giorni dopo la ricezione della cartolina-risposta, il 17 agosto, con altri 539 detenuti, il partigiano Galmozzi sarà trasferito allo SS-Durchgangslager di Bolzano-Gries, dove fu assegnato al block A con matr. n°2979, trattenuto al lager quale operaio tecnico e capo tipografia del lager. 

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Biglietto di franchigia scritto il 14 gennaio 45 dal detenuto politico n° 2979 - Bruno Galmozzi, passato alla censura (A), con timbro postale di tipo "E" in data 18 gennaio 1945.· La copia del registro detenuti, qui in fotocopia ridotta, porta elencato il nominativo del l'Haftling in questione, con relativa matricola e blocco .di alloggio - che per i detenuti ' "Vorarbeiter" addetti a lavori tecnici nel lager era la baracca "A".

Come per Fossoli, il campo di Bolzano-Gries era comandato dal tenente-SS Karl Tito (per un periodo era il maresciallo Haage), seguiva il tenente-SS Muller, il maresciallo-SS Hans Haage per la disciplina, l'SS altoatesino Albini Cologna capo del bunker o blocco celle, le SS-ucraine Mischa Seifert e otto Seit torturatori del blocco celle.

Anche il campo di via Resia in BZ-Gries ospitò un buon numero di antifascisti e partigiani stranieri, tra questi parecchi francesi e italiani residenti in Francia.

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L'ingresso dell'ex lager fotografato negli anni seguenti la liberazione; qui sede dell'autorimessa "Resia".

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Biglietto di franchigia mancante del timbro postale delle P.T.di Bolzano ma portante tre censure diverse: del lager (A), dell'Uff.di Bolzano città (apposto al verso - I) e ··dell'Uff.Prov.di Torino. Fu spedito il 7 dicembre 1944 dal partigiano garibaldino Giovanni Costa, nato a Sion (Svizzera), catturato nel settembre 1944 nella zona operativa del canavesano. Costa fa il suo ingresso al lager il 10 novembre 1944 ed ebbe la matr.6628, assegnato al block "C". Il 23 dicembre evade dal campo e clandestinamente raggiunge la sua formazione garibaldina nel canavesano.

Il servizio postale autorizzato dal comando SS del lager ebbe ufficialmente inizio nell'ottobre 1944 fino a tutto febbraio 1945, ma ugualmente uscirono scritti su carta comune che su franchigie del campo. Nella prima metà del suddetto periodo i detenuti, ebrei compresi, ebbero in assegnazione due biglietti al mese, nel secondo periodo la assegnazione fu ridotta a una franchigia al mese. La franchigia veniva concessa ai soli detenuti addetti ai lavori del campo ed a quelli dei kommandos-lavoro di città che delle dipendenze esterne. Nessuna concessione in assoluto per i detenuti nelle celle.

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Veduta interna parziale dall'ingresso lager. Sullo sfondo il blocco Celle, alla sinistra il blocco-baracche dalla A alla F, alla destra l'infermeria ecc. Si precisa che questa foto é stata erroneamente stampata con il negativo in senso sbagliato, pertanto il blocco-baracche deve ritenersi alla destra dell'ingresso.

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Le censuratrici del lager furono le signore: SS-Suzi Ziegler e fraulein Rosa.

I timbri usati dalle poste di Bolzano per le franchigie e le comuni lettere partite dal campo furono i seguenti: a - Deutsche Dienstpost Alpenvorland - Bozen o Bozen l, con lettera “d”; b - annullo muto in due cerchi con la sola data; c - Bolzano ferrovia; d - Bolzano corrispondenza pacchi; e - Bolzano Ferrovia-distribuzione.

Gran parte degli scritti dei detenuti, oltre la censura del campo, furono sottoposti ad altre censure: a Bolzano stessa o alla sede provinciale di destinazione.

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L’hangar dimora con i blocchi dalla “A” alla “F”

Tra uccisioni e decessi conosciuti, nel campo di via Resia si assommano ad oltre 120 morti, tra questi i 23 militari italiani incorporati nelle Missioni segrete alleate e paracadutati o sbarcati da sommergibili e distaccati presso comandi partigiani. Prelevati dal blocco "E" (dei pericolosi) il 12 settembre 1944 alle ore 4 del mattino, furono portati in mutande alle Caserme Mignon di Bolzano e trucidati. Altri furono assassinati sotto tortura nelle celle del lager o al Corpo d'Armata sede della Gestapo. L'Oberscharführer Karl Gutweniger é il responsabile degli eccidi di Fossoli e dei 23 del DL Bolzano.

Nel campo esisteva una organizzazione politica clandestina già all 'inizio della sua attività, formata in gran parte dall'organizzazione già operante a Fossoli. Fino alla fine funzionò un C.L.N. del campo, in contatto costante con il C.L.N. di Bolzano, con il ·C.L.N. di Milano e con il comando generale del C.L.N.A.I. pure a Milano. A Bolzano città il lavoro fu organizzato da "Giacomo" (Francesco Visco Gilardi) e da "Anita" (Franca Turra) in unione a Lilli-Mascagni Nella, ad Andrea e Mario Mascagni, ad "Angelo" (Manlio Longon), a Mons. Daniele Longhi, a "Bepi" (Giuseppe Bombasaro, del gruppo "Bari" Divisione "Alto Adige"), a Marco (Enrico Pedrotto), a "Vincenzo" (Rinaldo Del Fabbro), ad Armando Condanni, a Pavan padre e figlio, a Vito Liberio ed alle Signore: Maria-Antonietta, Pia e Donatella Ruggeri, Gilberti, Fiorenza Liberio, Elena Bonvicini, Mariuccia, ecc. Il collegamento con il CLN Bolzano, con quello di Milano ed il CLNAI fu tenuto da Virginia Scalarini (fiiglia del celebre caricaturista dell'Avanti!) e da Gemma , Bartellini.

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Il dottor Gilardi, nato a Milano ma residente da quattro anni a Bolzano quale direttore amministrativo delle Acciaierie F.R.O., fu incaricato dal CLN e CLNAI di Milano di allestire e dirigere un servizio clandestino di assistenza agli internati del lager, procurando loro cibo, vestiario, corrispondenza segreta, piani di fuga, documenti falsificati ed evasioni sia dal campo che dai vagoni di deportazione e dai Kdo lavoro. Si conoscono almeno 23 fughe, singole o a gruppetto, riuscite ad opera di "Giacomo"(Gilardi) mentre molte altre favorite ed aiutate. Il 19 dicembre 44, su delazione, "Giacomo" fu catturato e portato nelle celle del Corpo d'Armata - sede della Gestapo per i rituali crudeli interrogatori con sevizie; il 22 fu portato al Lager dove gli fu assegnata la matr.n° 8017 e rinchiuso nella cella 28 del "Bunker-prigione fino al giorno della liberazione. Nell'organizzazione, il posto di Gilardi fu assunto dalla signora Franca Turra coadiuvata da Mariuccia moglie di Gilardi, con altri. 

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Oltre alla assistenza ai detenuti, furono messe in atto numerose fughe dal campo, dai kommandos e durante i trasporti di deportazione. Scoperta dai nazisti tale organizzazione partigiano-assistenziale, furono catturati alcuni dei maggiori esponenti, sottoponendoli a crudeli sevizie sotto interrogatori e carcerandoli alfine nel blocco celle in attesa del peggio, essi sono: Mons.Daniele Longhi (matr. 7.459), "Giacomo" (matr. 8017), Nella Lilli-Mascagni (matr. 10.599) e Mario Mascagni (matr. 10.891).

Mentre imperversava la guerriglia, con i tedeschi ancora padroni del Trentino-Alto Adige, il 29 aprile 1945 i circa 3250 detenuti rimasti nel lager di Bolzano (non più trasportabili in convogli diretti ai KL dal febbraio 45, per impraticabilità delle linee· ferroviarie) furono liberati tramite l'intervento dello svizzero Signor Crastan - delegato ufficiale del C.I.C.R. di Ginevra che, due giorni dopo prende in consegna il lager di via Resia allorchè le SS lasciano il campo.

Il voluminoso incartamento di documenti del lager, compreso quello dell'ex campo di Fossoli, fu dato alle fiamme dalle SS poco prima di lasciare il campo, sia nella stufa del comando campo, sia nella caldaia del Corpo d'Armata sede della Gestapo di Bolzano. Fu salvato un registro matricolare dell'Intendenza che, in data 5 febbraio 1945, elencava gli internati presenti, con numero di matricola fino a 11.116 detenuti matricolati, transitati e diretti ai KL di Germania e di Polonia.

Bolzano fu liberata ed evacuata dai nazisti il 4 maggio 1945. Sul terreno del lager, da decenni sono sorte case popolari, mentre in prossimità é stato eretto un significativo monumento a ri cordo dei detenuti deceduti nel lager e dei morti in deportazione nei KL di oltre confine.

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LETTERA CLANDESTINA DI UNA DETENUTA EBREA TRAMITE LA COMPIACENZA DI UNA DETENUTA POLITICA

Scritto consegnato alla censura del campo in data 29 gennaio 1945, poi inoltrato dalla Kommandantur-SS del lager il 10 febbraio. La lettera é indirizzata alla signora Rosa Franchini (Franchina) residente a Milano - via S.Maurilio 20, da parte della detenuta politica matricola n° 8482 Maria Mariani-Leoni. In realtà, la lettera fu scritta dalla internata ebrea Signora Evelina Montefiore alla madre - signora Olimpia Nizza vedova Montefiore - clandestinamente residente in un paese del varesotto. La signora Franchini, cui é indirizzata la lettera, é la moglie del dottor Bargiotto (funzionario del Comune di Milano) il quale la recapitò poi segretamente alla Signora Nizza fuggita per non essere arrestata e deportata. La Signora Montefiore, nata e residente a Milano - via Compagnoni 21, fu liberata a Bolzano su intervento del delegato del CICR il 29.3.1945. 


tratto da:

pubblicazione di FELICE PIROLA

di FELICE PIROLA (Lissone il 16 febbraio 1923 - Milano 2000), Internato Militare Italiano matricola di prigioniero di guerra n° 69378


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