resistenza italiana
Testimonianza di Onorina Brambilla Pesce “Sandra”, deportata nel campo di concentramento di Bolzano
Gappista, medaglia d’oro al valor militare per la sua attività nella Resistenza. Fu catturata il 12 settembre 1944 a causa di una soffiata di una spia. Portata a Monza, presso la “Casa del Balilla” (l’attuale Binario 7), «picchiata con forza», poi trasferita alle carceri di Monza, dove rimase «due mesi in una cella isolata», venne in seguito deportata nel campo di concentramento di Bolzano.
La sua testimonianza
«Ricordo i chilometri in bicicletta o a piedi per la città, a ogni ora e con ogni tempo, col sole o con la pioggia, spesso passando con il cuore in gola in mezzo ai nazifascisti.
La lotta in città era del tutto particolare, non era come in montagna, dove i partigiani si riunivano in gruppi. In città il gappista era solo, la cospirazione e la lotta clandestina gli imponevano la più assoluta segretezza, talvolta una vita da eremita come nel caso di “Visone” (N.d.A. Giovanni Pesce, diventerà suo marito dopo la Liberazione), che viveva isolato e non incontrava mai nessuno. Il gappista viveva circondato dal nemico, con la possibilità di essere riconosciuto in ogni momento o di essere fermato e perquisito nei continui rastrellamenti».
A Bolzano
«Arrivammo al campo di concentramento di Bolzano il 12 novembre 1944. Fu in quella livida domenica mattina che per la prima volta vidi un campo di prigionia: le baracche, i prigionieri, le mura, i reticolati, le sentinelle sulle piazzole di guardia.
La divisa del campo era una casacca con pantaloni di grossa tela da imballaggio bianco sporco, sulla schiena spiccava una grossa croce in colore rosso che doveva distinguerci come prigioniere. A noi ultime arrivate avevano però dato il permesso di tenerci anche i nostri vestiti. Probabilmente cominciavano a scarseggiare le possibilità di dare a tutti una divisa. Indossai la casacca e pantaloni di tela sopra i miei abiti, perché faceva freddo.
Mi fu assegnato il numero di matricola 6087, col triangolo rosso dei politici e fui destinata al blocco F.
Calci colpi di randello, frustate, accompagnati da urla terribili ci venivano inflitti per i più futili motivi. Guai a non osservare la brutale disciplina.
Le punizioni avvenivano non solo nei blocchi, a volte si veniva portati nella palazzina del Comando, o nelle celle di punizione, che erano stanzette di cemento, buie e gelate. Qui si finiva nelle mani di due giovani ucraini di origine tedesca, Michael Seifert e Otto Stein. Il primo aveva il viso sempre ben rasato, il secondo portava due grandi baffi da tartaro. Massacrarono almeno una ventina di prigionieri.
Il cibo era una disgustosa brodaglia, e chissà cosa c’era nel pane.
Passavamo intere giornate a parlare di cibo la fame non ci abbandonava mai.
Per fortuna potevamo scrivere lettere e ricevere dei pacchi dalle famiglie (che spesso erano trattenuti dai sorveglianti).
Quando i pacchi arrivavano, non duravano un’ora: dividevamo ogni cosa, e questo non era solo un aiuto materiale, ma soprattutto morale. Io li ricevevo da mia madre, che aiutata da Visone, li otteneva dall’organizzazione clandestina.
In tutta la baracca c’era solo una stufa, ma questo non ha mai causato risse per l’accaparramento dei letti più caldi lì intorno. Tra noi donne c’era una certa serenità, cosa che non sempre, accadeva tra gli uomini ...»
Bibliografia:
Onorina Brambilla Pesce - Pane bianco – Ed. Arterigere 2012
Testimonianza di Lino Liverani, il partigiano «Colli»
Testimonianza di Lino Liverani «Colli»
Brisighella (Ravenna), 1927
partigiano, XXXVI Brigata Garibaldi Alessandro Bianconcini, Appennino imolese-faentino
La formazione intanto si ingrandiva sempre più. Affluivano senza sosta nuovi compagni e veri e propri flussi di arrivi caratterizzarono i mesi estivi del '44.
Era un via vai continuo, motivo di soddisfazione ma anche fonte di preoccupazione, perché in larga parte si trattava di persone sprovviste di armamento a cui si doveva provvedere non solo all'inquadramento abituale, ma pure alla dotazione di un' arma in tempi brevi.
Le possibilità di fornirci di armi verteva su tre possibilità: sottrarle al nemico dopo un combattimento; farsele consegnare dagli occupanti nemici di caserme; farcele paracadutare a mezzo di aeroplani alleati tramite appositi e concordati lanci.
Le prime due soluzioni comportavano rischi altissimi che spesso si traducevano in perdite di vite, pur essendo praticate abitualmente.
Il rifornimento a mezzo di lanci aerei da parte delle truppe alleate poteva diventare fattibile solo seguendo certe direttive, direttive che presupponevano contatti con il centro alleato di Bari a mezzo della notissima Radio Londra.
Una volta ottenuta l'autorizzazione da parte del comando alleato s'aspettava che la parola d'ordine fosse ripetuta nella serie dei comunicati serali che facevano da chiusura ai commenti ai fatti del giorno da parte del colonnello Stevens.
Una sera giunse finalmente il segnale convenuto. «I prati sono fioriti».
La comunicazione mise in avviso il comando e tutta l'organizzazione, creando un' attesa spasmodica. I parlottii fitti divennero la costante di quei giorni d'attesa e già si prefiguravano le casse e i colli appesi ai paracadute con le immagini più suggestive. .
Squadre di dieci compagni ebbero il compito di accendere i fuochi e alimentarli continuamente con fascine di legna per determinare l'area di lancio cui indirizzare i paracadute. I fuochi erano costituiti da pile di legna e arbusti di facile combustione, chiaramente visibili dal cielo. L'area aveva una dimensione triangolare con una lunghezza di circa trecento metri e una larghezza nella parte più ampia di circa duecento metri fino a restringersi a punta.
Il rischio di venire scoperti dal nemico c'era. La nostra speranza era la notte, quando difficilmente ci avrebbero attaccato. Noi eravamo perfetti conoscitori delle zone e del terreno operativo e quindi un attacco diretto gli avrebbe sicuramente causato diverse perdite. Potevano effettuare attacchi a distanza con cannoneggiamento e mortai, e talvolta accadeva, ma probabilmente il risultato non sarebbe stato adeguato al dispendio di energie necessarie per effettuare l'azione.
La terza sera di attesa, alle 9.30 circa, ecco in lontananza un rumore tenue di aeroplano che aumenta sempre più.
Scatta il dispositivo. Si alimentarono immediatamente i fuochi e le fiamme si alzano rigogliose. L'apparecchio, a fari spenti, sta per entrare nella zona di lancio e appena intravede i fuochi con i faretti di coda rossi fa due segnali consecutivi.
L'intesa è stabilita.
Due giri di virata per scendere al massimo e avvicinarsi al terreno.
Seguimmo le evoluzioni con animo partecipe, ancora un sorvolo e poi un'infinità di ombrelli che s'aprono e ondeggiano sopra le nostre teste. Bisognava aguzzare al massimo i sensi per evitare di non essere colpiti. L'apparecchio si allontana un po', poi vira nuovamente per riportarsi planando sulle nostre teste, e ancora una pioggia di paracadute s'aprirono e fluttuarono leggeri nell' aria.
Fu uno spettacolo che ci dette entusiasmo e ci regalò momenti di gioia in periodi in cui non era facile essere allegri.
Altra virata con annessa planata: il pilota era bravo e maneggiava l'aereo con vera perizia. Ancora un apparire di ombrelloni ondeggianti, poi luci rosse intermittenti di coda a significare che l'operazione era terminata.
Due segnali di luci vicine erano il saluto che il pilota ci mandava.
Iniziava l'operazione di raccolta. Le squadre preposte si buttarono con grande slancio. Ne facevo parte anch'io.
Solo il recupero dei colli e il trasportarli era una fatica del diavolo.
Si trattava anche di pesi valutabili intorno ai centosessanta, cento settanta chili non facilmente trasportabili, soprattutto i cilindri d'acciaio per la forma caratteristica a siluro. Per quelli caduti più lontano dal posto di raduno era una fatica improba.
Alle tre del mattino l'operazione era quasi terminata.
Iniziò quindi l'operazione di apertura dei colli.
Il clima generale era di grande euforia e di grande attesa. I contenitori a cassetta erano colmi di robe varie: indumenti, scarpe e alimenti, tra cui anche marmellate e burro in grossi pani. I contenitori di metallo contenevano armi, munizioni, esplosivi al plastico.
È appena il caso di dire che i materiali pervenuti non erano della quantità da noi desiderata per quanto concerne le armi e le munizioni. Si sarebbe riusciti ad armare forse un paio di compagnie di nuova formazione, integrando l'armamento a un altro paio, ma non avremmo mai coperto il fabbisogno occorrente di tutti.
Pazienza: bisognerà attingere ai metodi classici finora usati, e cioè sottrarli al nemico.
Rimanevano in disparte due cassette di forma particolare, quasi dimenticate nella foga di aprire le casse dei più grandi. Eravamo curiosi di scoprirne il contenuto, anche perché erano stranamente leggere di peso a dispetto delle altre.
All'interno c'erano dei rotoli di carta di una forma a noi sconosciuta. Qualcuno azzardò l'ipotesi che si trattasse di materiali per effettuare segnalazioni visive dall'alto, qualcun altro disse che poteva trattarsi di carta da scrivere per usi particolari. Eravamo tutti un po' perplessi.
Un compagno, fino ad allora rimasto in disparte si avvicinò e ci guardò sorridendo.
- Ma non vedete che è carta igienica?!
Risatina di qualcuno lontano, ma la maggioranza restò in silenzio. Non capivamo:
- Serve per pulirsi il sedere!
E subito la risata fu grande. Per tantissimi di noi si trattò della prima volta che venivamo a contatto con tale accessorio.
Da quel momento la carta igienica per me rappresentò qualcosa di peculiare, legata indissolubilmente a un ricordo particolare, piacevole ma anche tragico.
Allora ci chiedemmo: possibile che tra infinite cose necessarie la carta igienica avesse un ruolo così rilevante, per gli inglesi? Stupisce anche in relazione ai luoghi, in mezzo a montagne e boschi, nostre dimore abituali.
Dimenticammo presto queste domande. Altri e più importanti pensieri si ponevano alle attenzioni delle nostre menti. Come occultare i paracadute affinché non cadessero nelle mani del nemico?
Si decise di tagliarli e darli in parti proporzionali ai vari contadini delle nostre zone che coabitavano con noi e che prestavano ogni attenzione ai nostri bisogni.
Finalmente le loro donne avrebbero avuto indumenti di seta.
Bibliografia:
Stefano Faure, Andrea Liparoto, Giacomo Papi - Io sono l'ultimo. Lettere di partigiani italiani - Einaudi 2012
Testimonianza di Anita Malavasi, partigiana «Laila»
Testimonianza di Anita Malavasi «Laila» rilasciata nel 2011
Quattro Castella (Reggio Emilia), 21 maggio 1921
staffetta, partigiana, CXLIV Brigata Garibaldi Antonio Gramsci, Appennino reggiano
Mi chiamo Anita Malavasi e il mese di maggio compio ottantanove anni. Sono diventata partigiana dopo l'8 settembre 1943, a Reggio Emilia, facevo trasporto munizioni, stampa, vettovagliamento. Poi, in montagna, mi hanno insegnato le armi, come usarle e accudirle. Il mio nome di battaglia era «Laila». Lo presi da un romanzo che raccontava di una ragazza in Sud America che combatteva al posto del suo fidanzata ucciso. Ero una bella ragazza, ma noi eravamo state educate severamente, anche nel modo di vestire. Però sfruttavamo la nostra bellezza. Quando, con le armi addosso, passavo al posto di blocco in bicicletta mi mettevo la gonna stretta e fingevo di abbassarmela, loro, fessacchiotti, fischiavano e io passavo.
In montagna mi è capitato di uccidere. La donna è sempre donna. Ma nel momento del pericolo anche la donna accetta le regole della guerra. Non è facile. Nata ed educata per dare la vita, in guerra la vita la togli. È importante capire che non siamo diventate combattenti per spirito d'avventura. Ci furono torture orrende. Nella mia formazione avevo una ragazza, Francesca, che era incinta, ma era lo stesso cosi magra che scappò dalla prigione passando tra le sbarre della finestrina del bagno. Per raggiungerci camminò scalza nella neve per dieci chilometri. Quando il bambino nacque lo allattò solo da un seno perché il capezzolo dell' altro le era stato strappato a morsi da un fascista. ...
Era un mondo maschilista. Soltanto tra i partigiani la donna aveva diritti, era un compagno di lotta. La Resistenza ci ha fatto capire che nella società potevamo occupare un posto diverso. I diritti paritari garantiti dalla Costituzione non sono stati un regalo, ma una conquista e un riconoscimento per ciò che le donne hanno fatto nella guerra di Liberazione. Difendere la Costituzione significa difendere la possibilità di garantire un futuro di libertà e democrazia ai figli delle donne.
In montagna si dormiva insieme, per terra, nei boschi, uomini e donne, ma se uno mancava di rispetto veniva punito. L'amore non contava niente. L'importante per noi era aiutare. Io ero anche fidanzata, lo lasciai quando mi disse che fare la partigiana mi avrebbe reso indegna di crescere i suoi figli. Non mi sono più sposata, anche se in montagna, avevo trovato un ragazzo ... lui si, lo avrei sposato se non me lo avessero ucciso, aveva una mentalità aperta, ma uomini così non ne ho più trovati. Si chiamava Trolli Giambattista, nome di battaglia «Fifa», anche se era coraggiosissimo. È morto nella battaglia di Monte Caio nel 1944, a ventitre anni. L'ho saputo solo sei mesi dopo, quando a primavera la neve si sciolse e il corpo fu ritrovato. È sepolto al cimitero di San Bartolomeo. Gli porto ancora i fiori ... Dev'essere stato importante per me, se mentre ne scrivo me lo rivedo davanti agli occhi. L'unico nostro bacio è stato d'addio.
Bibliografia:
Stefano Faure, Andrea Liparoto, Giacomo Papi - Io sono l'ultimo. Lettere di partigiani italiani - Einaudi 2012
La stampa delle formazioni partigiane
Impugnare la penna quando si impugna lo sten, parlare un linguaggio fatto di parole quando il nemico di dentro e di fuori non sembra intendere che il rude linguaggio delle bocche da fuoco, potrà apparire a qualcuno un ritrarsi dall’azione, dalla lotta, mentre è tempo di azione e di combattimento. Teniamo a fare sapere a tutti che noi non interrompiamo l'esecuzione dei nostri compiti di guerra; rubiamo tempo al riposo per rivolgersi a questo compito di immensa importanza (da La nostra stampa, «Il Partigiano, Volontario della libertà». Organo della III Divisione garibaldina Cichero, a. I, n. 1, 1° agosto 1944).
Il giornale partigiano nasce nelle formazioni durante la lotta. La redazione, l’apparato tecnico, la diffusione, la sua stessa esistenza sono legati alle vicende della lotta di liberazione, e ne sono a loro volta condizionati. Così i giornali hanno un’esistenza precaria, una periodicità irregolare. «Esce quando e come può», è il sottotitolo di uno dei più diffusi periodici partigiani, «Il Ribelle».
Le condizioni variano di situazione in situazione: non tutti i gruppi partigiani ebbero infatti giornali, e non sempre i giornali furono espressione di un particolare partito. Anche se la situazione dei giornali di formazione legati ai partiti appare più definita ed organicamente strutturata.
Spesso questi fogli avevano una limitatissima tiratura, poche centinaia di copie, a volte poche decine, erano dattiloscritti, manoscritti, ciclostilati e, in casi sporadici, stampati. La loro diffusione era limitata alla zona controllata dalla formazione, ma costituiva un’indispensabile organo di collegamento con le popolazioni locali.
Ma i giornali di formazione rappresentano soprattutto un materiale indispensabile per ricostruire la vita delle bande, il loro variare nel tempo, la loro maturazione o evoluzione politica, le motivazioni morali della lotta partigiana e i modelli culturali di riferimento.
Questi fogli costituirono inoltre lo strumento fondamentale di comunicazione.
All’origine della vasta produzione giornalistica è ravvisabile, certamente, un «bisogno di raccontare», di rendere testimonianza di un’esperienza singolare, aspra e pericolosa.
Il bisogno di raccontare, che è proprio di tutta l'esperienza politica e culturale della generazione uscita dal fascismo e dalla guerra, che trova echi nella memorialistica contemporanea di guerra e concentrazionaria o nei racconti del dopoguerra - si pensi a Fenoglio o a Calvino - ma che nasce, a livello di esperienza collettiva, nella stampa partigiana.
La stampa partigiana si struttura come riproduzione scritta del racconto orale.
Era insomma « una voce che proveniva anche dal basso, dunque, data la mescolanza degli strati sociali nei gruppi partigiani, da attori e testimoni dei fatti, non una voce dall'alto come solo si verificava nei fogli di guerra dell'esercito regolare.
Questa produzione costituisce un solido rapporto fra il partigianato e il retroterra sociale e locale: attua una saldatura fra le motivazioni politiche che hanno determinato l’organizzazione delle bande, e i problemi della popolazione in guerra.
Più difficile è ricostruire un itinerario politico o un programma di rinnovamento sociale negli altri giornali di formazione. Di solito alle origini della scelta resistenziale, almeno nel primo periodo, non c'è una precisa ideologia politica, ma un impulso morale: il desiderio di ritrovare la propria dignità e di cacciare i traditori fascisti o nazisti.
Emerge fortissima l’esigenza di creare una società più giusta, un mondo nuovo.
Si afferma una sentita esigenza di rinnovamento: dalle sofferenze della guerra, dalle lotte e dalle distruzioni deve nascere un mondo nuovo, che abbia come protagonista l’uomo e che sia espressione e sintesi delle libertà civili. La Resistenza deve essere il momento iniziale di questo rinnovamento.
I fogli d’ispirazione azionista
Quest’ansia giacobina di rinnovamento viene colta ed espressa soprattutto in alcuni fogli di formazione, specie nei casi in cui più capillare e profonda è l’opera di educazione e la personalità del commissario politico. È il caso dei giornali di ispirazione azionista del Cuneese, organizzati e diretti da Livio Bianco, ma anche di altre testate coordinate dal PdA in Piemonte. Tra queste pubblicazioni, la stampa delle brigate Giustizia e Libertà è forse la più rappresentativa sia per numero, la continuità e la diffusione, sia per il tono generale e l’alta professionalità dei redattori.
Superato il duro inverno 1943-44, con il miglioramento dell'organizzazione politica e militare, il direttivo militare delle brigate GL iniziò a pubblicare l’organo ufficiale delle formazioni «Il Partigiano alpino». Stampato nel Canavese dal febbraio 1944, in due sole pagine, il giornale raggiunse una tiratura di 20.000 copie, diffuse in tutta la regione; dall'agosto ebbe un'importante edizione lombarda, che raggiunse le 10.000 copie e fu diffusa anche nell'Emilia e nel Veneto. Organo destinato precipuamente a militari, il foglio ufficiale delle GL non si limita alle informazioni militari e alle illustrazioni dei problemi strategici, ma propone anche questioni di politica interna, dai problemi istituzionali alla ricostruzione.
Dall'estate del 1944 furono pubblicati nel Cuneese «Giustizia e Libertà», «Quelli della montagna», «La Grana», il giornale umoristico. «Cacasenno» e «Naja repubblichina», un giornale destinato alle formazioni della Rsi. Con il crescere e il successivo organizzarsi di nuove formazioni, anche le testate si moltiplicarono in una vasta serie di pubblicazioni diffuse dalle Langhe al capoluogo piemontese. Specialmente nel bel giornale della I Divisione GL, «Quelli della montagna», si coglie il legame profondo fra il partigiano e la sua terra, che è proprio di tutta la migliore produzione partigiana.
Il «Pioniere»
Un caso altrettanto singolare è quello del «Pioniere», un altro giornale di formazione pubblicato a Torre Pellice, centro di una popolazione valligiana profondamente antifascista, ad opera di un piccolo gruppo di redattori guidati da Roberto e Gustavo Malan. Il giornale, ciclostilato nei primi mesi, poi stampato, uscì settimanalmente, con una tiratura che salì dalle 800 copie iniziali fino alle 15.000 stampate nel periodo precedente la liberazione, diffuse anche a Torino e nell’Astigiano. Colpisce negli articoli di fondo del «Pioniere» la profonda e sentita esigenza di un rinnovamento che parta dal basso.
«Il Ribelle»
Carattere assolutamente originale e a se stante rispetto a tutti gli altri organi di formazione, assume il periodico «Il Ribelle», organo delle Fiamme Verdi bresciane. Pur essendo il giornale di una formazione autonoma operante nelle valli lombarde, «Il Ribelle», che porta la falsa indicazione di Brescia, ma viene scritto e stampato nel Milanese è il portavoce di un gruppo di cattolici , laici ed ecclesiastici, non legati alla Democrazia Cristiana, e si mostra aperto ai contributi anche di militanti di altri partiti.
Alle origini del «Ribelle» è il ciclostilato «Brescia libera» pubblicato, dall'ottobre 1943, dallo stesso gruppo di cattolici impegnati in organizzazioni sociali, come le Acli, e di cui facevano parte don Giuseppe Tedeschi, Laura Bianchini, Claudio Sartori, Vittorio E. Alfieri, e soprattutto Teresio Olivelli. Lo stesso Teresio Olivelli, assistente alla cattedra di diritto amministrativo e rettore del collegio Ghislieri di Pavia, fu l'animatore del gruppo. L'intensa spiritualità, l'ansia di ricreare un mondo e una società "più civile e umana, conforme al Vangelo, costituiscono la piattaforma ideale del gruppo.
Da parte sua, Olivelli aveva già elaborato fin dal 1943, uno Schema di discussione sui princìpi informatori di un nuovo ordine·sociale, in cui tutta la grande tradizione del riformismo cattolico lombardo sembra confluire in un'analisi della società e della guerra. Un tema che viene ripreso nell'editoriale del secondo numero - l'unico articolo che poté pubblicare prima dell'arresto e della deportazione a Flossemburg, dove morì - e che espone la filosofia del giornale e della sua redazione:
A questa nuova città aneliamo con tutte le forze; più libera, più giusta, più solidale, più «cristiana». Per essa lottiamo, lottiamo. giorno per giorno, perché sappiamo che la libertà non può essere elargita dagli altri. Non vi sono «liberatori». Solo uomini che si liberano. Lottiamo per una più vasta e fraterna solidarietà degli spiriti, e del lavoro, nei popoli e fra i popoli; anche quando le scadenze paiono lontane e i meno tenaci si afflosciano: a denti stretti anche se il successo immediato non conforta il teatro degli uomini, perché siano consapevoli che la vitalità d'Italia risiede nella nostra costanza, nella nostra volontà di risurrezione, di combattimento; nel nostro amore.
Giornale più di dibattito ideologico che di informazione militare, «Il Ribelle» seppe tuttavia rispondere anche a esigenze di più vasta divulgazione, pubblicando i documenti delle Fiamme Verdi, un ampio notiziario sulle deportazioni e una varia rassegna della stampa. Costituì comunque in campo cattolico l’esempio più significativo di un programma non integralista, laico e aperto ad ampie riforme statali e sociali.
La stampa delle formazioni garibaldine
Ancora più complesso il panorama della stampa delle formazioni garibaldine, che rappresenta il gruppo più ampio e numerose di testate (secondo un calcolo di Laura Conti, i giornali delle brigate Garibaldi furono un centinaio rispetto ai 16 di Giustizia e Libertà e ai 12 delle brigate autonome). E tuttavia, questi periodici sono facilmente riconducibili a una tematica unitaria, a un modulo comune, per il rapporto più costante con la direzione centrale e per una maggiore circolazione della stampa di partito. In realtà, anche la stampa garibaldina è opera, almeno nella sua parte più direttamente politica e formativa dei commissari politici, molto più presenti e attivi che nelle altre formazioni, e dei comandanti di divisione.
La stampa garibaldina pubblica quindi, accanto all’organo ufficiale «Il Combattente» nelle sue varie edizioni regionali, una vasta serie di ·testate locali particolarmente numerose nelle vallate alpine del Piemonte o nei territori dove vengono costituite le cosiddette «zone libere». L’organizzazione propagandistica prepara anche una nutrita serie di giornali murali, opuscoli, volantini e, in alcuni casi, di trasmissioni radiofoniche.
Si tratta di una capillare organizzazione del consenso che, mentre accetta la linea politica elaborata dal partito, la interpreta poi individualmente e nelle varie situazioni locali, e secondo le personali capacità dei redattori. Assistiamo così a una riduzione nel locale, o meglio nella concretezza della realtà locale, delle grandi scelte istituzionali o politiche.
Così, se esaminiamo un campione, di necessità limitato, di alcuni di questi giornali, vediamo come, pur in presenza di minore originalità e ricchezza di proposte di trasformazione rispetto ad altri giornali, si realizzi invece in essi una traduzione a livello di massa di concetti e direttive politiche, nel quadro di una determinata situazione militare. Così «Il Partigiano Volontario della libertà» - Organo di una divisione garibaldina che operava nell'entroterra ligure - e pubblicato dal 10 agosto 1944 sotto la direzione del comunista Giovanni Serbandini (Bini), realizza, pur con mezzi molto limitati e primitivi, un difficile rapporto fra la stampa di base, con le sue reminiscenze scolastiche (le vignette, i bozzetti), e le indicazioni di politica generale di mobilitazione e d'informazione locale.
In alcuni giornali del Biellese, come «La Baita» diretta da Francesco Moranino (Gemisto), che raggiunge una tiratura di 4.000 copie a stampa, si ha una più critica valutazione politica e una proposta di modelli di «democrazia progressiva» più aperti alle istanze di rinnovamento. Questo giornale ha la collaborazione anche dei civili ed è particolarmente attento ai problemi sociali.
Sempre in Piemonte, nella contigua Valsesia, esce «La Stella alpina», foglio delle brigate comandate da Cino Moscatelli che continuerà a uscire come settimanale anche durante l'immediato dopoguerra. Quindicinale a stampa di grande formato, quasi sempre di quattro pagine, ben curato e strutturato con grande professionalità, il giornale ha tutte le caratteristiche di una moderna testata locale. In prima pagina le direttive militari, gli articoli d'informazione politica, spesso derivati dagli organi ufficiali di partito, e un'ampia informazione sulla guerra, articolata in varie rubriche («Brigata di eroi», «Corrispondenza garibaldina», «Bollettini di guerra»).
Uno sforzo di convogliare le esigenze politiche e operative in un programma di educazione politica di base, si può cogliere in tutta la produzione garibaldina: da quella ricchissima delle zone emiliano-romagnole e marchigiane, in cui predominano gli appelli alla popolazione delle campagne per il sostegno alla lotta partigiana e quindi i problemi della terra, a quelli rivolti più direttamente alle gente cittadina e alla classe operaia.
Bibliografia
Giovanni De Luna, Nanda Torcellan, Paolo Murialdi – La stampa italiana dalla Resistenza agli anni sessanta – Editori Laterza 1980
mostra-8-settembre-2012
Caduti-lissonesi-lager.pdf
Caduti-lissonesi-fucilati.pdf
pieghevole-mostra-Resistenza-Brianza-2012-pag-4.pdf
pieghevole-mostra-Resistenza-Brianza-2012-pag-3.pdf
pieghevole-mostra-Resistenza-Brianza-2012-pag-2.pdf
pieghevole-mostra-Resistenza-Brianza-2012-pag-1.pdf
locandina-mostra-Resistenza-in-Brianza.pdf
Due incredibili e tragiche storie di deportazione in Germania
Luigi Montrasio e Angelo Mattavelli furono arrestati nel corso delle retate pianificate in reazione allo sciopero del marzo 1944 e deportati a Mauthausen come oppositori politici.
Luigi Montrasio
Nato il 23 marzo 1909 a Monza. Residente in via Marco d’Agrate 21 dove viveva con la moglie Adele Moltrasio, il figlio di sette anni e la figlia di cinque. Luigi Montrasio, trentacinquenne, lavorava come falegname modellista alla Caproni Areonautica. Venne arrestato per sbaglio il 12 marzo 1944: le guardie cercavano un omonimo che abitava solo a cento metri di distanza e lavorava alla Breda. Il figlio ricorda con sicurezza alcuni aspetti del momento dell’arresto: «Mio padre era appena tornato dal lavoro, era sera inoltrata, intorno alle nove perché si recava al lavoro a Milano in bicicletta. Arrivarono alla porta, lo ricordo bene, quattro militi fascisti guidati e comandati da un tedesco delle SS molto giovane ma anche molto duro. Avevano le generalità dell’altro Montrasio dove era evidente la diversa paternità. Mio papà protestò con forza evidenziando che lui era figlio di Gerardo, non di quell’altro nome. Alla SS non importava nulla, un Luigi Montrasio doveva prendere e un Luigi Montrasio doveva venire con lui. Mi aggrappai piangendo alle gambe di mio padre quasi immobilizzandolo; il rappresentante della razza eletta tedesca mi diede un sonoro calcio nel sedere e dovetti nascondermi sotto il tavolo, avevo solo sette anni».
Giunto a Mauthausen gli fu attribuita la matricola 59001. Fu dislocato a Gusen, in particolare venne assegnato a Gusen II, aperto solo il 9 marzo 1944 per provvedere con i suoi prigionieri allo scavo, in località St. Georgen, di uno dei più grandi sistemi sotterranei progettati dai nazisti per impiantarvi macchinari industriali per la produzione bellica, il B8-Bergkristall-Esche 2 (*), che entrò in produzione alla fine del 1944. I prigionieri giornalmente arrivavano stipati sui treni merci e spinti a calci e con ogni genere di vessazioni nei cantieri. Le condizioni di lavoro erano terribili, tanto che Gusen II fu chiamato “l’inferno degli inferni”. La sopravvivenza media era di quattro mesi. Anche Luigi Montrasio, infatti, morì molto presto, il 19 maggio 1944; era arrivato a Mauthausen il 20 marzo: erano trascorsi solo due mesi dal suo arrivo.
La storia di Angelo Mattavelli
Nato il 17 gennaio 1925 a Sulbiate dov’era residente in via Orientale 14. Nell’estate del 1943 era stato chiamato alle armi per l’arruolamento in Marina, ma il decorso degli avvenimenti, sfociato con l’armistizio, ne bloccò la partenza. Cercò immediatamente lavoro e lo trovò qualche mese dopo alla Breda di Sesto San Giovanni come apprendista aggiustatore alla Sezione I. Il 12 marzo 1944 fu il suo primo giorno di lavoro. Solo tre giorni dopo, mentre usciva dalla fabbrica, incappò in un rastrellamento nel quale, a caso, i nazifascisti fermavano gli operai che si accingevano a tornare a casa. Angelo Mattavelli venne arrestato per partecipazione ad uno sciopero che si era svolto la settimana prima. Il suo è un incredibile e drammatico episodio di una persona arrestata malgrado non avesse partecipato allo sciopero per il semplice fatto che non era presente perché non ancora assunta.
Il giovane partì per il Reich su carri bestiame. La matricola di Mauthausen fu 61690: il 7 maggio fu spostato nell’orribile bolgia di Gusen II (*). Ammalatosi presto, venne ricoverato il 10 agosto nel revier di Gusen II, l’infermeria del lager; ne uscì l’8 settembre per essere rinviato a lavorare nelle gallerie dove si producevano gli aviogetti della Luftwaffe. Spremuto delle sue energie, com’era programmato dalle SS in questi campi di sterminio, Angelo Mattavelli fu rimandato a Mauthausen per essere internato nella baracca ospedale. La sua resistenza fu vinta il 21 aprile 1945, quando ridotto a una larva umana, fu mandato a morire nelle camere a gas. Aveva solo vent’anni.
(*) Gusen II “inferno degli inferni” e il B8-Bergkristall-Esche 2
Quando i bombardamenti strategici degli Alleati iniziarono a colpire i centri della Germania, i tedeschi decisero, per garantire la produzione industriale degli armamenti, di realizzare grandi fabbriche sotterranee.
Il KZ Gusen II venne fondato ufficialmente il 9 marzo 1944 per utilizzare i prigionieri come manodopera per la costruzione della BERGKRISTALL-ESCHE B8, due impianti sotterranei in Austria, nei pressi di St. Georgen / Gusen.
I prigionieri erano alloggiati in 19 baracche nelle vicinanze del KZ di Gusen I e venivano trasportati con una speciale linea ferroviaria al cantiere St. Georgen all’inizio di ogni turno di lavoro.
Nell’impianto dove lavoravano circa 16.000 prigionieri venivano assemblati gli aerei a reazione Messerschmitt Me 262.
Con una superficie di 50.000 m2, una galleria lunga 10 Km, è stato uno dei più grandi e moderni impianti industriali tedeschi sotterranei. Venne costruito in 13 mesi dai prigionieri del campo di concentramento di Gusen II all'interno del complesso di Mauthausen-Gusen.
Gusen, soprannominato “l’inferno degli inferni” a causa della sua elevata mortalità (fino al 98%), è diventato uno dei più orribili lager nazisti della storia europea. Il periodo medio di sopravvivenza era di 4 mesi. Generalmente chi sopravviveva finiva nel Sanitaetslager del vicino campo di concentramento di Mauthausen, dove la maggior parte moriva oppure veniva inviato al castello di Hartheim, distante una quarantina di chilometri, terribile luogo di esperimenti nazisti su cavie umane.
Tratto dal libro di Pietro Arienti “Dalla Brianza ai lager del III Reich” - Edizioni Bellavite - Missaglia - 2012
Santina Pezzotta, un’adolescente brianzola nei lager nazisti
«Spesso mi sembrava che fosse un terribile sogno, e che svegliandomi sarebbe svanito. A quella realtà ci si rifiutava con tutti se stessi. Confrontavo la vita trascorsa in libertà, pur modesta, con quella del lager e mi pareva impossibile che si potessero costringere degli esseri umani a condurre una simile vita d’inferno, se poi si poteva chiamare vita. Fino a quando avrei resistito? Saremmo morti tutti, e nessuno avrebbe mai saputo in quale modo demente ci avevano fatto morire ... E chi orchestrava tutto erano quegli esseri umani che portavano scritto sulla fibbia del cinturone: “Dio è con noi”». Antonio Scollo, partigiano diciassettenne deportato, minorenne come Santina Pezzotta.
La storia di Santina Pezzotta è tratta dal libro di Pietro Arienti “Dalla Brianza ai lager del III Reich”.
Santina Pezzotta era nata il 17 gennaio 1928 a Brugherio. Residente al quartiere San Fruttuoso di Monza, era operaia specializzata alla Magneti Marelli, stabilimento “N” di Crescenzago. Apparteneva ad una famiglia decisamente antifascista: il padre Serafino che aveva già subito il confino in Francia ed un arresto in Italia, a Sesto San Giovanni, per propaganda politica, fece parte della Resistenza monzese insieme alla figlia Elisa, attiva nella diffusione di stampa clandestina e nel supporto alle famiglie di partigiani arrestati.
Santina nel 1944 aveva dunque solo sedici anni e non si interessava di politica, come testimonia la sorella Elisa. Il 16 marzo si trovava a Bergamo per un compito di lavoro affidatogli dal padre e si trovò coinvolta in un rastrellamento fascista, teso probabilmente a procurare manodopera da inviare in Germania. ... Un’adolescente arrestata completamente priva di ogni colpa, ed esente da qualsiasi capo di accusa immaginabile, avviata nei più orribili campi di sterminio predisposti dai nazisti ...
Il padre si Santina andò ad urlare ai Militi della Legione Muti in mano ai quali vide il registro degli arresti con il nome della figlia che intanto era in carcere a Bergamo.
Le proteste non servirono a niente e la famiglia non ebbe più nessuna notizia della ragazza per un anno e mezzo, cioè fino al suo rientro in Italia.
Santina fu deportata a Theresienstadt, nome tedesco di Terezin, nei pressi di Praga, che era stata utilizzata come ghetto per gli ebrei cechi prima del loro invio ad Auschwitz. Vi giunse il 27 maggio 1944.
Elisa Pezzotta racconta che, terminata la guerra, avvicinava ogni mezzo che rimpatriava deportati per chiedere informazioni della sorella. Finalmente una sera, era il 30 aprile 1945, ebbero delle notizie favorevoli che alimentavano la speranza: dopo pochi giorni, infatti, Santina tornò.
Le privazioni di ogni genere che aveva subito la rendevano irriconoscibile, “di una magrezza spettrale e con cicatrici in tutto il corpo”.
San Fruttuoso fece una grande, meritata festa all’adolescente che il fascismo si onora di aver sottoposto senza motivo alle più atroci brutalità dei lager del Reich.
Campo di concentramento di Fossoli, 12 luglio 1944 (seconda parte)
Le SS hanno vagamente tentato di mantenere il più assoluto segreto sul massacro dei nostri compagni. Nella stessa giornata del 12 si è avuta nel campo la certezza dell'eccidio e si sono diffusi i primi particolari. Per esempio, la sera del giorno 11, dopo la ritirata, quando ormai tutti gli altri internati erano rientrati nelle loro rispettive baracche, le SS sono entrate nella 21 A dov'erano raccolti i nostri settanta compagni e hanno operato una minuziosa perquisizione sulle loro persone e nei loro bagagli. Un altro particolare: a notte avanzata, sono ritornati gli ebrei che eran partiti in mattinata per scavare una grande fossa. Ma le SS non si sono fidate di avere ingiunto minacciosamente il più rigoroso silenzio, e li hanno fatti dormire in una baracca fuori del recinto del campo in modo da rendere praticamente impossibile ogni tentativo di comunicazione per avvertire in tempo coloro ch'eran destinati al massacro.
La mattina del 12, al momento di effettuare la partenza a scaglioni, mancava uno dei settanta, precisamente Teresio Olivelli. Ma non c'era tempo da perdere per ricercarlo. I condannati - possiamo ormai chiamarli così - vennero inquadrati e condotti nella sede del «Comando», donde furono prelevati a piccoli gruppi, evidentemente allo scopo di poter reprimere con maggior sicurezza eventuali moti di rivolta lungo il tragitto. Questa precauzione però si rilevò ben tosto insufficiente. Infatti, durante il trasporto del primo o del secondo gruppo, non posso precisare, ci deve essere stato un tentativo di ribellione e lo si argomentò dal fatto che SS di scorta tornarono quasi tutte con delle visibili medicazioni: bende e cerotti parlavano un linguaggio molto significativo. Fra le SS, c'era uno che portava addirittura un braccio a tracolla. Deve essere stata una colluttazione paurosamente impari e disperata, che però i tedeschi, passati i primi momenti di sorpresa, non dovettero faticare molto a risolvere in loro favore, dato l'abbondante equipaggiamento di armi di cui disponevano e il numero rilevante della scorta. Qualcuno, non saprei con quale attendibilità, fa il nome di due o tre compagni i quali, durante il «corpo a corpo» con le SS, avrebbero trovato la possibilità di buttarsi dal camion in corsa e di mettersi in salvo.
Non fu soltanto l'improvvisa apparizione delle bende e dei cerotti, a farei intuire il tentativo di rivolta; ma anche un altro particolare sintomatico, che non sfuggì agli occhi di alcuni compagni, i quali, la mattina del 12, stavano a spiare dall'interno del campo ciò che avveniva al di là del recinto: nelle spedizioni successive, le SS ammanettarono scrupolosamente gli internati, prima di farli salire sull'automezzo che li doveva trasportare.
Un altro dettaglio, che finì col documentare la soppressione dei nostri compagni, fu costituito dai bagagli. Erano tutti ammucchiati in una stanza del comando. I nostri compagni, dunque, erano partiti senza bagagli ... e per il viaggio cui erano destinati non ce n'era bisogno ...
La sera, sul tardi, tornarono gli ebrei che erano rimasti fuori del campo, ancora un'altra giornata, per ricoprire la fossa, dopo l'eccidio. Gli ordini di mantenere il silenzio su quello che erano stati costretti a fare e su ciò che avevano visto, dovevano essere stati così minacciosi, che non fu possibile cavar loro di bocca nessuna notizia concreta. Furono accostati, però, separatamente e fatti cadere in contraddizione. Alcuni riferirono che erano stati a sgombrare macerie, altri che s'era trattato della riparazione di un tronco di ferrovia, altri che avevano demolito baraccamenti semidistrutti dal fuoco.
Le contraddizioni rivelavano chiaramente che il segreto da tenere celato era molto grave. Pare, infine, che uno della squadra, pressato dalle domande di un'amico, a un certo punto abbia fatto con la mano un gesto inequivocabile per significare: - tutti finiti!
Altre notizie più precise cominciarono già a trapelare per mezzo della viva voce di qualche milite italiano che, nella torretta di guardia, solo, si sentiva particolarmente oppresso dall'orrendo segreto.
Campo di concentramento di Fossoli, 12 luglio1944 (terza parte)
La notte, ci siamo buttati sul pagliericcio con la tremenda certezza che non avremmo veduto più i nostri compagni e le diverse voci, le atroci indicazioni che avevamo potuto raccogliere, ci risuonavano ancora nelle orecchie e ci martellavano cuore e cervello, tenacemente, esasperanti.
All'alba, li hanno ammazzati ... Al Poligono di Carpi ... li hanno buttati nella fossa scavata dagli ebrei ... li hanno spogliati degli oggetti personali che potevano facilitare l'identificazione ... poi li hanno coperti con uno spesso strato di calce perché si decompongano più celermente ... e hanno fatto gettare sementi sulla terra che ha ricoperto la fossa. Pare che siano accorsi dei preti (o il Vescovo), che abbiano chiesto almeno di poter benedire i morti ... sono stati brutalmente respinti, ammoniti di badare ai fatti loro ... perché da quelle parti non c'era nulla che li potesse riguardare ... e siccome non se ne andavano, hanno puntato le armi.
Assassini! ... Assassini!»
I nomi dei 67 martiri trucidati nel Poligono di tiro di Cibeno, frazione a circa 3 km a nord di Carpi, del 12 luglio 1944:
Andrea Achille, Vincenzo Alagna, Enrico Arosio, Emilio Baletti, Bruno Balzarini, Giovanni Barbera, Vincenzo Bellino, Edo Bertaccini, Giovanni Bertoni, Primo Biagini, Carlo Bianchi, Marcello Bona, Ferdinando Brenna, Luigi Alberto Broglio, Francesco Caglio, Emanuele Carioni, Davide Carlini, Brenno Cavallari, Ernesto Celada, Lino Ciceri, Alfonso Marco Cocquio, Antonio Colombo, Bruno Colombo, Roberto Culin, Manfredo Dal Pozzo, Ettore Dall’Asta, Carlo De Grandi, Armando Di Pietro, Enzo Dolla, Luigi Ferrighi, Luigi Frigerio, Alberto Antonio Fugazza, Antonio Gambacorti Passerini, Walter Ghelfi, Emanuele Giovanelli, Davide Guarenti, Antonio Ingeme, Sas Jerzj Kulczycki, Felice Lacerra, Pietro Lari, Michele Levrino, Bruno Liberti, Luigi Luraghi, Renato Mancini, Antonio Manzi, Gino Marini, Nilo Marsilio, Arturo Martinelli, Armando Mazzoli, Ernesto Messa, Franco Minonzio, Rino Molari, Gino Montini, Pietro Mormino, Giuseppe Palmero, Ubaldo Panceri, Arturo Pasut, Cesare Pompilio, Mario Pozzoli, Carlo Prina, Ettore Renacci, Giuseppe Robolotti, Corrado Tassinati, Napoleone Tirale, Milan Trebsé, Galileo Vercesi e Luigi Vercesi.
Erano uomini con le esperienze più varie, di tutte le professioni, di tutte le regioni, dai 16 ai 64 anni.
La stampa dell’Italia liberata diede grande rilievo all’esumazione delle vittime e alle esequie solenni il 24 maggio 1945 nel Duomo di Milano: fu forse il primo momento pubblico in cui popolazione e personalità politiche e militari si fusero unanimi nel compianto e nella condanna.
manifesto che annuncia i solenni funerali dei partigiani monzesi fucilati a Fossoli
dedicata a tutti i partigiani torturati
Torture
Nulla è cambiato.
Il corpo prova dolore,
deve mangiare e respirare e dormire,
ha la pelle sottile, e subito sotto - sangue,
ha una buona scorta di denti e di unghie,
le ossa fragili le giunture stirabili.
Nelle torture di tutto ciò si tiene conto.
Nulla è cambiato.
Il corpo trema, come tremava
prima e dopo la fondazione di Roma,
nel ventesimo secolo prima e dopo Cristo,
le torture c’erano, e ci sono, solo la terra è più piccola
e qualunque cosa accada, è come dietro la porta.
Nulla è cambiato.
C'è soltanto più gente,
alle vecchie colpe se ne sono aggiunte di nuove,
reali, insinuate, temporanee e inesistenti,
ma il grido con cui il corpo ne risponde
era, è e sarà un grido di innocenza,
secondo un registro e una scala eterni.
Nulla è cambiato.
Se non forse i modi, le cerimonie, le danze.
Il gesto delle mani che proteggono il capo
è rimasto però lo stesso.
Il corpo si torce, dimena e svincola,
fiaccato cade, raggomitola le ginocchia,
illividisce, si gonfia, sbava e sanguina.
Nulla è cambiato.
Tranne il corso dei fiumi,
la linea dei boschi, del litorale, di deserti e ghiacciai.
Tra questi paesaggi l'animula vaga,
sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana,
a se stessa estranea, inafferrabile,
ora certa, ora incerta della propria esistenza,
mentre il corpo c'è, e c'è, e c'è
e non trova riparo.
Wislawa Szymborska