Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

A proposito di scuola …

17 Octobre 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #avvenimenti recenti

Pubblichiamo il discorso, pronunciato da Piero Calamandrei a Roma l’11 febbraio 1950, al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale (Adsn), perché ci sembra ancora di attualità.

 

«Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci).

Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. ...

 

E c’è un altro pericolo: di lasciarsi vincere dallo scoramento. Ma non bisogna lasciarsi vincere dallo scoramento. Vedete, fu detto giustamente che chi vinse la guerra del 1918 fu la scuola media italiana, perché quei ragazzi, di cui le salme sono ancora sul Carso, uscivano dalle nostre scuole e dai nostri licei e dalle nostre università. Però guardate anche durante la Liberazione e la Resistenza che cosa è accaduto. È accaduto lo stesso. Ci sono stati professori e maestri che hanno dato esempi mirabili, dal carcere al martirio. Una maestra che per lunghi anni affrontò serenamente la galera fascista è qui tra noi. E tutti noi, vecchi insegnanti abbiamo nel cuore qualche nome di nostri studenti che hanno saputo resistere alle torture, che hanno dato il sangue per la libertà d’Italia. Pensiamo a questi ragazzi nostri che uscirono dalle nostre scuole e pensando a loro, non disperiamo dell’avvenire. Siamo fedeli alla Resistenza. Bisogna, amici, continuare a difendere nelle scuole la Resistenza e la continuità della coscienza morale».

 


 

frontespizio pagella anno 1940                                                      dal sillabario anno 1930

 




  

 

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In memoria di Gianfranco De Capitani da Vimercate

3 Octobre 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #storie di lissonesi



A Lissone, dal 12 ottobre 2008,  c'è ancora un luogo dedicato ad un giovane concittadino morto in un lager nazista: i giardini, tra Palazzo Terragni ed il vecchio municipio, hanno assunto la denominazione “Largo Gianfranco De Capitani da Vimercate”.
Accolta dalla Giunta Comunale una proposta della Sezione lissonese dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia.

Questi i fatti:
l’11 giugno 1963 l’Amministrazione comunale di Lissone decise, con delibera del Consiglio Comunale n°43, di intitolare alcune vie della città a lissonesi protagonisti della Resistenza e della guerra di Liberazione. Vennero così dedicate alcune vie della città ad antifascisti lissonesi fucilati dai nazifascisti o morti nei campi di concentramento nazisti tra cui Gianfranco De Capitani da Vimercate, morto nel lager di Ebensee.

Il 12 aprile 1999, con delibera di Giunta n°152, la denominazione della Via Gianfranco De Capitani da Vimercate fu sostituita con una nuova, con la seguente motivazione: ”L’esistenza di due vie aventi denominazione simile e particolarmente lunga (via Carlo De Capitani da Vimercate e Gianfranco De Capitani da Vimercate) causa gravi disagi che penalizzano ingiustamente le persone e le famiglie residenti … per il ripetersi di malintesi ed errori”. “Si preferisce sostituire la sola denominazione Gianfranco De Capitani da Vimercate in considerazione del fatto che l’insediamento abitativo ivi presente di recente realizzazione interessa una quindicina di famiglie”.
Nel gennaio 2007, in occasione del “Giorno della Memoria”, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia di Lissone, a nome anche dei parenti, chiese all’Amministrazione comunale di trovare una soluzione per ricordare Gianfranco De Capitani da Vimercate.
Il 12 marzo 2008 la proposta è stata accolta: la Giunta comunale, con delibera n°85, ha stabilito di intitolare i giardini adiacenti Palazzo Terragni “Largo Gianfranco De Capitani da Vimercate”.
Domenica 12 ottobre 2008 alle ore 11 è stato inaugurato il Largo a lui dedicato.




Lissone, 12 ottobre 2008

Intervento del presidente dell’ANPI di Lissone, Renato Pellizzoni, durante la cerimonia di inaugurazione del Largo dedicato a Gianfranco De Capitani da Vimercate, caduto per la Libertà
Lissone 4 febbraio 1925  -  Ebensee 5 dicembre 1944

 

 

Con l’inaugurazione di oggi avremo ancora un luogo di Lissone dedicato a Gianfranco De Capitani da Vimercate. Era un desiderio dei suoi parenti, in particolare di suo fratello Mario e delle nipoti, Carlotta e Giovanna, di un suo amico e coetaneo, Santino Lissoni, ma anche della nostra associazione, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia di Lissone.

Chi era Gianfranco De Capitani da Vimercate? Era un giovane diciannovenne lissonese che il 5 dicembre 1944, dopo nove mesi di prigionia e di lavoro coatto in condizioni disumane, moriva nel lager nazista di Ebensee, per non essersi presentato alla chiamata della Repubblica Sociale di Mussolini, per continuare una guerra ormai persa al fianco degli occupanti nazisti.

Ripercorriamo alcuni momenti della sua breve esistenza.

Gianfranco De Capitani da Vimercate nacque il 4 febbraio 1925 a Lissone in Via Umberto I (l’attuale Via Giuliani); era figlio di Giuseppe e di Carlotta Arosio. La sua era una famiglia numerosa. Gianfranco crebbe, infatti, in compagnia di altri cinque fratelli e quattro sorelle.

I De Capitani da Vimercate, di antiche origini nobiliari, appartenevano ad una borghesia illuminata: erano proprietari di un’industria del legno e avevano creato l’industria del compensato. Nel 1920, infatti, a Lissone era nata la più grande fabbrica italiana di tranciati e compensati, l’Industria Nazionale Compensati ed Affini (INCISA).

Lo zio di Gianfranco, commendatore Carlo De Capitani da Vimercate, dal 15 settembre 1924 era Commissario prefettizio di Lissone, insediatosi in attesa della nomina del podestà.

Dall’ottobre 1922  al governo dell’Italia c’era Benito Mussolini, a cui il re Vittorio Emanuele III aveva affidato l’incarico dopo la marcia su Roma.

Nel mese di novembre del 1922 si era costituita a Lissone la sezione locale del Fascio nazionale di combattimento. Nelle elezioni politiche dell’aprile 1924, il Listone di Mussolini, che su scala nazionale aveva avuto una media del 60% dei votanti, scesa al 18,7 % in Brianza, a Lissone aveva ottenuto il peggiore dei risultati elettorali d’Italia con 307 voti (pari al 13,2 %). Allora la furia di Mussolini si era abbattuta sulla Brianza.

Una raffica di violenze colpì le istituzioni cattoliche e quelle socialiste. Con l'aiuto di squadre fasciste giunte dalla Bassa milanese e da Milano furono distrutti circoli cattolici e socialisti; a Monza furono devastate le sedi de «Il Cittadino» e della Camera del Lavoro.

A Lissone la vendetta fascista si scatenò sull’Osteria della Passeggiata, con danni materiali e percosse ai presenti, e sul circolo della gioventù cattolica San Filippo Neri.

Il paese contava quasi 13.000 abitanti.

Alle scuole elementari la maggior parte dei ragazzi andava in classe con gli zoccoli.

Un alunno di allora mi ha raccontato di ricordarsi ancora di quel disordinato “totoc” degli zoccoli che battevano l’uno contro l’altro sul pavimento di legno quando, al mattino, tutti gli scolari si mettevano sull’attenti e facevano il saluto romano alla maestra che entrava in classe.

Essendo la scuola elementare di Via Aliprandi ormai insufficiente a far fronte alle esigenze della popolazione scolastica, erano iniziati i lavori di costruzione della nuova scuola elementare (sarà poi dedicata a Vittorio Veneto e le singole aule assumeranno i nomi delle principali località della guerra, conclusasi da soli sei anni).

Uno dei problemi che affliggevano il paese era la carenza degli alloggi per effetto del costante sviluppo demografico, dovuto all’ immigrazione e all’alto tasso di natalità.

Il commissario prefettizio Carlo de Capitani da Vimercate, per cercare di risolvere in parte questa crisi, assunse impegni a livello personale e affidò ad un ingegnere di Monza l’incarico di progettare case per operai ed impiegati.

Il 17 ottobre 1924 era stata inaugurata la nuova chiesa (l’attuale prepositurale SS Pietro e Paolo) anche se non era ancora stata finita. Il suo altare maggiore era stato donato da Carlo De Capitani da Vimercate.

La Pro Lissone era in piena attività. Lissone, infatti, era dotata di un centro sportivo in perfetta linea con i principi fascisti del culto del corpo e dell'esercizio fisico.

La Società sportiva lissonese, alla vigilia del conflitto del 1915-18, aveva contribuito alla formazione della Croce Verde e Di Carlo De Capitani da Vimercate era stata anche l’idea di costituire il corpo dei pompieri.

Gianfranco frequentò la scuola elementare Vittorio Veneto di Lissone.

La scuola elementare aveva due sezioni distinte, maschile e femminile, con ingressi separati.

L’adolescenza di Gianfranco trascorse in modo spensierato; studio, giochi, vacanze. Era il beniamino della famiglia: era bello, studioso, affabile.

Gianfranco ha dieci anni quando, nel 1935 arriva a Lissone Starace (sarà la più alta carica del regime a giungere in città durante tutto il ventennio).

Alcuni antifascisti lissonesi, schedati, che più volte avevano subito pestaggi dai fascisti locali, vengono fermati e trattenuti: qualcun altro si rifugia in Francia per una settimana.

Gianfranco inizia a frequentare la palestra: il “salone” di Via Dante è un punto di riferimento per i giovani lissonesi.

Terminate le scuole elementari prosegue gli studi alle scuole medie e superiori (istituto commerciale) presso il Ballerini di Seregno.

Ha quindici anni quando il 10 giugno 1940 Mussolini trascinò l’Italia nella seconda guerra mondiale, alleandosi con la Germania nazista. Non poteva finire che così. Il regime che fin dalla scuola primaria tentava di inculcare nei ragazzi ideali bellicosi (credere, obbedire e combattere o libro e moschetto, fascista perfetto e altri slogan) manda in guerra tanti giovani e meno giovani che vengono richiamati alle armi.

Gli amici di Gianfranco, con i quali frequentava la Pro Lissone, lo chiamavano Gianni. Era robusto, si dedicava oltre alla corsa campestre alla pesistica. Gli piaceva stare in compagnia: era un buongustaio; l’appetito non gli mancava mai.

Novembre 1942: l'inverno si preannuncia rigido. Già a fine novembre cade la prima neve. Per difendersi dal gelo, un grave problema si presenta a diverse famiglie lissonesi: trovare del carbone per scaldare le case. E per accendere la stufa si utilizzano trucioli e carta straccia raccolta durante tutto l'anno, prima macerata nei mastelli, poi fatta a palle e infine lasciata seccare al sole.

Gianfranco sta per terminare gli studi nel marzo 1943 quando arrivano cattive notizie per molte famiglie lissonesi: sono oltre 60 i militari lissonesi del corpo di spedizione italiano in Russia che non ritornano a Lissone. Oltre 100.000 gli italiani che sono caduti sul fronte russo.

Nello stesso mese di marzo del 1943, 1200 dipendenti dell'Incisa e i 500 dipendenti dell'Alecta di Lissone partecipano agli scioperi delle industrie dell'Italia settentrionale: gli operai chiedono “pane e pace” Gli scioperi contribuiscono attivamente alla crisi delle istituzioni che doveva portare alla caduta del fascismo il 25 luglio.

25 luglio 1943 - Destituito di Mussolini dopo la seduta del Gran Consiglio del fascismo, il Re Vittorio Emanuele III lo fa arrestare e nomina a Capo del Governo il maresciallo Badoglio .

Manifestazioni di tripudio in tutte le città d’Italia. Molti pensano che crollato Mussolini finirà anche la guerra.

A Lissone, all’indomani, mentre i lissonesi Francesco Mazzilli, Attilio Gattoni e Carlo Arosio, arrestati verso la fine giugno 1943 ed incarcerati a S. Vittore vengono liberati, un nostro concittadino, Attilio Mazzi sfila per le vie di Lissone, innalzando un cartello con l’immagine di Badoglio, mettendosi a capo di un breve corteo che manifesta apertamente a favore del nuovo governo.

Attilio Mazzi, per il suo dichiarato antifascismo, verrà arrestato: passerà poi nel campo di concentramento di Fossoli per finire i suoi giorni nel lager di Mauthausen-Gusen.

8 settembre 1943- Annuncio dell'armistizio con gli Alleati. I nazisti disarmano le truppe italiane. 700.000 italiani finiscono prigionieri nei lager tedeschi.

10 settembre 1943 - I tedeschi occupano Roma dopo brevi scontri con le truppe italiane. Re Vittorio Emanuele III con la famiglia e il seguito fugge a Brindisi.

Mussolini, prigioniero sul Gran Sasso, viene liberato da un Commando tedesco e raggiunge Monaco.

Ridotto a un fantoccio nelle mani di Hitler, Mussolini proclama la “Repubblica Sociale Italiana” formando un nuovo governo fascista la cui autorità si estende sul territorio della penisola occupato dai tedeschi.

Dopo l’8 settembre 1943 si formano i primi nuclei di partigiani.

A Lissone alcuni antifascisti si ritrovano settimanalmente presso il bar della stazione, il cui gestore era un oppositore del regime.

Tra loro anche Giuseppe De Capitani da Vimercate, il padre di Gianfranco. Il capo di questo gruppo di antifascisti è Davide Guarenti, monzese, vigile urbano nella nostra città (sarà fucilato nel campo di concentramento di Fossoli).

Altro punto di ritrovo degli antifascisti lissonesi è la Trattoria con alloggio Ronzoni (nella curt di Gergnit), dove spesso i fascisti locali arrivano a menar botte.

Gianfranco è chiamato alla visita militare. Era una tradizione che, non avendo i soldi per fare dei manifesti, i coscritti scrivessero sui muri del paese frasi inneggianti alla classe di appartenenza. I coscritti del ’25, nottetempo, scrivono con la calce sui muri di Lissone “W la classe della marmellata” (in periodo di razionamento dei generi alimentari, la marmellata era concessa solo ai minori di età inferiore ai 18 anni) e “W la mica fresca”.

La notizia in parte distorta arriva a Radio Londra, molto ascoltata, anche se il regime ne proibisce l’ascolto pena l’arresto e il sequestro dell’apparecchio radio.

Durante una delle famose trasmissioni rivolte all’Italia, viene trasmessa la notizia che a Lissone vi era stata una “protesta del pane”.

E’ anche vero che la fame era tanta soprattutto per dei giovani prestanti frequentatori della palestra della Pro Lissone.

Diversi coscritti sono convocati dal podestà Cagnola.

Dopo circa un mese arrivano a Lissone agenti del regime e si insediano nella Casa del fascio (l’attuale Palazzo Terragni): tra i convocati, Gianfranco e il padre Giuseppe.

All’interrogatorio di Gianfranco e del padre assiste anche un noto fascista locale. Giuseppe deve pagare una multa.

Giuseppe De Capitani da Vimercate era di idee socialiste. Per i fascisti Gianfranco è il figlio di un sovversivo.

Intanto continua l’avanzata delle truppe alleate nel sud dell’Italia.

A Lissone aumenta il numero degli sfollati.

Da quel momento la guerra entrò direttamente nelle case dei lissonesi, attraverso gli avvisi alla popolazione controfirmati dall'ing. Aldo Varenna che dall'undici agosto del 1943 aveva sostituito il podestà Angelo Cagnola, dimissionario per «diplomatici» motivi di salute.

Questa piazza che si chiamava piazza Vittorio Emanuele III, dal 3 marzo 1944 viene intitolata ad Ettore Muti (gerarca fascista ucciso; porterà il suo nome, durante i 600 giorni di Salò, una delle più famigerate squadre della Repubblica di Salò).

Presso il palazzo Mussi si installa un comando antiaereo tedesco che, con i militi della GNR alloggiati nei locali di palazzo Magatti in via Garibaldi, garantiva un controllo capillare del paese e serviva a contrastare la Resistenza partigiana.

Il 18 febbraio 1944 il governo di Salò emanava il bando di chiamata alle armi delle classi 1923,1924,1925 con scadenza il 7 marzo 1944 minacciando la pena di morte per i renitenti alla leva.

Domenica 27 febbraio 1944 Gianfranco con altri giovani della Pro Lissone si ritrovano in stazione. Salgono sul treno per Como dove parteciperanno ad una corsa campestre.

E’ una bella giornata di sole, anche se il paesaggio è imbiancato per la recente nevicata. Sarà questa l’ultima domenica di libertà per Gianfranco.

I nazisti per far funzionare la loro industria bellica carente di manodopera, fanno ricercare dalla milizia repubblichina i renitenti alla leva; li catturano e li spediscono di forza a lavorare nelle fabbriche del Reich.

La situazione si fa critica per Gianfranco. Mamma Carlotta vorrebbe che il figlio rispondesse alla chiamata alle armi. Il fratello Mario pensa che Gianfranco stia per organizzare una festa per salutare gli amici. La situazione si fa rischiosa

Gianfranco De Capitani ha da poco compiuto i 19 anni. Sabato 4 marzo 1944, Gianfranco, fermato ad un posto di blocco tra Monza e Lissone, mentre era sul tram, è tratto in arresto (probabilmente su indicazione di un fascista locale, fondatore del Fascio lissonese). I familiari, non vedendolo rincasare, si preoccupano per la sua assenza. Dopo alcune ricerche vengono a sapere che il giovane Gianfranco è stato portato in Villa Reale, a Monza: la Villa reale di Monza era diventata tristemente famosa perché luogo di tortura di antifascisti e partigiani caduti nelle mani dei repubblichini o dei nazisti. Il fratello Mario si precipita alla Villa Reale: gli viene confermata la presenza di Gianfranco ma gli impediscono di vederlo. Anche il padre Giuseppe inutilmente chiede di vedere il figlio. Poi si perdono le tracce di Gianfranco.  (I parenti verranno poi a sapere, tramite il console di Danimarca in Milano, che Gianfranco si trova a Mauthausen; la triste fama di quel lager lascia poche speranze di un suo ritorno).

Forse, se fosse stato ancora in vita lo zio Carlo, , avrebbe potuto fare qualcosa per il nipote, invece era già morto mentre si trovava in Ungheria per motivi di lavoro.

De Capitani Gianfranco, nato a Lissone il 24/02/1924, professione impiegato, matricola 57014, convoglio numero 32, deportato a Mauthausen. Trasferito poi a Ebensee sottocampo di Mauthausen.

Il campo di concentramento di Ebensee si trovava in un’area molto boscosa in grado da permettere il camuffamento delle gallerie in costruzione ed anche del Lager. Era un campo di lavoro. I prigionieri venivano affittati dalle SS alle ditte incaricate dei lavori di costruzione.

I prigionieri avviati al lavoro schiavo venivano scelti in genere tra coloro che avevano una giovane età ed erano in buono stato fisico. Ma le loro condizioni peggioravano rapidamente a causa delle pessime condizioni di vita e per il lavoro estremamente duro. Non meno di undici ore ininterrotte di lavori pesanti, spesso senza appropriati attrezzi, senza alcuna misura di sicurezza.

Scarsamente alimentati, venivano puniti violentemente per la più piccola interruzione dai kapos e dalle SS, che obbligavano al lavoro anche malati e debilitati. Più volte al giorno i prigionieri dovevano riunirsi per l’appello. Il lavoro alla “cava” era particolarmente massacrante e pericoloso. La violenza e il terrore, oltre ad essere un mezzo per spingere al massimo le prestazioni di lavoro, erano anche funzionali alla distruzione fisica e psichica dei prigionieri, fiaccandone anche ogni tentativo di solidarietà o di reazione.

Nella primavera del 1944, di fronte alla mortalità crescente, le SS attivarono la costruzione di un crematorio, nonostante si trattasse di un campo «di lavoro»..

Nelle squadre di lavoro particolarmente grave era la condizione degli Italiani, per la maggior parte deportati per motivi politici (indossavano una casacca a strisce bianco e blu con un triangoli rosso). La situazione generale del lager andò sempre più degradando. Le baracche non offrivano una benché minima protezione contro intemperie, freddo e pioggia; l’alimentazione sempre più insufficiente, l’abbigliamento inadeguato e la mancanza di igiene erano causa di diffuse malattie, spesso mortali.

Costretti a svolgere nelle gallerie un lavoro estenuante, con un clima gelido e un’alimentazione miserabile, i deportati sopravvivevano in media qualche mese.

Il 5 dicembre 1944, dopo nove mesi di prigionia e di lavoro coatto in condizioni disumane, anche il fisico robusto di un giovane diciannovenne come Gianfranco De Capitani da Vimercate venne stroncato.

C’era la neve a dicembre ad Ebensee quando Gianfranco é andato “nel vento passando per il camino”.

C’era la neve come in quella sua ultima domenica di libertà quando correva nella corsa campestre:

quando passerò in questi giardini a lui dedicati mi sembrerà di vederlo correre, lanciato verso il traguardo.

Ad Ebensee c'era la neve / il fumo saliva lento / nei campi c’erano tante persone / che ora sono nel vento /

lo mi chiedo come può l'uomo / uccidere un suo fratello / eppure sono a milioni / in polvere nel vento (da "AUSCHWITZ" di Francesco Guccini)  

meditiamo che questo è stato ...

Anche a  Gianfranco De Capitani da Vimercate abbiamo dedicato una pagina del nostro sito.

 

Un particolare ringraziamento va a Mario De Capitani da Vimercate, fratello di Gianfranco, e a Santino Lissoni, amico e coetaneo di Gianfranco, per le loro testimonianze. (Renato Pellizzoni, presidente dell’A.N.P.I. di Lissone)

 

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La Resistenza non ha colore

2 Octobre 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Ufficiale medico sudafricano? Partigiano «negro-americano»? Yankee di origine africana? Tutti indizi veri, ma imprecisi: non era facile decifrare l’enigma del cadavere di un civile dalla pelle scura rinvenuto tra le vittime della strage nazista in Val di Fiemme, avvenuta a ostilità concluse il 2 maggio 1945. Chi era quel giovane «mulatto» sul cui corpo esanime vennero rinvenute le insegne dei prigionieri del campo di concentramento di Bolzano, come attestò Giuseppe Morandini, inviato sul luogo del massacro dal Comitato di Liberazione Nazionale?

Merita più di un racconto la vicenda di Giorgio Marincola, partigiano di colore della Resistenza: ne dà conto la densa biografia Razza partigiana (Iacobelli, pp. 174, euro 14,90), volume in cui due giovani storici – Carlo Costa e Lorenzo Teodonio – ricostruiscono tramite documenti d’archivio, riferimenti storiografici e testimonianze dirette la parabola di vita dell’unico partigiano «nero» d’Italia. Figlio di un italiano residente in Somalia, maresciallo di fanteria di stanza a Mahaddei Uen, 50 chilometri a nord di Mogadiscio, Giorgio nasce nel 1923 e ben presto dice addio all’Africa: a differenza di tanti altri commilitoni, infatti, il padre Giuseppe riconosce il pargolo avuto da una donna locale e porta con sé Giorgio e la sorella Isabella in patria nel 1926. Qui l’uomo si sposa con una sarda e i Marincola si stabiliscono a Roma, ma il piccolo Giorgio va dai nonni paterni a Pizzo Calabro dove riceve il soprannome di «Yo-yo». Rientrato a Roma per gli studi, frequenta il liceo Umberto I: qui subisce l’influsso di Pilo Albertelli, docente di filosofia, antifascista, che indirizza il giovane italo-somalo sulla via del dissenso al regime. Valore quanto mai sentito dal mulatto Marincola: le leggi razziali del 1938 impedivano i rapporti tra italiani e «sudditi dell’Africa orientale italiana», ovvero i somali, mentre una nuova norma del 1940 impediva il riconoscimento dei meticci da parte del genitore italiano, sbarrando la strada per l’ottenimento della cittadinanza italiana. Albertelli, membro del Partito d’Azione, ispirò Marincola con abbondanti dosi di antifascismo liberale: leggeva Benedetto Croce, il giovane mulatto, e appuntava stringenti riflessioni sulla libertà politica: «La concezione liberale presuppone dei valori morali a base delle libertà politiche da essa richieste, quali la libertà di pensiero e di stampa, di discussione e di associazione. E quali valori morali che possano veramente far sviluppare e rendere degna della loro funzione le libertà sopracitate, noi crediamo essenziali l’onestà, la lealtà, il rispetto verso le istituzioni e le leggi dello Stato e verso il prossimo».

Proprio dall’educazione ricevuta sui banchi Marincola decise di entrare nelle file della Resistenza dopo l’ 8 settembre: si arruolò in una squadra di «Giustizia e Libertà» e partì per il Viterbese nel febbraio 1944 coi libri di medicina sottomano perché nel frattempo si era iscritto alla facoltà di Medicina: «Voleva ritornare in Somalia e lo studio gli serviva per apportare aiuto alle popolazioni di laggiù» , ricorda un compagno. Dopo la partecipazione all’azione partigiana nelle campagne laziali, Marincola venne ingaggiato dagli inglesi: con il nome di battaglia di Mercurio fu assoldato per la missione Bamon e paracadutato nelle campagne di Biella quale agente di collegamento con le truppe anglo-americane dirette a Nord. Il suo impegno fu così convincente che il capitano di Sua Maestà Jim Bell lo lodò così: «Era l’unico della Bamon che desiderava realmente fare qualcosa e non sprecare il suo tempo e denaro a divertirsi». Ferito in un assalto ad un reparto nazista, Marincola viene arrestato nel gennaio 1945 con il nome di Renato Mariano, quindi picchiato dai fascisti perché inneggiò alla Resistenza anche da prigioniero, durante una trasmissione di propaganda fascista cui fu costretto. Mandato a Torino e quindi a Bolzano, venne rinchiuso nel locale campo di concentramento che fungeva da smistamento verso la Germania. Il 30 aprile 1945 viene liberato ma si dirige verso la Val di Fiemme dove, arruolandosi ancora tra i partigiani, incappa nella furia nazista di Stramentizzo: il 4 maggio 1945 Giorgio il mulatto cade colpito alle spalle dai tedeschi in ritirata.

di Lorenzo Fazzini da Avvenire

 

 

nella foto Marincola (a destra) con un compagno d’armi

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