Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

1943-1945: l’organizzazione per la raccolta e il trattamento dei fuggiaschi in territorio svizzero

29 Octobre 2014 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Dal libro “Oltre la rete” di Antonio Bolzani:

 

«Dopo la seconda metà del settembre 1943 l'afflusso dei fuggiaschi ai nostri confini è andato via via scemando e normalizzandosi

La fiumana divenne un rigagnolo e cambiò composizione: trenta, quaranta entrate al giorno: un terzo militari e due terzi borghesi.

Al confine fu stabilita da parte nostra una severa e fitta sorveglianza a mezzo delle truppe di frontiera aggregate alle guardie di dogana e dalla parte opposta si videro comparire soldati della difesa confinaria (Grenzschutz) militi anziani delle truppe tedesche, severi e intransigenti.

Giungere al confine e passare sul nostro territorio fu certamente più difficile, ma non impossibile, specialmente per coloro che avevano l'accortezza di farsi accompagnare dai cosiddetti «passatori» e il denaro per pagare le loro astronomiche tariffe.

La nostra organizzazione per la raccolta e il trattamento dei fuggiaschi andò man mano perfezionandosi.

Tutti, civili e militari, una volta ammessi in via provvisoria dagli organi della dogana, venivano accompagnati al lazzaretto di Chiasso o a Lugano o a Locarno e di là, per ferrovia e in vetture speciali, a Bellinzona dove, nella Casa d'Italia, fu stabilita la Centrale di raccolta, con uffici per la visita medica, gli interrogatori di polizia, la compilazione dei complessi e molteplici formulari biografici, la presa delle impronte digitali e della fotografia, il deposito dei valori. Da questa centrale, tutti passavano allo stabilimento per le docce e la disinfezione personale e del bagaglio. Quindi i rifugiati venivano trasferiti nei campi di quarantena e gli internati militari trasportati oltre Gottardo, dopo una sosta di tre o quattro giorni nelle baracche rizzate nel cortile dell'Istituto Soave.

Furono aperti campi di quarantena, per gli uomini, a Bellinzona, nell'oratorio di S. Biagio, nelle scuole di Ravecchia e di Pedemonte e nel castello d'Unterwalden; a Lugano, nella Casa d'Italia: per le donne e i bambini, nell'asilo di Bellinzona, nello stabilimento balneare di Agnuzzo e nella nuova casa di vacanze dell' Ala materna, a Rovio.

Dopo la quarantena (della durata di tre settimane) le famiglie venivano riunite nei campi dell'albergo Majestic a Lugano e della villa vescovile di Balerna.

Intanto il Dipartimento federale di polizia decideva, per i civili, in via definitiva, l'ammissione o meno delle domande per l'internamento e le richieste di messa in libertà, che venivano di regola accettate se il postulante offriva sufficienti garanzie per il proprio sostentamento e, eventualmente, per quello dei familiari.

Gli altri rifugiati che non avevano chiesto di essere liberati, passavano dai campi di quarantena ai campi di soggiorno, rispettivamente ai campi di lavoro, dove potevano godere di una certa libertà e guadagnare qualche franco.

In altri campi o ricoveri venivano raggruppati gli inabili al lavoro; in altri, ancora, i giovani studenti, come fu il caso del liceo di Trevano.

L'organizzazione e la condotta dei campi di soggiorno, di lavoro di cura .e di studi, non dipendeva più dal Comando territoriale, ma dalla Centrale dei campi di lavoro con sede a Zurigo, organismo apposito creato dal Dipartimento federale di polizia.

A tutta questa rete di campi bisogna aggiungere i ricoveri, come il «Solarium » di Gordola e l'«Immacolata» di Roveredo (Grigioni) nonchè gli ospedali di tutto il Cantone; che accolsero. complessivamente oltre duecento rifugiati vecchi o bisognosi di cure già fin dai primi giorni dell’afflusso del settembre 1943 e mantennero questa media fino all'aprile del 1945.

Il rigagnolo continuò a scorrere per tutto l'inverno 1943-1944 e fu alimentato specialmente dagli ebrei e dai fuggiaschi per ragioni politiche. I militari italiani dell'esercito smobilitato andarono via via diminuendo fino a scomparire.

Costante fu, invece, il·giornaliero arrivo di prigionieri inglesi, jugoslavi, greci, sudafricani evasi dai campi di concentramento, cui si aggiungevano, di quando in quando gruppetti di russi, polacchi e francesi che trasportati in Italia dalla Germania e addetti all'organizzazione Todt, riuscivano a tagliare la corda.

Dopo l'inverno 1943-1944 il rigagnolo cambiò ancora composizione, almeno rispetto ai militari, e si alimentò di soldati della repubblica neofascista, che si squagliavano come la neve al sol d'aprile, i quali, a loro volta, dopo la caduta del Governo della Val d'Ossola, cedettero il posto ai partigiani,.

E a tutto questo costante movimento in entrata venne ad aggiungersi, già a cominciare dal mese di dicembre 1943, un movimento di uscita, alimentato esclusivamente dai militari italiani della fiumana del settembre che, dopo qualche mese di campo, punti dalla nostalgia o d'altro, chiedevano di ritornare al loro paese.

Passavano da Bellinzona, e si avviavano verso la Casa d'Italia divenuta per antonomasia la casa della benedizione, della salvezza per avere il viatico del ritorno nella patria tormentata».

 

Bibliografia:

Antonio Bolzani, “Oltre la rete”, Società Editrice Nazionale, Milano 1946

 

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12 settembre 1943: il «Savoia Cavalleria» ripara in Svizzera

22 Octobre 2014 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Il Reggimento «Savoia Cavalleria» entrò in formazione chiusa la sera del 12 settembre 1943, alle ore 19.30, dal varco della Cantinetta sopra Ligornetto e fu ammesso per decisione del Consiglio federale.

Questo Reggimento, che portava un nome glorioso nella storia dell'Esercito italiano, non era, di fatto, che un Corpo di truppa di nuova formazione, destinato a sostituire il «Savoia cavalleria » che nell'agosto 1942 combattè con distinzione e cattiva fortuna a Stalingrado e fu, nel successivo inverno, completamente disperso e distrutto in terra russa.

Il Reggimento proveniva da Somma Lombardo, suo centro di istruzione, e faceva ottima impressione per disciplina e portamento. La truppa fu disarmata e poi incamminata, in colonna di marcia, su Rancate-Riva S. Vitale--Capolago-Melano, dove giunse alle ore 0030 del 13 settembre 1943. Con sé aveva 8 autocarri, fucili, mitragliatrici, munizioni, materiali vari, viveri e scorte.

Effettivi: 15 ufficiali, 642 sottufficiali e soldati, 316 cavalli, 9 muli.

Il Comandante era il ten. col. Piscicelli Pietro, classe 1897. Il Reggimento provvide alla sussistenza, con cucina e viveri propri, fino alla partenza da Melano.

Già il 13 settembre 1943 trecento uomini furono trasferiti al campo di Roveredo-Grigioni. poi al di là dal Gottardo. Il resto degli uomini e i cavalli partirono il giorno 16 settembre 1943 per Ins (Anet).

Bibliografia:

Antonio Bolzani, “Oltre la rete”, Società Editrice Nazionale, Milano 1946

 

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1943-1945: rifugiati e internati in Svizzera

20 Octobre 2014 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Dall'inizio alla fine della guerra hanno chiesto ospitalità alla Svizzera e sono stati accolti nel suo territorio 293.773 rifugiati e internati provenienti da tutti i punti cardinali.

Nella regione meridionale è stato l'episodio dei fuoriusciti italiani, ebrei e politici, braccati dalla sbrirraglia nazifascista e dei fuggiaschi militari italiani e alleati; i primi,. renitenti alle leve della repubblica di Mussolini o alla deportazione; i secondi, in cerca di scampo dopo l'evasione dai campi di concentramento.

Di questo speciale episodio Antonio Bolzani, ha dovuto occuparsi per la carica militare (colonnello) che ricopriva nell’Esercito. Scrive nella prefazione del suo libro “Oltre la rete”, pubblicato subito dopo la fine della guerra, nel 1946: «Sono state così numerose e interessanti le cose viste e vissute che mi è nata l'idea di comporre un libro di memorie e di darlo alla stampa».

Dal libro sono tratte le informazioni che sono di seguito riportate.

 

La fiumana (settembre 1943)

Il 9 settembre 1943, in seguito all'armistizio fra l'Italia: e gli Alleati, vi fu, nel Ticino, una mobilitazione parziale di truppe per guarnire la frontiera meridionale.

Si temevano dei contraccolpi come conseguenza del disarmo dell'esercito italiano da parte della Wehrmacht, dell'occupazione tedesca di tutte le città e i punti strategici importanti nell'Italia settentrionale, delle lotte fra fascisti e antifascisti, della caccia agli ebrei, che non era mai stata accanita anche dopo la legge razziale del 1938, ma che stava per diventare feroce sotto la pressione dei germanici e, infine, a cagione della scarsità dei viveri e delle riserve, specialmente nei centri popolosi, scarsità che si sarebbe senza dubbio accentuata per effetto delle prevedibili requisizioni da parte dell'esercito occupante.

I primi fuggiaschi apparvero l'11 settembre 1943: venti prigionieri inglesi evasi dai campi di concentramento, che erano stati aperti dagli stessi italiani alla proclamazione dell'armistizio. Il giorno dopo furono novanta senegalesi.

Il Comando territoriale fino alla mobilitazione del 9 settembre 1943 non aveva preso che ristrette misure per l'internamento, limitandosi a preparare un campo unico a Roveredo (Mesolcina).

Ma i fuggiaschi accettati dagli organi di sicurezza disseminati lungo il confine divennero di giorno in giorno più numerosi, fino a formare una vera fiumana che si sovrappose a qualsiasi controllo ordinato e straripò sul territorio svizzero, da ogni dove. Già il 14 settembre se ne contavano più di mille.

 

Nel frattempo, il Comando territoriale aveva aperto in tutta fretta e arredato sommariamente dei campi di raccolta:

-         a Melano, per le regioni del mendrisiotto, del Generoso e della Valle d'Intelvi;

-         a Lamone, per il luganese, la Val Colla, la Tresa, il Malcantone,

-         a Quartino, per il Monte Tamaro e il Gambarogno;

-         a Cugnasco, per il locarnese, la Valle Maggia, le Centovalli,

-         a Roveredo, per la Mesolcina.

Ma ben. presto anche questi campi improvvisati diventarono insufficienti e si dovette aprirne altri a Gudo, a Bellinzona, a Bodio, che a loro volta furono subito riempiti e allora venne presa la decisione di far sostare i fuggiaschi in campi di masse presso la truppa di frontiera e di organizzare dei trasporti ferroviari per l'interno della Svizzera.

Il sabato 18 settembre si contavano nei diversi campi di masse non meno di 14.000 fuggiaschi, quasi tutti italiani, la più gran parte militari.

Erano presenti circa:

-         3.000 uomini a Chiasso, accampati un po’ dappertutto: nei depositi della stazione, al campo di foot-ball, nel nuovo cinematografo, in un treno preparato per la partenza dieci ore in anticipo;

-         3.000 uomini a Mendrisio, intorno alla chiesetta del manicomio cantonale;

-         800 uomini a Stabio, nella camiceria Realini;

-         700 a Riva S. Vitale, la maggior parte nell'antico, collegio Baragiola (Istituto Canisio);

-         700 a Melano, nella ex filanda;

-         800 a Lamone, nell'asilo e nella riseria;

-         1.200 a Gudo, nella grande casa colonica dello Stato che, dopo alcune sommarie trasformazioni, aveva già ospitato nei primi anni della guerra gli internati polacchi e francesi;

-         400 a Bellinzona, nell'Istituto Soave;

-         600 a Roveredo, nel collegio S. Anna.

Benché i più si dichiarassero militari, solamente dei piccoli gruppi portavano l'uniforme. Tutti gli altri erano in abito borghese e, malgrado la buona stagione, parecchi erano muniti di soprabiti, di maglie di lana e di grosse valige, ben conoscendo i rigori dell’inverno svizzero. Fra i militari in uniforme si contavano in gran numero le guardie di finanza e i carabinieri. Le guardie di finanza di Porlezza e di Porto Ceresio si erano consegnate agli organi di frontiera con i loro motoscafi.

Una buona percentuale dei fuggitivi era composta di militari in congedo abitanti nelle città e nei borghi situati in vicinanza della frontiera, che volevano sottrarsi al reclutamento da parte dei neofascisti o all'invio in Germania per il servizio del lavoro.

 

Ospitalità da parte svizzera per tutta questa gente? Diritto di asilo?

Scrive il Bolzani:

«Per i militari il presupposto per essere accettati come internati era di avere combattuto nelle vicinanze del confine e di essere stati sospinti dalle vicende della battaglia in territorio svizzero, in cerca di scampo.

Per i civili e anche per i prigionieri evasi, entra in linea di conto il diritto d'asilo, che consiste nel diritto di uno Stato di garantire, entro i suoi confini, protezione e rifugio alle persone perseguitate per motivi politici o religiosi da parte delle autorità del loro paese.

Ogni Stato indipendente è libero di accettare o di respingere i fuggiaschi e il diritto di asilo è l'espressione di questa libertà.

Esso costituisce pertanto un diritto di fronte agli altri Stati, non rappresenta un obbligo nè di fronte a uno Stato nè di fronte ai fuggiaschi in cerca di asilo.

Si deve quindi ritenere che non esiste un diritto all'asilo e che lo Stato al quale il fuggiasco fa ricorso, è libero concedere o di rifiutare l'asilo, secondo il proprio giusto criterio.

È libero cioè, in quanto Stato sovrano, di poter dire: questi entrano e sono meritevoli di protezione e questi altri non entrano perché non corrono pericoli o sono nocivi. In conclusione, se i nostri organi di vigilanza alla frontiera (nei primi venti giorni del settembre 1943 assai deboli di numero) non fossero stati travolti dalla improvvisa fiumana e non fosse mancata la possibilità di vagliare caso per caso, almeno i nove decimi dei fuggiaschi si sarebbero dovuti respingere.

 

Formavano i nove decimi tutti i militari del disciolto esercito italiano, si trovassero in servizio o fossero in congedo, e costituivano il decimo rimanente (non più di 2000) i prigionieri evasi e i fuggiaschi civili, perseguitati politici o razziali.

Ma una volta la fiumana straripata sul nostro territorio, come fare un esame a posteriori dei fuorusciti e decidere la sorte di ognuno? La decisione spettava al Consiglio federale per i militari, e per i civili alle guardie federali di confine, rispettivamente al Comando territoriale, per delegazione del Dipartimento federale di Giustizia e Polizia. Si poteva certo pensare di respingerli in massa, senza appello; ma prevalsero, come sempre. le ragioni di umanità e fu decisa l'accettazione, nella speranza che fosse questione di poche settimane. Invece l'internamento durò quasi due anni e fu sotto ogni aspetto assai gravoso. L'accettazione, considerata al lume d'oggi, ha indubbiamente valso a salvare centinaia centinaia di giovani dalla morte e dagli orrori dei campi concentramento germanici.

Decisa l'accettazione fu necessario provvedere immediatamente alle operazioni di controllo, alle visite sanitarie e al vettovagliamento.

I Comandi di truppa si incaricarono, ognuno, delle proprie centurie di fuorusciti e il Comando territoriale, d'intesa colla direzione del II Circondario delle ferrovie federali, provvide al loro trasporto oltre Gottardo, dove furono presi in consegna dal Commissariato per l'internamento, organismo militare appositamente creato dalla Confederazione per la custodia e la reggenza di tutti gli internati.

Dal 14 al 30 settembre, i trasporti notturni con treni interessarono 19.055 persone».

Nel rapporto sugli avvenimenti della seconda quindicina di settembre ha scritto le seguenti considerazioni:

«Sono per lo più uomini validi, assai dotati intellettualmente e fisicamente, ma moralmente dei naufraghi ... Solo una piccola minoranza non mi è parsa compresa della situazione angosciosa e deprimente nella quale si trovava e ha rivelato la superficialità dell'educazione ricevuta durante i venti anni di regime fascista».

 

Bibliografia:

Antonio Bolzani, “Oltre la rete”, Società Editrice Nazionale, Milano 1946

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Alla guida del CLNAI. Memorie per i figli

15 Octobre 2014 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Alla guida del CLNAI. Memorie per i figli libro PizzoniAlfredo Pizzoni è nato a Cremona il 20 gennaio 1894 da Paolo, ufficiale di Artiglieria, ed Emma Fanelli. Compiuto il liceo, studia a Oxford e a Londra e si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza di Pavia. Partecipa alla Grande Guerra come ufficiale dei Bersaglieri, meritando una medaglia d'argento; dopo un periodo di prigionia in Austria viene rimpatriato ed è aggregato come ufficiale di collegamento al Corpo di spedizione internazionale in Palestina. Al termine della guerra prende parte per breve tempo all'impresa di Fiume. Nel 1920 si laurea ed entra al Credito Italiano dove inizia una brillante carriera. Nel 1922 si sposa con Barbara Longa, dalla quale avrà cinque figli. Durante il fascismo Pizzoni, che è avverso al regime, frequenta gruppi antifascisti avvicinandosi in particolare a «Giustizia e Libertà». All'entrata in guerra dell'Italia nel 1940 si fa richiamare alle armi come maggiore dei Bersaglieri. Il 23 gennaio 1942 la motonave «Victoria», diretta in Nordafrica, sulla quale è imbarcato come comandante del 36° battaglione Bersaglieri, viene affondata; per il suo comportamento in quell'occasione gli è attribuita una medaglia di bronzo. Smobilitato per ragioni di salute quello stesso anno, riprende il lavoro alla direzione centrale del Credito Italiano a Milano e torna a frequentare gli ambienti antifascisti. Dopo la caduta del fascismo e l'armistizio dell'8 settembre 1943 partecipa alla costituzione del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, di cui è sin dall'inizio nominato presidente. Ricoprirà questo ruolo per tutta la durata della lotta di Liberazione fino al 27 aprile 1945, allorché viene sostituito dal socialista Rodolfo Morandi. Nel dopoguerra Pizzoni è membro della Consulta nazionale, e presidente del Credito Italiano, carica che tiene fino alla morte, avvenuta il 3 gennaio 1958.

 

Scriveva Alfredo Pizzoni nel settembre 1946:

«Si pensi ora, quale forza morale avrebbe oggi e sempre l'Italia davanti al mondo intero, davanti a tutti i popoli, se allora (25 luglio 1943, n.d.r.) avesse saputo decisamente avviarsi sulla via della redenzione. I rischi non dovevano essere calcolati: certo gli Alleati, anche se impotenti e impreparati, e diffidenti, sarebbero almeno in un secondo tempo venuti ad aiutarci e sarebbero stati costretti a impiegare le truppe italiane, affiancandoci così effettivamente e in misura rilevante e sin dall'inizio, alla guerra di Liberazione del nostro territorio nazionale.

Invece la storia dei 45 giorni è tutta una pietosa storia, ed è all'origine di molti dei nostri attuali malanni. Sono intimamente persuaso che sarebbe bastato l'esempio dei capi, e il popolo e moltissimi soldati si sarebbero battuti eroicamente e il corso della storia nostra, presente e futura, avrebbe tutt'altro svolgimento.

 

A Milano, martedì 27 luglio si era riunito per la prima volta il Comitato antifascista; vi erano rappresentati tutti i cinque partiti antifascisti.

Roberto Veratti (avvocato, esponente socialista) venne a trovarmi al Credito Italiano e mi invitò a intervenire.

Ricordo che eravamo presenti: io per il Partito liberale, Malavasi per la Democrazia cristiana, Albasini Scrosati per il Partito d'Azione, Veratti per il Partito socialista, Basso e Molinari per il MUP e Roveda e Grilli per il Partito comunista.

La discussione si occupò delle prime necessarie misure e manifestazioni e della necessità di influire su Roma perché si venisse al più presto alla cessazione delle ostilità.

Una seconda riunione fu tenuta due giorni dopo in casa di Basso: c'era anche Gronchi per la Democrazia cristiana.

Il Comitato prese l'abitudine di riunirsi, nello studio Veratti, e io vi ero sempre ospite gradito, e interpellato specialmente ogni volta che un argomento militare affiorava. Fu così che un giorno, prima dei bombardamenti alleati di mezzo agosto, in un momento di discussione, vivace e disordinata, qualcuno disse: «È necessario che uno di noi assuma la presidenza e ottenga ordine nel parlare». Veratti intervenne: «Pizzoni assuma la presidenza». Tutti annuirono e così iniziai il mio lavoro di dirigenza e di coordinazione.

Di quel primo tempestoso periodo ricordo che il principale argomento era il far decidere Roma a concludere un armistizio con gli Alleati. Delegazioni vennero inviate, ordini del giorno spediti. Veratti andò a Roma. A poco a poco, avemmo la certezza che, se pur lentamente, Badoglio si muoveva. Ma tempo prezioso venne perduto».

 

I bombardamenti di Ferragosto a Milano

«Intanto, a Milano, si ebbero gli spaventosi e inutili bombardamenti intorno a Ferragosto; che angoscia in quei giorni!

La nostra bella città era fino allora, fortunosamente, rimasti quasi immune dai danni della guerra. Non vi era a Milano alcun obiettivo militare importante, non truppe tedesche inqua drate. Perché tanti enormi danni furono arrecati, perché si volle ferire, avvilire una popolazione che andava ritrovando lo spirito concorde ed eroico delle cinque giornate del 1848? È questa una domanda alla quale non trovo risposta, né presso gli Alleati, cautamente interrogati, ho potuto sapere e accettare nulla. Necessità militari, accennatemi, non ve ne erano. Grave errore politico? Ma quello fu un delitto, non un errore ...

La popolazione di Milano sotto i ripetuti, terribili colpi, si comportò in modo ammirevole. Intendo dire il popolo, il ceto medio, la povera gente, ché gli abbienti non c'erano, erano, salvo poche eccezioni, «filati», erano nelle loro ville della Brianza e del Varesotto, non comparvero mai, in quei giorni, in città; incominciarono timidamente, a cose finite, a bombardamenti cessati, a compiere fuggevoli gite in automobile per vedere se le loro case erano intatte o distrutte, e poi scomparvero per un pezzo ...

I poveri: si vedevano la mattina dopo i bombardamenti, seduti davanti alle loro case distrutte, inebetiti, stanchi, sporchi, laceri, commossi, intenti a radunare i resti delle loro povere cose. Non dicevano nulla, non chiedevano nulla, non imprecavano, non hanno mai imprecato, subivano con animo cristiano la maledizione per le malefatte di altri.

Ricordo una mattina che percorsi a piedi il tratto dalla stazione di porta Genova a piazza del Duomo: pareva di essere in un girone dell'Inferno dantesco. Non una casa era indenne; molte erano distrutte da bombe dirompenti, moltissime bruciavano e nessuno poteva intervenire; file interminabili di persone cariche di valige, di materassi, o che spingevano carretti colmi di vecchi arnesi e di mobilucci, si avviavano silenziose verso la periferia.

... E Milano bruciava, e i pompieri combattevano una battaglia senza mezzi adeguati e perciò perduta in partenza, e l'ira divina si abbatteva sulla magnifica e fiera città». 

 

Arriva l’8 settembre

«In quei terribili giorni noi antifascisti ci radunammo lo stesso, sempre nello studio Veratti, rimasto intatto, in mezzo a case crollate o bruciate; non c'era che da imporre a Roma la decisione suprema: cessare le ostilità; la guerra non doveva continuare e non bisognava aver paura dei tedeschi, nostri naturali nemici, causa unica oramai, dopo la caduta del fascismo, di tanta inutile sciagura.

Intanto, a poco a poco, dagli avvenimenti in corso o che si dovevano prevedere, e dalle nostre discussioni, scaturiva la necessità di armarci, di organizzare le forze che spontaneamente si mettevano a nostra disposizione.

Il conflitto con i tedeschi appariva vicino e inevitabile, l'esercito dava la penosa impressione di essere bacato, marcio, i capi incerti, imbelli, chiusi in formule, rispettabili e doverose in tempi normali, ma in quel momento anacronistiche e controproducenti. Consultatomi con Veratti, predisposi uno schema di «Guardia nazionale», lo misi a punto in una riunione autorizzata, e andai a parlare con il comandante del Corpo d'Armata territoriale di Milano. Da pochi giorni vi era stato destinato, con incarico del grado superiore, il generale di divisione Ruggero, proveniente dai bersaglieri e dallo Stato Maggiore. Si dichiarava antifascista, era vivace e simpatico, appariva animato da sincero spirito di collaborazione con i partiti politici. Vi furono altri colloqui col generale Ruggero. A questo consegnammo copia del progetto compilato di costituzione della «Guardia Nazionale» a Milano estendibile in altre città e regioni dell'Italia settentrionale. Ruggero promise di mandarlo subito a Roma, di appoggiarlo, di farci avere una risposta in pochi giorni. Ma ci accorgemmo poi che non ne aveva fatto nulla. Questo generale, in definitiva, si comportò male: non capì nulla della situazione; non ne poteva capire nulla; era impreparato; era leggero e facilone; non stava a tavolino a organizzare; non aveva servizi regolari di segreteria; credeva di risolvere la situazione con buone parole e propositi incerti.

 

Si arrivò ai primi di settembre: chiedemmo esplicitamente a Ruggero di fornirci armi, o, quanto meno, di accantonarne a nostra disposizione e con facilità per noi di prelevarle. Ci rispose con promesse vaghe e assicurazioni di buona volontà e avevamo l'impressione che non faceva sul serio, che non capiva. Ma non potevamo che stargli vicino, mantenere con lui le più cordiali relazioni, fare opera di persuasione, per portarlo a decisioni al momento dell'azione. Si arrivò così ai giorni immediatamente precedenti l'8 settembre. Oramai tutto faceva prevedere che l'armistizio o, comunque, una effettiva cessazione delle ostilità verso gli Alleati era imminente.

La mattina dell'8 fui chiamato dal generale Ruggero che mi fece capire che eravamo vicinissimi alla crisi: egli aveva avuto precise informazioni e istruzioni da Roma, a mezzo di un colonnello di Stato Maggiore, inviato dal Comando supremo, e che aveva fatto il giro dei Comandi di Corpo d'Armata territoriali. Ruggero estrasse di tasca alcune carte e mi disse: «Qui ho le mie annotazioni». Mi ripeté l'assicurazione di essere deciso ad agire, di essere con noi e che ci avrebbe dato le armi. Tedeschi a Milano ce n'erano pochissimi, addetti a servizi e con solo armi leggere.

La sera dell'8 settembre, sentito l'annuncio dell' armistizio alla radio, telefonai subito al generale Ruggero. Gli dissi: «Sono qui pronto ad agire, insieme con i miei amici, ed è questo il momento di agire». La risposta fu tipica della mentalità di un uomo che non aveva capito nulla, o che non voleva capire nulla: «Oramai c'è l'armistizio e non c'è nulla da fare; la situazione è chiarita». Replicai, ribattendo che bisognava agire. Ma di fatto, in quel preciso momento, nulla potevamo fare; era notte fonda ed eravamo tutti dispersi, senza un punto di riferimento o un luogo di convegno.

 

La mattina del 9, presto, ci fu una riunione nello studio Veratti e poi ci recammo numerosi al Comando di via Brera. Ruggero temporeggiava, Gasparotto voleva che si andasse alle barricate, io chiesi ci si dessero le armi e dichiarai che la Guardia nazionale e il popolo milanese avrebbero fatto il loro dovere e avrebbero combattuto contro i tedeschi. Ma lì non si decise nulla e allora noi venimmo via e decidemmo di aprire gli arruolamenti alla Guardia nazionale.

Solo nel pomeriggio avemmo le tessere da distribuire; diedi istruzioni agli ufficiali di arruolamento, che si installarono negli uffici dei mandamenti urbani, e che procedettero ad arruolare qualche migliaio di uomini. Nel frattempo, in piazza del Duomo, vi fu un comizio di popolo, deciso nella riunione della mattina in via Brera coll'assenso di Ruggero, e con la nostra garanzia che non ci sarebbero stati disordini: e non ce ne furono. Parlò l'avvocato Scotti per i liberali; Li Causi per i comunisti; Viotto per i socialisti e non so quali oratori per gli altri due partiti.

Prima di sera, tornai in via Brera, rividi Ruggero, e dal colloquio trassi sconfortanti certezze di insuccesso. Non si decise a darci le armi, incominciò a dire che non ne aveva, e che non aveva munizioni oltre il fabbisogno minimo dei suoi reparti, che le diserzioni avvenivano in misura impressionante e che persino dello squadrone appiedato del Savoia Cavalleria, assegnato a difesa del Comando, buona parte degli uomini si erano dileguati. Come di regola in quei giorni, non aveva un preciso disegno di azione; evidentemente cercava una via di uscita. Le notizie dalle guarnigioni periferiche della zona di sua giurisdizione erano pessime; i presidi cadevano a uno a uno senza resistenza o con azioni di fuoco minori, a opera di pochi animosi, con armi leggere e affrontati decisamente da reparti corazzati e autotrasportati tedeschi.

 

L'indomani, 10 settembre, riunione in via del Lauro, nell'ufficio dell'avvocato Della Giusta (Piero): eravamo in molti: Gasparotto, Boeri, Jacini, Li Causi, Veratti, Tino, Maffei ... Il generale Ruggero, sentivamo, non voleva prenderci sul serio; aveva un suo disegno, che nel pomeriggio si delineò: mettersi d'accordo con i tedeschi, uscire dalla situazione senza combattere e con un accomodamento, quale che fosse.

Nel pomeriggio - verso le tre - il generale Ruggero si lamentò per un incidente avvenuto vicino alla stazione: i patrioti avevano fatto fuoco su di un'automobile tedesca e ferito l'ufficiale tedesco di collegamento con Ruggero: questi temeva complicazioni e difficoltà nelle trattative che già andava conducendo per uscire da una situazione che giudicava insostenibile, deciso com'era a non compiere atti di forza. Il Comando di via Brera era pieno di ufficiali superiori che cercavano di tenersi al corrente degli avvenimenti ed esprimevano e maturavano propositi solo di fuga e di sbandamenti. Spettacolo sempre più pietoso.

Intanto con Casati, socialista serio e deciso, muniti di un'autorizzazione di Ruggero, mi recai nell'ufficio di un tenente colonnello di cavalleria che doveva farci avere munizioni da fucile per la Guardia nazionale: mi dichiarò che ne aveva pochissima, e che serviva ai reparti armati dell'esercito!

Al Comando, Ruggero, invisibile, era chiuso a chiave con un ufficiale tedesco, un semplice sottotenente, che avrebbe dovuto rappresentare, autorevolmente!, il comandante della colonna corazzata che, proveniente dalla zona emiliana, procedeva su Milano. Trattavano la resa della città, e Ruggero si illuse e volle illuderci che salvava, con onore, capra e cavoli.

 

Al palazzo di via Brera, verso le 8 di sera, la lunga conferenza con il giovane ufficiale tedesco ebbe termine, e il generale Ruggero, dopo una breve riunione con i suoi ufficiali, ricevette i tre rappresentanti del Comitato di Resistenza: Stefano Jacini, Gerolamo Li Causi e io; ci comunicò i termini dell'accordo, per cui le truppe tedesche si erano impegnate a non occupare la città, ma solo di presidiare una dozzina di sedi e uffici pubblici: posta, telegrafo, stazione, consolati, ecc.; ogni presidio sarebbe stato composto di pochissimi militari armati e da un'auto blindata, e sarebbe stato affiancato da un egual numero di soldati italiani. Ruggero si dichiarava persuaso che i tedeschi avrebbero rispettato i patti. Dimostrò inoltre di avere la sensazione di aver concluso un concordato poco onorevole, quando ci disse che riteneva che il popolo avrebbe giudicato male il suo operato, ma che riteneva di aver così agito nell'interesse della città e per risparmiare vite umane. Gli rispondemmo nell'ordine: Jacini, io, Li Causi, e tutti stigmatizzammo il suo operato, e dichiarammo il nostro disaccordo e il nostro biasimo. Si erano fatte così le 11 di sera. Ruggero si ritirò per preparare il discorso che poi fece alla radio, per comunicare al popolo l'accordo e invitare alla calma.

L'indomani mattina, uscito verso le otto, trovai piazza Cordusio piena di armati tedeschi, e così via Dante e così Foro Bonaparte. Era una magnifica e potente colonna corazzata, con armi e mezzi modernissimi. Uomini aitanti, giovani, con indumenti mimetizzati, tutti autotrasportati, su automezzi a cingoli, cannoni anticarro, obici di vari tipi: impressione di grande efficienza.

Seppi poi che si trattava della migliore divisione di SS corazzata dell'esercito tedesco: la SS Adolf Hitler Leibstandarte».

 

Da CLN a CLNAI

«Per il CLN lombardo - che solo nel febbraio 1944 prese il nome di Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia - i primi mesi di vita furono di lavoro intenso e i suoi componenti furono, oltre che a pericoli continui, sottoposti senza interruzione a continua tensione nervosa e mentale. A vicenda, ci istruivamo alla nuova vita, che veramente era di cospirazione: nomi falsi, documenti di riconoscimento contraffatti, tenore e abitudini di vita del tutto differenti da quelle fino allora seguite, connotati fisici modificati; parole d'ordine di riconoscimento quando ci si incontrava per la prima volta con uomini mai visti in precedenza. Cercavamo di riunirci, anche in incontri parziali, il più spesso possibile, e discutevamo e scambiavamo idee, sempre per meglio conoscerci, per scrutare i più reconditi propositi, per sentire fino a qual punto potevamo contare gli uni sugli altri quando le situazioni si sarebbero fatte drammatiche e tragiche. E poi, un continuo adoperarsi per fare propaganda, per incitare alla ribellione contro i tedeschi e i fascisti, per organizzare le forze sparse un po' dappertutto, dare loro un indirizzo, fornire loro i mezzi materiali per vivere e per armarsi, creare nuovi nuclei che poi diventavano formazioni, e presero forma di reparti, e bande e brigate e divisioni partigiane. Opera lunga, difficile, fatta di fede, di tenacia, di pazienza, irta di rischi, spesso sconosciuti e imprevedibili, nel corso della quale molti dei nostri migliori caddero, e furono catturati, imprigionati, sottoposti a sevizie, e finirono nei campi di concentramento, e fucilati e impiccati, e molti deportati in Germania e in Austria a morire oscuramente di stenti.

È merito assoluto ed esclusivo del CLN di avere, sin dai primissimi giorni della lotta, chiaramente e fermamente voluto che, nel crollo dell'apparato statale, nella carenza del governo, la guerra di Liberazione nazionale diventasse la guerra del popolo italiano, di tutto il popolo italiano, per il riscatto, col nostro sangue, dell'onore, della libertà e dell'indipendenza della Patria!».

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Le repubbliche partigiane

6 Octobre 2014 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #varia

Venerdì 10 ottobre 2014 ore 21

“LAMPI NELLE TENEBRE”:

LE REPUBBLICHE PARTIGIANE

Esperienze di autogoverno democratico

Le repubbliche partigiane
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