Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

La guerra di Nuto

21 Décembre 2010 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

«Volevo che i giovani sapessero, capissero, aprissero gli occhi. Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell'ignoranza, come eravamo cresciuti noi della "generazione del Littorio"(*). Oggi la libertà li aiuta, li protegge. La libertà è un bene immenso, senza libertà non si vive, si vegeta»
Nuto Revelli
Comandante partigiano, scrittore

 

 

 

Gli esordi dell’esperienza in montagna di Nuto Revelli.

 

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«Quella che va dall'8 settembre del '43 al 25 aprile del '45 è stata una pagina esaltante. Un miracolo. Eravamo precipitati in fondo a un pozzo. Tornavo dalla Russia. Avevo vissuto, da sottotenente, l'inferno della ritirata. Ero rientrato in patria con una ferita mal rimarginata, una promozione per meriti di guerra e una brutta pleurite. Non credevo più nei gradi, nella gerarchia, nell'esercito, nella guerra. Avevo ventiquattro anni, ero un vinto. Ma insieme un ribelle. Il 12 settembre 1943 vidi sfilare a Cuneo, in piazza Vittorio Emanuele (ora piazza Duccio Galimberti) un battaglione di Ss. Li guardai come antiche conoscenze. Li avevo già conosciuti in Russia. Non erano cambiati. Quello stesso battaglione, dieci giorni più tardi, avrebbe dato fuoco alla cittadina di Boves».

La trasformazione da alpino in partigiano fu automatica, naturale. «Avevo portato con me due parabellum e una pistole-machine tedesca. Tutto illegale: era vietato "detenere armi auto­matiche". L'indomani, con un gruppo di amici raggiunsi in motocicletta una collina sopra Cuneo. Partigiano».

Cosa eravamo noi, in quelle brigate partigiane? Dei ragazzini. Io ero uscito dal fascismo in uno stato d’ignoranza catastrofica. Non sapevo nulla. Ho imparato tutto lì. Una maggiore consapevolezza dei fatti e delle loro radici esisteva, certo, a livelli più alti di responsabilità. Fu Dante Livio Bianco, dieci anni più vecchio di me, tanto più colto, a parlarmi di Carlo Rosselli, di Matteotti.

Noi, per diventare antifascisti, avevamo passato un solo esame: la ritirata di Russia. Posso perfino indicare il momento, la circostanza precisa di quella mia scelta ... . Era il 20 gennaio del '43, ci trovavamo in Russia, nella piana di Postojali. Le tre del pomeriggio, trenta gradi sotto zero. Una colonna di trentamila fra italiani, tedeschi e ungheresi era ferma, accerchiata da ogni lato. Un aereo russo ci mitraglia. Non possiamo difenderci. Se esco da questo inferno, promisi a me stesso, dico addio all'esercito, rompo con il fascismo, mi adopero perché tutto cambi.

La guerra l'hanno vinta gli Alleati. Ma noi un bel contributo l'abbiamo dato. I provocatori vadano a parlare con qualche tedesco sopravvissuto a quei fatti. Gli racconterà che avevano paura di quei ragazzi annidati sulle montagne. Gli dirà che ne bastavano quattro o cinque per mettere in crisi una loro colonna. Qualcuno ricorderà che nell' agosto del' 44, dopo lo sbarco degli Alleati a Tolone, i tedeschi risalivano sulla displuviale alpina per aprire un nuovo fronte. E noi della brigata Carlo Rosselli gli abbiamo dato dei fastidi seri: Questi sono fatti».

 

(*) Il fascio littorio: “Il simbolo del fascismo è un fascio di verghe legate strettamente insieme. Quella verghe rappresentano la volontà di tutti gli Italiani, che è quella di stare uniti per essere forti e invincibili” (da un libro di testo del 1930 per la seconda classe elementare).

Littore, in latino lictor, (dal verbo ligo=io lego), era colui che recava i fasci di verghe legate insieme. I littori erano membri di una speciale classe di servitori civili dell'antica Roma che avevano il compito di proteggere le alte cariche dello Stato.

 

 

Bibliografia.

da un’intervista di Nello Ajello a Nuto Revelli pubblicata nell’inserto del 25 aprile 1995 del Corriere della Sera in occasione del 50° anniversario della liberazione.

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La Irma va a morire

18 Décembre 2010 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

La profezia di un maestro di libertà: «C’è una differenza tra questo e altri conflitti. Esso fu un eccezionale campionato di eroismo morale. Un patrimonio che rischia di sparire».

Una pagina di Franco Antonicelli, tratta da «La pratica della libertà» (a cura di Corrado Stajano, Einaudi). Si tratta d'un brano del discorso pronunciato a Torino, il 4 dicembre del 1949, nel quinto anniversario della morte di Duccio Galimberti e di Renato Martorelli.

 

La Resistenza fu un eccezionale campionato - usiamo questo termine agonistico - di eroismo morale. È qualcosa questo che la differenzia da ogni altra guerra guerreggiata, da ogni altro avvenimento militare. Qui l'eroismo civico, l' altezza delle testimonianze, la purezza, la nobiltà delle coscienze superano per la frequenza, per le occasioni, per la profondità del significato, ogni altro esempio. Questi combattenti della Resistenza non erano solo esposti alla morte in battaglia, ma alla eventualità delle torture, del martirio …

Ho voluto scegliere a caso in un libretto intitolato Cento dei centomila. Leggo:

Furlan Antonio - Non sapeva nuotare. Eppure non c'era altro modo per distruggere i documenti che aveva indosso che di buttarsi nella Livenza che scorreva lì vicino. Catturato, urlava di dolore sotto le torture (lo sentivano per tutto il paese). Ma non disse una parola; finché morì.

Manguzzato Clorinda - Gridò ai carnefici: «Quando non potrò più sopportare le vostre torture, mi mozzerò la lingua con i denti per non parlare ... ».

Sforzini Alfredo - Si accostò alla forca con passo fermo. Da sé salì sull'autoblinda che doveva servire da trampolino. Disse: «Ringrazio Dio di avermi dato la forza per non parlare». Offerse quindi il collo a laccio e spiccò il salto nel vuoto.

Martini Giovanni - Al capo gli avevano messo un cerchio di ferro che veniva stretto progressiva mente. «Parla». «Meglio morto» rispose in un rantolo. Un ultime giro di vite, e la scatola cranica saltò.

Labò Giorgio - I lacci gli impedivano di muoversi. Tanto erano stretti che gli avevano già ridotto mani e piedi in cancrena. Ad ogni percossa, ad ogni minaccia, rispondeva: «Non lo so e non lo dico».

Salvetti Aldo - Ancora vivo, venne crocifisso a un portone. Intanto gli aguzzini intimavano: «Parla, chi sono i tuoi complici?» «Li conoscerete quando verranno a vendicarmi», rispose. E

rese lo spirito.

Bandiera Irma - Accecata, prima di spirare disse: «Voi martoriate in me tutte le donne italiane, che come me vi odiano e vi disprezzano».

Cento dei centomila! Anche Duccio, anche Martorelli caddero massacrati: lo stesso disprezzo della morte, la stessa serenità verso i torturatori, la stessa ispirazione sovrana della fede morale.

Un senso di «vita più alta e più intensa» ha riempito i nostri cuori, i cuori dell'Italia di allora. Un senso di purificazione morale e spirituale che sembrava necessario dopo tanto avvilimento, che non era stato solamente politico, ma che aveva corrotto alla base le coscienze. Sembrava che certi inumani sacrifici fossero lo straordinario prezzo che si doveva pagare per una eccezionale colpa. Ne nacque, come dinanzi a ogni sacrificio, un bisogno di virtù.

Quando noi ripensiamo a quelle testimonianze esemplari, ci pare impossibile che possano venir denegate dalla realtà di poi, ci pare impossibile che possano andar disperse e senza frutto. Forse non è così, speriamolo».

 

 

Bibliografia:

dall’inserto del 25 aprile 1995 del Corriere della Sera in occasione del 50° anniversario della liberazione.


 

Franco Antonicelli

 

Nato a Voghera (Pavia) il 15 novembre 1902, deceduto a Torino il 6 novembre 1974, saggista, poeta e parlamentare di sinistra.

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Figlio di un alto ufficiale, si era laureato a Torino prima in Lettere e poi in Legge. L'insegnamento, per un breve periodo, al Liceo "D'Azeglio" del capoluogo piemontese e il rafforzamento dei legami con maestri e coetanei (da Augusto Monti a Benedetto Croce, da Piero Gobetti a Leone Ginzburg, a Massimo Mila, a Norberto Bobbio), contribuirono a risvegliare il suo antifascismo, ispirato soprattutto da ragioni morali.

Nel 1929 Antonicelli subì un primo, breve, periodo di carcere per aver firmato un documento di solidarietà con Croce. Nel 1935 passò alcuni mesi ad Agropoli (Salerno), dopo una condanna a 5 anni al confino. Tornato a Torino e ripreso l'insegnamento, ne fu allontanato per motivi politici. Collaboratore del Dizionario delle opere e dei personaggi della Bompiani e fondatore, nel 1942, della casa editrice "Francesco de Silva", Franco Antonicelli strinse sempre più stretti legami con esponenti della sinistra liberale e, nei mesi che precedettero la caduta di Mussolini, con socialisti e comunisti.

Nei giorni dell'armistizio (era entrato nel "Comitato interpartitico" o "Fronte nazionale"), tenta, anche con un generoso appello pubblicato su La Stampa, la difesa di Torino dai tedeschi. Passato a Roma, partecipa all'organizzazione della Resistenza nella Capitale, ma il 6 novembre del 1943 è arrestato e finisce a "Regina Coeli". Nel febbraio del 1944 è tradotto al Nord e dal carcere di Castelfranco Emilia uscirà soltanto nell'aprile quando, tornato a Torino, entra nel CLN regionale piemontese in rappresentanza del PLI. Opererà con i nomi di copertura di Ranieri, Sorel, Francesco Ansaldi e creerà i fogli clandestini Il Patriota e L'Opinione che, dopo la Liberazione, prenderà il posto della soppressa La Stampa.

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Alla vigilia dell'insurrezione, Antonicelli diventa presidente del CLN, la cui Giunta consultiva di governo opererà a Torino più a lungo che in ogni altro capoluogo italiano. Nel 1946 esce dal PLI ed entra nel Partito d'Azione. Si batte per la Repubblica nel referendum istituzionale e, nel 1948, al Congresso di Napoli, entra nella direzione del Partito Repubblicano Italiano. Negli anni successivi, portato a posizioni di sinistra, non aderisce più ad alcun partito e si dedica ai suoi amati studi letterari. Pubblica nel 1947 con la sua casa editrice il capolavoro di Primo Levi Se questo è un uomo, che era stato rifiutato dai principali editori nazionali. Consulente della RAI, collaboratore culturale de La Stampa (che nel frattempo ha ripreso le pubblicazioni) e di molte importanti riviste, Antonicelli nel 1953 è partecipe della battaglia contro la "Legge truffa" e nel 1968, come indipendente di sinistra, è eletto senatore nelle liste del PCI e del PSIUP per il Piemonte.

Negli anni è stato Commissario del Museo nazionale del Risorgimento, consigliere dell'Istituto storico del Risorgimento e del Centro studi "Piero Gobetti", presidente dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte e dell'Unione Culturale torinese. Ha organizzato lezioni-testimonianza sulla storia italiana dal 1915 al 1945, poi pubblicate dalla casa editrice Einaudi. Critico, saggista, poeta ha lasciato numerosi libri, oggi conservati, con molti preziosi documenti, a Livorno, dove la Compagnia portuale ha intestato a suo nome una Fondazione.
A Franco Antonicelli sono intitolate anche una via di Torino, l'Unione Culturale della città, una Sala per dibattiti a Voghera. Nel 2009 è giunto all'undicesima edizione il concorso "Franco Antonicelli", promosso dalla Regione per gli studenti delle Scuole superiori piemontesi.

 

dal sito dell’ANPI- Uomini e donne della Resistenza

 

foto dal sito dell'ANPI di Voghera: lombardia.anpi.it/voghera/antonicelli.htm

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nel 66° anniversario dell'assassinio, l’ANPI di Monza ricorda Salvatrice Benincasa

12 Décembre 2010 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Le donne italiane diedero un importante contributo alla liberazione dell’Italia dal regime fascista e dall’occupazione nazista. Alcuni dati:

Appartenenti ai Gruppi Difesa della donna: 70.000

Erano gruppi operativi femminili che si segnalarono, durante la Resistenza, attraverso la raccolta di indumenti, medicinali, alimenti per i partigiani e si adoperarono per portare messaggi, custodire liste di contatti, preparare case-rifugio, trasportare volantini, opuscoli ed anche armi. Gruppi di Difesa della Donna erano quindi un'organizzazione unitaria "aperta a tutte le donne di ogni ceto sociale e di ogni fede politica e religiosa, che volevano partecipare all'opera di liberazione della patria e lottare per la propria emancipazione".

Donne partigiane: 35.000

Arrestate, torturate, condannate  4.653

Fucilate, impiccate o cadute: 623

Deferite, tra il 1926 e il 1943, al Tribunale Speciale Fascista Per La Difesa dello Stato: 748

Inviate al confino: 145

17 furono le donne decorate con Medaglia d’oro al Valor Militare.

 

Tra loro Salvatrice Benincasa.

Salvatrice-Benincasa.jpgNata a Catania l’8 settembre 1924, si trasferì a Milano, con la famiglia, nel 1939. Durante la guerra si avvicinò al movimento di Liberazione, entrando in contatto con aderenti alle Brigate Matteotti. Sorpresa mentre eseguiva un incarico che le era stato affidato, fu fermata e interrogata nei locali della Gil (ora Binario 7). Rifiutò ogni forma di collaborazione con i fascisti; venne perciò torturata a morte e gettata sul ponte di via Mentana dove morì. Era il 17 dicembre 1944.


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L’ANPI di Monza commemorerà Salvatrice Benincasa, venerdi’ 17 dicembre 2010 alle ore 11.00, depositando una corona d’alloro nel luogo dove una lapide ricorda il suo sacrificio.

EGEO MANTOVANI, presidente onorario dell’ANPI provinciale di Monza e Brianza, terrà una breve commemorazione.

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Angelo Signorelli

12 Décembre 2010 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #pagine di storia locale

Martedì 7 dicembre 2010

Angelo Signorelli ci ha lasciati. Si è spento stamane all'Ospedale S Gerardo dove era ricoverato per un improvviso aggravarsi delle sue condizioni di salute. I funerali si svolgeranno giovedì 9 dicembre alle ore 15 presso la chiesa di S. Alessandro. Siamo tutti vicini al grande dolore della moglie Silvana.

 


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Signorelli a 17 anni, da solo un mese operaio alla Falck di Sesto San Giovanni, partecipa ai grandi scioperi del marzo '44 e pochi giorni dopo viene arrestato di notte assieme al fratello; dopo due soste a San Vittore e a Bergamo viene deportato con gli ormai tragicamente noti carri bestiame a Mauthausen e quindi a Gusen dove è rimasto per 14 mesi.

 

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Il suo racconto segue ahimè un itinerario già noto per tante altre testimonianze: lavoro durissimo, stenti, botte ad ogni minimo pretesto e, soprattutto, perdita di identità: per sopravvivere era indispensabile imparare il proprio numero di matricola e riconoscerlo agli appelli fatti dai kapò in tedesco o in polacco od anche in russo.
La liberazione lo trova in coma, assalito da una febbre violenta, poi la guarigione ed il ritorno in patria.


 

 

 

Il mio nome è IT 59141

Angelo Signorelli, monzese per lavoro, racconta i mesi vissuti a Mauthausen. L'unica sua colpa è stata l'aver partecipato a uno sciopero.

 

“ Mi chiamo Angelo Signorelli, sono nato il 17 agosto 1926 a Grumello del Monte, in provincia di Bergamo, da una famiglia contadina.

Nel 1936 ci trasferimmo a Monza in cerca di occupazione.

Mio padre trovò lavoro da operaio alle Acciaierie e Ferriere Lombarde Falck di Sesto San Giovanni, come più tardi, nel 1941, i miei due fratelli maggiori.

 

Entrai alla Falck anch'io, assunto come apprendista modellista. Facevo tirocinio, costruivo ancore in un reparto dove c'erano molti operai specializzati. Lavoravo di giorno e la sera andavo alle scuole professionali per imparare disegno meccanico, indispensabile per un buon operaio. Si facevano molti sacrifici, si aveva paura, spesso si tornava a casa sotto i raid aerei. Nel 1942 sentii per la prima volta la parola sciopero, di cui ignoravo il significato. Nel 1943 ci furono i primi scioperi che paralizzarono tutta l'industria, ma nell'agosto mi ammalai di tifo e fui ricoverato in ospedale a Monza.

Tornai al lavoro dopo una lunga convalescenza e capii subito che la situazione era peggiorata: il cibo nelle mense scarseggiava e tutte le conquiste delle lotte precedenti erano state annullate dall'inflazione. Bisognava fare qualcosa. Nel marzo 1944 partecipai con tutti i lavoratori al grande sciopero generale. L'obiettivo era la caduta della repubblica fascista di Salò e la liberazione dall'invasione nazista. Subito dopo, la notte dell'11 marzo, fui arrestato dalla polizia fascista insieme a mio fratello. Ci buttarono letteralmente giù dal letto. Mio fratello voleva cercare di scappare dalla finestra, ma poi non opponemmo resistenza, per evitare conseguenze ai nostri genitori. Ci portarono via in fretta e furia.

All'alba il rastrellamento degli altri operai che avevano scioperato con noi era finito. C'era gente di Monza e Sesto San Giovanni. Fummo portati in prefettura a Milano e lì, oltre a noi c'erano dipendenti della Falck, della Breda, della Pirelli, della Marelli e di altre ditte. Fummo tutti interrogati senza diritto di replica, accusati di organizzazione e istigazione di scioperi e atti di sabotaggio contro la repubblica fascista. Ci mandarono a dormire al carcere di San Vittore, su un pagliericcio. Dimostravo molto meno dei miei 17 anni, anche per la mia magrezza, ma un ispettore parlando con un altro gli disse: "macché minorenne, qui sono tutti uguali e seguiranno tutti la stessa sorte". Queste parole mi colpirono molto e mi rimasero impressi i loro volti.

Dopo due giorni fummo trasferiti tutti a Bergamo, in camion. Qui ci trovammo con altri operai rastrellati in giro per l'Italia, che si trovavano già lì da qualche giorno. Eravamo affamatissimi e come cibo ci davano una fetta di pane con del brodo per tutta la giornata.

Il 17 marzo fu il giorno della partenza, arrivarono anche i miei genitori da Monza e il cappellano militare di San Rocco, Don Lino Mandelli.

Incolonnati, scortati da una parte dalle SS e dall'altra dai fascisti, andammo a piedi alla stazione, minacciati e picchiati. Nessuno sapeva né che cosa avevamo fatto, né dove eravamo diretti. Eravamo spaventati. I parenti ci avevano portato viveri e la gente generosa di Bergamo ci regalò fiaschi di vino.

Fummo stipati a quaranta alla volta su carri-bestiame. Eravamo totalmente inconsapevoli della nostra sorte. Pensavamo di andare a lavorare da qualche parte. Noi di Monza eravamo fortunati, avevamo delle torte fatte dai nostri familiari e del vino e ci dividemmo tutto. Cercammo di staccare qualche asse di legno per scappare, ma ci avevano requisito tutta la roba personale a Milano. La notte faceva freddo, si soffriva la sete e al terzo giorno non riuscivamo nemmeno a parlare, tanto eravamo stremati. Durante una sosta al Tarvisio ci dissetammo mangiando neve.

Scoprimmo la nostra destinazione arrivando al campo di concentramento di Mauthausen.

Era un'enorme fortezza di pietra, tutta cintata con muri di tre metri e protetti da mitragliatrici. Fummo spogliati di tutto: soldi, orologi, anelli, fotografie. Tutto venne annotato dalle SS.

Fummo spogliati dei nostri abiti civili e rapati a zero. Completamente nudi entrammo in un salone a fare la doccia. Lì fui separato da mio fratello. Avevamo lunghi mutandoni di lana e pantaloni a righe. Ci misero in baracche isolate dal resto del campo, a Gusen I, sottocampo di Mauthausen, per la quarantena.

Non avevamo letti e dormivamo su un fianco, perché sdraiati non ci stavamo tutti e i kapò ci picchiavano. Al mattino eravamo indolenziti e infreddoliti. I kapò ci picchiavano per qualsiasi cosa e ci davano da mangiare una volta sola al giorno. Una volta rifiutammo la nostra razione di cibo, sempre zuppa di crauti, e furono guai, botte e insulti. Ci dissero che metà di noi sarebbe morta entro tre mesi.

Dopo qualche giorno completarono il nostro abbigliamento con berretto a strisce, maglia, calze, zoccoli di legno e la giacca a righe, con un numero di matricola per il riconoscimento. Mi avevano spogliato di tutto, ora al posto del nome avevo solo una matricola: IT 59141.

Durante la quarantena lavorammo alla costruzione di un altro campo, il Gusen II. Eravamo esposti ad ogni tipo di intemperie. Il lavoro cambiava da un giorno all'altro: scavavamo, spostavamo terra, facevamo i fossi per le tubazioni dell'acqua, costruivamo baracche e pozzi. Se pioveva o faceva freddo si intirizzivano le mani e i piedi scivolavano come burro sulla terra bagnata. La morte coabitava con noi, ero molto impaurito e sfiduciato. Cercavamo di resistere a tutto. Si pensava che sarebbe arrivata la Liberazione e che tutto sarebbe passato. Ormai anche la zuppa di crauti era diventata buona col passare del tempo: quando era servita calda, per un momento sembrava di rivivere.

Si prendevano botte per tutto: se non rifacevi bene il letto, se avevi preso i pidocchi, se non capivi bene i comandi in tedesco. Tutto poteva giustificare delle nerbate. Un giorno ne presi 42 perché avevo trovato il modo di rubare delle patate. L'idea era venuta a quelli che stavano in cucina, gli spagnoli. Così me ne davano metà, però cotte. Io le dividevo con gli altri miei compagni di sventura nella baracca. Eravamo soliti scavare di nascosto una buca profonda almeno 50 cm. per metterci le patate che arrivavano da fuori. Le coprivo col pagliericcio per non farle gelare.

Quando scoprirono che nascondevo 42 patate nelle mutande me ne chiesero il motivo. Dissi che non potevo mangiare il pane per malattia. Cominciarono a darmele, una nerbata per ogni patata. Ad un certo punto svenni per il dolore, mi rianimarono con una secchiata gelata d'acqua e continuarono a darmele. A volte uccidevano per molto meno, fui molto fortunato.

Non c'era limite all'orrore. Le persone anziane facevano fatica a stare dietro al lavoro, si indebolivano e non venivano curate, morivano come mosche. La vita stessa non aveva valore. Dopo gli ebrei, gli italiani erano considerati i peggiori. All'inizio ci si scontrava anche tra di noi prigionieri, si litigava coi francesi e i russi. Fui colpito da dissenteria assieme a un mio amico, Carmine Berera. Fummo portati in infermeria: io fui giudicato guaribile, ma il mio amico no. Fui curato subito e dopo tre giorni, grazie alla complicità di un giovane medico italiano, vidi per un attimo il mio amico in un'altra baracca. La stanza era squallida con un indescrivibile odore di sporcizia. Era proibito entrare. Erano tutti malati abbandonati a se stessi: portavano loro da mangiare, ma nessuno in realtà se ne curava, erano considerati a perdere. Ogni giorno arrivavano gli addetti, buttavano i cadaveri fuori dalla finestra, su carretti diretti al crematorio. Il mio amico dopo una settimana era ancora vivo, poi non ne seppi più nulla.

Le persone sparivano, uccise con punture di veleno o benzina. Certe notti c'era un'auto azzurra che faceva la spola tra i due campi di Gusen e Mauthausen e asfissiava le persone, per scaricarle infine al crematorio. Tanti morivano mentre lavoravano nella cava. Mi sono anche ammalato di scabbia e in totale sono stato ricoverato tre volte. Penso di essermi salvato per fortuna, per la mia giovane età e per il fatto di aver passato i mesi più rigidi a sistemare patate, dove comunque la temperatura era di dieci gradi sopra lo zero.

Volevamo sapere come andava la guerra e qualche notizia riusciva a trapelare. Quando si capì che a breve sarebbero arrivati gli americani, tememmo che i nazisti ci uccidessero tutti. Si diffuse il caos, cominciarono a bruciare documenti per nascondere le prove di quello che avevano compiuto. I tedeschi uccisero chi tentò di ribellarsi, fucilando alcune delle SS e i kapò che stavano ai forni crematori, per impedire che potessero rivelare qualcosa. C'erano morti ovunque.

Il 5 maggio 1945, verso sera, arrivarono gli americani e i tedeschi rimasti si arresero e si consegnarono. Alcuni di noi linciarono i propri aguzzini. Eravamo allo sbando, alla ricerca di cibo per le cucine del campo, mangiando quel che si trovava. Eravamo liberi, ma ancora non ce ne rendevamo conto e vagavamo per il campo come dei disperati. Alcuni miei amici andarono a piedi verso la città di Linz, cercando di tornare prima in Italia. Gli americani cominciarono a curarci nel campo, con l'aiuto della Croce Rossa.

Tornai in Italia solo il 27 giugno. Ero stato curato da una strana febbre che uccideva e sono sopravvissuto grazie alla penicillina degli americani. Mio fratello, che mi aveva visto ricoverare in condizioni disperate, tornò prima in Italia dai miei per non farli preoccupare. Quando arrivai fu una gioia, ma non potei tornare subito a una vita normale, feci delle cure speciali, non potevo mangiare che in bianco, mi fecero trasfusioni e punture ricostituenti. Ritornai al lavoro alla Falck solo nel dicembre 1945.

Ora, ogni giorno ripenso alle persone nel campo, a chi c'era e a chi non si sa che fine abbia fatto.

Dopo tante sofferenze non odio il popolo tedesco. Se un popolo partorisce dei mostri criminali, bisogna combatterli e impedire che si impadroniscano del potere.”

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primavera del 1943: gli antifascisti italiani confinati a Ventotene

12 Décembre 2010 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Ventotene è un'isola del Mar Tirreno, situata al largo della costa al confine tra Lazio e Campania, in provincia di Latina.

Isole Pontine

Durante il periodo fascista, sull'isola furono confinati numerosi antifascisti, nonché persone considerate non gradite dal regime.

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Tra gli altri Sandro Pertini, Luigi Longo, Umberto Terracini, Giorgio Amendola, Lelio Basso, Mauro Scoccimarro, Giuseppe Romita, Pietro Secchia, Eugenio Colorni, Giovanni Roveda, Walter Audisio, Camilla Ravera, Giuseppe Di Vittorio, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi. Furono proprio questi ultimi due antifascisti a scrivere sull'isola, nella primavera del 1941, l'importante documento Per un'Europa libera e unita. Progetto di Manifesto diventato noto come Manifesto di Ventotene. Nel documento la federazione degli Stati d'Europa, sul modello statunitense, viene indicata come l'unica soluzione per la salvezza della civiltà europea.

Luigi Longo, confinato politico a Ventotene, ha scritto nel suo libro “Un popolo alla macchia”:

«Mentre tutto intorno crescevano e s'avvicinavano le fiamme della guerra, mentre nelle città e nelle campagne lavoratori, impiegati, professionisti e intellettuali si agitavano, si muovevano, premevano per avere pace e libertà, nelle carceri e nelle isole di confino italiane centinaia e migliaia di antifascisti si struggevano nella loro forzata inattività, tendevano ansiosamente l'orecchio a tutti i suoni, a tutte le briciole di notizia che giungevano dall'esterno, soffrivano crudelmente per le pene della patria e sentivano che presto, forse prestissimo, sarebbero stati chiamati a prendere in mano le sorti del paese e a tentarne l'estrema salvazione.

L'isola di Ventotene era come la capitale di questo mondo di captivi. Nella primavera del '43 essa raccoglieva un migliaio circa di dirigenti e di umili militanti di tutte le correnti dell'antifascismo italiano. Eravamo finiti là provenienti da tutte le parti - molti dopo cinque, dieci e anche quindici e più anni di reclusione sofferta - prelevati dalle città e dalle campagne d'Italia perché sorpresi a parlare contro il fascismo e la guerra; reduci, noi garibaldini di Spagna e gli emigrati, dai campi francesi di internamento, dove eravamo stati rinchiusi allo scoppio della guerra. Ci affratellavano le comuni sofferenze, le stesse speranze e un uguale amore di libertà.

Due volte la settimana un battello congiungeva l'isola al continente: portava le provviste, qualche familiare e sempre nuovi confinati. Ma portava anche i giornali e le notizie dall'Italia. Scorrevamo avidamente i comunicati ufficiali, che cercavamo di completare e di arricchire leggendo tra le righe, ma; soprattutto, correvamo a scoprire le comunicazioni confidenziali, “illegali”, che ci arrivavano nascoste nelle pieghe di un vestito, nella copertina di un libro, nei “doppi” più impensati.

Con emozione indicibile seguivamo in quei giorni il corso della guerra, apprendevamo le rovine che si accumulavano nelle nostre città bombardate, salutavamo le prime manifestazioni di resistenza popolare alla folle politica fascista. Il sentire - come sempre di più sentivamo - la grande anima dell'Italia vicina a noi ci risollevava, ci riempiva di fierezza e di speranza. Erano lunghe serate di attesa, nelle tristi camerate della nostra deportazione: lunghi giorni di meditazione, dinanzi al mare d'Italia; un'impaziente preparazione alla lotta aperta, tempestata di presentimenti amari, di preoccupazioni non mai sopite per la sorte del nostro. popolo. Era la nostra vigilia immediata? Si giungerà in tempo? Si potrà evitare che il popolo venga defraudato dei suoi sacrifici e della sua riscossa? Si salverà l'Italia dal tedesco e da nuovi tradimenti?

Intanto non si perdeva il tempo. Ventotene non era soltanto l'isola di confino voluta dal fascismo, ma era anche, come ogni carcere e ogni altra isola di deportazione, un centro di formazione politica dei confinati e di direzione del movimento per la pace e la libertà all'interno del paese. Molti, tra coloro che salparono da Ventotene dopo la caduta del fascismo, lasciarono la vita sulle montagne o nelle segrete nazifasciste. Non per nulla gli antifascisti definivano, con una punta di scherzo e una di profonda serietà, “governo di Ventotene” il gruppo dei confinati. Tra Ventotene e il paese si svolgeva, soprattutto a mano a mano che la lotta si acuiva, un ricambio continuo e proficuo: il lavoro unitario dell'isola si rifletteva sui «fronti nazionali» dell'interno, e viceversa; avveniva uno scambio, un'osmosi incessante fra le esperienze di Ventotene - che non erano meramente teoriche, proprio perché operavano sulla realtà dei rapporti politici e umani tra i suoi “ospiti”, e influivano sulla ben più complessa realtà del paese - e quelle del continente.

Nonostante la sorveglianza, nessuno dei confinati rimaneva all'oscuro degli avvenimenti, e soprattutto delle considerazioni politiche che se ne potevano trarre. Per i comunisti ad esempio, Scoccimarro, Secchia, Li Causi, Roveda, Di Vittorio, io, elaboravamo ogni settimana un rapporto di informazione sulla situazione italiana e lo diffondevamo “a catena”, fino a toccare tutti i compagni dell'isola nel giro di cinque o sei giorni. Ognuno di noi si dava a passeggiare con due compagni, tirandosi appresso le guardie incaricate di pedinarci, le quali però si stancavano presto e finivano per mettersi a passeggiare e a chiacchierare tra di loro. Ciascuno dei due compagni, a sua volta, ripeteva la relazione che aveva udita ad altri due. Non si poteva certo giurare che il primo e l'ultimo contesto dicessero esattamente la stessa cosa; ma un orientamento, una qualche indicazione arrivava in questo modo, di certo, su tutte le questioni più importanti a tutti i compagni del confino».

 

Bibliografia:

Luigi Longo “Un popolo alla macchia” Editori Riuniti 1965

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Umberto Terracini: «Io, comunista eretico, espulso dal Partito»

12 Décembre 2010 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

(da "Come nacque la Costituzione", intervista di Pasquale Balsamo, Editori Riuniti 1978)

 

Appartenente alla leva politica dei giovani socialisti riuniti intorno alla rivista torinese dell"'Ordine Nuovo", che esprimerà gran parte del gruppo dirigente del Partito comunista d'Italia (1921), Umberto Terracini fu condannato insieme con Antonio Gramsci e altri a più di ventidue anni di carcere e confino nel 1928, nel primo grande processo politico del Tribunale speciale fascista contro gli oppositori.

Terracini non doveva avere alcuna riduzione della pena e questa era la motivazione (25 giugno 1936): «Elemento scaltro, subdolo, ha posto la sua non comune intelligenza al servizio del comunismo rendendosi pericoloso propagandista. In carcere ha sempre cercato di esercitare il suo ascendente per mantenere vivo tra i detenuti condannati da questo Tribunale il sentimento sovversivo. Punito durante l'espiazione ben ventiquattro volte, non ha dato alcuna prova di ravvedimento. E questo Ufficio crede che l'elemento intellettuale debba essere attivamente sorvegliato e non sia meritevole di speciale clemenza, in considerazione della propaganda subdola che sempre cerca di svolgere per mantenere fermo nei detenuti meno colti l'atteggiamento sovversivo, tanto da far desistere elementi che avevano mostrato in precedenza ravvedimento».

Terracini espia 10 anni, 11 mesi e 2 giorni nelle carceri di San Vittore, Regina Coeli, San Gimignano, Civitavecchia Castelfranco Emilia e nuovamente Civitavecchia. Quindi il confino a Ponza e a Ventotene.

A Ventotene, nel gennaio del 1943 Umberto Terracini viene espulso dal PCI, del quale era stato uno dei principali fondatori. In effetti la sua colpa era consistita nell'avere espresso il suo dissenso dalla politica dei «fronti popolari» inalberata dal Komintern, in quanto a suo giudizio non sarebbe stato sufficiente far blocco con socialisti e repubblicani per sconfiggere il fascismo, ma si sarebbe dovuto allargare l'alleanza anche agli antifascisti borghesi, come liberali, cattolici; democratici e monarchici. Con ciò egli è stato in un certo modo il precursore della «svolta» dello stesso Komintern che portò alla nuova politica dei comitati nazionali di liberazione, poi adottata dai comunisti. Va tenuto presente che la situazione di allora era tale da far anteporre al torto o alla ragione la obbedienza al partito siccome si deve ad un esercito in situazione di guerra. Solo il 14 dicembre del 1944 ottiene la riabilitazione e combatte nell'Ossola.

Dopo la Liberazione è consultore nazionale, membro dell'Alta Corte di Giustizia, presidente dell'Assemblea costituente dando prova di alte qualità politiche e morali. Presidente dei senatori comunisti per più legislature, fu senatore a vita della repubblica italiana. Muore a Roma a ottantotto anni, nel 1983.

 

«La mia espulsione, o meglio, la proposta per la mia espulsione dal Partito comunista d'Italia, decretata da alcuni compagni dirigenti nel febbraio 1943 mentre eravamo tutti costretti al confino di Ventotene, ha origini lontane. Dall'analisi della situazione mondiale, caratterizzata dai minacciosi prodromi della crisi economica del 1929, il VI Congresso dell'Internazionale comunista aveva dedotto che, superato il periodo della sua stabilizzazione relativa, il capitalismo andava incontro a un nuovo periodo rivoluzionario che lo avrebbe portato alla sua fine catastrofica. Crisi mortale del sistema ...

Ai partiti comunisti, di conseguenza, il compito di guidare le masse lavoratrici alla lotta che avrebbe dovuto sboccare nella insurrezione armata. Ora, a parte la validità di una tale impostazione, in linea generale, era evidente che essa non corrispondeva alla situazione italiana, dove la dittatura fascista imperava e trionfava sopra un proletariato privo di ogni organizzazione e con un partito comunista ridotto a poche centinaia di iscritti costretti, per di più, alla completa clandestinità. Ma il centro dirigente del partito aveva fatto proprie le prospettive del VI Congresso dell'Internazionale e aveva diramato le relative parole d'ordine e d'azione; così, nella certezza della prossima caduta del fascismo, espulse i dissenzienti, così come successivamente venni espulso anch'io per decisione dei dirigenti del collettivo carcerario di Civitavecchia e confinario di Ventotene.

Ma tu non concordavi con la linea dei compagni Scoccimarro, Secchia, Li Causi, Roveda ed altri, anche per altre questioni.

Innanzi tutto avevo condannato, all'immediata vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale, il Patto di mutua assistenza fra Germania e Unione Sovietica. In secondo luogo, avevo dato un'interpretazione estensiva al manifesto-appello lanciato dal partito subito dopo l'aggressione nazista all'Urss per un'alleanza di tutte le forze antifasciste. Secondo i dirigenti al confino, tale direttiva doveva valere solo nei confronti di quei partiti che potessero muoversi nell' ambito del fronte popolare. Secondo me, l'appello era invece rivolto a tutte le forze e a tutti i partiti che fossero disposti a combattere il fascismo, non esclusi, quindi, i liberali, i conservatori e i monarchici.

La «svolta» che Togliatti avrebbe poi imposto a Salerno. Ma come andò a:finire con la tua espulsione? Come fosti riammesso nel partito?

Nell'impossibilità di poter mantenere contatti direttamente con Togliatti e con gli altri dirigenti che non avevano condiviso la mia attività in carcere e al confino, dovetti aspettare la fine della guerra e, con essa, il ricongiungimento dell'Italia del Nord, ove avevo continuato a combattere nell'Ossola, con il Centro-sud. E fu proprio Togliatti, in base alla mancata ratifica superiore della proposta di espulsione, a non considerarla valida.

La mia designazione a importanti incarichi di partito e alla stessa presidenza dell'Assemblea Costituente mi riscattarono completamente del passato.

 

Roma, 27 dicembre 1947 (Palazzo Giustiniani) - Umberto Terracini firma l'atto di promulgazione della Costituzione della Repubblica Italiana

 

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Dall’«Ordine Nuovo» alla fondazione dell’ ”Unità”

12 Décembre 2010 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Il biennio rosso 1919-20 è vissuto dal gruppo ordinovista in questo fervore di lavoro di massa. Il «laboratorio sociale» si trasforma presto in un terreno infuocato di scontro di classe attorno alla questione del potere in fabbrica. Gli imprenditori non intendono certo perderlo o dividerlo con i Consigli e passano all'offensiva: serrata, sciopero generale nella primavera del 1920, conflitti aspri il cui esito mostra quanto le nuove istituzioni siano sentite e difese dalle masse ma anche quanto il fronte operaio di Torino resti isolato nazionalmente. Maturano rapidamente le condizioni per un nuovo più generale conflitto, quello dell'occupazione delle fabbriche, nel settembre del 1920, che si conclude con una sconfitta politica del movimento operaio. È questo anche il momento in cui Gramsci, assai scettico sull'opportunità dell'occupazione, si impegna più direttamente nella lotta interna al PSI. Il gruppo Ordinovista è confortato dal giudizio favorevole che Lenin al II Congresso dell'Internazionale a Mosca ha dato delle sue posizioni, e quando viene sul tappeto la questione dell'espulsione o meno dei riformisti dal partito, Gramsci si accosta alla frazione di estrema Sinistra capeggiata dalla vigorosa personalità dell'ingegnere napoletano Amadeo Bordiga. Nasce nel novembre 1920 la frazione comunista e l'«Ordine Nuovo», col 1° gennaio 1921, si trasforma in quotidiano diretto da Gramsci. Poche settimane dopo, a Livorno, si attua la scissione da cui esce il Partito comunista d'Italia: Gramsci è eletto nel primo comitato centrale del nuovo partito, senza contestare la leadership di Bordiga anche se non ne condivide le rigidità dottrinarie e il formalismo.

L Ordine Nuovo 

Per il direttore dell'«Ordine Nuovo» quotidiano si riaprono, per tutto il 1921 e una parte del 1922, mesi di intenso lavoro, di violenta polemica nel confronti di quel partito socialista che egli sferza come «circo Barnum» per le sue incertezze e la sua composita ispirazione politico-ideologica. E cominciano anche i «tempi di ferro e fuoco». Il Partito comunista, nato con il proposito di guidare il processo rivoluzionario, si trova investito in pieno, come tutto il socialismo del resto, dall'ondata di reazione che cresce, dalla violenza delle squadre fasciste. Esso si tempra nella lotta ma i problemi a cui è di fronte sono ben diversi da quelli previsti o sperati. «Fummo - ricorderà lo stesso Gramsci - travolti dagli avvenimenti, fummo, senza volerlo, un aspetto della dissoluzione generale della società italiana, diventata un crogiolo incandescente, dove tutte le tradizioni, tutte le formazioni storiche, tutte le idee prevalenti si fondevano qualche volta senza residuo ... Dovemmo trasformare, nell'atto stesso della loro costituzione, del loro arruolamento, i nostri gruppi in distaccamenti per la guerriglia, la più atroce e difficile guerriglia che mai classe operaia abbia dovuto combattere. Si riuscì tuttavia; il partito fu costituito e fortemente costituito; esso è una falange d'acciaio».

Analizzare e contrastare, in quelle condizioni, il fenomeno del fascismo è l'impegno più urgente a cui il direttore dell'«Ordine Nuovo» si adopera, denunziandone sia la matrice piccoloborghese che la risultante reazionaria, tentando di opporsi anche all'estremismo della direzione comunista, dominata da Bordiga. Gramsci fa, ora e nei due anni successivi, un po' parte per se stesso. È difficile collocarlo esattamente in una gerarchia che si concepisca con l'esperienza e la tradizione successiva. L'uomo non è ancora noto come un capo nel partito. Il suo prestigio intellettuale, la sua autorità morale sono notevoli, grandi presso quei compagni che hanno lavorato con lui (ma che si disperdono nel 1922 come nucleo politico a sé). Ma la sua penna tagliente incute rispetto agli avversari e ammirazione nei lettori del giornale a cui dedica tutto il suo tempo. Ma anche al II Congresso del PCI a Roma nel marzo del 1922, Gramsci, nonostante abbia molte riserve da fare sulla linea ufficiale, su una prospettiva che esclude un colpo di Stato reazionario, non dà battaglia.

Dalla fine di maggio 1922 egli è inviato a Mosca come delegato del PCI presso il comitato esecutivo dell'Internazionale .. Parte in non buona salute in una situazione di rapporti difficili tra il PCI e l'Internazionale, provato dalle fatiche di quattro-cinque anni d'intensa attività politica e giornalistica. Tra l'estate e l'autunno viene ricoverato in una casa di cura, nei pressi di Mosca. Il riposo, la pausa, sono anche un momento nuovo nella vita privata del trentenne rivoluzionario italiano. Si innamora di una giovane musicista russa, Julca (Giulia) Schucht, e presto si unisce a lei: è un sentimento di una tenerezza che lo stupisce. «La mia vita - scrive Antonio a Giulia durante l'idillio - è stata sempre una pianura fredda, uno sterpeto. Come ho potuto dirle che le voglio bene?» Ma quando saranno costretti a separarsi per la prima volta, all'inizio del 1924, le scriverà da Vienna: «Cara tu devi venire. Ho bisogno di te. Non posso stare senza di te. Tu sei una parte di me stesso e sento che non posso stare lontano da me stesso. Sono come sospeso in aria, come lontano dalla realtà. Penso sempre, con un rimpianto infinito, al tempo che abbiamo trascorso insieme in tanta intimità, in una così dolce espansione di noi stessi».

Il periodo moscovita (estate 1922 - fine 1923) è anche un periodo di espansione politica per Gramsci, a contatto con un ambiente quale quello del Komintern che è ancora di viva dialettica politica e ideologica. Fa diretta esperienza dei problemi della Nep in un paese come la giovane repubblica dei soviet, studia e confronta le posizioni teoriche di Lenin e dei più prestigiosi rappresentanti dello stato maggiore del partito bolscevico, da Trotzki a Stalin, da Bucharin a Zinoviev. Anche lo stacco dall'Italia gli consente di scorgere meglio i limiti e gli errori del primo estremismo che ha permeato la condotta politica del gruppo dirigente. Queste riflessioni prendono una direzione polemica via via più netta, col crescere del dissenso tra quel gruppo dirigente e l'orientamento dell'Internazionale che è favorevole a un fronte unico proletario contro il fascismo e alla fusione tra socialisti e comunisti. In una serie di lettere che manda da Mosca e poi nel primi mesi del 1924 da Vienna (dove lavora a un nuovo ufficio del Komintern avvicinandosi all'Italia) ai suoi vecchi collaboratori (Togliatti, Terracini, Scoccimarro, Leonetti) Gramsci sostiene la necessità di staccarsi da Bordiga, dal suo metodo di direzione, dalle sue direttive politiche per formare un gruppo dirigente che riesca a impostare correttamente una strategia politica basata sull'alleanza tra operai del Nord e contadini poveri del Sud, che lavori a una riunificazione con quei socialisti che sono rimasti «terzinternazionalisti», che trasformi il partito in una espressione più diretta dei lavoratori, fondandosi sulle cellule di fabbrica. Questo è anche il senso della lotta interna che Gramsci dà non appena torna in Italia, eletto deputato in una circoscrizione del Veneto, nell'aprile del 1924, questo il contributo di idee e di organizzazione che porta alla nascita di un nuovo quotidiano del partito, «l'Unità».

 

Prima pagina di alcuni numeri di "L'Unità" del 1924

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Deputato, l’ arresto, il processo e il carcere

12 Décembre 2010 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Si giunge così agli ultimi due anni di «vita legale» di Gramsci. Egli è eletto segretario generale del partito, è il capo riconosciuto della pattuglia dei deputati comunisti alla Camera.

Giulia gli ha dato un figlio nell'agosto del 1924, Delio. Raggiunge il marito col bambino nell'autunno del 1925 a Roma. Il futuro si fa presto fosco. La persecuzione fascista non dimentica un uomo che Mussolini aveva definito «quel sardo gobbo, professore di economia e filosofia, un cervello indubbiamente potente». Né l'essere il segretario del PCI un deputato lo risparmierà dall'arresto nel 1926, al termine della crisi che si conclude coll'avvento pieno della dittatura. Gramsci si è impegnato, dopo il delitto Matteotti, a cercare di contrastare sia sul piano di massa sia su quello dell'azione parlamentare il processo che si sviluppa: propone alle opposizioni di costituirsi in Antiparlamento per essere il fulcro di una alternativa istituzionale, punta a suscitare i Comitati operai e contadini, raccogliendo esperienze e suggestioni dei Consigli del 1919-20, nonché a dare voce autonoma ai contadini del Mezzogiorno con la fondazione di una loro Associazione. Il dramma di Gramsci dirigente politico del 1924-26 è in questa contraddizione tra la ricchezza del momento costruttivo della sua elaborazione politica e organizzativa, che trova una piena sistemazione al III Congresso del PCI a Lione nel gennaio del 1926 (dove egli con Togliatti conquista più dei 90 per cento dei consensi alla nuova piattaforma politica) e i rapporti di forza ormai così sfavorevoli da non lasciare più nessun margine né di «legalità» né di ripresa rivoluzionaria clandestina.

Gramsci è arrestato nei giorni in cui scrive uno dei suoi saggi più illuminati, alcuni temi della questione meridionale: l'arresto avviene l'8 novembre del 1926 presso la famiglia Passarge, nella cui casa, dalle parti di Porta Pia, ha affittato una stanza sin dal 1924. Non è riuscito a stornare la sorveglianza assidua della polizia e forse non ha neppure voluto evitare la cattura.

 

A Mosca è tornata, frattanto, Giulia, in attesa del secondogenito, Giuliano, che il padre non vedrà mai. I due sposi, prima che la tragedia si abbatta su di loro, hanno passato qualche settimana di vacanza in Alto Adige, l'unica vacanza della vita di Gramsci. Dal novembre del 1926, i suoi spostamenti per anni ed anni sono soltanto quelle «traduzioni» da un carcere all'altro, di cui vi è un'eco di raccapriccio nelle lettere del detenuto: da Regina Coeli di Roma al carcere del Carmine di Napoli, il 25 novembre, di qui all'Ucciardone di Palermo, destinazione l'isola di «confino», Ustica, il 7 dicembre. Il 20 gennaio del 1927, per diciannove giorni, il prigioniero, con le manette ai polsi, attraversa tutta la penisola, sostando in varie celle di transito, da Palermo a Napoli, a Cajanello, Isernia, Sulmona, Castellamare Adriatica, Ancona, Bologna, per giungere a Milano, nelle carceri giudiziarie di San Vittore, il 7 febbraio. Più di un anno Gramsci trascorre a Milano, fino al maggio del 1928 quando è ricondotto a Roma, dinanzi al Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Ivi si svolge il cosiddetto «processone» contro il gruppo dirigente comunista (Gramsci, Terracini, Scoccimarro, Roveda, ecc.). Il pubblico ministero Isgrò afferma nella sua requisitoria, additando il segretario del PCI: «Per vent'anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare». La condanna a venti anni (e quattro mesi e cinque giorni) giunge puntuale, ma quel cervello non si arresta certo dal funzionare.

 

Cronaca di uno «Show-process»

Il processo contro la Centrale comunista si apre a Roma lunedì 28 maggio 1928. Ventidue gli imputati. Affollano la gabbia dell'aula decima sei deputati: tra loro il segretario generale del PC d'Italia Antonio Gramsci, e alcuni dirigenti di maggior spicco del partito: Umberto Terracini, avvocato, Mauro Scoccimarro, impiegato in Ferrovia, laurea in Economia e Commercio e Giovanni Roveda, operaio litografo.

Sono in carcere dall'autunno del 1926. La detenzione in attesa di giudizio si è prolungata oltre misura - un anno e mezzo - per l'inedita particolarità del caso, avendo i magistrati militari del Corpo d'armata di Milano - cui il Tribunale speciale fascista ha delegato l'istruttoria - il compito malagevole di dare fisionomia di delitto a fatti politici che, quando furono compiuti, l'ordinamento giudiziario considerava leciti. Agli inquirenti è tuttavia chiesto personalmente da Mussolini di affermare comunque la pericolosità sociale degli arrestati. E lo spirito servile prevarrà.

Gramsci era stato arrestato e imprigionato a Regina Coeli l'8 novembre 1926, deportato al confino di Ustica in dicembre, raggiunto da mandato di cattura e trasferito a San Vittore di Milano in gennaio, il 12 febbraio 1927 racconta, in una lettera alla cognata Tatiana Schucht, il tremendo viaggio di traduzione da Palermo (diciannove giorni attraverso vari carceri della Penisola).

Il Palazzo di Giustizia di Roma si specchia sul Tevere poco distante dal Vaticano. È un gigante di travertino, un sovraccarico di colonnati, di balaustre, di ornati, di statue degli oratori-avvocati dell'antichità, di bronzi allegorici della Legge e della Giustizia. Compongono la Corte giudicante non magistrati civili e neanche militari. A irrogare pene sono chiamati ufficiali d'un corpo armato di parte inventato da Mussolini (la Milizia fascista) in più casi digiuni d'ogni rudimento del diritto. Non esistono i gradi successivi del giudizio (né appello né ·Cassazione). La sentenza del Tribunale speciale è inappellabile.

È probabile che tra i calcoli del duce ci sia quello di fare del processo contro il gruppo dirigente comunista un uso propagandistico, di dargli echi forti per procurarsi il consenso delle correnti d'opinione liberali, riluttanti al fascismo ma in pari tempo spaventate dai fatti di Russia.

La previsione è però contraddetta: il dibattimento, impiantato per essere un processo spettacolare al comunismo, è rovesciato invece da uomini abili, colti, risoluti in un processo al fascismo.

Sui quotidiani italiani, niente più che il vago dispaccio dell'agenzia ufficiale Stefani. E sul Corriere della Sera di martedì 29 maggio 1928, la cronaca dell'udienza inaugurale è in quarta pagina, titolo su una colonna: «Il processo contro i membri del Comitato del Partito comunista», e di seguito appena 29 righe, meno spazio di quello dato alle altre notizie giudiziarie.

Pesanti sono le condanne: una grandinata di anni di galera.

 

Sette anni di carcere hanno portato Gramsci alla rovina fisica: ma non cede. Il frutto delle riflessioni e degli studi di Gramsci in carcere è consegnato alle pagine delle note carcerarie, raccolte nei Quaderni. Si tratta di trentatre quaderni, ventuno dei quali riempiti nel carcere di Turi di Bari in cui Gramsci è ristretto dal luglio del 1928 sino al novembre del 1933, gli altri nella clinica di Formia, dove viene ricoverato, sempre in stato di detenzione, sino all'agosto del 1935.

Nel novembre 1933 lascia il carcere di Turi e il 7 dicembre 1933 entra nella clinica Cusumano di Formia. La salute è compromessa. Il 25 ottobre 1934 ricorrendo le condizioni previste dall' art. 176 del codice penale, gli accordano la liberazione condizionale. Muore, a quarantasei anni a Roma, nella clinica Quisisana, il 27 aprile 1937.

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Le “Lettere dal carcere”

12 Décembre 2010 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

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Le “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci sono uno dei documenti più umani, e nello stesso tempo culturalmente e politicamente più importanti.

In primo piano sta una tragedia personale. Sono, quasi tutte, lettere familiari. Le prime portano la data, del novembre 1926 allorquando Antonio Gramsci, segretario del PC d’Italia, fu arrestato nonostante non avesse violato alcuna legge e fosse un parlamentare. Arrestato, confinato, processato, condannato a vent’anni di reclusione. Le ultime risalgono all'inizio del 1937. Gramsci sta per morire: il fascismo è riuscito ad ucciderlo lentamente.

Le lettere sono indirizzate a due nuclei familiari. C'è la famiglia d’origine, sarda, numerosa. A casa, a Ghilarza, vivono il vecchio padre, la madre, le sorelle. Antonio è il quarto dei sette figli di Francesco Gramsci e di Peppina Marcias. Da tempo è lontano dai paesi natii, posti nel mezzo dell'isola («Come mi piaceva da ragazzo la valle del Tirso sotto San Serafino ...»), c'è tornato per pochi giorni due volte, di sfuggita. Quando viene arrestato ha trentacinque anni è un uomo giovane; quando muore, il 27 aprile 1937, ne ha appena compiuti quarantasei. I corrispondenti da casa, da Ghilarza, sono la madre, due delle tre sorelle, Teresina e Grazietta, oltre a un fratello minore, Carlo, che vive sul continente, a Milano.

L'altra famiglia, quella acquisita, è russa. La moglie, Giulia Schucht, gli ha dato due bambini, Delio e Giuliano. C’è una sorella maggiore di Giulia, Tatiana, l'unica costante corrispondente del detenuto. Tatiana è straordinariamente affettuosa verso il congiunto.

Tatiana, inoltre, trasmette desideri, richieste pratiche, domande culturali o giuridiche di Antonio, all'altro personaggio che sta un po’ nell’ombra ma sempre presente, l'amico più caro di Gramsci, Piero Sraffa. Questi, antifascista, torinese, vicino ai comunisti che ha conosciuto nella prima giovinezza (quelli dell'«Ordine Nuovo»), insegna a Cambridge ed è un economista di grande valore.

A volte nelle lettere, dibattendo di questa o quella questione (le razze, ad esempio) Antonio ne approfitta per fornire uno spaccato autobiografico, persino da albero genealogico: «lo stesso non ho razza; mio padre è di origine albanese recente (la famiglia scappò dall'Epiro dopo o durante la guerra del 1821 e si italianizzò rapidamente); mia nonna era una Gonzales e discendeva da qualche famiglia italo-spagnola dell'Italia meridionale (come ne rimasero tante dopo la cessazione del dominio spagnolo); mia madre è sarda per il padre e per la madre, e la Sardegna fu unita al Piemonte solo nel 1847 ... Tuttavia la mia cultura è italiana fondamentalmente e questo è il mio mondo».

Un altro tema delle lettere è quello dei figli, della loro crescita, della loro educazione. Delio è il più grande e Antonio, il padre, l'ha tenuto in braccio appena nato; Giuliano, invece, non ha mai potuto conoscerlo. Giulia ha lasciato l'Italia quando ne era incinta.

Il significato più vero della testimonianza di Antonio Gramsci, del suo martirio, è contenuto in una delle prime lettere alla madre (che morirà senza poterlo rivedere, così come il vecchio padre, che si spegnerà a settantasette anni di crepacuore alla notizia della morte del figlio). Antonio scrive alla mamma preoccupato che lei possa in qualche maniera «vergognarsi» dinnanzi agli altri perché lui è in carcere, non vuole che si turbi per qualunque condanna gli venga inflitta: «In fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perché non ho voluto mai mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione».

Gramsci si spegne nella clinica romana dove era ricoverato dal 24 agosto 1935. Si spegne all'alba del 27 aprile 1937. Da pochi giorni poteva considerarsi libero avendo scontato la pena che era stata ridotta, via via, dalle amnistie del regime (ma un questurino sostava comunque alla portineria della clinica e anche al funerale, seguito da Tatiana e dal fratello Carlo, vi erano più poliziotti che familiari). Gramsci, pensando, prima della crisi finale, a dove sarebbe potuto andare se fosse stato dimesso dalla casa di cura, aveva in mente due «rifugi», le due mete sentimentali delle sue lettere. Aveva chiesto alle sorelle di trovargli una camera a Santu Lussurgiu e aveva già pronta una domanda di espatrio per raggiungere Julca, Delio e Giuliano a Mosca.

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Dopo la Liberazione. Epurazione ed amnistia: gli obiettivi mancati

9 Décembre 2010 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #il fascismo

Già nel 1943, conseguentemente alla caduta di Mussolini ed allo scioglimento delle organizzazioni fasciste, erano state previste delle sanzioni che avrebbero dovuto colpire i responsabili della dittatura.

Inoltre si trattava di ripulire la pubblica amministrazione da coloro che avessero tratto indebiti benefici anche soltanto grazie ad ambìti avanzamenti di carriera, ottenuti unicamente per "benemerenze fasciste".

Dopo la liberazione di Roma, allorché venne costituita la Repubblica sociale italiana ed i suoi aderenti ripiegarono al nord del Paese, da parte del governo legittimo venne emanato un primo decreto legge luogotenenziale, in data 27/7/1944 n.159, intitolato "Sanzioni contro il fascismo".

Il decreto prevedeva:

l - Epurazione della pubblica amministrazione

2 - Punizione dei delitti fascisti (ante e post 8 settembre 1943)

3 - Avocazione dei profitti di regime

Il decreto recava le firme di tutti i rappresentanti del Comitato di Liberazione Nazionale.

Tra l'altro esso prevedeva la retrocessione dal grado ed il rinvio ai ruoli di provenienza di tutti i funzionari dello Stato che avessero, dopo l' 8 settembre, seguito al nord il Governo re­pubblicano fascista o, in ogni caso, gli avessero prestato collaborazione.

Si considerava inoltre il riesame e l'eventuale punizione dei delitti fascisti perpetrati sin dal 28/10/1922 che avevano consentito l'instaurazione della dittatura, e successivamente, tutte le forme di collaborazione con il tedesco invasore, delitti commessi che avrebbero dovuto essere sottoposti alle norme del Codice militare di guerra.

Dimessi 200 senatori

Contemporaneamente vennero dichiarati decaduti dalla carica oltre duecento senatori le cui responsabilità furono accertate da una Speciale Corte di Giustizia, che li ritenne responsabili di avere, con i loro voti e con i loro atti, collaborato alla entrata in guerra del Paese, con le drammatiche conseguenze che ora apparivano sotto gli occhi di tutti.

E' alquanto paradossale constatare che il decreto venne firmato dal Luogotenente del Regno, ossia l'erede del monarca Vittorio Emanuele III, al quale si dovevano imputare le maggiori e più gravi responsabilità.

Venne nominato un Alto Commissario, assistito da Commissari aggiunti, ed in ogni provincia furono istituite delle Commissioni per l'epurazione composte da un magistrato, un funzionario di prefettura ed un membro designato dall'Alto Commissario.

Ciò evidentemente per il territorio non più sottoposto ai nazifascisti, ma le stesse regole vennero adottate anche nel resto del Paese all'indomani della sua totale liberazione.

E' facilmente comprensibile la complessività e la mole di lavoro che si presentava a coloro che erano stati designati a tale compito. Presto si sarebbe dovuto constatare come fosse stato ottimistico il giudizio che era stato espresso sullo svolgimento di tale attività, in quanto le norme potevano prestarsi ad interpretazioni di merito e soggettive, sfociando talvolta in criteri di esagerato rigore e tal'altra di eccessiva tolleranza.

Forse anche, aggiungiamo noi, non si era valutato nella effettiva realtà, l'enorme numero di italiani compromessi in un modo o nell'altro col regime.

Vi è da dire che da un primo esame dell'attività svolta dall'Alto Commissario alla data del 31/12/1944, le segnalazioni ottenute dalle varie amministrazioni, per lo più in base ad ordinanze del Governo militare alleato, risultarono ben 2900 contro solo 1258 dell'Alto Commissario aggiunto. Così, dall'attività delle Commissioni di primo grado, su un totale di 3588 casi sottoposti a giudizio di epurazione, 597 furono risolti con la dispensa dal servizio, 1461 con lievi sanzioni e 1530 con il proscioglimento.

Eccessiva tolleranza da parte degli inquirenti o, sotto sotto, un diffuso senso di omertà affiorante dalle coscienze inquiete di tanti italiani?

Seguirono poi un gran numero di ricorsi, generalmente accolti anche, particolarmente dopo al nord, come conseguenza dei mutamenti del clima politico del Paese ed in relazione alle prime avvisaglie di un mondo diviso in due blocchi sostanzialmente opposti.

Tutto ciò si riferisce in un primo tempo a quanto accadde nell'Italia liberata, il che non si discosta però dagli esiti che successivamente si registrarono in tutto il Paese a liberazione avvenuta, coinvolgendo e compromettendo spesso anche l'attività delle Corti d'Assise straordinarie e in minor misura i deliberati di primo grado della magistratura ordinaria.

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La mancata epurazione fra i funzionari

Da una ricerca sull' argomento è risultato infatti che ancora nel 1960, su 64 prefetti di prima classe in servizio, ben 62 erano stati funzionari degli Interni durante la dittatura fascista e, su 241 vice-prefetti, tutti indistintamente avevano fatto parte dell'amministrazione dello Stato negli anni del fascismo.

Inoltre, su 135 questori, 120 avevano fatto parte della polizia fascista e su 139 vice-questori, solo 5 risultavano aver contribuito in qualche modo alla Lotta di Liberazione.

Per contro, nel nuovo clima instauratosi dopo la proclamazione della Repubblica nei confronti dei partigiani e degli antifascisti, i provvedimenti di clemenza furono adottati in maniera palesemente restrittiva, mentre nello stesso tempo, la maggior parte dei funzionari epurati veniva reintegrata con la liquidazione degli arretrati e delle spettanze che erano state loro tolte a seguito dei provvedimenti di epurazione.

Dopo queste per necessità, succinte considerazioni, è d'obbligo esprimere alcune riflessioni sul decreto d'amnistia che, per motivi diversi e seri, contribuì ad una soluzione negativa del problema della defascistizzazione del Paese. Risultato questo che invece, avrebbe potuto essere fondato oltre che su di una giusta punizione, anche e soprattutto, su di una personale e convinta autocritica da parte di quanti si erano infatuati della dittatura o, ancor peggio, avessero, per interessi privati, coinvolto ai vari livelli le istituzioni e gli organi amministrativi. Particolarmente negli anni Cinquanta, ma anche dopo e tuttora, quando si parla di amnistia, si ascoltano giudizi ed opinioni diverse che, come spesso accade, trovano sempre, in maniera spiccia e disinvolta, il solito capro espiatorio al quale addossare colpe e responsabilità.

 

  

Il compromesso: l'amnistia

Una analisi seria venne fatta, alla fine del 1947, da Alessandro Galante Garrone

 

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con un saggio dal titolo: Crisi della Resistenza, nella cui premessa scriveva:

"Non eravamo animati da spirito di vendetta. Non avevamo la pretesa che la magistratura dovesse infierire per mesi e anni contro tutti i responsabili ed i complici, maggiori e minori, del fascismo, per tener fede agli ideali della Resistenza. Non chiedevamo che su tutti i colpevoli del fascismo eternamente gravasse una maledizione inesorabile.

 

Sapevamo che i compagni caduti sulla via della nostra liberazione e del nostro riscatto non avevano combattuto per opprimere i loro oppressori.

E sentivamo anche, con obiettività di magistrati e coscienza di cittadini, che letterale applicazione non avrebbero potuto trovare tutte le norme stabilite per la punizione dei delitti dal legislatore di Roma (quanto lontano e remoto, in quei giorni della Resistenza, allorché ci pervenne il testo del decreto Bonomi, quel governo legittimo che non aveva mai dichiarato ribelli e fuori legge i collaborazionisti del Nord!); perché troppo iniquo e profondo sarebbe stato lo sconvolgimento della nazione se tutte le forme di collaborazione con il tedesco invasore, anche le meno gravi, fossero state colpite come la lettera della legge avrebbe voluto con tanto severo rigore.

Ma ci saremmo ribellati, allora, come cittadini e magistrati se ci avessero detto che i governi e la magistratura della nuova Italia avrebbero tutto, o quasi tutto, cancellato e ricoperto con il velo pietoso dell'oblio e del perdono: tutto, anche le colpe più gravi e le responsabilità più grandi. Ed invece è stato così: ed oggi, a trenta mesi dalla liberazione, non ci resta che il gramo e malinconico compito di un triste e doloroso bilancio".

 

Lo scritto di Galante Garrone si chiude con una severa critica ai modi in cui venne applicato il decreto d'amnistia, per l'indeterminatezza di alcuni articoli della legge che prevedevano giudizi necessariamente severi ma lasciavano ampio margine all’interpretazione.

Era il caso soprattutto di quegli enunciati che condizionavano la pena al fatto di aver commesso:

- atti rilevanti nell'aver contribuito a mantenere in rigore il regime fascista

- stragi particolarmente efferate verso popolazioni e partigiani

- attività antinazionale con prolungate forme di intelligenza, di competenza o di collaborazione con i tedeschi.

Tali formulazioni lasciavano ampio spazio a cavilli, giustificazioni e spesso anche all'impiego di testimonianze favorevoli all'accusato, anche da parte di coloro che i fascisti avevano in vario modo perseguitati.

A completare l'opera sopraggiunse il Decreto Luogotenenziale del 4/8/1945 che garantiva l'amnistia a tutti coloro che, pur avendo collaborato con la RSI ed il tedesco invasore, avessero aiutato in qualche modo i partigiani.

Ne risultò che tutti poterono avanzare benemerenze che, nella maggior parte dei casi, si erano precostituite in vista del crollo finale.

Non soltanto questi furono gli elementi che determinarono il fallimento dell'epurazione, motivazioni e responsabilità diverse ne contribuirono l'inefficacia.

 

Esempio nella provincia di Como

Anche nel caso dell' epurazione nella provincia di Como, emerge come nella maggior parte dei procedimenti di primo grado il giudizio e le sentenze della magistratura furono ispirate ad un corretto senso di giustizia ed equità. Furono gli esiti dei ricorsi sia in Appello sia, peggio ancora, in Cassazione che, con interpretazioni unilaterali e nella maniera più formale del decreto di amnistia, spalancarono i cancelli delle prigioni anche ai maggiori responsabili ed ai seviziatori fascisti.

Sarebbe comunque ingiusto addossare tutte le responsabilità ai politici per il decreto prima e l'amnistia poi, soltanto ed unicamente ad essi od alla magistratura. E' necessario tener conto anche di· altri fattori, non meno importanti, che sicuramente stanno all'origine del parziale fallimento dell'epurazione.

E' notorio come la Resistenza e i CLN, svestiti da ogni tentazione che ne facciano dei miti, non fossero un blocco omogeneo anche se, pur tra difficoltà e contrasti, le diverse forze si sforzassero di agire unitariamente.

Inoltre l'Italia si trovava divisa in due: il Meridione sotto l'influenza alleata inglese ed americana, ciascuno con la propria collocazione politica ed istituzionale, ossia gli inglesi filo monarchici e gli americani democratici o repubblicani e il Nord occupato dai tedeschi con il governo fantoccio di Salò.

All'interno poi dei CLN convivevano comunisti, socialisti, azionisti da una parte e cattolici, liberali e monarchici dall'altra, ognuno con le proprie diversità più o meno palesi.

Tutto ciò non poteva non influire sui risultati finali dell'epurazione anche perché, per affrontare la Lotta di Liberazione, fu giocoforza accantonare la questione istituzionale, monarchia o repubblica, sia per facilitare la partecipazione delle forze militari in buona parte legate alla tradizione monarchica, sia anche perché ciò costituiva la condizione sine qua non per l'appoggio e l'aiuto da parte degli Alleati.

E' fondamentale poi considerare come il concetto di Lotta di Liberazione, mentre da parte di una collocazione politica ed ideologica significava soltanto la liberazione dalla occupazione nazifascista per una democrazia parlamentare erede, sia pure con i dovuti aggiornamenti, di quella prefascista, dall'altra essa rappresentava soltanto l'obiettivo primario, la premessa per una società di tipo nuovo che traesse la sua ispirazione da taluni principi basati su di un profondo rinnovamento di carattere etico-sociale e amministrativo, oltre che su quelli di carattere economico improntati ad una maggiore giustizia sociale.

Ad eccezione della Cassazione, da sempre più vicina ai poteri vecchi e nuovi, e i cui rappresentanti provenivano dal fascismo, al quale molti dovevano le loro rapide e prestigiose carriere, la magistratura stessa era divisa in due categorie: una, più sensibile alle dolorose vicende delle vittime del nazifascismo, per i suoi delitti e le sue stragi, l'altra, non sempre da considerarsi filofascista, che si atteneva scrupolosamente alle norme dei codici.

Codici che in gran parte erano il frutto di quella legislazione che nel ministro di Grazia e Giustizia Alfredo Rocco aveva trovato ispirazione ed applicazione sia con l'avallo di Mussolini sia, il che fu ancor più grave, dell'inetto monarca.

 

da un articolo di Giusto Perretta in “Monito della storia. Dalla Liberazione alla guerra fredda 1945-1948”. Numero unico a cura dell’Istituto di Storia Contemporanea Pier Amato Perretta – Como, aprile 1999

 

Giusto Perretta

Nasce a Napoli il 5 luglio 1919; giunge con la famiglia a Como nel 1921. Diplomatosi perito edile, nel 1938 viene chiamato alle armi e destinato ad Homs (Tripolitania) nella Divisione “Sirte”; partecipa quale Tenente di artiglieria contraerea con il Gruppo Divisioni Libiche all’avanzata su Sidi El Barrani. E’ catturato nel dicembre del 1940 nel corso della controffensiva inglese e trattenuto quale prigioniero di guerra in India fino al 1946.

La guerra è particolarmente tragica per la famiglia Perretta: nel 1941 il fratello Fortunato cade sul fronte greco-albanese; l’altro fratello Lucio viene deportato in Germania dopo l’8 settembre 1943 e internato per due anni, inoltre nel settembre 1944 il padre Pier Amato, avvocato antifascista espulso dalla magistratura e dirigente della Resistenza viene ucciso a Milano dai nazifascisti.

Rientrato a Como nel 1946, Giusto Perretta svolge l’attività lavorativa in città, poi a Milano nel settore della Cooperazione come Vice Presidente della Coop Lombardia dedicandosi nello stesso tempo all’impegno civile e politico. E’ Segretario quindi Presidente dell’ANPI e Consigliere provinciale per una legislatura. Da membro dell’Istituto Lombardo del Movimento di Liberazione, nel 1977 promuove la fondazione dell’omonimo Istituto Comasco, del quale ricopre la carica di Direttore fino al 1994, poi quella di Presidente fino all’aprile del 1997. Nel corso di questa attività è fra l’altro promotore della nascita a Como del Monumento alla Resistenza europea. E’ stato autore di numerosi studi di storia locale su Resistenza e Cooperazione è stato insignito dell’Abbondino d’oro da parte del Comune di Como.

 

 

 

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