Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

Oreste Parma

13 Mai 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #storie di lissonesi

unico sopravvissuto lissonese del lager di sterminio di DORA
 

 

  

 

          " Ti hanno dato un nome di donna, Dora.

          Avresti dovuto rasserenare le fronti  affaticate.

          Ti hanno dato un nome di donna, Dora,

          per ingannarci ancora una volta.

          Tu eri, Dora, una donna di pietra.

          Migliaia e migliaia ti son morti tra le

          braccia,

          migliaia ti hanno maledetta,

          il tuo respiro era gelido,

          il tuo sorriso era di ghiaccio

          e il tuo bacio avvelenato. "

 

                 Stanislas Radimecki

                 Deportato ceco

 

 

 

Nato a Lissone il 7/06/1919, morto a Lissone il 25/06/1988.

 

Arruolato come soldato nell’Artiglieria, all’inizio della II guerra mondiale fu inviato prima sul fronte francese poi su quello greco-albanese. Quando arrivò l’8 settembre 1943 era di presidio nelle isole Cicladi, avendo l’Italia l’occupato la Grecia.  

Nella tarda serata dell’8 settembre 1943 cominciò a circolare la notizia, non controllata e attinta non si sapeva bene da quale fonte, che un armistizio era stato concluso fra l’Italia, l’Inghilterra, l’America e la Russia. La situazione si presentava oscura, greve di incognite.

I tedeschi diedero il via all’operazione “Achse”; il piano mirava a neutralizzare le forze italiane dislocate nel mare Egeo. L'irresolutezza e la contraddittorietà dell'atteggiamento dei comandi furono alcuni dei motivi che determinarono la caduta del presidio di Rodi e dell'intero Egeo, dove pur non mancarono ufficiali capaci e coraggiosi che seppero prendere l'iniziativa e battersi con accanimento.

Una direttiva tedesca del 15 Settembre 1943 per il trattamento degli appartenenti alle Forze Armate italiane precisava con frase lapidaria: “chi non è con noi, è contro di noi”.

I militari italiani dovettero scegliere: con o contro i tedeschi, dividendosi in due gruppi. La decisione fu unanime, tutti si schierano contro.

Disarmati, come prigionieri vennero portati in nave al Pireo, il porto di Atene da dove iniziò il lungo viaggio verso i campi di concentramento in Germania su vagoni ferroviari piombati.

L’obiettivo di Hitler era quello di eliminare dallo scacchiere della guerra uomini che, eventualmente schierati sul fronte opposto, avrebbero potuto creare problemi alle sue armate e, nello stesso tempo, recuperare braccia da impiegare nell’industria tedesca.

Inizialmente considerati “prigionieri di guerra”, la loro qualifica mutò presto in “IMI internati militari italiani”.

Oreste Parma fu in quella frazione di internati militari che finì, con percorso anomalo, in un Lager KZ (da Konzentrationslager = campi di concentramento per prigionieri politici) anziché nei campi di concentramento e detenzione per IMI.

Il nome del lager in cui venne rinchiuso era Dora. Dora non è un nome di donna, come si dice nella poesia, ma la sigla delle parole Deutsche Organisation Reichs Arbeit, dove rimase per circa 20 mesi. Le condizioni dei deportati erano particolarmente dure, per il troppo lavoro, per la cattiva alimentazione, e per le percosse a cui spesso erano sottoposti.

Durante i 20 mesi trascorsi nel Lager di Dora, a causa del suo deperimento fisico dovuto alla scarsa alimentazione, Oreste Parma rischiò anche di essere fucilato non avendo prontamente risposto agli ordini di un Kapò. Destino volle che, a differenza di Aldo Fumagalli, un altro lissonese morto a Dora, Oreste riuscisse a tornare nell’agosto del 1945 a Lissone.

 

Il campo di Dora

“ Si trovava a 5 chilometri da Nordhausen, alle pendici del Harz nella Turingia.

Ciò che avveniva nel Hartz, al centro della Germania, veniva tenuto assolutamente segreto, tanto che per un raggio di 50 chilometri tutt'intorno, occorreva uno speciale permesso per transitare.

Non so quale fosse stato il criterio per la scelta della località, ma credo che i tedeschi la ritenessero particolarmente sicura, e infatti, durante tutta la mia permanenza, non una bomba colpì mai la zona.

Nell'ottobre 1943 il campo si presentava come una vallata disboscata con grandi sbancamenti di terreno per tracciare strade e spiazzi dove costruire baracche.

Il perimetro del campo era recintato con pali in cemento collegati fra loro da filo spinato e alimentato da corrente elettrica ad alta tensione. All'interno della recinzione, a distanza di qualche metro fra loro, dei paletti recavano cartelli segnalanti il pericolo di morte.

Fuori dal recinto erano montate le garitte alte circa 10 metri per i militi SS di guardia, armati di mitra. Potenti riflettori illuminavano a giorno il campo nelle ore notturne.

All'inizio il Dora era un sottocampo alle dipendenze di Buchenwald, ma alla fine dei lavori, nel '44, divenne campo principale con 7 sottocampi e 32 Kommandos di lavoro esterni. L’importanza, assunta nel tempo dal Dora, era dovuta al fatto che qui si costruiva la famosa arma segreta dei tedeschi, quella che secondo Hitler avrebbe determinato la vittoria nazista.

 

 

E’ evidente quindi l'importanza strategica·del Dora come fabbrica bellica; i deportati qui reclusi dovevano allestire le strutture abitative e i servizi minimi per la sopravvivenza dei lavoratori forzati e terminare la costruzione di un tunnel sotterraneo, dove alloggiare la catena di montaggio per i micidiali missili V1 e V2.

 

Il tunnel, a lavoro ultimato, si presentava come un piccolo paese sotterraneo e consisteva in due grandi gallerie parallele lunghe circa due chilometri, collegate da 52 gallerie trasversali. In queste ultime erano posti i poveri giacigli dei detenuti addetti alla costruzione, che potevano restare per settimane in quella tomba senza vedere la luce del sole.

Dati risalenti al 25 marzo 1945 riportano un numero di 34.521 prigionieri internati, appartenenti a 17 nazionalità diverse.

Ogni internato, sulla casacca a righe, portava il proprio numero di matricola ed un triangolo diversamente colorato per distinguere la categoria cui apparteneva.

 

Triangolo rosso per i deportati politici tedeschi

Triangolo rosso con la sigla della propria nazione, per i deportati politici stranieri (noi eravamo IMI, cioè Italiani Militari Internati e portavamo nei primi tempi al braccio una fascia tricolore)

Triangolo verde per i delinquenti comuni

Triangolo verde con S per i delinquenti comuni condannati all'ergastolo

Triangolo nero per gli asociali

Triangolo rosa per gli omosessuali

Triangolo viola per gli zingari

Triangolo azzurro per gli apolidi

Triangolo granata per i testimoni di Geova Stella gialla per gli ebrei

Triangolo giallo con sovrapposto triangolo rosso per gli ebrei detenuti politici.

 

Nel progetto nazista quindi, il campo Dora aveva più funzioni; se lo scopo primario era la costruzione dell'arma segreta, non si rinunciava comunque allo sterminio dei "diversi" dalla razza ariana, al lavoro forzato dei condannati di reati comuni, all'eliminazione degli avversari politici, alla sperimentazione medica su cavie umane.

 

.. inquadrati, in divisa, come forza lavoro se adatti …

E' questo un esempio "luminoso" di razionalità ed organizzazione, dove tutto è calcolato tranne una cosa: il valore della vita umana.”

(da “Educare alla pace” di Lucia Araldi Editore Mattioli 1885 Fidenza 2002)

 

Nel 1975 alcuni superstiti di Dora iniziarono a trovarsi a Salsomaggiore.

 

Nel 1984 il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, con l’allora Ministro della Difesa Giovanni Spadolini, conferì ad Oreste Parma il Diploma d’Onore di Combattente per la Libertà d’Italia.

 

Inoltre, nel 1984, vi fu un riconoscimento da parte del governo tedesco.

 

Nel 40° anniversario della Liberazione, l’associazione Nazionale Combattenti e Reduci di Lissone, Presidente Fortunato Arosio, e l’Amministrazione Comunale, Sindaco Angelo Cerizzi, consegnarono una targa d’argento come “Onore al merito” “all’ex combattente deportato politico ORESTE PARMA unico sopravvissuto Lissonese del lager di sterminio di DORA-BUCHENVALD”.

 

 

 

 

Il fazzoletto che Oreste Parma indossava alle celebrazioni del 25 aprile, a cui non mancava mai, e ai raduni dei superstiti del lager di Dora a Salsomaggiore dove esiste il monumento al deportato.

Bianca e azzurra era la casacca a righe che indossavano i reclusi nel lager. Il triangolo rosso con l’iniziale della nazione di appartenenza contraddistingueva gli italiani.

Oreste Parma è morto il 25 giugno 1988, all’età di sessantanove anni, nella sua casa di Via San Carlo a Lissone.

Oreste «Non ha più avuto una vita normale; non ha mai potuto dire che tutto andasse bene … »

Come dice Shlomo Venezia, un altro sopravvissuto ai lager, « tutto mi riporta al campo qualunque cosa faccia, qualunque cosa veda, il mio spirito torna sempre allo stesso posto … non si esce mai davvero …


Ringrazio la moglie Adelaide Baragiola per avermi reso partecipe delle vicissitudini di suo marito. (RP)

                                               ____________________

Una sofferta testimonianza di Oreste Parma, “un uomo fiaccato nello spirito e sfibrato nel fisico” raccolta da Giuseppe Pizzi

 

«Visitando il sito dell’ANPI Lissone  mi sono imbattuto nella figura di Oreste Parma, una persona che ho conosciuto e riconosciuto nella foto (a suo tempo mi era noto con un diminutivo “Parmen”, come si usa a Lissone).

In piazza Libertà, nel luogo della farmacia di oggi c'era allora il bar con annessa pasticceria del Dante e della Lina dove la combriccola di studenti di cui facevo parte era solita bivaccare soprattutto nelle sere d'estate quando, liberi da incombenze scolastiche, potevamo tirar tardi senza provare sensi di colpa.

Sarà stato suppergiù il 1957-58, io ero poco più di un ragazzo ma il bar era frequentato da un folto gruppo di 30-40enni, tra questi anche l'Oreste, ai quali fascismo e guerra avevano in vario modo bruciato la gioventù.

Siccome gli uomini, quando si trovano fra di loro, finiscono per parlare di avventure giovanili, quelle che avidamente ascoltavo nelle serate estive della mia pacifica giovinezza erano quasi sempre storie di guerra, per la verità perlopiù storie di scanso della guerra cioè di renitenza alla leva repubblichina: fughe, nascondigli, travestimenti, l'intero repertorio della condizione di imboscato arricchito da un contorno di particolari boccacceschi che trascinavano a una sguaiata ilarità.

Una sera ha parlato anche l'Oreste e l'uditorio s'è fatto subito muto.

Sebbene siano passati una sessantina d'anni ne ho un ricordo vivo e dettagliato, a voce bassa e rotta dall'emozione come se si vergognasse di aver visto e patito l'inferno, si è messo a raccontare l'esistenza nel campo di DORA, presso Nordhausen, dove era malcapitato dopo l'8 settembre quale militare italiano "traditore", gelo, fame, vergate, lavoro massacrante, crudeltà inimmaginabili, diceva di aver visto un prigioniero affogare in un secchio d'acqua sotto il tallone di un carceriere. Ero allora cosciente, e lo sono tuttora, di ricevere la sofferta testimonianza di un uomo fiaccato nello spirito e sfibrato nel fisico -- fatiche stenti percosse gli avevano rovinato i reni (nel lager gli accadeva di pisciar sabbia), un male che i miasmi del suo mestiere di lucidatore di mobili non aiutavano a curare -- un uomo che dell'incubo di Dora non si sarebbe sbarazzato mai.

All'arrivo dei sovietici i superstiti erano ridotti a larve scheletriche e impaurite. Un internato ex-macellaio aveva il compito di squartar bestiame requisito alle fattorie vicine per farne bistecche che rimettessero rapidamente in forze quei poveri corpi macilenti. Illusione, i lunghi digiuni avevano rattrappito a tal punto lo stomaco di Oreste e dei suoi compagni da fargli passare il giorno e la notte a mangiare e vomitare.

I liberatori, principalmente i mongoli come nel campo venivano chiamati tutti i militari sovietici provenienti dalle repubbliche asiatiche dell'URSS, agivano anche da giustizieri. Niente istruttorie e niente processi, sia pur sommari, bastava che un prigioniero puntasse il dito contro un tedesco e glielo falciavano all'istante con una scarica di fucile mitragliatore.

Nel racconto di Oreste, per accanimento vendicativo si distinguevano i francesi e, ancor più dei francesi, i belgi. Aveva assistito alla raccapricciante esecuzione di un carceriere tedesco - scovato chissà come nei dintorni del campo - per mano di prigionieri belgi armati di un pungiglione. A turno gli avevano inflitto il supplizio di San Sebastiano, centinaia di punture su ogni parte del corpo fino a lasciarlo esanime in un lago di sangue.

Nella mente di Oreste non c'era però posto per intenti di vendetta, tutti i suoi pensieri erano rivolti al ritorno a casa dove sperava, dopo 20 mesi di calvario, di recuperare salute, fiducia e serenità.

Chi l'ha conosciuto sa che non era possibile».

Lire la suite

il significato della Resistenza per alcuni cittadini lissonesi

6 Mai 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #storie di lissonesi

25 APRILE 1970

VENTICINOUESIMO ANNIVERSARIO DELLA LIBERAZIONE

Di seguito sono riportate le dichiarazioni rilasciate dai membri del locale Comitato di Liberazione Nazionale e dal comandante militare del distaccamento della Brigata Garibaldina in occasione del venticinquesimo anniversario della Liberazione (1970).

 Cittadini consapevoli che il dissolvimento della dittatura fascista avrebbe procurato alla nazione caos, disordini e reazioni incontrollate; cittadini non curanti del pericolo di esporsi all'ira della polizia nazifascista si cercarono, si parlarono, si compresero: unirono le forze, le capacità, "organizzazione dei partiti politici clandestini dando così vita ed inizio ai Comitati di Liberazione Nazionale ed ai Centri della Resistenza armata (Gaetano Cavina, nome di battaglia Volfango).



La Resistenza si attuò col sacrificio di quarantacinquemila partigiani per esprimere e realizzare l'aspirazione ad un rinnovamento dell'organizzazione politica nella libertà, unita alla giustizia sociale del sistema. Postulato questo sufficiente ad ottenere la pacifica convivenza di tutto il popolo in tutti i suoi strati. E' stato il nostro un ideale il cui raggiungimento è però ancora lontano (Agostino Frisoni, nome di battaglia Ottavio).

 

Per un cattolico, la spinta ideale per la lotta contro la tirannia e l'oppressione era, e sarà, il raggiungimento della vera libertà, premessa indispensabile alla giustizia ed alla pace.

Libertà che è conquista, non di un solo giorno, ma di ogni giorno (Attilio Gelosa, nome di battaglia Carlo).

 

 


La Resistenza fu anelito di libertà, fatto passionale, presa di coscienza per la conquista di una più alta dignità umana. Scaturì dalla volontaria partecipazione delle masse operaie e contadine contro l'oppressione; esse esercitarono un ruolo dirigente e trascinarono nella lotta l'intera popolazione. Fu in questa partecipazione e nell'unità di tutti i raggruppamenti del Corpo Volontari della Libertà che si deve riconoscere la forza vera e l'invincibilità del movimento partigiano.

Spetta ai giovani, alle nuove generazioni, trarre le conseguenze dai fatti ma se essi si ispireranno al valore umano della Resistenza non potranno fallire nella loro missione rinnovatrice (Riccardo Crippa, nome di battaglia Ettore)






 CLN Lissone e I giunta municipale

Nell’immagine i membri del Comitato di Liberazione Nazionale e del primo Consiglio Comunale dopo la Liberazione
In primo piano da sinistra:

Leonardo Vismara, Attilio Gelosa, Gaetano Cavina, Agostino Frisoni e Giuseppe Parravicini

in seconda fila al centro, il Sindaco ANGELO AROSIO


appello del Sindaco ai Lissonesi (3 maggio 1945)


 

La giunta municipale di Lissone nel luglio 1945

Lire la suite