Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

I rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica

29 Avril 2011 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #La COSTITUZIONE italiana

Dall'unità d'Italia alla Costituzione

 

Il papa «prigioniero» in Vaticano

Nel 1870, il papa è l’ultimo ostacolo politico all’unità d’Italia.

Per il Risorgimento, la difesa dello Stato pontificio – sotto l’autorità dei vescovi di Roma dall’VIII secolo – è diventato simbolo della lotta della Chiesa contro il mondo moderno. Una lotta destinata al fallimento, in quanto questi territori dividono la penisola nel mezzo e la loro scomparsa è la condizione per la sua unificazione.

La guerra franco-prussiana dà agli italiani l’occasione per far finire questa situazione. Il 20 settembre 1870, i Piemontesi entrano a Roma. Pio IX abbandona la sua residenza del Quirinale per rifugiarsi in Vaticano, dove si considera allora come prigioniero.

1870 breccia di Porta Pia

Poco dopo, il 13 maggio 1871, l’Italia vota una «legge delle guarentigie» che accorda al papa e all’amministrazione della Chiesa - la Santa Sede - certi vantaggi, tra cui la possibilità di intrattenere delle relazioni diplomatiche e il godimento dei palazzi del Vaticano, del Laterano e di Castel Gandolfo, ma senza beneficiare di una qualunque extraterritorialità, ivi compresa la basilica di San Pietro.

Pio IX, per il quale la sovranità territoriale è la garanzia dell’indipendenza spirituale del trono apostolico, rifiuta. Inoltre, risponde riaffermando il divieto fatto nel 1868 ai cattolici italiani di partecipare alla vita politica: è il Non expedit (non conviene); né eletti né elettori. Questo non impedisce ai cattolici di partecipare alle elezioni locali e di avere un peso nella vita sociale del paese mediante delle potenti associazioni, con tutta una rete di cooperative, di giornali e anche delle banche.

I successori di Pio IX (Leone XIII, Pio X, Benedetto XV) mantengono formalmente il Non expedit, pur inviando qualche segno di apertura. E nelle elezioni del 1913, di fronte alla possibilità di un successo socialista, i cattolici sono invitati a votare per dei candidati liberali. Si dovrà tuttavia attendere il 1919 perché Benedetto XV tolga una volta per tutte il Non expedit e che il Partito Popolare, appena fondato da un prete siciliano, Don Luigi Sturzo, faccia eleggere 100 deputati alla Camera.

Poi dopo l’arrivo al potere di Mussolini, iniziano delle trattative riservate con il governo fascista. Questi sfociano nella firma dei Patti del Laterano, l’11 febbraio 1929, tra Mussolini e il cardinal Gasparri, segretario di Stato della Santa Sede.

1929-firma-patti-lateranensi.jpg

Un trattato internazionale crea lo Stato della Città del Vaticano (il più piccolo del mondo, 44 ettari), un concordato rende la religione cattolica la religione dello Stato italiano, e un indennizzo finanziario compensa il Papato della perdita dello Stato Pontificio.

Il papato dispone tuttavia ancora di un potere temporale, anche se simbolico, ma al prezzo di un accordo momentaneo con uno Stato totalitario, il che gli procura numerose critiche. Alcuni cattolici, inoltre, si interrogano sulla necessità di questo ritorno al potere temporale della Chiesa.

Negli anni seguenti, Pio XI non risparmia critiche al regime fascista. Ciò non impedisce a Mussolini di desiderare che si attui la conciliazione del 1929 con l’apertura di una via trionfale che unisce il Tevere alla basilica di San Pietro. I lavori vengono iniziati nel 1939 ed è in occasione dell’anno santo del 1950 che viene inaugurata la grandiosa prospettiva che conduce oggi al cuore della Cristianità.

Era questa, per sommi capi, la complicata situazione che stava di fronte ai deputati dell'Assemblea Costituente che avevano il compito di ripensare i rapporti della nuova Italia, democratica e repubblicana, non più fascista e monarchica, con la Chiesa cattolica.

 

Articolo 7 della Costituzione Italiana:

Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.

 

Stato italiano e Stato del Vaticano: la questione romana

Il problema dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa si complicò soprattutto a motivo delle particolari vicende storiche che avevano condotto, nel 1861, alla nascita dell'Italia unita. È necessario perciò ricordare brevemente i termini della cosiddetta "questione romana".

È noto che il regno d'Italia, proclamato nel 1861, non comprendeva, tra gli altri, il territorio del Lazio, che faceva parte dello Stato pontificio.

Si trattava, quindi, di portare a compimento l'unità territoriale del Paese. Ma si trattava anche di definire ex novo i rapporti con la Chiesa, che di fatto vedeva ridimensionato il proprio potere temporale. Compito tutt'altro che semplice, se si pensa che il papa, Pio IX, non aveva ancora riconosciuto le annessioni del 1859. Si giunse, tra alterne vicende, e in un preciso contesto internazionale, al noto epilogo del 1870: il governo diretto da Giovanni Lanza ordinò al generale Cadorna di passare all'azione e il corpo di spedizione aprì una breccia nelle mura di Roma, a Porta Pia, liberando la città e ponendo fino al potere temporale dei papi (20 settembre 1870).

Nell'ottobre dello stesso anno un plebiscito sanzionò l'annessione di Roma e del Lazio e nel luglio successivo la capitale e il Governo furono trasferiti a Roma.

La contrarietà della Chiesa a qualsiasi forma di accordo complicò il compito di definire i suoi rapporti con lo Stato. Tali relazioni. perciò, non furono stabilite da un trattato bilaterale, ma da un atto unilaterale, cioè da una legge dello Stato, la cosiddetta legge delle guarentigie. La Chiesa continuava a non riconoscere ufficialmente lo Stato italiano e, da questo punto di vista, fu del tutto coerente il celebre non expedit (dal latino: non conviene) pronunciato dalla Curia romana nel 1874: i cattolici venivano invitati ad astenersi dalla vita politica del nuovo Stato, giacché qualsiasi forma di partecipazione sarebbe equivalsa a un suo riconoscimento.

Dato il peso oggettivo del mondo cattolico in Italia, si può capire l'enorme problema che stava di fronte alle classi dirigenti del Paese. Lo Stato, come si dice, poteva contare su basi di consenso molto ristrette: erano pochi i cittadini che davvero si riconoscevano nelle istituzioni e che le sentivano come proprie. La lacerazione con la Chiesa, certo, non aiutava.

Si può capire, soprattutto, la soddisfazione di Mussolini, che potè presentare i Patti Lateranensi (11 febbraio 1929) come la definitiva chiusura della questione romana: in effetti la Chiesa, in cambio di rilevanti privilegi come, tra gli altri, il riconoscimento che la religione cattolica apostolica e romana è la sola religione dello Stato e che l'Italia considera fondamento e coronamento dell'istruzione pubblica l'insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica, riconosceva finalmente in via ufficiale lo Stato italiano.

 

1929 da La Gazzetta del Popolo

Il carattere laico dello Stato italiano risultava assai attenuato, mentre la Chiesa acquistava privilegi che non avrebbe mai ottenuto dalla classe dirigente liberale prefascista, come il matrimonio religioso con effetti civili e l'introduzione nelle scuole dell'insegnamento della dottrina cattolica, «fondamento e coronamento dell'istruzione pubblica». Inoltre, alle organizzazioni dipendenti dall'Azione cattolica era consentito continuare a svolgere la loro attività sotto il controllo delle gerarchie ecclesiastiche. Si trattava di un provvedimento di straordinaria importanza, se si considera che uno dei primi atti della dittatura era stato lo scioglimento di tutte le associazioni non fasciste. Rispetto alla massa dei cittadini privati del diritto di associarsi liberamente, i cattolici potevano invece mantenere in piedi la loro rete organizzativa che, formalmente finalizzata all'azione spirituale, in realtà continuava ad agire in ogni settore della vita civile.

Per il fascismo, che puntava a ottenere il controllo assoluto dell'intera società, era un'autolimitazione notevole. Eppure Mussolini aveva dovuto fare queste concessioni: l'appoggio della Santa Sede, più ancora che il sostegno della monarchia, rappresentava un pilastro fondamentale per l'edificio fascista. Fino a quando i rapporti tra il Duce e il Vaticano fossero rimasti armonici, alto e basso clero avrebbero assicurato l'obbedienza e persino il consenso delle masse cattoliche alla dittatura.

 

I Patti Lateranensi

Sono divisi in tre parti: il trattato internazionale (con esso, la Santa Sede riconobbe l'Italia come Stato ufficiale e in cambio ottenne la sovranità sullo Stato della Città del Vaticano), la convenzione finanziaria (con la quale l'Italia diede una forte indennità in denaro al Papa come risarcimento per la perdita dello Stato Pontificio), il concordato (con il quale si regolarono i rapporti interni fra Stato e Chiesa).

Il concordato, la parte più importante dei Patti, ridusse sensibilmente il carattere laico dello Stato stabilendo, per esempio, la validità civile del matrimonio religioso, l'impegno a impartire l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole dello Stato, la negazione dei pieni diritti civili ai sacerdoti. In generale, fu la Chiesa a ottenere una posizione di privilegio nei rapporti con lo Stato, rafforzando notevolmente la sua presenza nella società.

 

Nel febbraio del 1984, Craxi a nome del governo da lui presieduto firmò con la Santa Sede un nuovo concordato che ritoccò gli accordi precedenti, rendendo facoltativa l'ora di religione nelle scuole, abolendo il nulla osta vescovile per l'assunzione da parte dello Stato di un ecclesiastico, lasciando alla totale competenza del papato la nomina dei vescovi.

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25 aprile 2011 a Lissone

25 Avril 2011 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #varia

25 aprile 2011

 

Due mesi fa abbiamo celebrato in tutto il nostro Paese il 150° dell’Unità d’Italia, unità conquistata con il Risorgimento; oggi, con questa cerimonia, ricordiamo quello che viene definito il “secondo Risorgimento”: la Liberazione dell’Italia dalla dominazione nazista e dal regime fascista.

Come il Risorgimento aveva, dopo lunghi secoli, ridato agli italiani una dignità morale, facendo sentire alla gente la bellezza di un ideale per il quale si doveva lottare, così pure la Resistenza è stata una straordinaria testimonianza morale, civile e politica.

Il Risorgimento prima e, soprattutto, la Resistenza poi sono due esempi eclatanti dell’impegno diretto di tanti italiani per la costruzione del loro futuro.

Siamo oggi qui per festeggiare la Liberazione

Oggi con la nostra presenza vogliamo ricordare tutti coloro, uomini e donne, che hanno scritto con il loro coraggio e perfino con il loro sangue quella pagina magnifica e tragica della nostra storia, che è la guerra di Liberazione.

Siamo qui per ricordare e comprendere il nostro passato.

Ha scritto un grande scrittore francese, victor Hugo: «La memoria è la nostra forza. Quando la notte tenta di ritornare, bisogna riaccendere le grandi date come si accendono delle fiaccole».

La memoria storica arricchisce e allarga la nostra esperienza, ci connette invisibilmente alle generazioni passate e ci dà un saldo fondamento per il presente.

La Resistenza italiana è stata la manifestazione nazionale di un fenomeno europeo. Movimenti di resistenza si svilupparono, infatti, in tutti i Paesi occupati dalla Germania nazista.

La Resistenza italiana è nata dalle vicende convulse e drammatiche che seguirono l’8 settembre 1943. Forze democratiche e antifasciste si batterono per circa due anni, con grandi sacrifici e sofferenze, per conseguire la Liberazione dall'occupante nazista e contemporaneamente per mutare l'identità della nostra Patria, da quella di una nazione oppressa dal totalitarismo nazifascista, ad una nuova identità democratica.

La Resistenza italiana fu dunque lotta di liberazione e insieme lotta antifascista condotta sotto la guida di forze politiche di origine e natura diversa, che riuscirono a trovare in questa scelta antifascista, realizzata attraverso i Comitati di Liberazione Nazionale, il terreno comune di una forte determinazione e unione popolare.

Gli esiti di questa intesa appartengono ad una fase cruciale della storia d'Italia. Se è vero che la Liberazione fu essenzialmente, sotto il profilo militare, opera degli Alleati, sia pure con l'appoggio e l'aiuto efficace della nostra Resistenza, gli esiti del conflitto d'allora per il nostro assetto politico e democratico furono merito e prerogativa della nostra Collettività Nazionale. Il mutamento della forma istituzionale dello stato da monarchia a Repubblica, ottenuto con il referendum del giugno 1946 e l'elaborazione e approvazione, a larghissima maggioranza, della Costituzione furono esclusivo merito del Popolo italiano.

La Resistenza è stata principalmente azione; la lotta militare si intrecciò però con l’elaborazione politica; si posero le premesse politiche per la nuova Italia.

La Resistenza resta un evento cruciale nella storia del nostro Paese perché in essa si formò la nuova classe dirigente dell’Italia repubblicana.

La guerra di Liberazione è stata la confluenza di due elementi diversi: le correnti antifasciste che si erano opposte alla dittatura durante il ventennio e le masse popolari, in uniforme e non, il cui malcontento verso il fascismo si era manifestato in modo sempre più acuto nel corso della seconda guerra mondiale. La guerra di Liberazione non scoppiò come una guerra tradizionale, con un atto formale, ma nacque come moto spontaneo.

Resistenti furono i militari italiani che combatterono a Cefalonia, e che vennero trucidati dai nazisti, i militari che combatterono al fianco degli Alleati nel Corpo Italiano di Liberazione.

Resistenti sono stati gli operai che parteciparono nella primavera del 1944 agli scioperi delle grandi fabbriche del Nord Italia, che costarono a molti di loro la deportazione in Germania.

Resistenti vanno considerati gli oltre 600.000 italiani che, rifiutando di combattere a fianco dei nazisti, finirono nei lager tedeschi, costretti al lavoro coatto. Tra questi internati militari vi era anche mio padre Arnaldo, che per 20 mesi fu costretto a lavorare come uno schiavo in un campo di concentramento in Germania.

Non possiamo altresì dimenticare i civili uccisi nelle numerose stragi, come a Marzabotto, a Sant’Anna di Stazzema: anche quando l’esito della guerra era ormai scontato, la violenza dei fascisti della Repubblica Sociale Italiana e dei nazisti mantenne intatta la propria drammatica efficacia senza alcuna attenuazione.

Le stragi dei civili e le uccisioni dei partigiani continuarono fino agli ultimi giorni, quasi le ultime ore.

La Resistenza armata, senza un sostegno diffuso della popolazione, non avrebbe potuto sopravvivere.

Hanno determinato questa partecipazione popolare le pessime condizioni di vita di una popolazione stremata dall’economia di guerra. E certamente ha pesato la sconfitta militare, lo smantellamento dell’esercito come è accaduto l’8 settembre, e l’alternativa di nascondersi o di combattere, che si pose a molti giovani che rifiutavano l’ingresso nelle bande della Repubblica di Salò.

Vent’anni di oppressione fascista sboccarono non in episodiche rivolte ma nel più grande movimento armato di massa dell’Europa occidentale.

Gli Alleati, che ebbero un peso determinante nella conduzione della guerra, al termine del conflitto, hanno riconosciuto il grande contributo militare della Resistenza.

La parte migliore del popolo italiano aveva riconquistato, per tutta la Nazione, la dignità perduta dopo venti anni di regime fascista e tre anni di guerra al fianco di Hitler.

L’Italia è così diventata un paese democratico. Questi valori di democrazia e di rispetto della persona umana vennero sanciti con la Costituzione, promulgata nel 1948 e divenuta fondamento della nostra convivenza politica e civile. In essa sono rispecchiate le esigenze fondamentali della vita umana: Libertà, Giustizia, Dignità, Solidarietà, Eguaglianza, Progresso.

E proprio sul tema della difesa della Costituzione e sull'antifascismo inteso come netta opposizione alle molte forme del fascismo di oggi che l'Anpi, in questi anni, sta attirando molti cittadini di tutte le età.

Nonostante il ricambio generazionale, l’ANPI è un'associazione viva, conta 120mila iscritti (15.000 in più rispetto al 2010). È presente in tutte le 110 province italiane. Nascono nuove Sezioni un po' dappertutto e numerosi sono i giovani che vi aderiscono.

Fra l’altro come recita l’articolo 2 del nostro Statuto, uno dei compiti dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia è quello di «battersi affinché i princìpi informatori della Guerra di Liberazione divengano elementi essenziali nella formazione delle giovani generazioni».

In questo giorno di festa desidero mandare un saluto a tre lissonesi ancora viventi che hanno partecipato alla Resistenza:

Gabriele Cavenago, partigiano delle Squadre di Azione Patriottica, che è anche presidente onorario della Sezione dell’ANPI di Lissone, a Carlotta Molgora, staffetta partigiana, a Oreste Ballabio, appartenente al Corpo Italiano di Liberazione.

Il mio pensiero va anche ai 15 lissonesi che persero tragicamente la vita nella guerra di Liberazione.

8 di loro furono fucilati e 7 morirono nei lager nazisti. I loro nomi sono incisi sui monumenti sui quali poco fa abbiamo deposto dei fiori.

caduti lissonesi 

La conquista della libertà e della democrazia rappresenta un bene che dobbiamo a coloro che hanno lottato nella Resistenza.

Quelle donne e quegli uomini che parteciparono attivamente alla guerra di Liberazione, nei ranghi delle Forze Armate o nelle formazioni partigiane, o anche semplicemente attuando la resistenza passiva, perseguivano l’ideale di una nazione libera, democratica, pacifica, profondamente rispettosa dei diritti umani.

A loro va il nostro pensiero e la nostra gratitudine.

Viva il 25 Aprile, viva l’Italia.

Renato Pellizzoni

 

 

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Nel pomeriggio presso la nostra sede di piazza Cavour, esposizione dell’opera “Anelito di libertà” dell’artista Giacomo Nicola Manenti.

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25 aprile 2011

18 Avril 2011 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

 

«La memoria è la nostra forza. Quando la notte tenta di ritornare, bisogna riaccendere le grandi date come si accendono delle fiaccole».

Victor Hugo

   

  

 

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In occasione del 66° anniversario della Liberazione, viene qui pubblicata la testimonianza di Raimondo Ricci, già presidente dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, su di una pagina eroica della Resistenza italiana: il salvataggio del porto di Genova.

 L’importanza della difesa degli impianti industriali e delle infrastrutture era diventato ben presto uno tra gli obiettivi prioritari delle forze della Resistenza. Il ruolo dei lavoratori, dei tecnici nel difendere impianti e infrastrutture è stato di grande coraggio e al tempo stesso molto prezioso per tutto il paese, soprattutto per le sue prospettive di ripresa postbellica.

 

 

«Io non so, cari amici e compagni della Resistenza, anziani come me o molto più giovani di me, in quale misura la mia potrà essere un'effettiva testimonianza dei fatti che oggi rivisitiamo. E ciò non perché non fossi ancora nato quando i lavoratori italiani con le loro iniziative hanno salvato libertà, hanno combattuto per conservare gli strumenti del lavoro, le fabbriche, le infrastrutture, hanno fatto cioè anche qui a Genova le cose splendide e valorose che oggi sono state ricordate. La ragione è infatti un'altra, ed è dovuta al fatto che nel momento in cui questa lotta era in pieno svolgimento e nel punto massimo della sua attuazione, io non mi trovavo neppure in Italia, bensì in un campo di internamento nazista, così che queste cose io non ho potuto che ricostruirle storicamente dopo il mio fortunoso rientro in Italia, essendo infatti uno dei pochissimi sopravvissuti a uno di quei campi.

Ma, forse posso testimoniare qualcosa di come si siano venuti stabilendo i presupposti, gli antecedenti di questa lotta straordinaria dei lavoratori italiani, a cui pure l'Istituto che presiedo, insieme alle tre confederazioni sindacali, ha voluto dedicare l'anno scorso un importante convegno, di cui è stata già fatta menzione, che riguarda proprio la partecipazione alla Resistenza dei lavoratori italiani, e particolarmente di quelli di tutto il triangolo industriale. E allora veniamo a che cosa io posso testimoniare davvero e poi veniamo rapidamente a che cosa io posso dire grazie alla ricostruzione storica che in tutti questi anni ho potuto compiere acquisendo notizie e sviluppando approfondimenti.

Nel farlo io voglio affermare qui un punto: sì è vero, è importante la memoria, ma è importante che questa memoria venga poi rielaborata e confrontata con quelle che sono le acquisizioni delle indagini storiche. Ciascuno di noi ha certamente infatti vissuto un pezzo di quella tragedia epocale che fu la seconda guerra mondiale, un pezzo della Resistenza nel vari aspetti che la Resistenza ha assunto; ma per avere un quadro complessivo occorre tracciare una storia intera della Resistenza con tutte le sue componenti, i suoi antecedenti, il suo svolgimento, le sue conseguenze, la sua eredità. E io credo che siamo oggi in una fase, in questo sessantesimo anniversario della liberazione, in cui è soprattutto sull'eredità della Resistenza che noi dobbiamo soffermarci.

Allora io ero, e andiamo al 1943, un giovane ufficiale di marina in servizio presso la Capitaneria di porto di Imperia, nell'estremo ponente ligure, e ricordo il modo in cui appresi dell'armistizio che, alle 18,30 dell'8 settembre 1943, il governo regio dell'Italia aveva raggiunto con gli alleati e la cui notizia fu oggetto di un comunicato congiunto del maresciallo Badoglio, nuovo capo di governo nominato dal re dopo l'implosione del fascismo il 25 luglio precedente, e del generale Alexander, comandante delle truppe alleate, che appunto comunicava l'armistizio dell'Italia a tutto il mondo. Arrivavo quel giorno in treno, da Genova a Imperia; la linea ferroviaria era ancora del tutto funzionante, e proprio poco prima che il treno arrivasse alla mia destinazione, sentii prima in una stazione in cui ci soffermammo qualche minuto e poi nella stazione di arrivo a Imperia, la notizia del comunicato che annunciava l'armistizio. Io dovevo prendere servizio immediatamente e pertanto mi recai in Capitaneria e mi dedicai al mio lavoro che, per tutta la notte, era quello del mio abituale servizio dei cifrari segreti della marina, essendo il nostro compito appunto quello di decriptare messaggi segreti e trasmetterli alla flotta, alle navi da guerra e alle batterie costiere.

Durante quella mia notte nella Capitaneria di Imperia, che non dimenticherò mai, io per telefono militare seguii minuto per minuto, con momenti di altissima drammaticità, l'occupazione che i tedeschi stavano facendo del Comando marina e della Capitaneria di porto di Genova. A Imperia non erano ancora arrivati, ma qui a Genova era già in corso l'occupazione, il che rese immediatamente evidente che cosa avrebbe significato l'armistizio per l'Italia, malgrado l'esultanza di grandi parti del nostro popolo e anche di molti soldati che si trovavano all' estero e in Italia, per il fatto che si approdava finalmente alla fine della guerra.

La fine della guerra venne così generalmente intesa come quel «tutti a casa» che è stato anche descritto cinematograficamente in modo realistico ed efficace, e a cui gli italiani aspiravano perché doveva segnare appunto la fine della guerra fascista, delle sofferenze, delle privazioni, del sangue di una guerra, fino ad allora, unica nella storia del mondo perché aveva portato in prima linea ancora più che i combattenti vestiti con la divisa, le popolazioni civili che per i bombardamenti, le stragi, le repressioni, le rappresaglie e le torture avevano sofferto, molto spesso, ancora più dei combattenti.

Per me, però, questo momento di esultanza non ci fu, perché la condizione in cui mi trovavo mi consentì di capire immediatamente che cosa avrebbe invece significato l'occupazione tedesca conseguente all'armistizio, e fu allora per me che ero già nel movimento antifascista, anche se prestavo lealmente il mio servizio da ufficiale, il momento della scelta. Io fui uno di quelli che, insieme ad altri amici e compagni che condividevano le stesse idee, scelsero subito la via del tentativo di opporsi all'occupazione tedesca che si profilava. Di qui venne il mio periodo partigiano, seguì il mio arresto, la mia lunga permanenza di sette mesi di carcere, all'inizio dei quali i fascisti che mi avevano arrestato mi misero nelle mani delle SS, e poi la mia deportazione nel campo di internamento in Germania.

Io quindi partecipai all'azione soltanto nel momento iniziale più difficile, più doloroso, più incerto della creazione delle bande partigiane nell'estremo ponente ligure. Poi quella scelta decollò e la Resistenza nacque, ma io, con un rimpianto che mi ha accompagnato per tutta la vita, non potei partecipare direttamente alla sua fase attiva e vincente, anche se non sempre, ma poi alla fine sì, in questo 25 aprile che è giorno prezioso di festa. A quella fase non potei partecipare direttamente con un'arma in pugno, come avrei desiderato, ma fui fra coloro che la Resistenza la vissero soltanto attraverso la sofferenza e l'umiliazione: l'umiliazione di scoprirsi impotente e le sofferenze del lager, sulle quali io non intendo in questo momento soffermarmi.

Questa è dunque la mia testimonianza, quella che posso rendere e che consiste nella consapevolezza che subito ebbi di ciò che l'occupazione tedesca avrebbe comportato negli anni successivi all'armistizio. Vediamo dunque che cosa allora, da questo momento in poi, effettivamente è avvenuto nel nostro paese, in questa regione e soprattutto in questa città di Genova, il cui principale gioiello, in quegli anni ancora più di oggi, era rappresentato dal suo porto, il più importante del Mediterraneo.

Noi oggi sappiamo che i tedeschi misero in atto il piano Alarich sin dai giorni immediatamente successivi non all'8 settembre, ma alla caduta del fascismo nella notte fra il 25 e 26 luglio del 1943; fin dal 28 luglio i tedeschi dettero il via, appunto, all'attuazione del piano Alarich che contemplava la discesa in Italia di imponenti forze tedesche. Al momento della caduta del fascismo, quando già ormai da quasi un mese erano sbarcati in Sicilia; gli alleati scesero in campo con otto divisioni, e presto il contingente tedesco che si stabilì in Italia fu di 2 armate che occuparono tutto il nostro paese sottoponendolo a un vero e proprio regime di occupazione militare. Accompagnava questa decisione quella di minare tutte le infrastrutture fondamentali, e per quanto riguarda Genova il piano Zeta tedesco contemplava il minamento del porto che rappresentava la principale infrastruttura della nostra città.

Ebbene, fu da quel momento durante tutto il periodo dei «45 giorni Badogliani», ma soprattutto dopo l'8 settembre, che si mise in attività tutta l'organizzazione dei .lavoratori portuali i quali, a settembre, costituirono il Comitato di liberazione del porto, strutturandolo su un gruppo di portuali fiancheggiati dalle Sap (Squadre di azione patriottica) che collaboravano direttamente col Cln del porto, a sua volta dotato di una sua specifica militare che, sotto la direzione di Vittorio Cevasco, operò con la costituzione delle squadre artefici di quei sabotaggi contro la predisposizione del brillamento e la distruzione del porto. I tedeschi, che avevano già predisposto i collegamenti subacquei fra le 219 bombe per la diga foranea, costituite da grandi bombe di aerei e da proiettili del calibro 149 collegate da cavi elettrici, già nel gennaio del '45, furono costretti rinunciare ai collegamenti con i cavi subacquei riservandosi di allacciare dei cavi volanti al momento in cui fosse stato necessario operare il brillamento del porto.

La verità è che se quest'opera del Comitato di liberazione del porto di Genova fu l'elemento centrale che impedì la distruzione del porto, molti altri fattori si unirono a questa determinazione; io credo che vada pertanto ricordata, anche per misurarne l'efficienza, l'azione compiuta dalle Sap e dagli operai militarizzati che, nell'ambito del Comitato di liberazione, lavorarono all'affondamento della portaerei Aquila che gli alleati, attraverso le loro Missioni, avevano raccomandato venisse affondata nel luogo dove si trovava ormeggiata alla banchina, poiché il piano Zeta predisposto dai tedeschi per le distruzioni prevedeva invece per questa nave, che era il vecchio transatlantico «Roma» in via di trasformazione in portaerei, il suo affondamento all'imboccatura del porto per impedire l'ingresso nel porto stesso alle navi degli alleati . A ridosso ormai della liberazione, nello stesso giorno, il 18 aprile del '45, si sviluppò così una duplice azione.

Vi fu un'azione di Mariassalto, cioè di quella struttura militare della marina che si era posta al servizio degli alleati nell'ambito della cobelligeranza con lo Stato legittimo italiano, per cui il sottotenente di vascello Conte, con un maiale di quelli già utilizzati nel porto di Alessandria durante la fase antecedente della guerra fascista, arrivò finn sotto la portaerei e collocò con una spoletta il maiale per l’esplosione stabilita a sei ore di distanza, verso l'una di notte. Contemporaneamente, e casualmente, nello stesso giorno finiva di essere predisposta e veniva attivata la bomba che i lavoratori avevano costituito nell'interno della stiva della stessa nave, con il tritolo portato via via in piccole quantità nelle proprie valige di attrezzi e accumulato in modo tale da poterlo far poi esplodere al momento opportuno. Lo stesso giorno, dunque, un

valoroso, resistente dei portuali, il Medici, allacciò una miccia al tritolo e le diede fuoco facendo esplodere la carica a cui era collegata e che per contatto mise anche in attività la bomba sistemata da Mariassalto, squarciando così la nave che rimase contro la banchina inclinata su di un fianco e non potè essere utilizzata per i fini a cui i tedeschi miravano.

Va detto che vi fu anche un tentennamento da parte del generale tedesco che comandava la piazza di Genova rispetto all'attuazione di quella decisione, tanto che qualcuno dopo la liberazione, deponendo sulle intenzioni dei tedeschi, gli attribuì anche un merito nella non esecuzione degli ordini pervenuti direttamente da Hitler per il brillamento del porto. Certo è però che se anche l'ordine fosse stato dato, e non si sa se sia mai stato dato in modo ufficiale, il porto non avrebbe potuto essere brillato poiché mancavano i collegamenti tra le bombe e perché erano state sabotate anche le fosse scavate per situare le mine, così che vi era l'impossibilità materiale di far brillare il porto.

La mia opinione è che questa storia debba essere ricostruita pezzo per pezzo. Vi è stata una commissione d'inchiesta organizzata su iniziativa dell'Istituto Ligure per la Storia della Resistenza, presieduta da un magistrato, che negli anni cinquanta approfondì tutta la vicenda. Questo approfondimento rappresenta un contributo fondamentale e dimostra quale sia stata l'opera dei lavoratori in particolare per salvare il porto, infrastruttura fondamentale per la nostra città, la cui distruzione avrebbe comportato non solo dei danni contingenti, ma proiettati anche nel futuro della ricostruzione dell'intero nostro paese. Un'azione di salvataggio, quella del porto di Genova, quindi essenziale di un punto di forza delle infrastrutture nazionali, che per merito dei lavoratori fu riconsegnato integro all'Italia per la ricostruzione e per il futuro finalmente democratico del paese».

 

 

Intervento nel convegno di Genova del 14 aprile 2005 organizzato dalla CGIL e pubblicato a cura della Fondazione Giuseppe Di Vittorio in:  

Salvare le fabbriche. I lavoratori a difesa dei macchinari e delle grandi infrastrutture dalla furia dei nazisti in fuga – Ed. Ediesse Roma – pp 75-81

 

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Luigi Sturzo e la fondazione del Partito popolare

17 Avril 2011 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #L'ITALIA tra Ottocento e Novecento

Giorgio Candeloro, storico italiano del dopoguerra, tratteggia i momenti principali che precedettero la fondazione del Partito popolare italiano nel 1919. Al centro della vicenda è la figura di don Luigi Sturzo, un sacerdote siciliano con una grande passione politica che, all'inizio, lo ha avvicinato al Movimento dei democratici cristiani. Al contrario di Murri (*), però, Sturzo, anche se spesso in conflitto con il Vaticano, rimase sempre fedele alla Chiesa. Al centro dell'azione di Sturzo è l'idea di fare del Ppi un partito non confessionale, anche se chiaramente ispirato ai valori cristiani, e aperto ai problemi sociali.

 

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Nato a Caltagirone nel 1871, per molti anni prosindaco della sua città, Sturzo fin da giovane era stato attivo nelle organizzazioni cattoliche e aveva aderito alla corrente democratico-cristiana. Dopo lo scioglimento dell'Opera dei Congressi, aveva obbedito alle direttive papali ed evitato di seguire il Murri nella ribellione: ma aveva posto con molta chiarezza fin dal 1905 l'esigenza di un partito dei cattolici democratici, non confessionale, e autonomo nel campo politico. Nel 1915 era stato nominato segretario della Giunta direttiva dell'Azione cattolica, organo centrale di coordinamento istituito da Benedetto XV, assumendo così una funzione preminente nel movimento cattolico a livello nazionale. Molta risonanza ebbe quindi il discorso, che pronunciò a Milano il 17 novembre 1918, su i problemi del dopoguerra, nel quale delineò un programma politico La cui attuazione presupponeva evidentemente la nascita di un nuovo partito.

Contemporaneamente questa eventualità venne prospettata in una lettera a Sturzo pubblicata su Il Corriere d'Italia dal dirigente Lombardo Stefano Cavazzoni, il quale propose la formazione di un partito che fosse emanazione dell'Azione cattolica, analogamente al Centro tedesco. Sturzo rispose allora affermando che gli organismi di Azione cattolica non potevano «tramutarsi in organi di partito politico» e propose il nome di «Partito popolare», già usato dai cattolici trentini. «Bisogna dare la sensazione che non solo ci muoviamo per la difesa religiosa del popolo - egli disse - nel quale caso possiamo essere uniti anche con liberali onesti e con conservatori moderati [...], ma che abbiamo un contenuto sociale e che del popolo, oggi chiamato a nuovi destini, vogliamo essere emanazione, esponenti e amici, contro il monopolio socialista che, sotto la bandiera della democrazia rossa, vuole raccogliere tutti i proletari». In quei giorni Sturzo ebbe un colloquio col Segretario di Stato, cardinale Gasparri, al quale comunicò l'intenzione di fondare il nuovo partito ottenendone una sostanziale approvazione. Vi furono inoltre [...] alcune riunioni di dirigenti cattolici delle varie regioni, che ebbero lo scopo di preparare la fondazione del nuovo partito. Da queste riunioni [...] uscì la nomina di una commissione provvisoria, incaricata di preparare un Appello al paese e il Programma del Ppi. [...] L’Appello [...] affermava: «a uno Stato accentratore, tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale, vogliamo sul terreno costituzionale uno Stato veramente popolare, che riconosca i limiti .della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali - la famiglia, le classi, i comuni, che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private». Chiedeva pertanto «la riforma dell'istituto parlamentare sulla base della rappresentanza proporzionale, non escluso il voto alle donne, il Senato elettivo, come rappresentanza direttiva degli organismi nazionali accademici, amministrativi e sindacali; [...] la riforma della burocrazia e degli ordinamenti giudiziari e la semplificazione della legislazione; [...] il riconoscimento giuridico delle classi, l'autonomia. comunale, la riforma degli enti provinciali e il più largo decentramento nelle unità regionali». A queste rivendicazioni democratico-radicali non prive di una certa tendenza corporativista l'Appello aggiungeva altre richieste derivate dalla tradizione del movimento cattolico democratico: «Libertà religiosa, non solo agli individui ma anche alla Chiesa, per la esplicazione della sua missione spirituale nel mondo; libertà di insegnamento, senza monopoli statali; libertà alle organizzazioni di classe, senza preferenze e privilegi di parte; libertà comunale e Locale secondo le gloriose tradizioni italiche». [...] Nel complesso il Ppi si presentava al paese come un partito democratico avanzato per quanto riguardava la riforma elettorale e quella dell'ordinamento amministrativo dello Stato; si presentava inoltre come partito cristiano, senza peraltro proclamarlo esplicitamente, nell'affermazione di alcuni principi morali e nella difesa della «Libertà e indipendenza della Chiesa». Nel campo sociale il Ppi enunciava un programma generico di ispirazione solidaristica, destinato ad andare incontro alle esigenze di alcune importanti categorie contadine, come i coltivatori diretti, i piccoli affittuari, i mezzadri, i salariati fissi.

 

(G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, Vol. VIII, Milano, Feltrinelli 1987, pp 266-270)

 

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(*) Dopo l’Unità d’Italia, anche i cattolici costituivano un punto di riferimento importante per il proletariato, in particolare per i contadini. Fin dal 1870 era sorta l'Opera dei Congressi, un vero e proprio contenitore di tutto l'associazionismo cattolico sul quale la Chiesa intendeva mantenere uno stretto controllo.

All'inizio del secolo però questa grande organizzazione cominciava a entrare in crisi tanto che nel 1904 veniva sciolta e sostituita da tre grandi Unioni, tutte dipendenti dalle gerarchie ecclesiastiche.

Alla stretta tutela della Santa Sede tendeva però a sottrarsi il Movimento dei democratici cristiani, capeggiato dal sacerdote Romolo Murri, che predicava un riformismo intransigente, guidava le lotte contadine con modalità simili a quelle del socialismo e, soprattutto, riscuoteva un successo straordinario (nel 1902 quasi 250.000 erano gli. iscritti al suo movimento). I cattolici conservatori e l'alto clero guardavano con diffidenza ai democratici cristiani ed erano poi ancor più allarmati dal progetto di Murri di dar vita a un partito, una vera eresia per i fedeli ai quali il papa aveva severamente vietato (non expedit) ogni impegno politico nel Regno d'Italia. L’impossibilità di partecipazione politica da parte dei cattolici ebbe certo effetti di rilievo sulla mancata nazionalizzazione delle masse.

Col passare degli anni, però, la stessa Chiesa si rendeva conto che un atteggiamento tanto rigido rischiava di farle perdere terreno nella società civile, investita da un processo di modernizzazione che incideva sui costumi e sui valori tradizionali. Era pericoloso lasciare la gestione del cambiamento solo nelle mani dello Stato laico, tanto più dopo l'esempio della Francia dove i governi radicali stavano attuando una politica accentuatamente anticlericale L’ipotesi di un partito cattolico era però scartata a priori e, infatti, il pontefice Pio X sospendeva a divinis Murri che, passato nelle file dei radicali, sarebbe stato poi scomunicato. Tuttavia veniva contemporaneamente ammorbidito il divieto alla partecipazione elettorale con accordi sotterranei al momento delle votazioni tra clerico-moderati e liberali: i cattolici si adoperavano per far confluire i voti dei fedeli su quei deputati che si impegnassero a difendere in
Parlamento gli interessi della Chiesa.

 

rappresentanti del Movimento democratico cristiano 

Una cartolina del 1900 mostra i principali rappresentanti del Movimento democratico cristiano.

 

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L'antifascismo costituzionale

15 Avril 2011 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #La COSTITUZIONE italiana

Disposizione XII della Costituzione Italiana

È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.

 

La Costituzione italiana è il frutto di un grande sforzo politico collettivo per rigenerare la vita politica su basi costituzionali dopo la tragedia della dittatura fascista e le drammatiche dissoluzioni operate sulla vita materiale e spirituale del Paese. Ciò spiega l'impostazione antifascista della nostra Costituzione sia nei principi, più profondi e più importanti, antiautoritari e democratici, sia nelle norme più esplicite, come la Disposizione XII che vuole essere non un elemento di rivalsa o di vendetta ma solo, e giustamente, un'ulteriore garanzia per la democrazia italiana. Soprattutto allora, a guerra appena finita, quando il pericolo di un rigurgito fascista era ancora molto forte e vivo il ricordo della trasformazione da regno democratico-liberale a dittatura. Si capisce chiaramente, allora, il timore che spinse i padri costituenti a deliberare tale disposizione, anche perché una delle condizioni dell'armistizio dell'8 settembre 1943, imposte dagli alleati angloamericani all'Italia, era stata l'introduzione di sanzioni contro il fascismo e i suoi esponenti

La volontà evidente degli alleati, come della classe politica al Governo, era quella della defascistizzazione dello Stato. Così, già dal 1945 vennero emanate norme penali (poi modificate nel 1947, nel 1952 e nel 1975) miranti a colpire la ricostituzione del partito fascista e le attività neofasciste, secondo queste tipologie

 

      repressione dei fatti di promozione, organizzazione e partecipazione al regime fascista nel periodo monarchico e poi durante la Repubblica sociale italiana;

 

      punizione dei reati di intelligenza e di collaborazione con i tedeschi durante l'occupazione militare del Paese;

 

      repressione della ricostituzione del disciolto partito fascista e delle attività neofasciste.

 

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Truppe della milizia fascista che, nel gennaio 1938, si addestrano al passo romano.

 

Vennero così emanati dei provvedimenti di epurazione nei confronti dei pubblici impiegati delle amministrazioni civili e militari dello Stato. In realtà, i provvedimenti di epurazione ebbero scarsa efficacia perché prevalse l'orientamento verso una generale pacificazione degli animi.

Di particolare rilievo le misure penali contro gli alti gerarchi, che prevedevano l'ergastolo e, nei casi più gravi, la pena di morteper i membri del governo fascista e i gerarchi fascisti, colpevoli di avere annullato le garanzie costituzionali, distrutte le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesse e tradite le sorti del paese condotto alla attuale catastrofe(art. 2, Decreto legislativo n. 159/1944). Erano inoltre previste pene per chi aveva organizzato squadre fasciste, compiuto atti di violenza e di devastazione, promosso o diretto l'insurrezione del 28 ottobre 1922 o il colpo di Stato del 3 gennaio 1925.

Più pesanti le norme penali che colpivano il collaborazionismo militare o politico con i tedeschi dopo l'8 settembre, a cui si applicarono le sanzioni previste dal codice penale militare di guerra. In realtà, la punizione di questi gravissimi reati fu intensa solo nei primi mesi dopo la liberazione e nelle zone del nord d'Italia; successivamente, vari provvedimenti di amnistia cancellarono gli effetti penali della maggior parte dei processi contro i collaborazionisti.

Così, anche se mancava una destra politicamente attiva, molti erano gli uomini implicati con il fascismo e con la Repubblica di Salò in circolazione. Infatti, già nel dicembre del 1946 si costituì il Movimento sociale italiano (Msi), direttamente collegato, per ideologia e per uomini. al disciolto Partito nazionale fascista. Ci fu chi sostenne che, Disposizione XII alla mano, anche l'Msi dovesse essere sciolto. In realtà, esso ebbe i suoi parlamentari regolarmente eletti, tenne congressi regolari e svolse regolare attività politica. Ma l'insurrezione di Genova, nel luglio del 1960, contro un congresso dell'Msi che cercava di legittimarsi come partito di governo senza nascondere la sua continuità ideologica col passato, dimostra quanto vivo fosse il sentimento antifascista in Italia e quanto previdente sia stato il divieto della disposizione.

 

L’attuale disciplina (legge n. 152, del 22 maggio 1975) stabilisce che si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando un'associazione, un movimento o un gruppo di almeno cinque persone perseguono finalità antidemocratiche, esaltando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o svolgendo propaganda razzista, ovvero esaltando esponenti o metodi del partito fascista o compiendo manifestazioni esteriori di carattere fascista.

Le pene previste sono:

 

      promotori e organizzatori dell'associazione neofascista: reclusione da 5 a 12 anni;

 

      partecipanti: reclusione da 2 a 5 anni.

 

Le pene sono raddoppiate se l'associazione assume il carattere di organizzazione armata o paramilitare.

La legge punisce, inoltre, l'apologia di fascismo come la propaganda volta alla costituzione di un associazione neofascista, la pubblica esaltazione di principi, esponenti e metodi del fascismo, l'attuazione di manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero proprie del nazismo in occasione di pubbliche riunioni. Per tali reati sono previste pene che possono arrivare fino a 5 anni di reclusione.

 

Bibliografia:

Mauro Albera e Giovanni Missaglia – Professione cittadino – Ed. Hoepli Milano 2008

 

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il Manifesto degli intellettuali antifascisti

12 Avril 2011 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Accanto all'antifascismo più attivo e impegnato, vi fu la testimonianza morale di alcuni intellettuali, per esempio dei 12 professori universitari che nel 1931 si rifiutarono di giurare fedeltà al regime.

Benedetto-Croce.jpgUna delle testimonianze più significative è senza dubbio quella di Benedetto Croce, il grande storico e filosofo che, dopo un'iniziale condiscendenza verso il fascismo, nel 1925 rese pubblico il proprio dissenso redigendo il celebre Manifesto degli intellettuali antifascisti, in polemica e contrapposizione col Manifesto degli intellettuali fascisti che era appena stato pubblicato sotto la direzione del filosofo Giovanni Gentile. Consideriamo alcune parole di Croce tratte dalla sua Risposta al Manifesto degli intellettuali fascisti, pubblicato a Roma nel 1925:

 

[...] Noi rivolgiamo gli occhi alle immagini degli uomini del Risorgimento, di coloro che per l'Italia operarono, patirono e morirono, e ci sembra di vederli offesi e turbati in volto alle parole che si pronunziano e agli atti che si compiono dai nostri italiani avversari [...]. La nostra fede non è un'escogitazione artificiosa e astratta o un invasamento di cervello, cagionato da mal certe o mal comprese teorie; ma è il possesso di una tradizione, diventata disposizione del sentimento, conformazione mentale e morale[...]. La presente lotta politica in Italia varrà, per ragione di contrasto, a ravvivare e a fare intendere in modo più profondo e più concreto al nostro popolo il pregio degli ordinamenti e dei metodi liberali, e a farli amare con più consapevole affetto. E forse un giorno, guardando serenamente al passato, si giudicherà che la prova che ora sosteniamo, aspra e dolorosa a noi, era uno stadio che l'Italia doveva percorrere per rinvigorire la sua vita nazionale, per compiere la sua educazione politica, per sentire in modo più severo i suoi doveri di popolo civile .

 

Croce, richiamandosi all'esperienza del Risorgimento, ribadisce la vitalità e la superiorità della tradizione liberale che il fascismo ha momentaneamente sconfitto. In realtà, il fascismo non è radicato nella storia italiana: è un invasamento di cervello, che finirà per mostrare tutta la sua inconsistenza. Anzi, in quanto esperienza di negazione della libertà, il fascismo contribuirà, per contrasto, a far capire e a far amare ancora di più agli italiani il valore della libertà e delle istituzioni liberali

Da queste poche parole si può intendere come Croce desse del fascismo una lettura molto diversa da quella di Gobetti, che pure era liberale. Nell'ottica di Croce il fascismo non è l'autobiografia della nazione, cioè un'esperienza radicata nella storia italiana e nel modo di essere degli italiani. Al contrario, esso è, per usare altre celebri espressioni crociane, una parentesi, una malattia morale. Esso è, perciò, una sorta di corpo estraneo alla storia italiana, un'esperienza passeggera da cui ci si può rimettere come da una malattia. La storia moderna - e quella italiana non fa eccezione - è storia della libertà, storia del progressivo affermarsi delle istituzioni e dei valori liberali. Il fascismo è, certo, un'esperienza aspra e dolorosa, che tuttavia può solo interrompere una storia che è destinata a continuare.

 

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Piero-Gobetti.jpgPiero Gobetti (1901·1926)

Scrittore e politico, teorizzatore del liberalsocialismo, fu assertore dell'unione tra liberalismo laico e movimento operaio.

Morì a Parigi, dove era espatriato per sfuggire alla persecuzione fascista.

 

Piero Gobetti aveva visto nel fascismo una sorta di autobiografia della nazione: il fascismo, in questo senso, è la sintesi della storia italiana, dei suoi tratti più caratteristici e negativi, come la mancata integrazione delle masse popolari nella vita politica, la tendenza al servilismo, al conformismo e al culto del "capo". In questa prospettiva la lotta antifascista doveva rappresentare anche una sorta di rigenerazione morale dell'Italia.

 

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Caratteri del fascismo

9 Avril 2011 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #il fascismo

Giovanni GentileAlla voce Fascismo, dell'Enciclopedia italiana (più nota come Enciclopedia Treccani), la monumentale opera diretta dal filosofo Giovanni Gentile, il più autorevole intellettuale fascista, voce redatta dallo stesso Mussolini insieme a Gentile (1875 – 1944, ricoprì per due anni la carica di ministro dell’Istruzione del governo Mussolini), si dice:

 

Antiindividualistica, la concezione fascista è per lo Stato: ed è per l'individuo in quanto esso coincide con lo Stato [...]. È contro il liberalismo classico [...] Il liberalismo negava lo Stato nell'interesse dell'individuo particolare; il fascismo riafferma lo Stato come la realtà vera dell'individuo. E se la libertà deve essere l'attributo dell'uomo reale, e non di quell'astratto fantoccio a cui pensava il liberalismo individualistico, il fascismo è per la libertà. È per la sola libertà che possa essere una cosa seria, la libertà dello Stato e dell'individuo nello Stato. Giacché, per il fascista, tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tantomeno ha valore, fuori dello Stato. In tal senso il fascismo è totalitario [...].

 

Si vede bene che l'ideologia fascista va ben oltre la critica dell'individualismo negatore e sopraffattore degli interessi collettivi.

Qui viene negata alla radice l'idea stessa che l'individuo, come tale, abbia dei diritti indipendenti dalla sua appartenenza allo Stato. L'individuo è letteralmente fagocitato dallo Stato. Se, come afferma Gentile, non c'è altra libertà che nello Stato, ben si capisce come il fascismo abbia potuto incarcerare tutti gli oppositori politici o mettere fuori legge i partiti di opposizione, in nome, appunto, di un presunto bene dello Stato, da far valere anche contro quegli astratti fantocci che sono gli individui.

 

Un altro passo della voce Fascismo, ne mette bene in luce il carattere antisocialista:

 

Né individui fuori dallo Stato, né gruppi (partiti politici, associazioni, sindacati, classi). Perciò il fascismo è contro il socialismo che irrigidisce il movimento storico nella lotta di classe e ignora l'unità statale che le classi fonde in una sola realtà economica e morale [...].

 

In questo passo, Gentile contesta proprio questo fatto: che il socialismo ha il torto di irrigidire il movimento storico nella lotta di classe. L'errore dei socialisti è di non vedere il ruolo dello Stato: è vero che nella società, nel mondo economico, nelle fabbriche, c'è un contrasto tra classi, ma questa conflittualità è superata nello Stato. In altri termini, lo Stato sa individuare e realizzare il bene comune, al di là degli egoistici interessi di classe: è questa, per Gentile, l'unità statale che fonde le classi. Mentre per i socialisti lo Stato è l'espressione degli interessi della classe dominante, come si vede tra l'altro dal costante tentativo di impedire il suffragio universale e di limitare il diritto di voto in base al censo, per Gentile lo Stato è l'incarnazione dell'unità delle classi. Non è né borghese, né proletario, ma, appunto, nazionale.

 

Il 24 giugno 1943 il filosofo Giovanni Gentile pronunciò dal Campidoglio un discorso, trasmesso contemporaneamente dalla radio.

Agli sbigottiti cittadini di Roma, agli italiani che lo ascoltano alla radio il filosofo esalta il fascismo come teoria e prassi politica e dichiara che «nel corporativismo è l'avvenire» mentre per gli ascoltatori fascismo vuol dire ormai soltanto guerra, disordine, fame, arbitri, prepotenze. Celebra il carattere immortale dell'Italia, la solita Italia con Roma educatrice di barbari, con Roma cattolica, con Roma «elaboratrice e propagatrice mirabile dell'Evangelo», con Roma del rinascimento, capitale di quel regnum hominis che è il mondo moderno; ma il cittadino si domanda come si concilia questa anima immortale con l'alleanza ai tedeschi negatori del diritto di Roma, negatori del cattolicesimo, negatori della uguaglianza fra gli uomini, persecutori e massacratori in nome di barbare teorie di razza. E concludeva il filosofo che «il popolo è tutto un esercito» e invitava ad aver fede nella vittoria; quella fede che muove le montagne; ma proprio questa fede il popolo non poteva aver più per i cento segni del disordine e dell'impotenza.

 

Le concrete conseguenze politiche della dottrina fascista.

Se anche la classe, come l'individuo, è fagocitata dallo Stato e in esso annullata, ben si capisce, per esempio, la messa fuori legge di tutti i sindacati a eccezione di quelli fascisti. I sindacati, la CGL (Confederazione generale del Lavoro) e la CIL (Confederazione italiana dei lavoratori), in quanto organizzazioni di classe, non apparivano al fascismo come una legittima forma di organizzazione degli interessi, dei bisogni e dei diritti dei lavoratori, ma come una minaccia all'unità nazionale dello Stato.

 

1920 fascisti contro sede Il PAESE

1920: fascisti devastano la sede del giornale IL PAESE

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Pane e Coraggio

6 Avril 2011 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #avvenimenti recenti

... ci vuole coraggio / a trascinare le nostre suole /

da una terra che ci odia /ad un'altra che non ci vuole ...

 

emigranti.jpg

 

Proprio sul filo della frontiera
il commissario
ci fa fermare
su quella barca troppo piena
non
ci potrà più rimandare
su quella barca troppo piena
non
ci possiamo ritornare.

E che l'Italia sembrava un sogno
steso per lungo ad asciugare
sembrava una donna fin troppo bella
che stesse lì per farsi amare
sembrava a tutti fin troppo bello

Che stesse lì a farsi toccare.

E noi cambiavamo molto in fretta
il nostro sogno
in illusione
incoraggiati dalla bellezza

vista per televisione

disorientati dalla miseria

e da un po' di televisione.

Pane e coraggio ci vogliono ancora
che questo mondo non è cambiato
pane e coraggio
ci vogliono ancora
sembra che il tempo non sia passato
pane e coraggio commissario

che c'hai il cappello per comandare
pane e fortuna moglie mia

che reggi l'ombrello per riparare.

 

Per riparare questi figli
dalle ondate del buio mare
e le figlie dagli sguardi
che dovranno sopportare
e le figlie dagli oltraggi
Che dovranno sopportare.

Nina ci vogliono scarpe buone
e gambe belle Lucia
Nina ci vogliono scarpe buone
pane e fortuna e così sia
ma soprattutto ci vuole coraggio
a trascinare le nostre suole
da una terra che ci odia
ad un'altra che non ci vuole.

Proprio sul filo della frontiera
commissario ci fai fermare
ma su quella barca troppo piena
non ci potrai più rimandare
su quella barca troppo piena
non ci potremo mai più ritornare.

Canzone

di Ivano Fossati

 

 

La storia della canzone è narrata in prima persona da un emigrante clandestino che sta per varcare il confine per entrare in Italia. La canzone è un'epica del coraggio e del pane: il coraggio dei migranti che, obbligati dalla loro miseria, intraprendono un viaggio verso terre che non li vogliono; il pane della condivisione che, nutrimento dei poveri, dovrebbe almeno essere un diritto per tutti.

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principali provvedimenti legislativi adottati dal fascismo

3 Avril 2011 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #il fascismo

Lo Statuto albertino, nato nel 1848 come Costituzione del regno di Sardegna, divenne nel 1861 la prima Costituzione dell’Italia unita.

Lo Statuto albertino era una costituzione flessibile, cioè poteva essere modificato attraverso delle semplici leggi ordinarie, secondo le esigenze politiche del sovrano e della maggioranza di governo. Proprio questa flessibilità permise ai fascisti di cancellare i diritti previsti dallo Statuto lasciandolo formalmente immutato.

Per comprendere lo svuotamento dello Statuto, è importante ricordare i principali provvedimenti legislativi adottati dal fascismo.

 

Fine dell’autonomia del Parlamento

Le leggi del 24 dicembre 1925 e del 31 gennaio 1926 sottrassero praticamente il potere legislativo al Parlamento, attribuendolo al potere esecutivo, cioè al capo del Governo (nuova e significativa designazione del presidente del Consiglio): nessuna legge poteva neppure essere presentata in Parlamento senza la preventiva approvazione del Duce. In questo modo il Parlamento veniva privato anche del cosiddetto potere di iniziativa legislativa, cioè della possibilità di presentare dei disegni di legge.

Fine delle autonomie locali

La legge del 4 febbraio 1926 soppresse il sistema elettivo per le amministrazioni comunali e provinciali. I sindaci democraticamente eletti dal popolo furono sostituiti dai podestà nominati dal Governo.

Fine della libertà politica e sindacale

Nel 1926 furono sciolti tutti i partiti ad eccezione di quello fascista (Partito Nazionale Fascista); nel medesimo anno venne proibito per legge lo sciopero e gli unici sindacati legalmente riconosciuti divennero quelli fascisti, controllati dal Governo e da Mussolini.

Fine della libertà di stampa

La stampa venne "fascistizzata": i giornali di opposizione furono soppressi o cambiarono di proprietà, adeguandosi alle direttive fasciste. In pratica, venne abolita qualunque libertà di critica.

Fine delle libertà personali

La legge del 25 novembre '1926 reintrodusse la pena di morte per i reati contro la sicurezza dello Stato e istituì il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, un formidabile strumento di repressione del dissenso politico.

Come ci ricorda Emilio Gentile (Fascismo, Storia e interpretazione, Bari, Laterza, 2002), tra il1918 e il 1943, il Tribunale speciale giudicò 5.319 imputati di cui 5155 furono condannati per un totale di 27.735 anni di prigione, fra cui 7 condanne all'ergastolo. Circa 15 mila italiani fra il 1926 e il 1943, furono inviati al "confino", in paesi lontani dalla loro abituale abitazione.

Fine del diritto di voto

La legge del 17 maggio 1928 stravolse di fatto il sistema parlamentare e il diritto di voto venne trasformato in una vera e propria farsa. Fu infatti attribuito alle autorità fasciste, precisamente al Gran Consiglio del fascismo il compito di predisporre la lista dei candidati alle elezioni della Camera. Gli elettori potevano soltanto approvarla o respingerla in blocco. Tra l'altro il voto non era segreto, in quanto la scheda del sì era tricolore, quella del no era bianca.

Il razzismo

Il 17 novembre 1938 furono approvate le leggi razziali.

Come dice Gentile:

“Dal 1938, l'Italia divenne ufficialmente uno Stato antisemita, gli ebrei italiani, circa 50 mila, furono discriminati e messi al bando dalle istituzioni statali, dalla scuola e dalla vita pubblica. Anche se l'antisemitismo fascista non produsse i risultati più orridi dell’antisemitismo nazista, la discriminazione fu comunque la premessa per una più spietata persecuzione, quale fu messa in pratica più tardi nella Repubblica sociale”.

Fine del parlamentarismo

Nel 1938 la Camera dei deputati fu soppressa e sostituita dalla Camera dei Fasci e delle Corporazioni, una Camera non elettiva, formata da membri fedeli del regime e incaricata soltanto di "collaborare" col Governo alla formazione delle leggi.

 

Queste misure avevano trasformato l'Italia liberale disegnata dallo Statuto albertino in un vero e proprio Stato totalitario: dittatura personale del Duce, partito unico, repressione poliziesca del dissenso politico, limitazione e cancellazione dei diritti civili, controllo totale e monopolistico dei mezzi di informazione utilizzati a scopo di propaganda, ne costituivano gli ingredienti fondamentali. Del resto, il carattere antiliberale e, naturalmente, antisocialista del fascismo fu rivendicato dai fascisti stessi.

 

Bibliografia:

Mauro Albera e Giovanni Missaglia - “Professione Cittadino”  - Ed. Hoepli 2008

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