Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

La propaganda tedesca per il reclutamento di lavoratori italiani

30 Octobre 2010 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #il fascismo

La propaganda tedesca opera in Italia in modo del tutto autonomo, con una rete parallela a quella del governo di Salò, ma che a questa - nei punti strategici e nei momenti focali - si sovrappone o si impone, sia per dettare norme di comportamento sia per l'esercizio di una censura drastica.

Accanto alla PK (Propaganda Kompanien) agiscono nel territorio della RSI altri tre centri: Propaganda Abteilung Deutschen (PAD), Propaganda Abteilung ltalien (PAI) e Propaganda Staffel West.

manifesto lavoratori in Germania manifesto lavoratori in Germania 2

Staffel significa formazione, termine che bene esprime l'intento pedagogico di chi vorrebbe plasmare gli italiani secondo canoni nazionalsocialisti. L'organizzazione tedesca è un’emanazione della Wehrmacht con diverse sedi nelle principali città italiane.

Il feldmaresciallo Rommel ha affidato alla Staffel, il 14 ottobre 1943, il controllo sulla stampa nel territorio della RSI. Il tema del lavoro è quello maggiormente divulgato, per favorire l'affluenza di manodopera in Germania. Nonostante gli slogan, in luogo del volontariato si ricorre alla precettazione. Le condizioni di lavoro nel Reich sono ben diverse da quelle decantate dai manifesti nazisti: lo appurano le stesse fonti di Salò. Una relazione dell' ottobre 1944 ironizza sulla promozione del lavoro in Germania:

«Si rileva come il trattamento tedesco per i nostri operai non risponda esattamente a quello dei proclami e degli inviti disseminati in ogni via d'Italia. Dal viaggio in vagoni bestiame ermeticamente chiusi al durissimo lavoro di 12 ore giornaliere, al rancio niente affatto all'italiana e, per lavoratori dell'industria pesante, insufficiente, i nostri operai sono in uno stato veramente miserevole. Risentimento contro le nostre autorità civili le quali a tutto e a tutti promettono di provvedere: promesse che non hanno alcun esito e alcun effetto. In un campo-lavoro di 45.000 persone, in mezzo a uomini delle più svariate nazionalità, in un conglomerato dove si parlano 22 lingue, tutti sono concordi “nel disprezzare l'italiano” e non c'è nessuno che cerchi di attenuare o modificare questo stato di cose. I metodi tedeschi più inumani e più duri sono usati solo per i lavoratori italiani i quali in questo caso sono da tutti vilipesi, mancando quell'autorità ai nostri dirigenti consolari che dovrebbero far assolutamente cessare questa palese ingiustizia».

La situazione non registra miglioramenti, se ancora a inizio marzo 1945 un emissario del duce che ha visitato i connazionali impegnati nei campi e nelle grandi industrie tedesche relaziona in termini assolutamente negativi:

«I nostri lavoratori sono stati fino ad ora abbandonati a loro stessi. Essi hanno in generale indumenti in stato deplorevole. Sembrano veri accattoni. Hanno sofferto e soffrono terribilmente il freddo. Le loro calzature sono per lo più costituite da zoccoli. Il loro modo di presentarsi li respinge dal consorzio civile; di qui molti incidenti incresciosissimi: è capitato più volte che nostri lavoratori sono stati espulsi dai tram ed altri mezzi pubblici di trasporto. Il loro stato di sporcizia li fa allontanare dai locali pubblici ed in qualche caso anche dai rifugi antiaerei».

Impossibile mascherare questa avvilente realtà e convincere gli italiani a recarsi volontariamente in Germania a svolgervi attività lavorativa.

 

Bibliografia:

- Mimmo Franzinelli, RSI - La repubblica Sociale del duce 1943-1945, Mondadori, 2007

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l’Organizzazione Todt

29 Octobre 2010 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Chi provvedeva in Italia alla costruzione di bunker, linee di difesa, alla riparazione di ponti e strade distrutte dai bombardamenti o dalle formazioni partigiane, era la famosa Organizzazione Todt. Questa organizzazione prese il nome dal suo fondatore Fritz Todt, ingegnere, che fondata nel 1933 in Germania per la costruzione di strade, autostrade, fortificazioni militari e linee di difesa, venne, durante la guerra, introdotta anche in Italia.

La Todt “italiana” era diretta da tecnici tedeschi che molto spesso appaltavano i lavori ai loro beniamini italiani compromessi, in maggioranza, col regime fascista.

TODT-Italia.jpg  TODT organizzazione

 

Gli uomini da dedicare a questi lavori venivano procurati dai militari tedeschi con l’appoggio delle autorità fasciste locali. In linea di massima questi lavoratori venivano assunti tra coloro che erano esenti da chiamate militari, gli anziani e i giovanissimi. Molti di costoro venivano regolarmente pagati, altri invece venivano rastrellati nelle città e nelle campagne e condotti forzatamente al lavoro con tanto di sentinella tedesca o di altre guardie. In ogni comune esistevano queste liste di lavoratori. Fu per tale motivo che molto spesso i partigiani rovistavano negli uffici comunali mettendo a soqquadro ogni tipo di lista o registro che contenesse nomi di uomini atti al lavoro o al servizio militare.

 

Bibliografia:

- Berti Amato-Tasso Marziano, Storia della Divisione Garibaldina «Coduri», Seriarte Genova, 1982

- Mimmo Franzinelli, RSI - La repubblica Sociale del duce 1943-1945, Mondadori, 2007

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Braccia italiane per l’Asse e “caccia agli schiavi”

28 Octobre 2010 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #il fascismo

 

Il reclutamento di lavoratori per la Germania e lo sfruttamento della manodopera italiana operato dai tedeschi nella seconda guerra mondiale.

 

Nella seconda metà degli anni trenta, la prospettiva di guadagnare alti salari, rispetto a quelli pagati in Italia, e di inviare congrue rimesse alle famiglie, invoglia molti lavoratori ad emigrare in Germania. All'esigenza di sopperire con lavoratori stranieri alla carenza di manodopera dell'alleato tedesco, corrisponde l'interesse del governo italiano di risolvere per questa via il problema della disoccupazione, nonché quello di pareggiare, attraverso le rimesse, il conto delle importazioni dalla Germania da cui dipendeva la nostra industria.

 

 

manifesto lavoratori in Germania 2Alla metà di aprile 1937 giunge all’Ambasciata italiana di Berlino la richiesta da parte tedesca di assumere un piccolo contingente di braccianti, 2.500 in tutto. Le autorità del Reich preferirebbero venissero dal Sudtirolo. È poca cosa, ma l’Italia ha circa 150.000 disoccupati nel settore agricolo, e perciò conviene alle autorità aderire all’invito nella speranza, l’anno successivo, di poter aumentare il contingente con braccianti provenienti dalle regioni più colpite dalla disoccupazione (Veneto, Emilia).

 

 

Il 28 luglio si giungerà ad un primo accordo; si conviene che «nell’anno 1938 la cifra dei lavoratori potrà raggiungere il numero di 30.000».

Nel 1938 partirono 31.071 braccianti, che divennero 36.000 nel 1939; dal 1940 il totale annuale si stabilizzò attorno alla cifra di 50.000.

Accanto ai braccianti, il Terzo Reich chiede all’alleato italiano anche edili e minatori. Dei primi, dall’autunno del 1938 a tutto il 1939, ne passeranno il Brennero 9.500, 3.000 destinati alla costruzione delle officine Volkswagen a Fallersleben, gli altri diretti a Salzgitter, dove è aperto il cantiere della grande acciaieria della Hermann-Göring-Werke.

A giudizio delle autorità militari tedesche, gli italiani erano gli unici stranieri che si potevano adibire ad alcune mansioni presso aziende dove si facessero produzioni particolarmente delicate, dal punto di vista militare, o presso cantieri navali.

Con lo scoppio del conflitto e l'invio di numerosi classi al fronte uno dei primi obiettivi del Reich fu quello di reclutare per il proprio fabbisogno produttivo interno lavoratori in tutti i territori occupati.

 

Il 10 giugno 1940 l’Italia entra in guerra. Obiettivo iniziale del gruppo dirigente di Roma è condurre una “guerra parallela”. Le velleità del regime devono però ridimensionarsi in fretta, visti i rovesci militari sia nell’Africa del Nord sia in Grecia: in entrambi i casi solo l’intervento di forze tedesche evita la sconfitta. Alla dirigenza nazionalsocialista diviene chiaro che l’alleato mediterraneo è di scarsa utilità dal punto di vista militare ma richiede enormi rifornimenti in materie prime e carbone. Conviene, quindi, cercare di utilizzarne al massimo il potenziale produttivo, in modo particolare per quanto riguarda la manodopera.

 

I capi militari nel Reich (il motto adottato dalla decima armata della Wehrmacht era "il tedesco combatte l'italiano lavora per lui") non soltanto avevano deciso di sfruttare le risorse territoriali che l'Italia offriva utilizzando il paese come bastione militare avanzato, ma erano anche risoluti a sfruttare per l'economia tedesca di guerra le «risorse umane» rappresentate dalla manodopera italiana. 

manifesto lavoratori in Germania 3 manifesto lavoratori in Germania

 

È così che, all’inizio del 1941, arrivano alle autorità fasciste richieste consistenti e dettagliate: nel gennaio si discute l’assunzione di 54.000 lavoratori industriali (edili e minatori, questi ultimi destinati alla Ruhr); pochi giorni dopo le trattative si riaprono su una richiesta tedesca di altri 200.000 lavoratori industriali; le autorità italiane ne offrono in tutto 150.000, così suddivisi: 50.000 dell’industria metallurgica, siderurgica, meccanica, 30.000 da altri settori ma suscettibili di essere impiegati in quei tre rami, 70.000 da altre branche produttive. Ed ancora non basta: con una nota del 19 giugno successivo il governo del Reich chiede altri 100.000 operai industriali.

Roma non può che acconsentire; viene così messo in piedi un complicato meccanismo di estrazione di manodopera dalle fabbriche, gestito congiuntamente dal ministero delle Corporazioni, da quello dell’Interno. Provincia per provincia, gli Ispettorati Corporativi e le Prefetture invitano ogni industria a fornire un elenco di tutti i dipendenti; su questa base verrà richiesto ad ogni azienda di fornire una quota proporzionale di lavoratori da mandare in Germania, «se possibile su base volontaria» e scelti, ovviamente, fra le classi di età non soggette alla leva. Dall’aprile 1941 cominciano a partire, dai centri di raccolta di Milano, Verona e Treviso, i primi treni speciali.

 

Nel periodo che va dalla crisi dell’estate 1943 alla Liberazione circa ottocentomila italiani (nella stragrande maggioranza maschi, ma non mancarono alcune migliaia di donne) vennero trasferiti (per la quasi totalità a forza) nel territorio del Terzo Reich. Lì i loro destini si incrociarono con quelli di altri centomila connazionali, giunti in Germania negli anni precedenti (dal 1938 in poi) sulla base di intese intergovernative tra Roma e Berlino.

Il 27 luglio 1943 Himmler, nella sua qualità di capo della polizia tedesca, bloccò i rimpatri di coloro che erano ancora al lavoro in Germania. Lo status degli operai e dei braccianti italiani precipitò a quello di lavoratori coatti.

Il gruppo più numeroso all’interno degli ottocentomila era rappresentato dagli IMI, “Internati Militari Italiani”, termine affibbiato dalle autorità militari e politiche del Terzo Reich a ufficiali, sottufficiali e soldati delle forze armate del Regno d’Italia catturati dalla Wehrmacht nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre 1943, in territorio metropolitano, nella Francia meridionale e nei Balcani.

Classificandoli in tal modo, invece che – come di consueto – “prigionieri di guerra” (Kriegsgefangenen), Berlino poté sottrarli al patrocinio della Croce Rossa Internazionale (CICR) di Ginevra e nello stesso tempo mantenere in vita con maggior spessore simbolico l’idea dell’Asse tra le due maggiori potenze fasciste (Germania ed Italia, quest’ultima sotto le vesti della RSI). Gli IMI, in tutto seicentocinquantamila, vennero detenuti fino all’agosto 1944 in campi di prigionia militare dipendenti dalle regioni militari in cui era suddiviso il Reich; gli ufficiali nei cosiddetti Oflager (campi per ufficiali), i sottufficiali e i soldati nei cosiddetti Stammlager.

Nell’agosto 1944 gli IMI vennero trasformati, con atto d’imperio, in lavoratori civili coatti, e vennero trasferiti nei cosiddetti Arbeiterlager (campi per lavoratori stranieri, sottoposti ad un regime di coazione). Oltre il novanta per cento degli IMI riuscì a sopravvivere alla prigionia: i caduti furono circa quarantamila.

Un secondo gruppo, di circa centomila, comprende i lavoratori portati in Germania dopo l’8 settembre 1943; di costoro un piccolo nucleo (alcune migliaia) aveva accettato le proposte di assunzione nel Reich propagandate dagli uffici aperti nell’Italia occupata dal Plenipotenziario generale per l’impiego della manodopera Fritz Sauckel. Gli altri, la maggioranza, furono catturati durante rastrellamenti (operazione definita «caccia agli schiavi», secondo il gergo della Wehrmacht) operati dalle unità tedesche e dagli apparati armati di Salò nelle retrovie del fronte o nel corso di azioni antipartigiane e vennero trasferiti in Germania per essere utilizzati nella produzione di guerra come lavoratori coatti. I partigiani, non soltanto paralizzavano il sistema dei trasporti e l’attività lavorativa, ma vanificavano anche qualsiasi contributo dell’Italia alla guerra.

Un terzo e numericamente più ridotto gruppo, di circa quarantamila persone in tutto, comprende infine coloro che vennero deportati dall’Italia avendo come destinazione il sistema concentrazionario nazista vero e proprio, dipendente dalla struttura SS. Di loro appena il dieci per cento (circa quattromila) riuscì a sopravvivere.

Tra questi quarantamila deportati italiani circa diecimila erano ebrei gettati nelle spire della «soluzione finale» e perciò mandati in gran parte (circa ottomila, di cui meno di quattrocentocinquanta i sopravvissuti) ad Auschwitz (dove nei mesi precedenti il genocidio era stato centralizzato), mentre i restanti finirono  nei lager di Bergen Belsen, Ravensbrück, Buchenwald, Flossenbürg. Gli altri trentamila, classificati dagli occupanti e dai loro alleati fascisti repubblicani tra gli oppositori politici o sociali, vennero inviati nei lager di Dachau, Mauthausen, Buchenwald, Ravensbrück e Flossenbürg.

 

 

Bibliografia:

 - Brunello Mantelli - Gli italiani in Germania 1938-1945: un universo ricco di sfumature - quaderni Istrevi, n°1/2006

-  Mimmo Franzinelli - RSI-La Repubblica del duce 1943-1945 – Mondadori 2009

 

 

 

 

 

 

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Lo scambio di prigionieri (Relève) e il servizio obbligatorio (STO)

27 Octobre 2010 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Dal 1940 le fabbriche francesi funzionano a pieno ritmo per il Reich. Le materie prime e la produzione industriale e agricola sono massicciamente inviate in Germania. Nel 1943 l’economia francese, che paga 400 milioni di franchi al giorno per le spese di mantenimento dell’esercito di occupazione tedesco, lavora solamente per la Germania: le sue materie prime, la metà del suo cuoio, gli autocarri, le automobili, i motori, gli aeroplani, il 20% della carne, la metà della produzione di ghisa, l’alluminio, il 76% del cemento, il 67% della produzione del frumento, il 15% dei suoi prodotti caseari, il 55% dei tessuti e il 60% della gomma vanno in Germania. L’occupante ha requisito 4.000 locomotive e 294.000 vagoni merci. Amministratori tedeschi dirigono numerose imprese. Ma nel 1942, queste esportazioni massicce non sono più sufficienti per far fronte alle esigenze belliche naziste.

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Nella primavera del 1942, il gauletier Fritz Saukel esige l’invio di 250.000 lavoratori in Germania. Laval propone un mercanteggiamento: in cambio di tre lavoratori che partono per la Germania, sarà liberato un prigioniero ( in realtà il rapporto sarà di sette a uno). Questo sarà lo scambio (Relève). Malgrado una forte disoccupazione, solo 49.000 francesi partono volontari. Per evitare che Saukel instauri il lavoro obbligatorio, Laval promulga una legge sull’«utilizzo e l’orientamento della manodopera» nel settembre 1942 completata nel febbraio 1943 con una nuova legge sul servizio del lavoro obbligatorio (STO), una sorta di coscrizione di tutti i giovani, uomini e donne, qualunque sia la loro qualifica, nati negli anni dal 1920 al 1922, che devono lavorare in Germania per due anni.

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Il «ricatto ai prigionieri»

L’opinione pubblica francese è preoccupata per questa «deportazione» in Germania decisa dal governo di Vichy. La Resistenza e gli Alleati denunciano il ricatto ai prigionieri e il tradimento che instaura lo STO, facendo appello alla renitenza. Alla fine del 1943, i renitenti allo STO si moltiplicano. Per far fronte al gran numero di renitenti che rifiutano la «deportazione», il ministro tedesco Speer e il suo omologo francese Bichelonne stabiliscono un accordo: i lavoratori francesi resteranno in Francia nelle 13.000 imprese (Speer-Betriebe) che lavoreranno per l’occupante. In totale, con i lavoratori volontari, i lavoratori STO (650.000), i prigionieri di guerra «trasformati» in operai, sono circa un milione i francesi utilizzati in Germania. Le condizioni di lavoro non sono quelle promesse dalla propaganda:

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ritmi infernali, dalle 10 alle 12 ore di lavoro al giorno, capi tedeschi violenti, perfino una coabitazione estenuante con detenuti nei campi di concentramento; le condizioni di vita non adeguate: camere insalubri, cibo nettamente insufficiente. Gli operai requisiti sono altresì sottoposti ai continui bombardamenti degli Alleati che tentano di annientare l’industria bellica nazista.

A questa manodopera francese in Germania, occorre anche aggiungere 2,5 milioni di francesi, spesso volontari che lavorano per l’organizzazione Todt nella costruzione di fortificazioni del muro dell’Atlantico.

 

Bibliografia:

Nicolas Jagora et Franck Segrétain – La victoire malgré tout – Edition LBM Paris 2005

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La vita quotidiana dei lavoratori coatti nella Germania nazista

27 Octobre 2010 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

«Ai miei fratelli dei tempi della miseria: Belgi,Olandesi, Cechi, Croati, Polacchi, Italiani e Russi. Nella dura condizione di lavoratori forzati, noi eravamo già l’Europa della fratellanza, coloro che divisero il pane e la speranza».

Jean-Louis Queveillahc,

deportato francese per lavoro coatto in Germania

durante la seconda guerra mondiale

 

Nel giugno 1942 le armate del III Reich occupano tutta l’Europa, dalla Norvegia alla Grecia, dall’Atlantico al Volga. Hanno anche passato il Mediterraneo e l’Africa Korps di Rommel è alle porte dell’Egitto.

In Germania, oltre alla mobilitazione da parte della Wermacht di uomini dai 17 ai 35 anni per combattere, vi era la necessità di rifornimenti di armi e materiali alle armate: la guerra moderna aveva esigenze enormi. L’aviazione, la marina, l’esercito, il sistema logistico e i trasporti erano grandi consumatori di prodotti industriali che esigevano sempre più manodopera.

Due sono gli uomini che hanno delle responsabilità nella guerra dopo Hitler: Albert Speer (responsabile della produzione industriale) e Fritz Sauckel (fornitore della manodopera). Tutto oppone questi due uomini; il primo è un intellettuale, il secondo un realista fanatico e brutale proveniente dai quadri delle SA (Squadre d’assalto). Speer opta per lo sfruttamento delle industrie situate nei paesi occupati; Sauckel per la deportazione in Germania dei lavoratori da impiegare nelle fabbriche tedesche. Hitler sceglierà la strategia di Sauckel. Da tutti i territori occupati centinaia di migliaia di giovani, maschi e femmine, sono deportati verso i centri industriali tedeschi.

Sauckel, criminale di guerra secondo il tribunale di Norimberga, verrà condannato a morte e impiccato per aver deportato sei milioni di giovani, uomini e donne, nella più grande operazione di riduzione in schiavitù dei tempi moderni.

arrivo lavoratori coatti in Germania

 

Appena passato il confine sono avvertiti con un altoparlante:

«Il grande Reich vi augura il benvenuto. Non dimenticate che siete in Germania, sottomessi alle leggi della Germania e non a quelle dei prigionieri di guerra. Tutti gli atti di sabotaggio o di rifiuto del lavoro saranno considerati come una diserzione e puniti come una diserzione. Le aziende in cui sarete impiegati vi rilasceranno una nuova carta d’identità (Ausweiss), la sola valida per la polizia che vigilerà sul vostro comportamento ».

Ausweiss

 

Ciò significa che, ormai, alcuna convenzione internazionale sarà applicata ai lavoratori coatti: né la Croce Rossa né la Convenzione di Ginevra. Essi non sono che dei singoli individui, consegnati ai loro futuri datori di lavoro, i quali applicheranno a loro i regolamenti definiti dagli stessi datori di lavoro: orari di lavoro, riposi, permessi ...

Le guardie interne alla fabbrica (Werkschuss) ed esterne (Gestapo) vigileranno sul rispetto del regolamento.

Allo spaesamento e al miscuglio delle nazionalità si aggiunge la terribile barriera della lingua: rari sono i lavoratori coatti che padroneggiano la lingua tedesca.

La legge del lavoro a cui devono sottostare in tutti gli stabilimenti industriali prevede una settimana lavorativa di 72 ore, di giorno come di notte, in quanto il lavoro non si ferma mai.

A questi orari occorre aggiungere i tempi per percorrere il tragitto che separa il campo dal luogo di lavoro. Questa distanza costituisce un vantaggio in quanto le industri sono un obiettivo dei bombardieri anglo-americani. Nessuna zona della Germania è risparmiata dai bombardamenti. Più il fronte si avvicina, più i bombardamenti sono frequenti, efficaci e terrificanti.

Sui salari che ricevono i lavoratori, le industrie trattengono dal 40 al 50 per cento per l’alloggio e l’alimentazione. I rimanenti sono spesi dai lavoratori in calzature e indumenti acquistati al mercato nero, oltre che per il tabacco e le sigarette che vengono trattate a peso d’oro. Nei rari giorni di riposo, i lavoratori possono incontrarsi con i loro compagni.

La sicurezza tedesca (Sichereitheim) - gendarmeria e polizia – compie frequenti controlli nei campi, col pretesto di proteggere i lavoratori deportati dai comportamenti di alcuni di loro (alcolismo, furti, aggressioni ...).

Le situazioni sono comunque differenti secondo i luoghi e le aziende.

In alcuni casi i lavoratori alloggiano all’interno delle fabbriche. Pur sapendo i rischi che correvano, in molti pensavano di approfittare di un permesso per non ritornare più in fabbrica. Alla fine di novembre 1943 i permessi furono aboliti.

Da giugno 1944, con lo sbarco alleato in Normandia, la condizione dei lavoratori coatti peggiora ulteriormente: non ricevono più né lettere né pacchi; possono solo mandare qualche notizia ai loro parenti.

Dall’attentato a Hitler del 20 luglio 1944 fino alla Liberazione, la Germania, controllata ormai dalle SS di Himler e dalla sua polizia, considera tutti gli stranieri come nemici potenziali e li tratterà come tali.

Dopo il 20 luglio 1944, muta anche lo status degli oltre 600.000 militari italiani internati nei campi di concentramento tedeschi: da IMI diventato per ordine di Hitler lavoratori civili.

da IMI a lavoratore civile

Le SS arrivano più frequentemente nei campi, dove gli armadi delle camere sono ispezionati e svuotati a tutte le ore del giorno e della notte: vino, frutta acquistata dai contadini, vestiti e stivali acquistati al mercato nero, ma soprattutto i ricevitori radio costruiti alla meglio per ascoltare “Radio Londra”. La sicherei theimpolizei ha tutti i diritti e effettua arresti, senza giudizio, per una durata da una a tre settimane. Coloro che sono accusati di rifiutare di lavorare o di sabotaggio, vengono giudicati da un tribunale composto da SS. La condanna varia da tre a otto settimane da trascorrere nei campi di punizione e di rieducazione al lavoro, Arbeitserziehmgslager. Si saprà poi che la condanna a sei settimane era sinonimo di condanna a morte. Coloro che scampano vengono riportati ai loro posti di lavoro e servono di esempio per gli altri.

Nel gennaio e febbraio 1945, quando le truppe sovietiche sono ai confini del Reich, la Germania mobilita tutti gli uomini validi compresi i ragazzi della Hitlerjugend (gioventù hitleriana). Ormai non essendoci più nessuno da mobilitare, i lavoratori coatti vengono prelevati dalle fabbriche per andare a scavare le difese anticarro; i lavori erano eseguiti sia di giorno che di notte, con il terreno gelato anche a -20 gradi: dodici ore con pala e piccone in condizioni disumane. Se questa non è schiavitù ...

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I lavoratori coatti francesi (STO)

26 Octobre 2010 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

La Francia è il paese che ha fornito una parte importante di manodopera all’economia di guerra del III Reich.

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Dal giugno 1940, dopo l’invasione tedesca, la Francia è divisa in zone: una zona proibita (le frontiere), una zona occupata e una libera ove si mantiene al potere il vecchio maresciallo Pétain, che sogna di risorgere grazie alla “Rivoluzione Nazionale”.

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La realtà è che la Francia ha due milioni di uomini prigionieri negli stalag e negli oflag nazisti ed è depredata per le enormi spese di mantenimento delle truppe di occupazione: l’intera sua produzione (grano, carne, carbone, prodotti industriali ...) va in Germania. Sul territorio francese la prima preoccupazione dei francesi non è la “Rivoluzione nazionale”, ma la fame.

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Nel 1941 nella Norvegia occupata era stata introdotta una forma di lavoro obbligatorio. Nel 1942 i nazisti richiedono al Belgio e alla Francia degli operai specializzati.

Fritz Sauckel, che è allora un importante rappresentante nazista, è nominato responsabile del reclutamento e dell’impiego della manodopera.

Dopo aver imposto alla Francia un forte contributo di guerra destinato alle truppe di occupazione e il sequestro della maggior parte della sua produzione industriale e agricola, i nazisti pretendono una forza lavoro. In un primo tempo questa manodopera è costituita dai prigionieri di guerra, poi da volontari, ai quali sono proposti dalla propaganda dei buoni salari oltre ad una adeguata alimentazione (la maggior parte della popolazione conoscono il razionamento alimentare).

partenza lavoratori coatti francesi

 

 

In questo contesto, dal 18 aprile 1942 è tornato al potere Pierre Laval, nominato da Pétain capo del governo del regime di Vichy, che attua una politica di maggior collaborazione con l’occupante tedesco. Il 10 giugno 1942 Vichy emette un’ordinanza per incitare alla partenza per la Germania di lavoratori volontari.

In tutta la Francia vengono, inoltre, aperti degli uffici di collocamento e vengono consegnati ai tedeschi la lista di tutte le industrie.

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Si ebbero delle partenze soprattutto dalla zona occupata, dove imperversava una disoccupazione intenzionalmente mantenuta. Malgrado la disoccupazione e la propaganda allettante, poco più di 100.000 volontari hanno risposto all’appello. Allora Pierre Laval tenta di giocare la carta dei prigionieri di guerra. Con l’accordo dell’occupante nazista, viene messo in atto un odioso ricatto: le autorità naziste libereranno un prigioniero di guerra ogni tre volontari che partono per le fabbriche tedesche.

Nel giugno 1942, Sauckel si reca a Vichy e impone a Laval il reclutamento forzato di 350.000 lavoratori. Alla fine del mese di giugno è annunciata alla radio la creazione della “Reléve” (operazione di reclutamento con scambio di prigionieri).

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Il primo treno di operai “reléves” arriva in Germania l’11 agosto 1942. Ma il numero di prigionieri liberati dai tedeschi è al di sotto delle promesse e anche il numero di lavoratori francesi che partono per la Germania è inferiore alle previsioni.

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Da un giornale della Resistenza francese                         manifestazione per impedire la partenza degli STO

 

Ma, nonostante una propaganda ben condotta, i risultati sono deludenti.

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Si aspettavano 200.000 partenze, invece sono solo 53.000: 12.000 in giugno, 23.000 in luglio e 18.000 in agosto. Alla fine del 1942 sono solo 240.000.

 

Il 1° settembre 1942 Sauckel pretende da Laval l’invio immediato di 300.000 uomini. Il governo di Vichy, il 4 settembre 1942, promulga una legge sul lavoro obbligatorio per tutti gli uomini dai 18 ai 50 anni e per tutte le donne dai 18 ai 35 anni.

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Pierre Laval con il capo della Gestapo in Francia

 

L’8 novembre 1942, in risposta allo sbarco alleato in Africa settentrionale, la zona libera della Francia è occupata dalle truppe del Reich. La fragile esistenza del governo di Vichy è finita: il suo unico ruolo ormai è quello di servire l’occupante tedesco.

 

Hitler conduce ormai una guerra totale che coinvolge tutta l’economia della Germania, trasformata in economia di guerra. Le fabbriche d’armi funzionano 24 ore su 24 e richiedono molta manodopera.

Alla fine del 1942 un decreto legge di Sauckel riguardante la zona occupata della Francia stabilisce il principio del lavoro obbligatorio. Questa misura è presto seguita da un decreto legge di Laval per la Francia di Vichy (anche questa zona della Francia dall’11 novembre 1942 sarà occupata dai tedeschi). Con questa legge, i lavoratori francesi che non lavorano direttamente per la Germania, possono essere reclutati dalle autorità prefettizie e inviati in Germania con treni speciali. Questo provvedimento entra in vigore dal 1° febbraio 1943 e riguarda tutte le donne senza figli dai 18 ai 45 anni e tutti gli uomini dai 16 ai 60 anni.

Dal 13 marzo al 15 luglio 1943, 500.750 francesi sono partiti per le fabbriche del Reich. Mai una nazione civile, nei secoli precedenti, aveva consegnato i suoi figli per essere ridotti in schiavitù!

Il 16 febbraio 1943 una legge impone il servizio del lavoro obbligatorio (STO, Service du Travail Obligatoire). Tutti i giovani di età dai 20 ai 22 anni possono essere mandati di forza in Germania.

Nel giugno 1943 Sauckel reclamerà 220.000 uomini, poi in agosto 1943 500.000. Poi ne pretenderà 1.000.000.

lavoratori coatti Germania 30 sett 1944

 

Dati ufficiali sul numero di lavoratori coatti in Germania al 30 settembre 1944

 

La Francia è il paese che ha fornito una parte importante di manodopera all’economia di guerra del III Reich.

400.000 lavoratori volontari, 650.000 reclutati come STO, circa 1.000.000 di prigionieri di guerra oltre ad un milione di lavoratori impiegati nelle industrie francesi che producevano esclusivamente per la Germania. Complessivamente sono 3.000.000 di persone.

I reclutati come STO erano pagati. Alla Liberazione saranno riconosciuti come “deportati del lavoro”. La STO ha spinto un gran numero di giovani a passare tra le fila dei partigiani. Contrariamente alcuni hanno scelto di arruolarsi nella Milizia o nella Legione dei Volontari Francesi (LVF) creata nel 1941 per lottare contro il “bolscevismo”.

 

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Legione dei Volontari Francesi (LVF) per lottare contro il “bolscevismo”

 

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giornale della Francia occupata

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Roma durante il ventennio fascista

25 Octobre 2010 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #il fascismo

Un ritratto della vita a Roma durante il Ventennio, degli inganni e della brutalità del regime dalle pagine di Con cuore di donna- Il Ventennio, la Resistenza a Roma, via Rasella: i ricordi di una protagonista” di Carla Capponi.

Carla Capponi (1918-2000) ha ricevuto la medaglia d'oro al valor militare per aver partecipato alla guerra di liberazione partigiana. Più volte parlamentare del Pci, ha fatto parte del comitato di presidenza dell'Associazione Nazionale Partigiani d’Italia.

 

Dall’avvento del fascismo alla guerra di Spagna.

 

La tragedia del delitto Matteotti aveva dato inizio all'avventura fascista.

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Nel suo intervento alla Camera dei deputati l'onorevole Matteotti, coraggioso uomo politico socialista, aveva lanciato contro il capo del governo delle precise denunce. Dopo la sua requisitoria parlamentare in cui che aveva osato denunciare le violenze e le illegalità compiute durante la campagna elettorale, era seguito l’agguato teso dai fascisti. Sottoposto a violenze, era stato rapito e ucciso all'interno di una macchina, seviziato con decine di coltellate. Fu ritrovato alla Quartarella dal cane di un cacciatore che, alcuni mesi dopo il delitto, mise a nudo il suo corpo martoriato e in disfacimento.

Il delitto risaliva al giugno del 1924, il processo farsa si svolse nel 1925.

 

Dopo l'attentato contro Mussolini nel novembre del 1925, del quale fu accusato quale ideatore il socialista Tito Zamboni, la violenza fascista si scatenò e le misure di sicurezza furono rese più severe. Iniziò la campagna contro le opposizioni e i sindacati, e una serie di provvedimenti colpirono i partiti politici: fu sciolto il Partito socialista unitario, furono sequestrati e sospesi molti giornali della sinistra, fu reso obbligatorio il saluto romano, che negli uffici e nelle scuole sostituì la stretta di mano. A piazza Venezia fu vietato il passaggio sul marciapiede antistante il palazzo dove il dittatore aveva stabilito la sede degli uffici di governo e del Gran consiglio fascista.

Inoltre era divenuta consuetudine imposta dal nuovo regime che prima di ogni film fossero eseguiti l'inno nazionale (marcia reale) e l'inno fascista "Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza" ed era fatto obbligo a tutti di alzarsi in piedi per salutare con il braccio teso.

Gli oppositori costretti nelle carceri, relegati al confino politico, emigrati all'estero o ridotti ai margini della società nelle borgate, perseguitati e ributtati in carcere ogni qual volta si svolgevano le manifestazioni "patriottiche" del PNF.

Nel 1927 c'era stato il primo sciopero delle filandaie e nel 1933, nel Vercellese, dopo mesi di proteste e rivendicazioni era iniziato uno sciopero delle mondine che i fascisti non poterono tenere nascosto perché durò più di un mese provocando violenze crudeli: una mondina restò cieca a causa del vetriolo lanciato dai fascisti contro le donne per intimorirle e farle cedere. Seguirono molti arresti.

Con la crisi economia del 1929 c'era stata una caduta del consenso al regime; si erano manifestati segni di scontento e un certo distacco dai rituali fascisti da parte di masse di lavoratori politicamente più evoluti. In Italia il disagio di certi strati sociali era cresciuto e lo si percepiva dalle difficoltà economiche nelle quali si dibatteva la gran parte degli impiegati e dei salariati: la crisi degli alloggi, gli stipendi bloccati da anni, I'incremento del costo della vita. Una parte sommersa di cittadini viveva ai margini della città ed era alla fame; l'accattonaggio era proibito ed era previsto l'arresto.

Con l'avvento del nazismo in Germania capimmo quale tragica prospettiva si apriva all'Italia con l'alleanza italo-tedesca.

 

 

La guerra contro l'Abissinia

Sulla Domenica del Corriere, Achille Beltrame illustrava in copertina le azioni vittoriose dei nostri soldati nella guerra contro l'Abissinia. Quell'impresa era "un'aggressione a un popolo libero e sovrano". In quelle illustrazioni era rappresentata tutta la violenza di uno scontro impari tra un esercito fornito di armi micidiali, un'aviazione che vantava di essere la migliore del mondo e un popolo che, per difendere la propria sovranità, aveva un esercito mal organizzato, privo di aviazione e di armi moderne. La guerra era condotta anche contro la popolazione civile. Una sciagurata impresa che costò il sacrificio e l'eroismo inutile di molte giovani vite di soldati, illusi di conquistare con facilità la terra di un popolo orgoglioso della propria cultura e geloso della propria libertà.

La guerra aveva fatto risalire il credito del fascismo. La canzone più diffusa nel periodo dell'aggressione all'Abissinia divenne Faccetta nera, ma fu proibita perché prometteva alla "negretta" che sarebbe divenuta cittadina romana e avrebbe avuto "un altro duce e un altro re". La pari cittadinanza con gli italiani non piaceva al Duce, che stava per imitare il Führer sulla purezza della razza, e la popolare canzone fu proibita, tolta dai programmi delle bande militari, ma restò sulla bocca degli italiani che ogni tanto la canticchiavano forse sole per spirito polemico.

Fu nel corso di quella guerra coloniale che l'Inghilterra chiuse lo stretto di Suez, e la Società delle nazioni, dopo vari appelli lanciati all'Italia, decretò le sanzioni economiche contro il governo italiano. Da quel momento ebbe inizio una campagna di propaganda che chiedeva agli italiani sacrifici per lo sforzo bellico: "Oro alla patria e rame e ferro per fare i cannoni".

Nella campagna per "l'oro alla patria", la macchina della propaganda mise in atto una grande manifestazione per la raccolta delle fedi d'oro che le donne italiane "dovevano donare per la grandezza dell'Italia.

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Le madri dei caduti nel gennaio 1935 portano le fedi sull’Altare della Patria a Roma. 

La guerra coloniale la vincemmo. La manifestazione più importante e spettacolare fu la proclamazione dell'Impero. La cosa più impressionante della manifestazione per la proclamazione dell’Impero, spettacolo folcloristico-militare, fu la presenza di alcuni prigionieri di guerra, RAS abissini, costretti a sfilare nei costumi di guerrieri con le caviglie incatenate.

Finita la guerra coloniale, Mussolini ne cominciò un'altra ancora più ingiusta e crudele contro il popolo spagnolo, che si opponeva alla sedizione di un gruppo di generali reazionari capeggiati dal generale Francisco Franco. Aveva avuto inizio la guerra civile spagnola, che assunse carattere internazionale con l'intervento dell'Italia e della Germania; per parte loro, i paesi democratici, Francia, Inghilterra e Paesi Bassi, dichiararono il non intervento, determinando l'isolamento del legittimo governo spagnolo. Migliaia di volontari accorsero a combattere contro i fascisti da ogni parte d'Europa e persino dagli USA, accentuando il carattere internazionale della lotta, e per la prima volta nasceva in Europa uno schieramento antifascista che superava ogni separazione ideologica.

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Grandi problemi di gestione si ebbero per raggiungere l'unità di tutte le forze politiche, per creare un esercito popolare forte, disciplinato, efficiente, per vincere la guerra e rinsaldare il governo repubblicano. Per gli anarchici vincere la guerra non era il fine, poiché tendevano a una rivoluzione sociale che realizzasse l'abolizione della proprietà privata, dello stato, dell'esercito e delle classi sociali, per costituire la "comune libertaria". Ma questa visione della lotta avrebbe determinato l'indebolimento fino alla rottura dell'unità del fronte combattente.

Quella guerra costò al popolo spagnolo un milione di morti e ai volontari italiani cinquemila caduti.

Pochi credevano allora che in breve tempo, di avventura in avventura, quel regime avrebbe portato l'Italia alla rovina. Solo Gramsci lo aveva detto ai giudici del Tribunale speciale che lo aveva appena condannato a morire in carcere, reo di essere il segretario del Partito comunista italiano.

                                                                                                       (continua)

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Roma durante il ventennio fascista (seconda parte)

25 Octobre 2010 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #il fascismo

dalle pagine di Con cuore di donna- Il Ventennio, la Resistenza a Roma, via Rasella: i ricordi di una protagonista” di Carla Capponi.

 

26 luglio 1943: sentii un clamore improvviso crescere dalle case: vidi spalancarsi le finestre e uomini e donne affacciarsi urlando qualcosa che non capivo. A via Cavour infine mi fermai e chiesi che cosa fosse successo. Una donna mi gridò: «Hanno cacciato via er puzzone, se n'è annato Mussolini».

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Da quel giorno la mia casa divenne uno dei centri dell'attività che riprendeva a manifestarsi riaggregando intorno ai partiti persone rimaste in clandestinità per tanti anni.

Il primo pensiero fu quello di chiedere la scarcerazione dei prigionieri e dei confinati nelle isole. In particolare, le riunioni che si tennero in casa erano tutte finalizzate alla mobilitazione per ottenere la liberazione dei politici costretti nelle carceri di Regina Coeli: avevano già liberato alcuni antifascisti ma non volevano rilasciare i comunisti, che erano i più numerosi.

Si era ai primi di agosto e tutto ancora era incerto. "La guerra continua", aveva avvertito Badoglio, e intanto si aveva notizie che diciotto divisioni tedesche stavano varcando i confini del Brennero.

Nelle discussioni alle quali partecipai si considerava se, caduto il fascismo, potevamo restare alleati di un regime dittatoriale: si poneva il problema che prima o poi avremmo dovuto prendere una decisione che, per logica, sarebbe stata quella di rompere l'alleanza con i tedeschi e di chiedere un armistizio unilaterale agli angloamericani.

I partiti si riorganizzarono e costituirono una forma di governo alla macchia, come si diceva allora, che doveva fungere da centro coordinatore della lotta clandestina: il CLN, Comitato di Liberazione Nazionale, che ebbe quale primo presidente un antifascista, Ivanoe Bonomi.

Molti treni che provenivano da nord erano pieni di gente di ogni categoria, maestre, impiegati, contadini, molte donne: tutti carichi di borse, valigie, pacchi, segno di un traffico di scambi ancora molto attivo tra città e campagna, unica risorsa per integrare le razioni da fame e sopravvivere alla carestia della guerra.

 

Otto settembre

La radio EIAR (sigla della RAI di allora) sospese le trasmissioni musicali alle 19.45 e, dopo un breve silenzio, fu annunciata la lettura di un comunicato. Poi, la voce del maresciallo d'Italia Pietro Badoglio scandì il proclama: "A tutte le forze di terra, di mare e dell'aria: il Governo italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare l'impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze angloamericane. La richiesta è stata accettata. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno a eventuali attacchi da qualsiasi parte provenienti".

Roma era divenuta il rifugio di tutti gli abitanti dei paesi distrutti dai bombardamenti. Dopo lo sbarco degli angloamericani a Salerno le popolazioni erano sfollate da Cassino, Frosinone, Colleferro, Valmontone e da altri paesi limitrofi, cacciate dall' avanzare del fronte della guerra e dalle distruzioni dei bombardamenti che avevano devastato città e campagne. Un esodo biblico aveva spostato centinaia di migliaia di persone, prive d'ogni bene, convinte di trovare sicurezza e assistenza nella capitale, protette dalla presenza del Vaticano. I fascisti avevano creato un Commissariato alloggi che smistava le famiglie dei sinistrati negli appartamenti requisiti e nelle foresterie dei conventi che accettavano di ospitarli. Ma di lì a poco anche in quel settore dell'assistenza cominciò a regnare il caos per l'enorme afflusso di sfollati che giungevano ogni giorno e perché i fascisti ne avevano fatto un commercio 'lucroso, ma anche per la disorganizzazione che ormai regnava in ogni settore della vita cittadina. Molte famiglie, fortunate, si erano arrangiate presso parenti; altre, più disperate, erano accampate nei luoghi 'più impensati e in tutte le zone della periferia erano fiorite una quantità di baracche costruite con lamiere, cartoni e ogni materiale reperibile adatto a creare un rifugio; persino le arcate degli acquedotti romani erano divenute alloggio di intere famiglie. Dopo i primi grandi bombardamenti di Roma altre migliaia di sinistrati erano stati collocati in varie caserme. I più raccomandati, i gerarchi fascisti dei vari paesi sfollati, erano sistemati negli appartamenti vuoti di proprietà dei vari enti. Si calcolava che il numero degli abitanti in città fosse addirittura raddoppiato.

 

Dopo l'otto settembre, i fascisti avevano proclamato la Repubblica sociale ricostituendo il disciolto Partito fascista con alcuni uomini del Ventennio. Avevano così avuto inizio le affissioni dei proclami che annunciavano l'obbligo al "servizio di lavoro" e all' arruolamento delle classi 1910-1925 nell' esercito della nuova repubblica fascista.

Non potevamo credere che nei quarantacinque giorni trascorsi da "La guerra continua", prima di decidere l'armistizio il generale Badoglio avesse lasciato entrare in Italia sedici divisioni tedesche che si erano dislocate nei punti strategici e nelle città chiave del Nord e del Centro Italia.

 

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I nazisti che avevano occupato la capitale iniziarono anche loro ad affiggere manifesti che annunciavano l'arruolamento per il servizio del lavoro sotto il comando delle SS, e la minaccia per chi non si presentava in tempo alla chiamata era la "punizione secondo le leggi di guerra" tedesche, ossia la condanna a morte. Ma i romani delusero le aspettative e non risposero agli appelli, sfidando così i diktat di morte dei tedeschi e dei fascisti.

 

Il sette ottobre 1943 il comando tedesco sciolse l'Arma dei carabinieri, arrestandone e deportandone gran parte: molti sfuggirono alla cattura.

Il sedici ottobre, alle cinque e trenta del mattino, ebbe inizio il rastrellamento degli ebrei dal ghetto. Il quartiere fu circondato da circa centocinquanta SS germaniche e da soldati della Wehrmacht, che in due ore rastrellarono mille e ventidue ebrei, snidandoli casa per casa, buttandoli giù dal letto, trascinandoli via senza permettere loro neppure di indossare abiti adatti. Quasi tutti si infilarono un cappotto sopra gli indumenti da notte e furono portati alla Scuola militare senza cibo, senza assistenza, buttati per terra in camerate, in attesa del tragico viaggio. Di quei mille e ventidue deportati in Germania solo quattordici si salvarono: tredici uomini e una donna, unica superstite della famiglia Spizzichino.

Fu dalla stazione Tiburtina che il diciassette, alle cinque del pomeriggio, partirono diciotto vagoni piombati dentro ai quali era anche una bimba, nata durante la notte, che non ebbe neppure una mangiatoia per culla. Pensare a quella madre giovanissima con la sua piccola creatura nuda, nel lungo viaggio verso le camere a gas, divenne per me un assillo che mi tormentò ogni qualvolta dovevo intraprendere un'azione contro gli aguzzini tedeschi e i loro alleati fascisti.

Il ventisette e il ventotto ottobre iniziarono i primi rastrellamenti per recuperare i renitenti di leva. Le strade furono bloccate e mezzi tedeschi sbarrarono le vie di accesso ai quartieri, che vennero circondati dalle milizie; tutti coloro che circolavano furono arrestati, dopodiché iniziarono i rastrellamenti casa per casa, Bussavano a ogni porta e se non ricevevano risposta la sfondavano e arrestavano chiunque fosse all'interno e avesse un' età compresa tra i quindici e i sessant'anni. Con brutalità spingevano i rastrellati nei camion, e spesso nelle perquisizioni rubavano i preziosi; in questa affannosa ricerca di braccia da deportare per il lavoro coatto in Germania o al fronte usavano violenza e molte volte anche le armi per bloccare quanti tentavano di sfuggire.

 

L'attività dei partigiani si concentrò contro il ricostituito Partito fascista. Fu deciso di scoraggiare i fascisti che ricominciavano a girare per la città, spavaldi nelle nuove divise della rinata Guardia nazionale repubblicana e rifatti franchi dalla massiccia presenza a Roma dei loro alleati.

I GAP di zona si organizzarono per attaccare le pattuglie fasciste.

Il mese di ottobre finì e già si contavano i risultati della presenza attiva dei GAP. Più di trenta azioni.

Dopo la disfatta dell'esercito, lo sbandamento dei soldati, l'occupazione della EIAR e dei più importanti ministeri da parte dei tedeschi, Roma era praticamente in mano ai nazisti. Una grande solidarietà si era instaurata tra civili e militari e, proprio grazie alla disponibilità dei primi cittadini, molti militari erano sfuggiti ai rastrellamenti e alla deportazione e avevano potuto riorganizzarsi nella clandestinità.

Così l'anno 1943 finiva. Un anno tragico che aveva cambiato la mia vita ed era stato denso di fatti straordinari e terribili. La guerra aveva incrudelito il conflitto, ma c'era una speranza che s'insinuava nell' animo, suggerita dagli avvenimenti, ed era che il crollo della dittatura nazista avrebbe seguito a breve termine quello del fascismo, avvenuto il venticinque luglio. Le prime disfatte in Africa e a Stalingrado, avevano segnato l'inizio di questo inarrestabile evento. Non pensavamo che ci sarebbero voluti ancora due anni prima della fine della guerra: gli Alleati erano bloccati a Cassino, ma la speranza della rottura di quel fronte ci dava coraggio e determinazione ad agire.

Malgrado avessero più volte dichiarato Roma "città aperta", i tedeschi continuavano a usarla come centro di smistamento delle truppe che combattevano sul fronte di Cassino, e lungo i viali tutta la città era occupata dai camion che ne regolavano il trasporto.

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Lo sbarco ad Anzio avvenne il ventidue gennaio 1944, sorprendendoci tutti, e immediatamente giunse l'ordine di organizzare "comizi volanti" per incitare i romani a concorrere alla cacciata dei tedeschi dalla città.

Alla Resistenza si chiedeva di contrastare con ogni mezzo il flusso di rifornimenti di militari e di armi che provenivano dal Nord, tutti effettuati a mezzo di camion poiché le ferrovie erano colpite ogni giorno e in gran parte erano già distrutte, I camion viaggiavano di notte e si occultavano di giorno, nascondendosi all'interno delle città per non essere attaccati dagli aerei americani.

Il CLN diede mandato alla giunta militare, costituita da Bauer, Amendola, Pertini, Partito d'azione, Partito comunista e Partito socialista, di organizzare la difesa di Roma nonché, secondo le richieste alleate, le operazioni di appoggio allo sbarco.

 

 

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Roma durante il ventennio fascista (terza parte)

25 Octobre 2010 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #il fascismo

dalle pagine di Con cuore di donna- Il Ventennio, la Resistenza a Roma, via Rasella: i ricordi di una protagonista” di Carla Capponi.

 

Roma: inverno e primavera 1944

 

Il popolo italiano aveva sulle spalle vent'anni di silenzio politico: un'intera generazione era cresciuta nell'assoluta ignoranza di qualsiasi forma di democrazia e di impegno politico e non era quindi pensabile che il popolo avesse la capacità di passare dalla totale inerzia politica a un' azione di lotta rivoluzionaria. I quattromilaseicento comunisti e gli oltre mille antifascisti, liberati dalle carceri nell'agosto del 1943, non erano in grado di riprendere in mano l'organizzazione di un'azione rivoluzionaria. Potevano solo riavviare o stimolare la presa di coscienza delle masse popolari che avevano manifestato il segno dello scontento e del rifiuto alla guerra.

 

25 gennaio 1944: la fuga di Pertini e Saragat dal carcere di Regina Coeli

Pertini, Saragat e gli altri erano stati sorpresi e arrestati in una riunione; portati a via Tasso, furono interrogati e trasferiti al braccio tedesco di Regina Coeli. Subito il PSIUP si mobilitò per studiare il modo di salvarli. A quel tempo era medico di Regina Coeli Alfredo Monaco, che occupava con la moglie, Marcella Ficca, l'appartamento messo a disposizione dei medici dalla direzione del carcere. Alfredo era già da tempo iscritto al Partito socialista ed era un convinto antifascista. Stabiliti i contatti con lui, i compagni Giuliano Vassalli e Filippo Lupis decisero di tentare di far trasferire il gruppo degli arrestati dal braccio tedesco al sesto braccio italiano.

Fu deciso di affidare a Marcella il collegamento tra il carcere e i compagni. Per parte loro, Giuliano Vassalli e Massimo Saverio Giannini agirono all'interno del palazzo di Giustizia grazie a un cancelliere collegato con la Resistenza. Così, Pertini e Saragat furono spostati dal terzo al sesto braccio, operazione determinante per la riuscita dell'impresa. Elementi della Questura centrale procurarono sette permessi di scarcerazione in facsimile, in bianco, e Marcella trovò il modo di contraffare il timbro. A quel tempo si usava ancora dimettere i carcerati direttamente dal carcere previa esibizione dei fogli di rilascio.

Per i due più importanti, Pertini e Saragat, si dovette far arrivare un ordine di immediata scarcerazione, in quanto per i politici, a conferma del foglio già compilato, occorreva un ordine diretto della Questura. Lupis e Luciano Ficca, fratello di Marcella infiltrato nelle PAI, effettuarono una falsa telefonata al direttore del carcere, nella quale Lupis, fingendosi questore, ordinava l'immediato rilascio dei sette nominativi: l'operazione fu portata a termine proprio mezz'ora prima che scadesse il coprifuoco.

 

 

A Roma molti vivevano in condizioni di vita intollerabili e crudeli. Erano militari sbandati, renitenti di leva che aspettavano nascosti la liberazione di Roma, pur di non andare al Nord con i fascisti, rischiando così la fucilazione; erano impiegati dello Stato che si erano rifiutati di trasferirsi al Nord con i ministeri. Le condizioni della loro clandestinità erano intollerabili, spesso costretti a nascondersi dietro intercapedini, in un armadio, in stanze occultate, dove restavano per ore in attesa che i loro ospiti li liberassero non appena fosse cessato l'allarme. Non dovevano fare rumore, obbligati a camminare in casa senza scarpe e a non affacciarsi mai alle finestre; dipendevano in tutto da chi li ospitava: parenti, amici, spesso sconosciuti che dopo l'otto settembre si erano volontariamente offerti di nasconderli, nell'illusione che gli Alleati sarebbero arrivati entro pochi giorni.

Ognuno pensava che da Cassino o da Anzio a Roma si potesse fare presto, e quando caddero le illusioni inizio la paura di non farcela. L'intolleranza a restare chiusi, il rischio sempre più reale di rastrellamenti effettuati perquisendo quartiere per quartiere e casa per casa diede luogo a rischiosi trasferimenti per nuovi nascondigli, mentre fame, freddo, malattie, gli abiti che si andavano logorando accrescevano il disagio e la paura. Per i bombardamenti la città perdeva la funzionalità dei servizi, e vivere nascosti diveniva sempre più difficile.

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Roma, primavera 1944. Donne romane lavano la biancheria nelle fontane pubbliche, presso il Colosseo, per mancanza di acqua nelle case dopo i bombardamenti alleati

 

Lavarsi era un lusso permesso a pochi privilegiati nelle residenze dei quartieri occupati dai comandi tedeschi; spesso mancava l’acqua per bere, gli insetti infestavano anche le case della borghesia, la scabbia si era diffusa per Roma, e per infestarsi era sufficiente andare in autobus, aggrapparsi ai sostegni o appoggiarsi ai mancorrenti, dove altri avevano lasciato i loro acari. L'odore nauseante del farmaco era avvertito fra i viaggiatori, nei bagni pubblici e nelle file per la distribuzione dei generi razionati. Eravamo tutti magrissimi, pallidi, gli abiti cominciavano a caderci addosso, le scarpe avevano la suola già più volte rappezzata, ribattuta da chiodi, e c'era chi portava ancora in pieno inverno zoccoli di legno.

C'era però anche chi la mattina beveva il cappuccino con la brioche, chi spalmava il burro sul pane all'ora del tè chi beveva vini prelibati per accompagnare bistecche e arresti di selvaggina o di abbacchio. Riconoscevi subito chi intrallazzava con i fascisti e con i tedeschi: erano i soli che giravano ancora con le auto a gas, erano donne ben vestite che si recavano impellicciate agli spettacoli dell' opera per le truppe naziste. La città aveva due categorie di cittadini: una minoranza che se la intendeva con il nemico e gli altri, la maggioranza, che soffrivano, morivano, speravano nella liberazione.

Roma serviva come base ai nazisti ed era loro necessario che la popolazione non fosse ostile: qui avevano installato comandi, tribunali, carceri e case di tortura, cercando di fare della città una zona franca sotto la protezione del Vaticano. Gli Alleati, per colpire gli insediamenti nazisti, furono costretti a bombardamenti crudeli che causarono migliaia di morti fra la popolazione civile: nei nove mesi di occupazione Roma ne subì cinquantasei.

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L’attentato di Via Rasella

Spiando da dietro le persiane, aveva notato che puntualmente, tra le quattordici e le quattordici e trenta, una colonna tedesca di circa centocinquanta uomini passava per via Due Macelli. Li aveva osservati attentamente, cercando di capire se erano soldati della Wehrmacht o SS, finché era riuscito a individuare in quel reparto un corpo speciale di SS, certamente con compiti di sostegno all' azione repressiva dei nazisti in città. In seguito, avremmo saputo trattarsi dell'undicesima compagnia del Polizeiregiment Bozen, aggregato alle ss di Kappler. La compagnia era composta di centocinquantasei uomini, di cui il più giovane aveva ventiquattro anni e il più vecchio quaranta. Tutti i soldati erano armati di fucile, di pistola Luger e di bombe a mano.

Dopo il successo di via Tomacelli, Giovanni pensò che si potesse attaccare quel reparto di SS e propose il progetto a Franco Calamandrei, Ernesto Borghese, Guglielmo Blasi e altri. Cominciarono a studiare un piano di attacco, ma l'idea del punto dove attaccare e del mezzo da usare maturò nel corso della preparazione, quando dell'impresa furono investiti entrambi i GAP, di Spartaco e di Cola, con undici uomini in azione e cinque di copertura e segnalazione. Dopo aver studiato bene ogni possibilità offerta dal percorso dei Bozen, fu deciso di scegliere via Rasella.

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La carretta utilizzata per nascondere la bomba nell’attentato di Via Rasella

 

 

La strage delle Fosse Ardeatine

Alle undici e trenta del venticinque marzo, l'Agenzia Stefani emise un comunicato del Comando tedesco di Roma: "Nel pomeriggio del 23 marzo 1944, elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bombe contro una colonna tedesca di Polizia in transito per via Rasella. In seguito a questa imboscata, trentadue uomini della Polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da comunisti badogliani. Sono ancora in atto le indagini per chiarire fino a che punto questo criminoso fatto è da attribuirsi ad incitamento angloamericano. Il Comando tedesco è deciso a stroncare l' attività di questi banditi scellerati. Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato siano fucilati dieci criminali comunisti badogliani. Quest'ordine è già stato eseguito".

Per noi quell'ordine assassino era un crimine contro il quale occorreva mobilitarsi, attaccare con maggiore durezza e determinazione. L'annuncio "questo ordine è già stato eseguito" con cui terminava il breve comunicato, suonava come una sfida: non avevano scritto "La sentenza è già stata eseguita", perché nessun tribunale avrebbe sancito una condanna così efferata, contro ogni legge, contro ogni morale, contro ogni diritto umano.

Dopo la liberazione di Roma, quando si indagò su quella strage si scoprì che solo tre delle vittime erano state condannate a morte con sentenza; neppure il tribunale tedesco installato a via Lucullo aveva avuto il coraggio o la possibilità di emettere una sentenza che desse appoggio legale a quel massacro. Volevano farei intendere che al di sopra di tutte le leggi del diritto e della morale, c'erano gli "ordini" del comando nazista, il "Deutschland über alles", della razza ariana, destinata a dominare tutte le altre considerate inferiori e per le quali non c'era bisogno né di tribunale né di sentenze.

Avevano assassinato in fretta gli ostaggi, occultato i cadaveri e lasciato le famiglie senza notizie, così che ciascuna potesse sperare che i propri cari non fossero nel numero dei destinati alla morte e aspettassero fiduciose. Per questo non fecero indagini, non cercarono i partigiani, non usarono il mezzo del ricatto chiedendo la resa dei GAP. L'eccidio doveva consumarsi per vendetta, non per cercare giustizia.

Volevano nascondere un altro crimine, l'avere ucciso quindici persone oltre i trecentoventi dichiarati, come scoprimmo quando, liberata Roma, furono riesumate le salme: trecentotrentacinque. I tedeschi uccisi erano stati trentadue, uno dei settanta feriti era morto durante la notte a seguito delle ferite: Kappler decise di sua iniziativa di aggiungere dieci vittime a quelle già predestinate e, nella fretta di dare immediata esecuzione all'eccidio, ne prelevarono dal carcere quindici, cinque in più della vile proporzione tra caduti tedeschi e prigionieri da assassinare, quindici in più di quelli autorizzati dal comando di Kesserling. Dell'" errore" si rese conto Priebke mentre svolgeva l'incarico di "spuntare" le vittime prima dell'esecuzione, rilevandole da un elenco all'ingresso delle cave Ardeatine, luogo prescelto per l'esecuzione e l'occultamento dei cadaveri. Lui stesso e Kappler decisero di assassinare anche quei cinque, rei di essere testimoni scomodi della strage.

 

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Bibliografia:

Carla Capponi Con cuore di donna- Il Ventennio, la Resistenza a Roma, via Rasella: i ricordi di una protagonista- Il Saggiatore Milano 2009

 

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Ricordando Giovanni Battista Stucchi a trent’anni dalla sua morte

6 Octobre 2010 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

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«… un uomo disinteressato, onesto, che strenuamente si è battuto contro la dittatura e contro i nazisti… Io perdo con Stucchi un amico fraterno …» dal telegramma del presidente della Repubblica Sandro Pertini alla famiglia

Quirinale 31 agosto 1980

 Stucchi con Pertini

 

Giovanni Battista Stucchi nasce a Monza il 9 ottobre 1899, da Ferdinando e Angiolina Prina, famiglia di piccoli industriali. Frequenta il ginnasio a Monza e il liceo Parini a Milano. Sottotenente, dal giugno 1917 al novembre 1918, partecipa alla prima guerra mondiale: è uno dei “ragazzi del '99”.

 Stucchi al fronte 1918A 22 anni si laurea in giurisprudenza presso l’università di Pavia ed esercita la professione di avvocato civilista nella sua città natale. Non si iscrive né al Partito Nazionale Fascista né al Sindacato forense fascista.

Una delle sue grandi passioni era la montagna: ricercava "nella solitudine delle rocce e nel silenzio dei ghiacciai la pace e la serenità dello spirito". Ottimo scalatore e sciatore, partecipava anche alle gare cittadine risultando sempre tra i primi.

Di idee liberal-socialiste, vide con preoccupazione l'avvento del fascismo, la sua trasformazione in dittatura.

Di quel periodo, così scrive Giovanni Battista Stucchi nel suo libro “Tornim a baita":

«vociava il duce dal balcone di piazza Venezia, “chi non è con noi è contro di noi” e poiché io non ero con loro, chiaro che diventavo un nemico, anzi il nemico. Qualche giorno prima della venuta del duce nella mia città per inaugurarvi il nuovo Palazzo di Giustizia ero stato convocato al commissariato di pubblica sicurezza. Il commissario mi conosceva e forse nutriva nei miei confronti una certa stima. Si giustificò col dirmi che la chiamata non era voluta da lui, ma dalla squadra politica romana che accompagnava e tutelava la persona del sommo gerarca nel corso delle sue peregrinazioni per il paese. Mi si ordinava di consegnare, temporaneamente beninteso, il passaporto per l'estero; cosa che non potei esimermi dal fare. Eppure tutto questo era meno di niente rispetto ai venti anni di violenze materiali e morali inferte agli italiani, alle centinaia di assassinati per mano del sicario fascista, alle migliaia di sentenze del Tribunale Speciale (i processati dei Tribunali Speciali furono 5.619 e i confinati circa 15.000), alle condanne a morte o ad anni e anni di carcere e di confino per semplici reati di opinione».

In seguito alle leggi razziali, nel 1938, a un suo amico ebreo fu proibito di entrare nel solito bar; Stucchi decise un gesto di solidarietà e di protesta: né lui né i suoi amici sarebbero più entrati in quel locale.

«Sapevo quale sventura rappresentasse per il popolo italiano la perdita della libertà e mi rendevo conto che il fascismo, per sua stessa logica interiore, avrebbe inevitabilmente tratto alla guerra e alla catastrofe».


Alla vigilia della seconda guerra mondiale viene richiamato alle armi con il grado di capitano degli Alpini, nella Compagnia Comando del Battaglione Valtellina, e spedito alle falde del Monviso.

«Partii ben lontano dal supporre che sarei tornato dopo sei anni e per di più con un’esperienza scottante che ha inciso profondamente nella mia vita».

Stucchi 1941Nel luglio del 1942 viene assegnato al corpo di spedizione italiano in Russia. Gli sarebbe possibile essere esonerato ma decide di partire con i suoi alpini: «Gli alpini mi guardavano in silenzio. No! Non mi sarei mai perdonato di avere recitato l'ignobile farsa dell'armiamoci e partite. ... Partirò con loro, dividerò il loro destino. Solo, pensavo, mi siano lasciate due speranze: di ritornare infine alla mia casa e di non trovarmi intanto nella condizione di dover uccidere».

Sul fronte del Don vive le tragiche fasi della distruzione dei reparti e, nel gennaio 1943, la ritirata tra le nevi, che causa migliaia di prigionieri e di morti assiderati.

Durante la ritirata le truppe italiane vengono accerchiate dalle truppe sovietiche.

Racconta Giovanni Battista Stucchi:

«Da quando eravamo usciti dalla sacca, avevo avuto tempo e modo di riflettere sul mio futuro. Come spesso accade a coloro che hanno camminato a lato della morte e si sono poi trovati al di qua del pericolo, vedevo tutto chiaro, sapevo che la lunga marcia non era finita, che il ritorno alla mia casa altro non sarebbe stato che una tappa dopo la quale avrei ripreso la strada, questa volta di mia volontà.

Se molti nodi restavano da sciogliere, molte le ingiustizie da riparare e i delitti da punire, non sarei rimasto questa volta a spiare attraverso le persiane, avrei bensì continuato a camminare fino a raggiungere quella meta che non era solo la mia meta, ma quella dell’intero popolo a cui appartenevo: libertà di tutti e giustizia per tutti in una Patria che fosse la sintesi della parità dei diritti e dei doveri tra cittadini e non l’espressione dell’egoismo nazionale e, meno che mai, la somma degli egoismi dei gruppi di potere».

 

Stucchi Nikolajewka -

G. B. Stucchi dopo Nikolaevka

 

Tornato in Italia, durante una licenza, nel mese di aprile si reca in Val Brembana, a San Pellegrino, per incontrare la moglie e la figlia sfollate a causa dei bombardamenti aerei sulle città.

Di quell’incontro il ricordo della figlia Rosella: «avevo riabbracciato il mio papà di ritorno dalla campagna di Russia con una medaglia al valore per la battaglia di Nikolaevka: mi ero presentata alla stazione a riceverlo con le medaglie che anch'io avevo meritato a scuola in seconda elementare».

Ai primi di maggio del 1943 G. B. Stucchi si reca a Monza e a Milano per ritrovare Gianni Citterio, Tonio Passerini e Poldo Gasparotto, «tre amici uniti dagli stessi ideali di libertà, in altri tempi compagni di alpinismo e di cospirazione e prossimamente (non ne dubitavo) compagni di lotta».

Così scrive Stucchi del suo contatto con la città:

«Non è che mi aspettassi di trovare un popolo in rivolta, ma di udire almeno qualche voce risoluta che, a costo di rischiare il carcere, si levasse dal malcontento generale a reclamare la cessazione della carneficina e a invocare la fine del fascismo che ne era all’origine. Invece tutto mi appariva tal qual era in passato, tutto procedeva sotto la opprimente cappa dello squallore e della rassegnazione».

Arriva il 25 luglio. Mussolini è destituito e il generale Badoglio, per incarico del Re, ha assunto il potere. Nel paese esplode il sentimento popolare di avversione per il regime, di entusiasmo per la sua caduta e di speranza di pace: nella notte la gente si riversa nelle vie e nelle piazze, i simboli del fascismo, statue e fregi, sono divelti e distrutti.

Racconta Stucchi nel suo libro “Tornim a baita":

«Dopo il 25 luglio la sola ed esclusiva preoccupazione del re era che si verificasse una sollevazione di popolo che avrebbe ostacolato il pacifico trapasso dei poteri dal governo fascista al governo militare di Badoglio e quindi messo in pericolo le sorti della corona. Avvenne perciò che, alla folla in tripudio si rispose con lo stato di assedio. L'ordine venne mantenuto al prezzo di 83 morti, 308 feriti e 1554 arrestati, per la quasi totalità operai scioperanti e dimostranti».

8 Settembre 1943: il generale statunitense Eisenhower fa trasmettere da Radio Algeri il comunicato che il Governo italiano ha chiesto la resa incondizionata delle sue Forze Armate. In serata Pietro Badoglio, capo del governo italiano, annuncia alla radio la firma dell'armistizio avvenuta segretamente cinque giorni prima. Mentre le truppe tedesche occupano le principali città italiane del nord e del centro Italia, il re fugge da Roma con la famiglia e il seguito e giunge a Brindisi.

Stucchi, si trova a Fortezza, in Alto Adige, quando arrivano i tedeschi: «ero assai simile all’animale che d’istinto sente il terremoto prima ancora che la terra incominci a tremare. ... Dal gabinetto sgattaiolai sul balcone, scavalcai la ringhiera e, tenendomi ad essa, mi calai fino a toccare con la punta dei piedi il tetto sottostante ... poi il cortiletto ... la strada nazionale del Brennero ... risalire l’Isarco verso Rio di Pusteria per dare l’allarme agli alpini del Tirano ... Il tutto durò più del previsto ... Nulla più da fare per il Tirano ... Non restava che pensare a me stesso.

L’itinerario da me ideato aveva il suo punto d’arrivo a Santa Caterina in Valfurva, nell’alta Valtellina.»

Raggiunge a piedi la Valtellina. La mattina del 15 settembre arriva a Santa Caterina in Valfurva. Alla radio viene trasmesso il comunicato dell'Agenzia Stefani: “Benito Mussolini ha ripreso oggi la suprema direzione del fascismo in Italia”.

Continua Stucchi: «Quali che fossero le difficoltà e i rischi, era subentrata in noi la certezza della fede antica e la coscienza della ineluttabilità della lotta armata, senza quartiere, contro tedeschi e fascisti. Da Tonio (Antonio Gambacorti Passerini) ebbi la conferma dell’avvenuta costituzione del Comitato di Liberazione Nazionale con la partecipazione dei cinque partiti antifascisti, caldeggiata soprattutto dai comunisti che si proponevano con ciò di caratterizzare in senso nazionale e unitario la lotta contro tedeschi e fascisti. Mia intenzione era di fondare una banda armata in alta Valtellina».

Dopo l’8 settembre circa trecento generali, primo tra loro Rodolfo Graziani, optarono per il Reich e passarono alle dipendenze del nemico. Moltissimi furono i generali che preferirono collocarsi a riposo di propria iniziativa, salvo riemergere a cose finite ricchi di giustificazioni e di pretese.

Coloro che si erano rifiutati di collaborare con il nemico qualcosa avrebbero potuto fare, ma questo esigeva umiltà, coraggio dell’iniziativa: tutte doti queste che mancarono ai comandanti e in particolar modo ai generali italiani.

In seguito ad un incontro a Milano con Gianni Citterio Stucchi apprende che il Partito Comunista aveva già iniziato la mobilitazione dei suoi quadri più preparati e degli iscritti per dar vita alla guerra per bande in montagna; queste bande, estese a tutto il territorio nazionale occupato dai tedeschi, avrebbero assunto la denominazione di Brigate Garibaldi in ricordo della guerra antifranchista di Spagna. Il compagno Gallo (Luigi Longo) presiedeva alla loro organizzazione e ne avrebbe assunto il comando.

Intanto il Comitato di Liberazione di Milano, su proposta di Ferruccio Parri, aveva deliberato la costituzione di un Comitato Militare avente il compito di assumere la direzione della lotta armata. Detto comitato era composto da cinque membri, uno per ciascuno dei partiti riuniti nel CLN.

Per quanto riguarda il Partito Socialista, Pertini, reduce dal confino di Ventotene, si trovava a Roma, trattenutovi dagli impegni nella direzione del partito; Morandi era stato rilasciato dal reclusorio di Saluzzo, in pessime condizioni fisiche a cagione della grave malattia provocata dal regime carcerario. Solamente nell’estate del 1944 entrambi poterono occupare il loro posto di combattimento e le formazioni armate del partito, con il nome di Brigate Matteotti, fecero sentire il loro peso sia in montagna che nelle città.

All'inizio del gennaio 1944, il Comitato Nazionale di Liberazione centrale, avente sede a Roma, aveva deciso di attribuire le funzioni e i poteri di «governo straordinario del Nord» al CLN di Milano, che di conseguenza prese la denominazione di CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia). La stessa qualifica si estese automaticamente al Comitato Militare di Milano (CMAI) da esso dipendente.

La scelta era caduta su Milano per la sua collocazione strategica. Da Milano, in quei tempi in cui le comunicazioni e i collegamenti erano critici, era più facile raggiungere gli altri capoluoghi regionali dell'Italia occupata e la Svizzera italiana, che era divenuta il centro d'incontro tra il summit della Resistenza e le rappresentanze diplomatiche e consolari inglesi e americane.

Fu in quel periodo che il Partito Socialista chiese a Stucchi di entrare nel Comitato Militare del CLN di Milano.

«Accettare la proposta dei socialisti voleva dire per me il passaggio immediato all’azione pratica, alla lotta effettiva».

Partecipa ad una riunione nella quale sono presenti Gianni Citterio, in rappresentanza del PCI e in sostituzione di Longo, Ferruccio Parri, accompagnato da Poldo Gasparotto, Galileo Vercesi, avvocato milanese come delegato della Democrazia Cristiana e il liberale Giulio Alonzi. Al termine della riunione viene deciso che ognuno doveva cambiare identità, per motivi di sicurezza: Parri si chiamava «Valenti», Gianni era diventato «Diomede», Vercesi «Cusani», Alonzi «Frattini»; Stucchi assunse lo pseudonimo di «Magni», nome di un contadino di Missaglia, che era stato suo attendente nella prima guerra mondiale; Gasparotto mantenne il suo nome Poldo.

«Il modo migliore e più efficace di mascherare ogni attività illegale è sempre stato quello di ammantarsi della più ortodossa legalità. Feci pertanto della casa di Monza la mia dimora stabile. Le riunioni del Comitato Militare si susseguivano di norma a distanza di una decina di giorni l’una dall’altra e sempre in luoghi diversi indicati da Parri».

Intanto la Repubblica di Salò, dopo il bando Graziani del 9 novembre 1943, emise quello del 18 febbraio 1944 in cui si ordinava la chiamata alle armi degli appartenenti alle classi 1923, 1924, 1925, con ordine categorico di presentarsi entro il 25 febbraio pena la fucilazione.

La minaccia ottenne due effetti: da un lato provocò l'effettiva fucilazione di numerosi renitenti, dall'altro indusse migliaia di giovani a raggiungere la montagna e passare alle bande partigiane.

«Al Comando Militare ci rendevamo pienamente conto dell'enorme importanza ai fini bellici di tutto ciò che avveniva all'interno delle fabbriche e sconvolgeva i piani tedeschi di produzione e di rapina». Tra gli operai, che rischiavano il carcere e la deportazione nei lager, e i combattenti della montagna si stavano formando vincoli di alleanza e di solidarietà, ciascuno nel proprio ruolo, con le armi il partigiano, col sabotaggio e con lo sciopero l'operaio.

Mentre nel marzo 1943 le maestranze erano entrate in agitazione per reclamare più pane e paghe più elevate, dall'1 all'8 marzo 1944, in tutto il Nord Italia, si svolse uno sciopero generale caratterizzato da una precisa matrice di natura politica: “né un operaio, né un giovane, né una macchina devono andare in Germania”.

Tale fu la costernazione dei comandi tedeschi che essi non eseguirono gli ordini impartiti da Hitler all'ambasciatore Rahn e al generale delle SS Otto Zimmermann, ordini che imponevano l'immediata deportazione nei campi di sterminio in Germania di un'aliquota di operai italiani pari al venti per cento degli scioperanti valutati nel complesso a più di un milione, vale a dire un'aliquota di duecentomila unità. In realtà gli arresti non raggiunsero il migliaio.

La notizia degli avvenimenti italiani ebbe ampia risonanza e suscitò stupore e ammirazione in tutto il mondo libero. Il “New York Times” in data 9 marzo 1944 riportava:

“In fatto di dimostrazione di massa non è avvenuto niente nell'Europa occupata che si possa paragonare alla rivolta degli operai italiani. È il punto culminante di una campagna di sabotaggi, di scioperi locali e di guerriglia, che ha avuto meno pubblicità del movimento di resistenza francese. Ma è una prova impressionante del fatto che gli italiani, disarmati come sono, e sottoposti a una doppia schiavitù, lottano con coraggio e audacia quando hanno una causa per la quale combattere”.

 

La morte di tre amici, suoi compagni nella lotta di Liberazione: Gianni Citterio, Poldo Gasparotto, Antonio Gambacorti Passerini

(a loro G.B. Stucchi dedicherà il suo libro di memorie “Tornim a baita - dalla campagna di Russia alla Repubblica dell'Ossola”).

Stucchi incontrò per l’ultima volta Gianni Citterio, iscritto al Partito Comunista clandestino, prima che si unisse agli uomini del capitano Filippo Beltrami con l'incarico di commissario politico. «Nello stringerci la mano all'atto di lasciarci» disse: «tieni presente che da dopodomani cambio pelle; assumerò il nome di Redi». Gianni Citterio cadde, con altri valorosi antifascisti, in combattimento con i tedeschi, a Megolo d'Ossola, il 13 febbraio 1944.

Ha scritto un superstite fortunosamente scampato al massacro: «Sulla nostra destra si era appostato Gianni Citterio (Redi). Me ne accorsi quando sentii che mi chiamava per nome. Ma poco dopo anche da quella parte venne un lamento. "Ritirati, ritirati", gridò il capitano. Ci parve che si muovesse e poi sentimmo un rantolo. Era finita. Anche Gianni era morto».

Inutilmente nei giorni che seguirono il giudice istruttore del Tribunale di Verbania cercherà di accertare l'identità del «commissario Redi». Racconta Stucchi: «quando una settimana dopo potei recarmi al piccolo cimitero di Megolo, vidi che sul tumulo di terra fresca della sua tomba, l'ultima a destra del vialetto centrale, era stata deposta una grande corona di fiori: recava la testimonianza di amore e di riconoscenza degli operai della Rumianca».

L'arresto e l’esecuzione di Poldo Gasparotto.

Con una decina di dirigenti e quadri del Partito d'Azione, Poldo Gasparotto era stato preso a Milano, nelle vicinanze del Castello Sforzesco. Finirono tutti a San Vittore. Fatti scendere nei sotterranei, furono aggrediti dai militi fascisti a suon di nerbate, di pugni, di calci e picchiati a sangue. Poldo Gasparotto fu trattenuto nei sotterranei più a lungo degli altri e sottoposto a speciali “cure”. Volevano che riconoscesse di essere il capo.

Quando, sorretto per le ascelle, fu scaraventato in cella, al primo momento gli amici, i compagni, lo riconobbero dall'impermeabile: era chiazzato di sangue. La faccia appariva gonfia, pesta, sfigurata dalle percosse, gli occhi erano spenti. Poldo si era rifiutato di rispondere ai suoi aguzzini. Venne poi internato a Fossoli. Il 22 giugno 1944, su ordine del Comando delle SS di Verona, fu prelevato dal campo, caricato dai tedeschi su una vettura al comando di un capitano. A mezza strada da Carpi, fatto scendere, venne ucciso.

La fucilazione di Antonio Gambacorti Passerini.

A Monza, nei giorni seguenti il 25 luglio 1943, “Tonio” e Gianni Citterio, avevano stampato e incollato nottetempo sulle saracinesche delle botteghe cittadine volantini inneggianti alla fine della guerra, alla libertà e alla giustizia in favore del popolo oppresso.

Tonio Passerini, socialista, essendo venuto casualmente a conoscenza che a Milano la polizia aveva fatto irruzione nel centro operativo del partito presso lo studio dell’avvocato Beltramini, si recò nei pressi riuscendo ad avvertire in tempo coloro che, sopraggiungendo ignari di tutto, rischiavano di cadere in trappola. Scrive Stucchi: «più di un compagno dovette la propria salvezza al coraggioso e generoso sacrificio di questo mio caro e nobile amico. Non ebbe fortuna e pagò di persona al più alto prezzo».

Un poliziotto, insospettito, scese in strada e lo arrestò. Rilasciato una prima volta fu subito ripreso e riconsegnato ai tedeschi. Venne internato a Fossoli dove, il 12 luglio 1944 nel vicino poligono di Carpi, fu trucidato dalle SS con altri 66 antifascisti.

Racconta la figlia di G.B. Stucchi Rosella: «Io e la mamma rimanemmo in val Brembana, dopo San Pellegrino a San Giovanni Bianco, fino all'estate del 1944. Poi i tedeschi avevano requisito il nostro alloggio e noi, con zie e cugini, ci eravamo trasferite a Piazzo, frazione di San Giovanni Bianco, da dove si percorrevano venti minuti di mulattiera per andare a scuola in paese. Alla fine dell'estate del '44 mi accolse un'altra zia a Clusone (val Seriana), dove rimasi un paio di mesi senza notizie dei miei genitori; ero convinta che fossero morti. In realtà il mio papà era entrato nella Resistenza passando alla clandestinità e la mia mamma stava preparando una nuova sistemazione anche per noi, lontana dalle persone che ci conoscevano, per paura di ritorsioni delle autorità fasciste. In novembre ci trasferimmo così a Milano in corso Sempione, ospiti di una parente di parenti, con il cui cognome, Caronni, io iniziai a frequentare la quarta elementare. Poi per ragioni di sicurezza passai ad un'insegnante privata che veniva in casa».

Nel suo libro “Tornim a baita" Stucchi scrive che «i rappresentanti alleati in Svizzera, allo scopo di rendere più frequenti e spediti i loro rapporti con la Resistenza italiana, avevano richiesto la nomina di un delegato militare stabile in Lugano. Si era anche parlato della persona da destinare a tale incarico ed era stato fatto il mio nome». E così avvenne: la decisione fu presa  in una riunione del CLNAI.

«Di pari passo con la crescita dei problemi, le mie andate a Berna si erano fatte più frequenti e impegnative».

La maggior parte degli incontri di Stucchi, che nel frattempo aveva assunto il nome di Federici, erano con John McCaffery, responsabile dei servizi segreti britannici in Svizzera.

Intanto una delibera del CLNAI aveva stabilito che il Comitato Militare Alta Italia si sarebbe trasformato in Comando Generale Corpo Volontari della Libertà, con uguale strutturazione politica, ma con precisazione dei compiti e conferimento di maggiori poteri. Tale delibera avrebbe favorito l'unificazione e quindi il rafforzamento morale e tecnico-militare dei reparti.

Il 5 settembre, dopo molte insistenze da parte sua, Stucchi ottiene di essere trasferito in Val d'Ossola.

Racconta: «L'idea, non ancora progetto, era di ripulire di fascisti e tedeschi una zona di confine ove concentrare, armare e inquadrare le formazioni partigiane già esistenti in luogo; di fare di esse, nel più breve tempo e non oltre i due mesi, un'unità organica e operante. La zona che a mio parere meglio si prestava allo scopo era la Val d'Ossola ... tramite la delegazione di Lugano ricevetti istruzioni dal CLNAI di provvedere con urgenza al coordinamento militare delle divisioni, brigate e reparti del CVL ivi operanti e ciò per potenziare, attraverso una stretta unione e cooperazione, la lotta di resistenza e di liberazione delle formazioni partigiane».

Alla fine del luglio 1944, il Comando generale del CVL fece un  censimento dei partigiani effettivamente presenti nell'intero territorio occupato dai tedeschi. Secondo le risultanze del conteggio fatto da Parri sulla base dei dati pervenuti, le presenze sarebbero ammontate a 50.000 partigiani, dei quali 25.000 garibaldini, 15.000 di Giustizia e Libertà e 10.000 autonomi a cui si aggiungevano 4.000 unità delle Brigate Matteotti.

Il 9 settembre, per un susseguirsi di fortunati colpi di mano, Domodossola e tutto il vasto territorio circostante erano completamente liberi dall'occupazione nazifascista.

La popolazione aveva accolto i partigiani liberatori con un entusiasmo e una gioia travolgenti.

Il 23 settembre “Federici” veniva riconosciuto come coordinatore dell'azione militare tattica e operativa e qualche giorno dopo si costituiva il Comando della Val d'Ossola, sotto la sua direzione.

 

 

GB Ossola 2G. B. Stucchi in Val d’Ossola

 

Benché l'Ossola non fosse la sola a liberarsi e autogestirsi, la sua vicenda ebbe una maggiore risonanza. Concorrevano a darle rilievo la vastità del territorio (eguagliata solo dalla Carnia libera), l'elevato indice demografico, il notevole livello di industrializzazione, la collocazione geografica che le consentiva da una parte di controllare l'importante valico ferroviario e stradale del Sempione e dall'altra di costituire per i tedeschi una potenziale minaccia sulla pianura padana tra Torino e Milano. Nella zona liberata si costituì quel modello sperimentale di gestione della cosa pubblica che, sotto il nome di «Giunta Provvisoria di Governo dell'Ossola», seppe esercitare il suo potere in ogni settore della vita amministrativa, mantenendo l’ordine pubblico.

Scrive G.B. Stucchi: «Per me l'Ossola, più che un comando di reparto, è consistita in attività più propriamente calata nella politica. Era insomma un prolungamento dell'attività già svolta nel Comitato Militare e come delegato militare in Svizzera. La mia opera consisteva nel trovare un coordinamento delle forze, prima che il coordinamento delle loro azioni e quindi per prima cosa mediare i dissensi di varia natura e cominciare ad essere simbolo della unità delle forze stesse».

Liberata l'Ossola, si decise di costruire opere campali, postazioni, interruzioni stradali, fosse anticarro e si apprestarono anche due campi di aviazione. Gli alleati purtroppo non mantennero le promesse fatte di inviare aiuti.

La Repubblica dell’Ossola, nata nell’agosto del 1944, durò solamente 33 giorni: i nazifascisti entrarono in Domodossola il 14 ottobre 1944.

Si decise allora, in considerazione delle cattive condizioni di armamento e di equipaggiamento, di ritornare alla guerriglia, abbandonando ogni piano di difesa delle valli.

Nelle prime ore del 22 ottobre il comandante Federici passa in territorio svizzero con i superstiti della resistenza ossolana e raggiunge Lugano.

All’inizio del 1945 riprende le sue funzioni di membro del Comando Generale del CVL in Milano fino all’insurrezione.

E siamo ormai alle giornate della Liberazione: con i suoi compagni di comando e di lotta, Stucchi sfila per le vie di Milano tra l'entusiasmo dei cittadini, ormai liberi dalla tirannia fascista e dall'oppressione tedesca.

 

distintivo riconoscimento CVL

distintivo di riconoscimento del Comando Generale del CLV

 

 5 maggio 1945 capi CVL 

Milano, 5 maggio 1945. Sfila il comando generale del Corpo Volontari della Libertà:

 da sinistra Argenton, Stucchi, Parri, Cadorna, Longo, Mattei

 

Dopo la guerra tornò alla sua professione di avvocato e dal 1946 al 1975 ricoprì la carica di consigliere comunale a Monza.

Dal 1953 al 1958 fu eletto deputato al Parlamento. In un suo intervento alla Camera dei Deputati del 7 luglio 1954 ha detto: «La nostra Resistenza, nel corso di mesi e mesi, ha costretto il tedesco a distrarre in media un terzo dei suoi effettivi dalla linea di combattimento per tener fronte ai partigiani d'Italia e per assicurare le vie di comunicazione e i depositi nelle retrovie».

 

CVL Torino 1.10.1961 c

Pertini, Stucchi, Longo, Parri e Mattei (Torino 1961)

 

Morì improvvisamente il 31 agosto 1980. È sepolto nel cimitero di Monza, nel “campo della gloria” insieme agli ottanta caduti della guerra di liberazione.

Nell'ottobre del 1983 è stato pubblicato postumo, curato dalla figlia Rosella, il suo libro di memorie “Tornim a baita - dalla campagna di Russia alla Repubblica dell'Ossola”.

 

Condivido le parole di Bruno Di Tommaso, pronunciate per la commemorazione di Stucchi nel Consiglio Comunale di Monza del 3 marzo 1991: «Tornim a baita incarna efficacemente il desiderio degli alpini di tornare alla pace, alla casa, agli affetti, ad una vita civile nella libertà e nella giustizia. Ma oggi questo titolo potrebbe diventare un monito per tutti a non dimenticare le speranze, i sogni, le ragioni profonde della Resistenza per le quali Giovanni Battista Stucchi ha combattutto con onore e per cui tanti hanno donato la loro vita».

 

Renato Pellizzoni

 presidente dell’ANPI di Lissone

 

 

Note bibliografiche:

-      Giovanni Battista Stucchi - Tornim a baita, dalla campagna di Russia alla Repubblica dell'Ossola – Vangelista Editore, 1983

-      Vittorio D’Amico – Monza nella Resistenza – Edizione del Comune di Monza, 1960

-      AA. VV. – Ricordando Giovanni Battista Stucchi, comandante partigiano, protagonista di battaglie civili e politiche – Comune di Monza e ANPI, 1991

-      AA. VV. – dalla Resistenza – Provincia di Milano, 1975

 

 

 

 

 

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