Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

La Costituzione italiana e i diritti del lavoro

31 Août 2011 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #il secondo dopoguerra

Un commento alla Costituzione repubblicana, scritto da Umberto Terracini nel 1948 .

 

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Terracini, che nell' ultimo periodo era stato presidente dell'Assemblea costituente, si sofferma su quei punti della Costituzione che riguardano il mondo del lavoro, ribadendo che «le norme scritte nella Costituzione rimarranno sulla carta, non si realizzeranno automaticamente, se i lavoratori stessi non agiranno, non veglieranno affinché gli organi dello Stato le svolgano in nuove leggi, e l'amministrazione pubblica non esegua ciò che queste leggi disporranno».

 

 «La nuova Costituzione della repubblica italiana è entrata in vigore il 1° gennaio di quest'anno. Il lavoratore italiano desidera sapere se ed in che modo la nuova legge fondamentale della repubblica provveda a soddisfare, dopo tante promesse, attese e speranze, le sue aspirazioni per un rinnovamento profondo della compagine sociale ed economica del nostro paese, in modo da assicurargli il posto che gli spetta nella vita nazionale.

A questo interrogativo si propone di rispondere brevemente questo scritto.

Il lettore della nuova Costituzione vede ricorrere in essa molte volte la parola «lavoro», completamente ignorata dallo statuto albertino del 1848. Sta di fatto che, dopo decenni e decenni di lotte tenaci, pur 'attraverso la parentesi obbrobriosa del fascismo, i diritti del lavoro hanno avuto finalmente il loro riconoscimento decisivo, diventando materia costituzionale e cioè parte integrante della legge fondamentale della repubblica.

La nuova Costituzione è ora patrimonio di tutto il popolo; e tutto il popolo deve sapere fino a qual punto in essa trovano corona le sue speranze e premio le sue battaglie.

Vediamola dunque più da vicino questa Costituzione, soffermandoci su quei punti che maggiormente interessano il lavoratore.

 

La Costituzione consta di 139 articoli e XVIII disposizioni transitorie e finali. Gli articoli sono raggruppati in Principi fondamentali e in due parti, di cui la prima è dedicata ai diritti e doveri dei cittadini e la seconda all'Ordinamento della repubblica. Ogni parte a sua volta è suddivisa in Titoli e alcuni Titoli in sezioni.

Le norme che riguardano particolarmente il cittadino lavoratore, sono raggruppate sotto il Titolo III della prima parte, che contempla i rapporti economici. Altre disposizioni sono poste all'inizio, fra i principi stessi fondamentali della Costituzione.

Infatti l'art. 1 stabilisce che «I'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro». Questa solenne affermazione evidentemente sta a significare non solo che il lavoro determina la prosperità ed il benessere della vita della nazione - che è vecchio assioma della scienza economica - ma anche che, a coloro che ne sono i portatori, debbono essere riconosciuti, nel quadro dello Stato, particolari funzioni, corrispondenti a quei diritti che numerosi articoli espongono.

A proposito dell'art. 1, giova ricordare che, nel corso della discussione avvenuta all'Assemblea costituente, era stata proposta la dizione: «l'Italia è una repubblica democratica di lavoratori» più impegnativa e più densa di significato: quasi ad affermare, che il titolo di cittadinanza nella repubblica presupponeva la qualità di lavoratore. Tuttavia questa proposta del deputato comunista Amendola, fu respinta per i voti contrari del centro e della destra.

Stabilito comunque che la repubblica è fondata sul lavoro, ne discendeva come conseguenza necessaria che tutti i cittadini devono essere messi in grado di lavorare, per riconfermare così ad ogni momento il loro titolo alla cittadinanza. Occorreva cioè affermare che il lavoro non può piu rimanere un fatto esclusivamente privato, di cui lo Stato si disinteressa, ma bensì un diritto oltre che un dovere del cittadino. Ecco quindi l'art. 4 proclamare non soltanto «il diritto al lavoro», ma anche l'obbligo per la repubblica di «promuovere le condizioni che rendono effettivo questo diritto». A nessuno può sfuggire l’importanza di questo impegno che poche altre Costituzioni assumono nei confronti dei cittadini; tra esse quella dell'Unione repubbliche socialiste sovietiche.

Ma anche l'art. 3 è interessante per questo nostro breve , studio, occupandosi come fa, dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Ma non già di una generica uguaglianza, basata sull'astratta parità di diritti. Noi sappiamo che una effettiva uguaglianza presuppone il superamento delle iniziali differenze di posizione economica. Ecco perché l'art. 3 sancisce: «È compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscano il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese». Sono queste le disposizioni di carattere generale sul lavoro. Passiamo ora alle disposizioni particolari.

La tutela del lavoro, in ogni sua forma ed applicazione, è stabilita dall'arto 35 che prevede anche la libertà di emigrazione e la tutela del lavoro italiano all'estero.

La giusta retribuzione del lavoro prestato, «in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia una esistenza libera. e dignitosa» è stabilita dall'art. 36. Lo stesso articolo si occupa anche della durata massima della giornata lavorativa, che dovrà essere fissata dalla legge; e inoltre del diritto del lavoratore al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite, senza possibilità di rinunciarvi.

La tutela della donna lavoratrice è efficacemente costituita dall'art. 37 che prevede per la donna parità. di diritti e di retribuzione - a parità di lavoro - con l'uomo. Ciò vale anche nel confronto dei minori.

Per i cittadini inabili al lavoro, nonché per i lavoratori colpiti da infortunio, malattie, invalidità, vecchiaia e disoccupazione provvede l'art. 38, affermando il diritto dei primi al mantenimento e all'assistenza sociale, e per tutti gli altri alla tutela necessaria, esercitata attraverso organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.

La libertà dell'organizzazione sindacale è sancita pienamente dall'art. 39 che prevede per i sindacati «rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti», la facoltà di «stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce». Questa norma rappresenta un forte incentivo al mantenimento dell'unità sindacale, sebbene si speri da alcuno che la «libertà sindacale » possa essere intesa come stimolo alla creazione di vari concorrenti sindacati. Infatti, è dalla forza numerica delle organizzazioni, e cioè dalla coesione delle categorie e dell'intera classe, che discende la capacità di convincere a patti vantaggiosi i datori di lavoro i quali non avrebbero
che da guadagnare dalle lotte intestine dei lavoratori.

Siamo giunti così all'arto 40 dedicato al diritto di sciopero, riconosciuto nell'ambito delle leggi che lo regolano. Ciò vuole dire che le leggi future potranno soltanto stabilire le modalità del suo esercizio, ma non mai sopprimerlo considerandolo, come già nel ventennio fascista, quale reato. Sarebbe stata in realtà desiderabile una formulazione più categorica del diritto di sciopero, quale contenuto nel primitivo progetto nel quale si leggeva: «tutti i lavoratori hanno diritto di sciopero». Ma contro di questa si sono battute tutte le prevenzioni e le diffidenze coalizzate dei gruppi politici non ancora convinti della maturità di coscienza dei lavoratori. È interessante ricordare che non è mancato, in seno alla Costituente, chi voleva sopprimere nella Costituzione ogni accenno al diritto di sciopero, evidentemente per abbandonare questa fondamentale arma di difesa dei lavoratori alle oscillanti venture della sorte politica; e nemmeno chi voleva condizionare il diritto di sciopero a quello di serrata, o addirittura stabilire il divieto di sciopero. Ma tutte queste velleità hanno dovuto cedere dinanzi alla formula concordata tra i maggiori partiti, che salva almeno il principio e non ogni sua estrinsecazione.

L'art. 41 stabilisce la libertà dell'iniziativa economica privata a condizione che non si svolga in contrasto con l'utilità sociale o a danno della sicurezza, della libertà o della dignità umana. Esso aggiunge che, «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali», timido inizio questo di una economia programmata.

Secondo l'articolo 42 la proprietà privata è riconosciuta dalla legge, «che ne determina», però i «limiti allo scopo di assicurare la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti», aspirazione forse utopistica, ma che autorizza larghe misure legislative di riforma agraria. È anche prevista dall' art. 43 la possibilità di esproprio per motivi di interesse generale, a favore di comunità di lavoratori o di utenti, qualora si tratti di servizi pubblici essenziali o di fonti di energia o di situazioni di monopolio; strada aperta, questa, a misure riformatrici in campo industriale.

La proprietà della terra è disciplinata dall'articolo 44, affermandovisi che «la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione» e «la trasformazione del latifondo». Dopo di che è sperabile che anche la magistratura rinuncierà a bollare di anticostìtuzionalità le leggi colpevoli solo di antilatifondismo!

Alla tutela ed allo sviluppo della cooperazione e dell'artigianato è dedicato l'art. 45, che erige un primo argine difensivo delle più modeste, ma più sane attività produttrici contro la spietata concorrenza delle maggiori intraprese capitalistiche.

Particolare attenzione merita l'art. 46, per il quale «la repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, alla gestione delle aziende». Echeggia in queste parole il grande moto operaio per il riconoscimento dei consigli di gestione, rivestito finalmente di valore giuridico e solo subordinato alle norme che la legge dovrà ormai sollecitamente emanare. I lavoratori, dopo questo solenne riconoscimento, non potranno più vedersi opporre le abusate accuse di illegalità nella loro azione innovatrice dei rapporti interni di fabbrica. Si deve peraltro ricordare che il testo del progetto di Costituzione era ancora più esplicito al riguardo, affermando «che i lavoratori hanno diritto di partecipare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende dove prestano la loro opera». Ma anche qui, sotto il velo di preoccupazioni giuridiche, si sono coalizzate in fronte ostile ai lavoratori tutte le forze più o meno conservatrici; sicché ha finito di prevalere la formula più temperata e cauta, tale tuttavia da confortare i lavoratori nelle loro lotte per un diretto intervento nella dirigenza delle intraprese.

Occorre da ultimo far parola di una nuova assemblea rappresentativa creata dalla Costituzione: «il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro». Previsto dall'articolo 99, dovrà essere composto di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa; e sarà organo consultivo, darà cioè pareri alle Camere e al governo sulle materie che gli saranno attribuite dalla legge. Il Consiglio potrà. anche presentare all'approvazione del parlamento disegni di legge e contribuire alla legislazione economica e sociale. ...

Esaurito così l'esame delle norme scritte nella Costituzione circa i diritti del lavoro, i lavoratori italiani si domanderanno come e quando esse saranno realizzate nella vita concreta del nostro popolo.

A questa domanda la risposta deve essere chiara e precisa: le norme scritte nella Costituzione rimarranno sulla carta, non si realizzeranno automaticamente, se i lavoratori stessi non agiranno, non veglieranno affinché gli organi dello Stato le svolgano in nuove leggi, e l'amministrazione pubblica non esegua ciò che queste leggi disporranno. Se, cioè, i lavoratori non opereranno per permeare tutta la vita politica del nostro paese dello spirito nuovo e trasformatore che ha dettate le formule costituzionali, pur nella loro azione ancora troppo spesso timida ed incerta.

Come l'affermazione dei diritti del lavoro si deve in gran parte alla forza dei lavoratori che, stretti in un grande organismo unitario, hanno esercitato la loro influenza e hanno posto all'ordine del giorno del paese la soluzione dei problemi del lavoro, così la realizzazione concreta di quelle affermazioni dipenderà dall'azione che, per l'avvenire, essi sapranno svolgere nel quadro della legalità democratica, secondo gli orientamenti riformatori che furono propri della grande lotta popolare per la libertà».

 

 UMBERTO TERRACINI, La Costituzione e i diritti del lavoro, in Costituzione della Repubblica, Roma, 1948.

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Considerazioni di Piero Calamandrei sulla Costituzione italiana

24 Août 2011 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #il secondo dopoguerra

«Tra il tipo di Costituzione breve, meramente organizzativa dell'apparato dello Stato, e il tipo di Costituzione lunga, che fosse anche ordinativa della società, l'Assemblea costituente scelse un tipo di Costituzione lunga, cioè contenente anche una parte ordinativa: la quale però, invece di esser volta ad effettuare una trasformazione delle strutture sociali, si limitava a prometterla a lunga scadenza, tracciandone il programma per l'avvenire». Piero Calamandrei

I lavori della Costituente, fino alla loro conclusione (dicembre 1947), si svolsero in un clima politico in rapida evoluzione In un articolo del 1955 Piero Calamandrei parla dei risultati apparentemente raggiunti con l'approvazione della Costituzione.

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«La Costituzione non fu, come lo statuto albertino, una Costituzione regia, cioè elargita (octroyée) da un sovrano, ma fu una Costituzione popolare, deliberata, quando ormai ogni ingerenza dell’ex sovrano era stata esclusa dal referendum istituzionale del 2 giugno 1946 che aveva scelto la forma repubblicana, da un'assemblea rappresentativa eletta dal popolo con metodo rigorosamente democratico. Ma non fu una Costituzione rivoluzionaria, nel senso che consacrasse in formule giuridiche una rivoluzione politicamente già compiuta. La generosa illusione del Partito d'azione che dalla unanimità antifascista della Resistenza potesse immediatamente uscire, subito dopo la liberazione, un rinnovamento delle strutture sociali ed economiche sulla base dei CLN, ebbe corta durata: con le dimissioni del breve governo di Ferruccio Parri, che rappresentò per qualche mese (dal giugno al novembre 1945) le superstiti speranze della Resistenza di dare all'Italia un governo di popolo che non implicasse la restaurazione della vecchia classe dirigente responsabile di aver dato vita al fascismo, la Costituente si aprì in un'atmosfera non più di unanime fervore rivoluzionario, ma di patteggiamento tra i grandi partiti di massa, da una parte i democristiani, dall'altra i socialisti e i comunisti. L'unica rivoluzione effettivamente già compiuta, della quale la nuova Costituzione doveva dare atto in formule giuridiche, era la caduta della monarchia: tutti erano concordi nell'assegnare alla Costituzione il compito di costruire giuridicamente un congegno di governo che avesse la forma repubblicana al luogo di quella monarchica, purché, al disotto di quella nuova forma politica, rimanessero invariate, almeno per il momento, le strutture economiche e sociali dell'Italia prefascista. Qualcuno avrebbe voluto che si desse alla Costituente non solo il compito di ricostruire in forma repubblicana le strutture fondamentali dello Stato, ma anche quello di deliberare almeno alcune fondamentali riforme di carattere economico-sociale, che rappresentassero l'inizio di una trasformazione della società in senso progressivo: avrebbe voluto cioè che la nuova Costituzione dovesse essere non semplicemente “organizzativa”  dei congegni di governo (dello Stato-apparato), ma anche “ordinativa” della vita sociale italiana (dello Stato-comunità). Ma questa idea non fu accolta; o per dir meglio fu raccolta a metà, per dare ai suoi sostenitori l'illusione che non fosse stata respinta del tutto. Tra il tipo di Costituzione breve, meramente organizzativa dell'apparato dello Stato, e il tipo di Costituzione lunga, che fosse anche ordinativa della società, l'Assemblea costituente scelse un tipo di Costituzione lunga, cioè contenente anche una parte ordinativa: la quale però, invece di esser volta ad effettuare una trasformazione delle strutture sociali, si limitava a prometterla a lunga scadenza, tracciandone il programma per l'avvenire.

Questo singolare ibridismo fu la conclusione di un compromesso tra quelle forze politiche contrastanti, che, con espressione approssimativa, si possono chiamare le forze conservatrici di destra e le forze riformatrici di sinistra.

Non si può dire che le forze conservatrici si identificassero colla Democrazia cristiana, perché questo partito già fino da allora comprendeva in sé tendenze contrastanti, alcune delle quali nettamente progressive in senso cristiano-sociale; e perché forze nettamente reazionarie, oltreché all'ala destra di quel partito, si trovavano fuori di esso, alla destra. estrema, sotto le etichette del partito liberale o del partito monarchico; né si può dire viceversa che le forze progressive si identificassero coi partiti socialista e comunista, perché in altri gruppi numericamente minori, come il Partito d'azione o il partito repubblicano, o all'ala sinistra della stessa Democrazia cristiana, erano ugualmente sentite le istanze di un profondo rinnovamento sociale. Dall'urto di queste due tendenze venne fuori il compromesso: tutti parvero concordi (o almeno la gran maggioranza, formata dall'incontro dei grandi partiti) nella condanna di quel tipo di plutocrazia capitalistica dalla quale era nato il fascismo, e nel riconoscere la necessità di un profondo rinnovamento delle strutture economiche della società italiana. Ma questa apparente accondiscendenza da parte delle destre a inserire tale riconoscimento, meramente astratto e programmatico, nella Costituzione, fu condizionata a che le sinistre rinunciassero ad ogni tentativo anche parziale di attuazione immediata di questa trasformazione sociale vagheggiata (e quasi si direbbe sognata) per l'avvenire, e accettassero di procedere a questa trasformazione mediante graduali riforme proiettate nel futuro, da concretarsi in leggi ordinarie attraverso i metodi legalitari della democrazia parlamentare. Così, come già fu osservato, “per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa“: purché l'estrema sinistra (e specialmente il partito comunista) accettasse i meccanismi “borghesi” della legalità parlamentare, le forze “borghesi” non si opponevano a lasciare aperta verso l'incerto futuro questa via legalitaria di un graduale e pacifico rinnovamento sociale, di cui già era segnato l'indirizzo e riconosciuta in anticipo la legittimità».

PIERO CALAMANDREI, La Costituzione, in AA.VV., Dieci anni dopo. 1945-1955, Bari, 1955, pp. 212- 215.

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L'affermazione dei «moderati»

10 Août 2011 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #il secondo dopoguerra

«patrimonio comune della Resistenza, è la lotta popolare per la libertà. È un fatto che resterà nella storia d'Italia». Federico Chabod

 

 È una lezione di storia sul periodo che va dalla crisi della Resistenza all'avvento della repubblica.

 

In essa Federico Chabod analizza le cause che alla fine comportarono il successo dei «moderati» (liberali e democratici cristiani) ed individua tre cause o motivazioni:

 

1. il condizionamento degli Alleati (situazione internazionale);

 

2. differenzazione fra Italia settentrionale e Italia meridionale;

 

3. il peso conservatore dell'apparato burocratico dello Stato, che chiama la «terza forza conservatrice ».

 

 

«Ecco perché gli “uomini del nord” trovano a Roma un ambiente che non è quello di Milano e di Torino.  

Cosa sono dunque, ci si chiede, questi Comitati di liberazione nazionale, che spuntano dappertutto come funghi? Nell'Alta Italia, infatti, accanto ai comitati di carattere politico, sorgono comitati nelle fabbriche, ecc. Il fatto è allarmante. È forse un ritorno ai “consigli di fabbrica”? Allorché il segretario del partito liberale, Cattani, durante la formazione del nuovo governo (maggio 1945), sferra un violento contrattacco nella polemica che mette di fronte Milano e Roma, egli ha dietro di sé buona parte dell'opinione pubblica delle regioni italiane che non hanno conosciuto la Resistenza o non hanno potuto conoscerla in tutto il suo vigore. La gente si chiede che cosa siano i Comitati di liberazione. È difficile per un popolo, rimasto diviso un anno e mezzo, rendersi conto di come si sia svolta la vita nell'altra parte. Qui non si tratta soltanto della forza esteriore della Military Police americana; è la stessa Italia che risulta divisa in seguito ad un'esperienza troppo diversa.  

L'ambiente romano non è quello di Milano e di Torino.   Non è colpa di nessuno: gli avvenimenti stessi hanno prodotto tale differenza.

 

Ed ecco fare la sua improvvisa comparsa, con enorme successo, il movimento dell'Uomo qualunque, decisamente ostile alla “politica dei CLN”. Il giornalista e scrittore Giannini fonda un giornale, L'Uomo qualunque, cui fa capo un movimento politico che compie notevoli progressi fino ad avere, nelle elezioni del 1946, 30 deputati. È la reazione della media e piccola borghesia dell'Italia da Roma in giù, contro le esperienze e le aspirazioni del nord. Peraltro, alle elezioni dell'aprile 1948 assisteremo al crollo di questo movimento, il quale non è altro. che un segno di protesta; il suo significato, per così dire, è quello d'una reazione: trascorso un certo periodo, il suo compito sarà esaurito. Ma intanto il movimento è forte, soprattutto a Roma, a Napoli, nelle Puglie.

L'esperienza vissuta dalla città di Roma è tutta particolare: non ha avuto una effettiva, reale esperienza dei Comitati. L'autorità verso cui Roma volge lo sguardo è il Santo Padre, non i Comitati di liberazione. Occorre. tener conto dell’nflusso del sentimento religioso sulla popolazione italiana.

 

Al termine della guerra la situazione della penisola era la seguente:

 

1. Forza militare degli Alleati, che controllano l'Italia.

 L'amministrazione militare alleata (AMG) favorisce largamente gli elementi moderati, non certo quelli «rivoluzionari». Questo si è già verificato nel sud e nel centro e si ripete ora nel nord.

 

2. Netta differenza d'opinioni e d'atteggiamenti fra l'Italia settentrionale (più alcune regioni del Centro) e l'Italia da Roma in giù.

Da soli questi elementi basterebbero nel complesso ad assicurare la vittoria ai partiti moderati del CLN, cioè i liberali e i democristiani, e a sbarrare la strada a ogni sforzo di rinnovamento profondo dello Stato; cioè a ogni tentativo “rivoluzionario”. Ma c'è di più.

 

3. C'è la forza enorme costituita, nello Stato moderno, dalla burocrazia, dalla struttura amministrativa dello Stato. È una forza meno appariscente dei partiti, ma che possiede una continuità, e può quindi esercitare col tempo un influsso forse superiore a quello dei partiti. Lo “Stato” moderno è, per molta parte, l'organizzazione tecnica della vita pubblica, cioè la burocrazia. Ora, la burocrazia è naturalmente conservatrice: la sua forza risiede nella “continuità” delle funzioni, non certo nel sovvertimento. Al suo interno possono operare, e operano di fatto, singoli individui, socialisti, comunisti, o membri del Partito d'azione; ma l'insieme ·funziona come un organismo che tende alla continuità e alla conservazione. La forza tecnica della burocrazia si trasforma così in una forza politica di gran peso, anche se poco appariscente. ...

 

Agli occhi del funzionario, lo Stato appare sempre come un'entità a sé stante, al di sopra della lotta politica; una entità materiata di leggi, di regolamenti, di continuità, di funzioni amministrative, che va salvaguardata ad ogni costo.

In un'Italia devastata e saccheggiata e dove tutto sembra paralizzato, occorre rimettere in funzione l'intero ingranaggio statale: il che significa non solo far circolare i treni, ma imporre di nuovo l'applicazione delle leggi e dei regolameriti, restituire agli uffici le competenze che spesso hanno perduto. I CLN hanno assunto i poteri del prefetto, dei questori, ecc.; ora è necessario tornare alla “normalità”.

Ecco dunque una nuova forza, la terza “forza conservatrice”; allorché il nord viene liberato, essa, nel Mezzogiorno e nel centro, ha già largamente riacquistato la sua capacità d'azione.

Così, al momento della liberazione, quello che era stato l'iniziale “slancio rivoluzionario”, viene infranto. Le discussioni per il nuovo governo fra il CLNAI, Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, e gli uomini politici di Roma durano un mese e mezzo. È una lunga crisi che rispecchia le difficoltà della situazione.

 

Due uomini reclamano a nome del proprio partito il diritto di porsi a capo del governo: Nenni per il partito socialista e De Gasperi per la Democrazia cristiana. Si giunge ad una soluzione che sembra il trionfo della Resistenza, ma in realtà è solo un temporaneo compromesso: presidente del consiglio sarà Parri, uno dei tre capi del Corpo dei Volontari della Libertà, appartenente al Partito d'azione.

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Il governo Parri non dura a lungo. Presidente del consiglio in giugno, nel novembre è costretto a subire l'offensiva lanciata ancora una volta dai liberali. I liberali lasciano il governo e i ministri democristiani escono a loro volta dal gabinetto. I partiti comunista e socialista non sostengono Parri. E il leader democristiano, De Gasperi, diventa presidente del consiglio (10 dicembre 1945).

Alcide De Gasperi 

 

Poco dopo (nel frattempo, dal 1° gennaio 1946, il Governo alleato ha restituito l'amministrazione dell'Italia settentrionale al governo italiano), i prefetti e i questori nominati dai Comitati di liberazione nazionale, che non sono funzionari di carriera, vengono invitati ad entrare regolarmente nell'amministrazione, cioè a trasformarsi in funzionari dello, Stato. Se non accettano, saranno sostituiti da funzionari di carriera. La quasi totalità dei prefetti dei Comitati di liberazione non accettano di entrare nei ruoli, e tornano alle loro professioni abituali.

a memoria di Riccardo Lombardi

Così a capo delle province, tornano i prefetti di carriera, cioè gli organi del governo; è un ritorno della tradizione governativa, della forza amministrativa. Il governo insedia, in questi importantissimi uffici, uomini di sua fiducia, al posto degli uomini del CLN. Il periodo dei prefetti “politici” è finito.

 

La forza enorme rappresentata dalla burocrazia, che è la continuità della tradizione, la forza del vecchio Stato che è riuscita a mantenersi, soprattutto nel sud dove non s'è quasi verificata un'interruzione, adesso riprende vigore, riprende il controllo della situazione politica, dell'ordine pubblico. Quando ciò avviene, si può dire che il periodo rivoluzionario è del tutto conchiuso.

 

Tuttavia un punto essenziale del programma della Resistenza che abbiamo definito “rivoluzionario”, troverà modo di realizzarsi più tardi: l'instaurazione della repubblica col referendum del 2 giugno 1946. Si conclude così il periodo della Resistenza.

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Politicamente esso termina, nell'insieme, col successo di coloro che possiamo chiamare i “moderati”, abbracciando con questo termine sia i liberali, che in seguito non avranno l'appoggio delle grandi masse elettorali, sia i democristiani, che al contrario usciranno vincitori dalla lotta elettorale.

 

Ma quello che resta come patrimonio comune della Resistenza, è la lotta popolare per la libertà. È un fatto che resterà nella storia d'Italia».

 

 

 

FEDERICO CHABOD, L'Italia contemporanea (1918-1948), Einaudi 1961

 

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22 dicembre 1947: la nuova Costituzione della Repubblica

8 Août 2011 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #il secondo dopoguerra

All'inizio del 1947, la situazione d'emergenza in cui ormai si dibatteva il paese non consentì più ulteriori ritardi nella lotta all'inflazione e nel risanamento dei conti pubblici. Anche perché il "prestito della ricostruzione" lanciato in ottobre non aveva dato i risultati sperati. Intanto la "tregua salariale" stipulata fra la Confederazione Generale del Lavoro e la Confindustria stava per essere travolta da un forte movimento rivendicativo a causa del continuo rincaro dei prezzi. E la vertenza per i contratti di mezzadria, arginata a giugno da un giudizio arbitrale proposto da De Gasperi, rischiava di riesplodere dovunque, dalle campagne del nord a quelle del centro-sud.

 

Nel Paese si andava sempre più ad una radicalizzazione del confronto tra la Democrazia Cristiana e le sinistre, Partito comunista e Socialisti. A questo peggiorato clima, che somiglia sempre più ad uno scontro, contribuisce la Chiesa con gli interventi di papa Pacelli, Pio XII.

Grande era l'influenza delle gerarchie ecclesiastiche cattoliche su un Paese come l'Italia del tempo (nel nome di una fede oltremodo diffusa, che si sentiva minacciata e sfidata dal comunismo, nonostante la moderazione di Togliatti).

In termini strettamente politici, importante sembrava a De Gasperi e ai suoi alleati di centro e di centrodestra l'ancoraggio alla potenza americana, in un momento in cui l'intero quadro internazionale, e non soltanto italiano, appariva fatalmente destinato a spaccarsi.

 

Il 3 gennaio, il presidente del Consiglio è partito per gli Stati Uniti, per una missione che sarebbe risultata decisiva per il futuro dell'Italia.

Truman e De Gasperi 

L'argomento dichiarato dei colloqui americani era la ricostruzione economica italiana e l'aiuto che ad essa sarebbe potuto arrivare dagli Stati Uniti (il Piano Marshall sarebbe stato annunciato solo cinque mesi dopo). Inoltre l'occasione ufficiale del viaggio era un invito a De Gasperi, da parte dell'editore di «Time» Henry Luce, a partecipare a Cleveland a un convegno sul tema: «Che cosa attende il mondo dagli Stati Uniti?». Lo stesso De Gasperi ne aveva dato notizia quasi en passant, al termine di una riunione del Consiglio dei ministri, il 20 dicembre.

Quanto ai risultati del viaggio, essi sono apparsi in definitiva modesti. La delegazione italiana è rientrata a Roma con un prestito della Export-Import Bank di appena 100 milioni di dollari (quando, nella seconda metà del 1946, alla sola Francia ne erano stati concessi 1 miliardo e 370 milioni).

I 100 milioni di dollari erano un gesto simbolico, che rispondeva a interessi di fondo di entrambe le parti e apriva prospettive comuni. E dunque erano la premessa di quella che sarebbe stata, quattro mesi dopo, la grande svolta della politica degasperiana e italiana. Senza patteggiamenti espliciti, ma con la consapevolezza in De Gasperi che, quando il suo difficile rapporto con le sinistre fosse arrivato a un punto di rottura (sulla politica estera, ma anche e molto su quella economica, cioè sui metodi ultimi della ricostruzione e dello sviluppo del Paese), egli avrebbe potuto contare sull'America. Ciò che corrispondeva, ovviamente, anche all'interesse degli americani.

Rientrato dagli Stati Uniti il 15 gennaio, il leader democristiano ha trovato un'altra novità: il Partito socialista di unità proletaria, che già nel congresso di Firenze di nove mesi prima aveva evitato a malapena una scissione tra le sue due «anime», quella filocomunista e quella socialdemocratica, si è definitivamente diviso, nel corso di un congresso stra ordinario. Da una parte la «vecchia casa», che ha ripreso il nome di Partito socialista italiano (Psi), e dall'altra coloro che non vi si riconoscevano più, i seguaci di Giuseppe Saragat e di Matteo Matteotti, che hanno dato vita al Partito socialista dei lavoratori italiani (Psli).

Giuseppe Saragat

La scissione è detta di Palazzo Barberini, perché in una sua sala si sono riuniti gli scissionisti, per prendere la decisione finale.   De Gasperi dà vita al suo terzo governo, ancora con socialisti (nenniani) e comunisti.  

Il posto del dimissionario Nenni agli Esteri è stato preso dall'«indipendente» Carlo Sforza, dal deciso orientamento filo-occidentale.

Carlo Sforza con Enrico de Nicola

De Gasperi ha mantenuto la coalizione con le sinistre per non affrontare, con i socialcomunisti all'opposizione, due importanti scadenze. La prima, addirittura fondamentale: la firma, il 10 febbraio a Parigi, del Trattato di pace, con le sue dure clausole, che tenevano poco conto della tardiva «cobelligeranza» italiana contro la Germania nazista e dell'apporto della Resistenza. La seconda, più funzionale agli interessi della Dc e ai suoi rapporti con la Chiesa, vale a dire il voto, sempre alla Costituente, sull'introduzione dei Patti lateranensi, cioè del Concordato tra Stato italiano e Santa Sede, nella Costituzione repubblicana, nel famoso articolo 7.

L'occasione della crisi è stata la preparazione dell'intervento del governo in un dibattito a Montecitorio sulla situazione economica. In seguito a contrasti in seno alla maggioranza, De Gasperi annunciò le dimissioni del governo.

Dopo una crisi difficile, De Gasperi, il 30 maggio, ha formato il suo quarto governo, il primo senza le sinistre. Quasi un monocolore democristiano, al quale tuttavia sono stati associati due liberali e quattro indipendenti, tra cui Carlo Sforza che veniva confermato agli Esteri.

Il nuovo governo ha ottenuto i voti della Dc, del Pli e del movimento dell'Uomo Qualunque, e la benevola assenza, al momento della fiducia, di una ventina di socialdemocratici e di alcuni repubblicani. Naturalmente, ha avuto anche il consenso del governo americano.

 

Il 12 marzo, Truman aveva lanciato la sua famosa «dottrina» sull'opposizione americana ad ogni ulteriore espansione del comunismo sovietico, e che al Dipartimento di Stato, il posto di Byrnes era stato preso dal più rigido George Marshall, che da lì a poco avrebbe annunciato il suo celebre Piano. Si era ormai, insomma, in piena guerra fredda. E non a caso la vicenda italiana aveva avuto degli immediati precedenti in Francia e in Belgio, con un'analoga esclusione dei ministri comunisti dai governi di unione nazionale.

Truman e Churchill

 

Nella Polonia sovietizzata, tra il 22 e il 27 settembre ha luogo la riunione istitutiva del Cominform, , con duri attacchi ai partiti italiano e francese (Pci e Pcf) per la loro tattica attendista e «parlamentarista». Secondo relazione conclusiva del sovietico Zdanov, che viene approvata, ormai nel mondo non c'erano che «due campi», quello dell'imperialismo americano e quello del «socialismo», guidato dall'Urss.

In Italia nel mese di novembre Giancarlo Pajetta occupa per un giorno, a scopo «dimostrativo», la prefettura di Milano.

Il Pci contro la crisi economica guida le agitazioni sociali.

Il 7 novembre 1947, i socialisti, che attribuiscono al nuovo Cominform la funzione di un semplice ufficio di collegamento tra partiti omogenei, in una riunione della Direzione, prendono in considerazione, anche in polemica e in alternativa al nuovo Psli di Saragat, sia pure non senza contrasti al loro interno, l'idea di un'alleanza elettorale con il Pci, da chiamare Fronte democratico popolare.

 

 Alle ore 19 del 22 dicembre 1947, fra i rintocchi della campana di Montecitorio, avviene l’approvazione della Carta costituzionale.

giugno 1946 lavori Costituente

I lavori sono durati un anno e mezzo, con 272 giornate di dibattito, il testo è stato preparato da una Commissione di 75 parlamentari, presieduta dal demolaborista Meuccio Ruini, e poi, dal 4 marzo, discusso in aula. I voti finali sono stati 453 a favore e 62 contro, questi ultimi essenzialmente da parte dei monarchici e dei rappresentanti dell’Uomo Qualunque.

 

Cinque giorni dopo, il 27 dicembre, a Palazzo Giustiniani, sede del capo provvisorio dello Stato e ormai primo presidente della Repubblica, Enrico De Nicola, avviene la cerimonia della promulgazione, vale a dire della firma della nuova Carta. La cerimonia si è svolta nella biblioteca in fondo alla Sala degli specchi.

Alle 17 in punto, nella biblioteca sono entrati il presidente dell'Assemblea, Terracini, e il presidente del Consiglio, De Gasperi, e quindi il capo dello Stato. Su un tavolo in noce, coperto da un velluto cremisi, tre copie della Costituzione rilegate in pelle, quattro portapenne; due calamai di bronzo e un portacarte di cuoio. De Nicola ha inforcato gli occhiali e ha detto: «Possiamo firmarle con coscienza».

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Quindi è stata la volta di Terracini e di De Gasperi. Alle 17 e 30 la riunione si è sciolta.

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La nuova Costituzione era un documento di democrazia, quale il Paese non aveva in fondo mai conosciuto, essendo passato dallo Statuto ottocentesco al regime fascista e poi all'occupazione straniera. Era altresì l'ultimo atto della cooperazione post-bellica tra i partiti antifascisti. A quel punto cominciava la fase conflittuale, come del resto richiedeva la nuova normalità democratica.

 

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Bibliografia:

Aldo Rizzo - “L’anno terribile. 1948: il mondo si divide” - Laterza 1977

 

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La fine di un regno

2 Août 2011 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #il secondo dopoguerra

In questo documento Giuseppe Romita, ex ministro degli Interni del primo Governo De Gasperi, rievoca le ultime ore della monarchia sabauda quali le vide dall'osservatorio del Viminale.

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Risalta il suo atteggiamento di stretta vigilanza, pur manovrando un apparato alquanto infido, sulle ultime insidie dei monarchici, sempre pronti alla rissa e alla sedizione.

Il computo dei suffragi, durato alcuni giorni, aveva dato alla fine la maggioranza relativa alla repubblica, la Corte di Cassazione aveva però semplicemente registrato il risultato, in attesa di una verifica su un'aliquota di voti che comunque non avrebbe potuto modificare l'esito della consultazione.

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Nell'attesa - il 10 e 11 giugno - i monarchici avevano scatenato violente agitazioni e Umberto fu indotto dall'ala oltranzista del partito di corte a ritardare il passaggio dei poteri al presidente del Consiglio.

Romita racconta quei momenti e la partenza del “re di maggio”.

11 giugno 1946

Al Viminale quel giorno, per la prima volta nella storia, era stata issata la bandiera italiana senza lo scudo sabaudo. Un evento importante - mi sembra - anche se. al Quirinale sventolava ancora l'altra bandiera. E da piazza del Popolo, una folla enorme sfilò sotto il palazzo. Ma fu con la disciplina più completa, perché la repubblica era ormai nella vita del paese e il popolo voleva dimostrare che repubblica, nonostante tutte le denigrazioni delle quali era stata oggetto, significava anche ordine ... Al Quirinale andò De Gasperi nel pomeriggio. Noi socialisti non fummo molto d’ accordo sull’opportunità di quella visita. Ormai, la delega del poteri ci sembrava superata ... Anche altri ministri erano del nostro parere.

De Gasperi, comunque, sospese la seduta del Consiglio.

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Umberto gli aveva promesso la lettera, di delega ed egli ne era in attesa.

Fu un'attesa vana! Un Savoia, per l'ultima volta, mancò di parola.

Il presidente del consiglio ebbe notizia del rifiuto a mezzanotte, per telefono, ma non ce ne diede comunicazione ... E il consiglio dei ministri fu rinviato al giorno seguente.

Gli avvenimenti, ormai, precipitavano. A mezzogiorno del 12 Falcone Lucifero, ministro della Real Casa, consegnò la lettera ufficiale di rifiuto di Umberto. De Gasperi convocò allora il Consiglio dei ministri e ci riferì con esattezza quanto era avvenuto durante la notte e in quella mattinata. Fu una seduta che ci vide tutti concordi: Umberto si avviava su una strada pericolosa. Non accettava più neppure di dare una delega, che avrebbe consentito al presidente del Consiglio di essere capo provvisorio dello Stato in suo nome. Era davvero giunto il momento di finirla! ...

Dopo la relazione di De Gasperi, anch'io presi la parola. Sapevamo che. il momento non era facile; tuttavia sentivamo anche la gioia di essere giunti al termine del nostro grave lavoro.

Chi avrebbe sostituito Umberto, finalmente per volontà della nazione non più re d'Italia? Avevamo ormai vagliato tutti gli aspetti del problema e la soluzione, anche alla luce del diritto costituzionale, ci appariva una sola: durante il breve periodo transitorio che attraversavamo e nell'attesa che l'Assemblea costituente potesse nominare il capo provvisorio dello Stato, l'esercizio di tali funzioni spettava ope legis, al presidente del Consiglio in carica. ...

Con quel documento tagliammo definitivamente ogni ponte col Quirinale: Umberto II per noi del governo, come già da due giorni per il paese, non esisteva più.

I monarchici, tuttavia, non erano dello stesso avviso. Tennero una riunione nel corso della quale discussero tre tesi: gli estremisti erano per il colpo di Stato; i moderati per la partenza del monarca con un manifesto di protesta alla nazione contro il Governo; certuni, infine, erano per la sua permanenza senza alcuna presa di posizione. ... Prevalse, per fortuna, la seconda tesi e non la prima.

Umberto, intanto, quella sera, si era allontanato da palazzo ed era restato in una villa di amici presso Roma.

Ebbi anche notizia dal servizio informazioni degli americani, che aveva avuto un colloquio con l'ammiraglio Stone. ... Mi fu riferito soltanto, che l'ex re aveva chiesto informazioni sull'atteggiamento delle forze alleate. ...

Intanto, seguivamo ogni movimento di Umberto. Egli, dopo essere restato nella villa degli amici sino a tutta la mattina del 13, rientrò al Quirinale alle 14,30 per congedarsi dai propri uomini.

Avuta notizia dell'ora della partenza e del mezzo usato, diedi ordine che le forze di polizia fossero in numero sufficiente per prevenire qualsiasi gesto inconsulto contro la persona dell'ex sovrano, ma che, nel contempo, non fossero tali da dare nell'occhio. ...

Diedi precisi ordini perché all'aeroporto di Ciampino non potessero aver luogo incidenti e la partenza potesse svolgersi tranquillamente. ...

Tra le 14,30 e le 15 Umberto ricevette uomini politici, amici, funzionari ed ufficiali del palazzo. Quindi, con una breve cerimonia militare, prese congedo dai corazzieri e dai carabinieri.

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E alle 15,40 era già sull'aereo.

Egli, però, accettando il consiglio dei suoi diretti collaboratori, all'atto della partenza diramò il noto proclama, che - a parte la retorica - suonava indubbiamente provocatorio.

Fu un gesto che all'ex sovrano recò soltanto danno.

De Gasperi, che nei confronti della corona era sempre stato estremamente obiettivo e aveva più volte espresso giudizi favorevoli sul comportamento del re di maggio, fu in quell'occasione del mio stesso. avviso, condannandone apertamente l'operato.

Probabilmente il destino era segnato: i Savoia dovevano finire con uno dei loro soliti errori di valutazione politica, sicché agli italiani non fosse in alcun modo possibile rimpiangerli.

Il proclama voleva suonare accusa contro il governo: «Il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo, con atto unilaterale ed arbitrario, poteri che non gli spettano, e mi ha posto nell'alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza».

Con queste parole Umberto dimostrava finalmente - lui che si era più volte detto pronto ad accettare la volontà del popolo - di non saper perdere. E l'accenno alla violenza, che diceva di voler evitare, era un invito alla stessa.

«Compiendo questo sacrificio nel supremo interesse della patria, sento il dovere, come italiano e come re, di elevare la mia protesta contro la violenza che si è compiuta ... » diceva Umberto. E con ciò si rivolgeva palesemente ad oltre 10 milioni di italiani, che avevano votato per lui, e dai quali, probabilmente, nonostante l'ipocrisia palese dell'invito alla calma, si attendeva una reazione. Se quella reazione fosse avvenuta, l'ex sovrano avrebbe potuto seguirla dal sicuro rifugio dell'esilio. ... Al Viminale, dove restai vigile, mi giunsero rapporti che, per quanto concerneva i monarchici, segnalavano qua e là nel sud qualche manifestazione, ma non di tale entità da essere considerata allarmante per l'ordine pubblico.

l giorno dopo diramammo un comunicato: «La partenza del re, avvenuta ieri alle 15,40 da Ciampino - vi era detto - è stata con ogni cura tenuta nascosta dal governo. » E dopo aver dichiarato fazioso il proclama dell'ex re, così concludevamo: «Il governo ed il buon senso degli italiani provvederanno a riparare a questo gesto disgregatore, rinsaldando la loro concordia per l'avvenire democratico della patria ».

E fu quanto gli italiani fecero.

 

da GIUSEPPE ROMITA, Dalla Monarchia alla Repubblica, Pisa, 1959, pp. 216-222.

 

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La XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione recitava:

 

I membri e i discendenti di Casa Savoia non sono elettori e non possono ricoprire uffici pubblici né cariche elettive.

Agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l'ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale.

I beni, esistenti nel territorio nazionale, degli ex re di Casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi, sono avocati allo Stato. I trasferimenti e le costituzioni di diritti reali sui beni stessi, che siano avvenuti dopo il 2 giugno 1946, sono nulli.

Durante il secondo Governo Berlusconi (giugno 2001- aprile 2005), entrava in vigore la legge costituzionale 23 ottobre 2002, n. 1 che ha stabilito che i commi primo e secondo della XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione esauriscono i loro effetti a decorrere dalla data di entrata in vigore della stessa legge costituzionale (10 novembre 2002), consentendo così l'ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale ai discendenti della ex Casa Savoia.

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