L’artiglieria dell'altoparlante
La funzione della trasmissioni radio durante la guerra di Spagna (17 luglio 1936 – 1 aprile 1939)
Durante la guerra di Spagna, gli antifascisti cominciano ad avere a disposizione, sin dall'inizio, un'arma (quella che Vittorio Vidali chiamerà «l’artiglieria dell'altoparlante»: la radio. Fino a quel momento, in Italia, le trasmissioni radiofoniche erano state soltanto monopolio del regime fascista e anche un suo potente mezzo di corruzione di massa.
Da Radio Barcellona, da Radio Madrid, Radio Valenza si possono captare in Italia le voci dell'antifascismo, in trasmissioni speciali in lingua italiana (il PCI avrà poi, sino alla fine della guerra, la possibilità di utilizzare una sua radio trasmittente da cui manda anche direttive ai propri seguaci clandestini in Italia).
Ha scritto Elio Vittorini: «Quanto si poteva afferrare tendendo l’udito di dentro alla cuffia di un apparecchio a galena, verso le prime voci non fasciste, che finalmente giunsero fino a noi. Madrid, Barcellona ... Ogni operaio che non fosse un ubriacone e ogni intellettuale che avesse le scarpe rotte, passarono curvi sulla radio a galena ogni loro sera, cercando nella pioggia che cadeva sull'Italia, ogni notte, dopo ogni sera, le colline illuminate di quei due nomi. Ora sentivamo che nell’offeso mondo si poteva essere fuori della servitù e in armi contro di essa».
Da Radio Barcellona, il 13 novembre 1936, Carlo Rosselli lancia lo slogan che può sintetizzare la prospettiva comune del volontariato antifascista italiano in Spagna: «Alla Spagna proletaria tutti i nostri pensieri. Per la Spagna proletaria tutto il nostro aiuto. Oggi in Spagna. Domani in Italia. Anzi, oggi stesso in Italia, perché l’esempio dei fratelli spagnoli può e deve essere seguìto. Gioventù d’Italia, sveglia! Antifascisti italiani, sveglia! Uomini liberi, in piedi!».
A partire dal giugno-luglio del 1937, la stampa di regime ammette sempre più chiaramente che l'Italia è impegnata in Spagna con un proprio contingente.
Dalle emittenti radio della repubblica spagnola ogni sera gli antifascisti - dopo più di dieci anni di silenzio - riescono a parlare al popolo italiano. Vi è la Radio di Stato della repubblica che ha numerose trasmissioni da Madrid e da Valenza in lingue estere. Vi è la radio Generalitat a Barcellona. Vi è infine una emittente, «Radio Milano», che trasmette da Aranjues vicino a Madrid, tutte le sere intorno alle 23,45, che è esclusivamente dei comunisti italiani. A giudicare dalla massa enorme di lavoro che essa dà alla polizia italiana, si direbbe che l'ascolto é diffusissimo e ha una importanza nonché un rilievo psicologico e politico notevole. Gli antifascisti italiani dunque esistono, parlano dell'Italia e del resto del mondo, si battono: ecco ciò che scoprono per la prima molti italiani.
La voce che giunge dalla Spagna (e spesso disturbatissima) non si sa quanto incida sulle coscienze. Si tenga presente anche che l'apparecchio radio è ancora un lusso per le masse più povere e diseredate. Ma, appunto, le denunce della polizia e la stessa ripresa di azioni squadristiche su vasta scala per reprimere o intimidire quanti osano sintonizzare il proprio apparecchio sulla lunghezza d'onde di Radio Milano ne danno un quadro vivissimo. Si apprende che l'ascolto spesso non é individuale o familiare ma spesso viene organizzato, nel retrobottega di un locale pubblico, in una sala di caffé, chiuse le saracinesche verso la mezzanotte, persino in circoli Dopolavoro o della Opera nazionale combattenti. Il che mostra certo una notevole dose di imprudenza (é in questi casi che la sorpresa, la retata degli agenti di PS o dei militi fascisti, la delazione di un finto antifascista, sortiscono i migliori risultati), ma denota nondimeno un bisogno di testimonianza in comune oltre che una sete di informazioni inestinguibile. In qualche caso, la polizia riferirà che all'inizio e alla fine delle trasmissioni, quando risuonano le note dell'inno di Garibaldi e dell'Internazionale, gli ascoltatori si alzano in piedi e salutano con il pugno chiuso.
Non c’é solo solo la curiosità di sentire l'altra campana, di venire a sapere quanto la stampa fascista tace o deforma. C’è anche l’ansia di tanti congiunti di avere qualche notizia del figlio o del marito spedito in Spagna da Mussolini (dopo la battaglia di Guadalajara per settimane si trasmettono messaggi, testimonianze dirette dei prigionieri italiani).
Infatti, i «legionari» italiani, al comando del generale Roatta - dai primi trentamila arriveranno a cinquantamila - erano truppe il cui carattere di volontari è quanto mai discutibile; spesso si trattava di soldati mandati in Spagna a loro insaputa, reclutati per formare «battaglioni lavoratori» nell’impero africano da colonizzare.
La battaglia di Guadalajara del marzo 1937 ha una grande eco internazionale. Celebri restano, tra tutte, le corrispondenze di Ernest Hemingway, che aveva conosciuto i combattenti italiani sul fronte della prima guerra mondiale. Hemingway scrive dopo la battaglia, vedendo i caduti fascisti: «Il caldo dà lo stesso aspetto a tutti i morti, ma questi morti italiani con le loro facce grige, di cera, se ne stanno stesi sulla pioggia, molto piccoli e pietosi ... Il generale Franco scopre adesso che non può fare molto conto sugli italiani, non perché gli italiani siano vili, ma perché gli italiani i quali difendono il Piave e il Grappa sono una cosa e gli italiani mandati a combattere in Spagna mentre credevano di andare in guarnigione in Etiopia sono un’altra».
E parlando da Radio Madrid, il 27 marzo 1937, della fuga dei legionari di Mussolini, Randolfo Pacciardi, repubblicano, comandante del battaglione “Garibaldi”, dice: «Sono scappati non perché sono vigliacchi. Sono scappati perché avevano tanks, cannoni, mitragliatrici, fucili, moschetti, ma non avevano idee. Non si combatte per il piacere di combattere».
La battaglia di Guadalajara é stata il culmine della partecipazione dei garibaldini italiani alla guerra di Spagna.
Guadalajara: un volontario antifascista si rivolge col megafono alle truppe di Mussolini durante una sosta della battaglia. All’invito di passare nelle file repubblicane risponderanno positivamente molti “volontari” fascisti.
Nel marzo del 1937 (dopo Guadalajara) il capo della polizia Bocchini così telegrafa ai prefetti del regno: «Viene rilevato come molti ascoltatori radio cerchino di ascoltare iniqua et falsa propaganda radiodiffusa da Barcellona aut da altre stazioni spagnole nonché da Mosca. A tale scopo cercano anche di riunirsi in comitiva presso apparecchi riceventi di casa aut locali pubblici. Fenomeno est particolarmente osservabile presso operai, contadini, piccola borghesia. Est necessario in modo assoluto intervenire prontamente et energicamente con azioni preventive et repressive procedendo a fermi, a provvedimenti di polizia, a chiusura dei pubblici esercizi dove viene effettuata ascoltazione et a ritiro degli apparecchi in caso di flagranza. Vorranno all'uopo predisporre servizi et ricorrere ove sia necessario anche servizio di fiduciari. Si gradirà al riguardo sollecita segnalazione di ogni emergenza».
La prevenzione e la repressione auspicate da Bocchini si sviluppano largamente. Spesso vengono intercettate lettere inviate dall'Italia all’indirizzo di Radio Barcellona nelle quali si formulano elogi oppure richieste di spostare l'ora della trasmissione.
Le trasmissioni, da quel che possiamo arguire attraverso i resoconti registrati dalla polizia italiana, sono efficaci giacché risultano trattati temi che concernono direttamente la guerra di Spagna (notizie sulle battaglie, sullo schieramento internazionale, sulle denunce alla Società delle Nazioni, sull'afflusso di nuove truppe fasciste) sia argomenti che riguardano la vita delle masse popolari italiane. E qui si parla dell'aumento dei prezzi che in effetti è notevole nel 1937 e annulla i vantaggi del generale aumento dei salari e degli stipendi agli impiegati, delle condizioni di vita dei contadini e degli operai, dei profitti delle grandi aziende. E si insiste sulla crescente sudditanza dell’Italia alla Germania nazista.
Bibliografia:
Paolo Spriano - Storia del Partito comunista italiano – Einaudi 1970
Una via di Lissone dedicata ad Elisa Ancona
uccisa nelle camere a gas ad Auschwitz.
La Giunta di Concettina Monguzzi sindaco, con la delibera N.158 del 04/05/2016 ha deciso di dedicare una via di Lissone ad Elisa Ancona, con la seguente motivazione:
"Atteso, inoltre, che l’Amministrazione Comunale desidera mantenere vivo il ricordo di una vittima della Shoah partita dalla stazione cittadina per essere deportata presso il campo di sterminio di Auschwitz, nella condivisione dei valori storici, umanitari e culturali che sottendono alla scelta e che rappresentano un concreto e oggettivo tributo alla memoria di eventi che hanno interessato la nostra Comunità"
Elisa Ancona era nata il 10 ottobre 1863 a Ferrara. Prima di rifugiarsi a Lissone in seguito all’occupazione tedesca del nostro Paese dopo l’8 settembre 1943, abitava in via Nievo 26 a Milano. Era vedova di Achille Rossi. Risiedeva nel capoluogo lombardo dal 1902 ed era iscritta alla locale Comunità israelitica. L’anziana donna fu arrestata il 30 giugno 1944 a Lissone da militi della Guardia Nazionale Repubblicana e reclusa a San Vittore. Venne successivamente trasportata a Verona dove fu inclusa, il 2 agosto, nel trasporto proveniente da Fossoli e arrivato ad Auschwitz il 6 agosto 1944. Elisa Ancona, come avveniva per tutti gli anziani, fu avviata subito alle camere a gas; aveva 80 anni.
La consegna delle medaglie della LIBERAZIONE
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Monza, 20 maggio 2016
alle ore 11 presso il teatro Manzoni di Monza ha avuto luogo la cerimonia della consegna delle medaglie della LIBERAZIONE a 44 ex partigiani e patrioti della Brianza. Per Lissone le medaglie sono state attribuite a Gabriele Cavenago, Salvatore Lambrughi, Carlotta Molgora.
La cerimonia è stata organizzata dalla Prefettura per conto del Ministero della Difesa, con la collaborazione dell'ANPI e dell'ANED.
Il sindaco di Lissone Monguzzi ha consegnato lo speciale riconoscimento. Dal sito del Comune di Lissone:
Per Gabriele Cavenago, da poco deceduto, la medaglia è stata consegnata al figlio Giuseppe.
Le loro storie:
allegata la lettera del Ministero della Difesa che conferisce le Medaglie della Liberazione a Gabriele Cavenago, a Salvatore Lambrughi e a Carlotta Molgora
Riforma della Costituzione
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Per decidere in modo consapevole é necessario che i cittadini siano informati
Incontro pubblico su:
RIFORMA DELLA COSTITUZIONE e NUOVA LEGGE ELETTORALE
LUNEDI’ 16 MAGGIO 2016 ore 20.30 - URBAN CENTER (sala E) Via Turati 7 - Monza
Interverranno:
Avv. Felice BESOSTRI promotore del ricorso contro la legge elettorale
Prof. Giovanni MISSAGLIA vicepresidente ANPI di Lissone
25 aprile a Lissone
discorso pronunciato dal prof. Giovanni Missaglia, docente di Storia e Filosofia, vicepresidente dell’ANPI di Lissone
alcuni momenti della celebrazione della festa della Liberazione a Lissone (foto di Luigi Sala)
programma della manifestazione
IL PREZZO della LIBERTÀ
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Si sono vissuti momenti di intensa commozione durante il Concerto Multimediale, che si è svolto
Giovedì 21 aprile 2016 in BIBLIOTECA CIVICA di LISSONE, dal titolo
IL PREZZO DELLA LIBERTÀ
Musica, Resistenza e violinisti partigiani.
É stato un incontro per ricordare la storia della Liberazione attraverso l’insolito sguardo della musica. Esecuzioni musicali, racconti, immagini e filmati hanno rivelato curiosi aspetti della canzone antifascista e commoventi storie di violini e di violinisti partigiani.
A cura dell’Associazione Culturale Accademia Viscontea
Violinista/relatore: Maurizio Padovan
momenti dell'evento multimediale con il maestro Maurizio Padovan violinista/relatore
Programma di sala esterno
Programma di sala interno
É morto un partigiano: Gabriele Cavenago ci ha lasciati
Lissone, 16 aprile 2016
Gabriele Cavenago, presidente onorario della nostra Sezione ANPI di Lissone, è mancato questa mattina.
Con lui scompare un altro protagonista della guerra di liberazione dal nazifascismo.
Gabriele mi aveva raccontato la sua storia che qui si può leggere.
Nato a Caponago il 4 marzo 1920, da 65 anni risiedeva a Lissone.
Dal racconto di Gabriele Cavenago
«Presto servizio militare ad Acqui Terme dal 10 marzo 1940, artigliere con mansione di tiratore. Dopo un breve periodo di istruzione, inizio a sparare con i cannoni in un poligono di tiro.
Il fronte francese
A metà maggio 1940, raggiungo l’Argentera, al confine francese, prima in treno fino a Cuneo, poi in colonna a piedi. Ai piedi della montagna vengono preparate le piazzole per posizionare i cannoni, obici da 149-13, in grado di bombardare il territorio francese, superando la cima della montagna.
Ai primi di Giugno 1940, in seguito ad un nuovo ordine, si cambia località: Colle della Maddalena, a 2000 metri, dove si montano le tende e si posizionano i cannoni. 10 giugno: l’Italia è in guerra; con i cannoni si spara verso il territorio francese per due giorni, quasi ininterrottamente, sotto una tormenta di neve.
fronte e retro della medaglia del “Gruppo Obici” e della “Battaglia delle Alpi”
Firmato l’armistizio tra Francia e Italia, parto per una breve licenza: ritorno poi ad Acqui Terme dove rimango fino agli inizi del 1942, allorquando arriva l’ordine di iniziare i preparativi in vista di nuova destinazione: il fronte russo.
Il fronte russo
spilla dei partecipanti all’ARMIR
A giugno 1942 partenza: trenta giorni di viaggio in treno che trasporta anche camion, trattori e cannoni, destinazione Minsk, da dove in colonna proseguo verso il Don. Lungo il percorso di trasferimento, nei pressi di Stalino, incontro mio fratello che si trovava in Russia già da alcuni mesi.
Il Don e la linea del fronte
Arrivo sul fronte del Don il 14 agosto 1942. In un’ansa del fiume si iniziano i lavori per la costruzione di camminamenti, rifugi, postazioni di tiro per i cannoni. La posizione è quella riservata alla Divisione Corseria.
Fine di ottobre-inizio novembre 1942: il freddo della steppa comincia a farsi sentire. Nei rifugi sotterranei si può trovare un po’ di conforto, ma i combattimenti avvengono principalmente nelle ore notturne. Si spara sui movimenti dei russi sotto la neve che cade abbondantemente.
Le munizioni stanno finendo. Primi di dicembre 1942: non arriva più alcun rifornimento.
Come potevano credere alla vittoria fascista i soldati sul Don che, nell’inverno 1942, ricevevano “le mele del duce” come dimostrazione dell’interesse della patria, quando mancavano di calzature, olio anticongelante e rancio adeguati al clima russo, per non parlare degli armamenti?
Si spera in un intervento dei carriarmati tedeschi, ma invano. I trattori non partono per il gelo e i russi si avvicinano. 11 dicembre 1942: accerchiati. Appena si vede uno spiraglio inizia la ritirata: per un po’ veniamo inseguiti dai carrarmati russi. Si raggiunge Karkov. Mentre troviamo un po’ di riparo in un capannone, durante una breve sosta per riposare, sopraggiungono i carrarmati russi. Riesco a salire su un camion della prima batteria del mio gruppo, ma dopo qualche ora rimaniamo senza benzina; si continua la ritirata a piedi.
Di notte cerchiamo rifugio nelle isbe: al caldo, tra vecchi, donne e bambini piccoli, possiamo riposare sul pavimento di legno dopo aver bevuto un po’ di brodaglia che ci veniva offerta. Procediamo verso Ponte del Donez dove convergevano i vari reparti: mancano all’appello 15 soldati della mia batteria: sono stati fatti prigionieri. Sempre a piedi, giungiamo il 24 dicembre a Varocscilov Grad, dove, in un cinema, trascorriamo il Natale mangiando un po’ di pasta. All’indomani si riprende la marcia: percorriamo dai 20 ai 25 chilometri al giorno. Riusciamo a salire su un treno scoperto che ci trasporta per una settimana in mezzo a bufere di neve. Per il freddo mi si stava congelando il naso: il mio tenente me lo strofina massaggiandolo con neve mista ad antigelo.
Alla metà di aprile 1943 arriviamo a Minsk; dopo una doccia e la bollitura degli indumenti per eliminare i pidocchi, si riparte a piedi in direzione Kiev dove giungiamo alla fine di aprile. Ci sistemiamo in alcune case e riusciamo ad alimentarci e a riprendere un po’ di forze.
Ai primi di maggio arrivano gli ordini di rientrare in Italia: essendo artigliere corro il rischio di finire in Germania per un corso di addestramento alla contraerea. Ai primi di giugno, dalla stazione di Kiev, si parte invece tutti per l’Italia. Appena il treno incomincia a muoversi, un aeroplano russo ci sorvola lanciando una bomba che cade fortunatamente ad una cinquantina di metri dal treno: bel saluto di addio! Si raggiunge Vienna e, attraverso il Brennero, arriviamo a Vipiteno dove siamo sottoposti a disinfezione e al cambio di indumenti. Si riparte poi per Pisa dove si rimane per 20 giorni in contumacia. Ritorno poi in caserma ad Acqui Terme: siamo ai primi di luglio 1943. Faccio lavori come muratore presso un acquedotto in attesa della licenza di 20 giorni come reduce dalla Russia. Prima di tornare al paese passo da Peschiera per incontrare mio fratello che non rivedevo dopo il breve incontro in terra di Russia.
Alla metà di agosto, al rientro dalla licenza, con cannoni e trattori nuovi, parto da Acqui Terme verso Firenze e raggiungiamo Asciano; era l’8 settembre 1943
8 settembre 1943
Ascoltiamo l’annuncio dell’armistizio. Il giorno 10 settembre nascondiamo i trattori e i cannoni in un avvallamento ed eseguiamo l’ordine del capitano “tutti liberi si ritorna a casa”. A piedi camminando lungo la ferrovia raggiungiamo la stazione di Firenze, da dove con il primo treno riesco a partire per Milano. Il capotreno ci avverte di scendere prima di arrivare in stazione Centrale per evitare di essere catturati dai tedeschi.
In prossimità di Lambrate salto dal treno e poi salgo su un tram, nascondendomi sotto i sedili dietro le gonne di alcune donne.
L’11 settembre arrivo a casa, a Caponago, che allora contava circa 3.000 abitanti. Ero uno “sbandato”. Dopo qualche giorno vengo avvicinato da un anziano antifascista del paese: decido di passare tra le fila dei partigiani, scelta condivisa da mio fratello e da un amico.
In Brianza dopo l’8 settembre non regnò la rassegnazione assoluta verso ciò che stava accadendo. Ci furono persone che cercarono di riconoscersi nella volontà di opporsi alla nuova realtà e tentarono di organizzarsi per agire.
membro delle SAP (Squadre di Azione Patriottica)
Le SAP erano concepite come piccoli gruppi di uomini che vivevano generalmente nelle loro cittadine, svolgendo, in alcuni casi, il proprio lavoro e che venivano chiamate clandestinamente a svolgere azioni di propaganda, come volantinaggi notturni e distribuzione di stampa antifascista, atti di sabotaggio, fino ad azioni di recupero di armi sottratte a militi colti in solitudine e ad azioni più complesse, terminate le quali il sappista tornava ad inserirsi nel tessuto di sempre.
“Le brigate Sap avevano reso possibile la crescita e l'impiego, quand'anche in forme diverse, di miglaia di nuovi combattenti, i migliori dei quali avevano anche affiancato e rinsanguato con forze fresche e collaudate quella gappiste continuamente falcidiate dalla repressione; avevano trasformato la guerriglia urbana, sostenuta inizialmente soltanto dai Gap, in lotta armata di massa e, come le Sap delle campagne, le cosidette Sap foranee, avevano spezzato l'isolamento che circondava la lotta armata sui monti, così le Sap cittadine hanno spezzato l'isolamento che minacciava le lotte operaie nelle fabbriche e la lotta dei Gap nelle strade.
La minore incisività della maggior parte degli interventi sappisti, rappresentati per lo più da azioni di propaganda, volantinaggi o disarmi era stata compensata dal numero complessivo delle azioni che grazie ad un impiego di massa delle forze erano progressivamente aumentate nel tempo e si erano sempre più estese sul territorio.
Diversamente dal gappista senza volto, il cui agire era sempre fulmineo, cruento e tanto più eclatante quanto invisibile, il sappista era stato il più delle volte necessariamente e deliberatamente ben visibile dimostrando con la sua presenza fisica, in carne e ossa, l'inoppugnabile esistenza e l'estensione del movimento partigiano. Negli interventi contro la trebbiatura del grano destinato all'ammasso, nella protezione delle manifestazioni di protesta delle donne o degli scioperi dellle mondine, nelle decine di comizi volanti nelle fabbriche o nei cinema, il sappista era comparso tra le masse per attirare l'attenzione e la sua presenza e la sua parola avevano infuso speranza e suscitato entusiasmi indispensabili ad alimentare il clima insurrezionale.
Le Sap, scriverà Luigi Longo, sono state «il tentativo - in gran parte riuscito - di giungere a mobilitare, via via, in modo organico, la maggior parte della popolazione» e, crediamo si possa aggiungere, sono state, per la concezione e la portata del fenomeno, uno strumento di lotta originale e forse unico nella Resistenza europea nonché il fattore decisivo e insostituibile nella preparazione e nell'affermazione dell'insurrezione nel capoluogo lombardo”.
Ricevevo gli ordini da Emilio Diligenti. Ero inquadrato nella Divisione “Fiume ADDA”, 105.ma Brigata SAP.
Tra i primi incarichi che mi sono affidati è l’affissione di manifesti e didtribuzione di volantini che incitano la popolazione a ribellarsi all’occupazione nazista e a disubbidire agli ordini della Repubblica Sociale Italiana. “Questo metodo di comunicare coi volantini, risultava un modo di opposizione al nemico che incoraggiava moralmente la gente, portandola lentamente a simpatizzare ed avere fiducia negli uomini della Resistenza. Si creava una coscienza nella gente ed uno stimolo a partecipare al cambiamento”. Si passa poi ad azioni di sabotaggio di linee telefoniche utilizzate dai tedeschi.
Per rifornire i gruppi di partigiani sui monti servono anche armi e munizioni. Ne recuperiamo alcune abbandonate nelle caserme, poi con azioni di gruppo, tentiamo degli attacchi contro camion tedeschi in transito sull’autostrada. La stalla di mio padre si trovava a circa 200 metri dall’autostrada Milano Bergamo. Ci rifugiavamo poi nei boschi della pianura.
Per i partigiani di pianura le attività iniziali sono in gran parte ancora in funzione della montagna. Si recuperano armi, viveri, indumenti da inviare alle formazioni, si fa opera di convinzione e si procurano aiuti a chi vuole raggiungerle, si organizza il sostegno politico e morale. Le armi venivano nascoste, in un primo tempo nel fienile, poi venivano distribuite alle altre squadre partigiane. Un’azione di blocco di un’auto che trasportava un ufficiale tedesco fallisce; ci riusciranno altri partigiani nei pressi di Trezzo d’Adda.
Il 24 aprile 1945 organizziamo un nuovo posto di blocco; cerchiamo di fermare una colonna di nazisti in fuga da Monza. Armato di una pistola, affronto un tedesco che sparando mi ferisce al braccio; nell’azione, anche il comandante della nostra squadra rimane ferito. Raccolgo la pistola che mi era caduta e con l’aiuto di mio fratello trovo riparo in un cascinale, mentre la ferita continua a sanguinare. I miei compagni chiedono l’intervento di un medico di Pessano, che era amico dei partigiani, che presta le prime cure a me e al mio comandate. Entrambi siamo stati fortunati; niente di grave: dalla successiva radiografia l’osso del mio avambraccio risulterà intatto.
La colonna dei tedeschi in fuga verrà poi fermata dai partigiani nei pressi di Verderio.
Bruno Trentin nel suo “Diario di guerra” ha scritto:
“La guerra in pianura, in campagna, era la scelta più pericolosa; non c’era il «fronte» ma una guerra selvaggia condotta da giovani, senza retroterra dove rifugiarsi. Era una guerra dalla quale, una volta cominciata, non si poteva tirarsi indietro. Si è scritto poco su questo versante della guerra partigiana che è la guerra in pianura, il più esposto, il più indifeso e, nello stesso tempo, impensabile senza il sostegno delle popolazioni contadine.
In pianura è stato necessario prendere le armi al nemico o organizzare dei lanci di paracadute (da parte degli Alleati) all’aperto, in piena campagna; a pochi chilometri dalle postazioni tedesche o fasciste. …
La Resistenza armata, senza un sostegno diffuso della popolazione, anche in un lontano borgo agricolo, non avrebbe potuto sopravvivere. Hanno concorso a questo processo le pessime condizioni di vita di una popolazione stremata dall’economia di guerra. E certamente ha pesato la sconfitta di una guerra, lo smantellamento dell’esercito come è accaduto all’8 settembre, e l’alternativa che si pose a molti giovani che rifiutavano l’ingresso nelle bande della Repubblica di Salò, di nascondersi o di combattere. …
Vent’anni di oppressione fascista sboccarono non in episodiche rivolte ma nel più grande movimento armato di massa dell’Europa occidentale. …
La scelta di libertà e di democrazia da parte di una generazione che non l’aveva mai conosciuta”.
A causa della ferita, non avevo potuto partecipare alla festa della Liberazione e mi era dispiaciuto, tuttavia l’aria che si respirava era quella di un Paese che voleva al più presto riguadagnare il tempo perduto dopo le tragedie del fascismo. In quei momenti di gioia per la fine della guerra e della Liberazione, si sperava in un mondo diverso, in un mondo di pace, di giustizia sociale e di lavoro».
nel 40mo anniversario della Liberazione, il Sindaco di Caponago premia Gabriele Cavenago
In occasione del 64° anniversario della Liberazione, nel pomeriggio di Sabato 18 aprile 2009, presso la Biblioteca civica, si è svolto un importante appuntamento alla presenza due partigiani, il lissonese Gabriele Cavenago ed Egeo Mantovani, attuale presidente onorario dell’ANPI di Monza e Brianza.
Prima della proiezione del documentario sulla storia della Resistenza italiana, Nicoletta Lissoni ha letto, con un sottofondo di musiche di Johan Sebastian Bach, due lettere di condannati a morte durante la guerra di Liberazione dell’Italia dall’occupazione nazista.
A Gabriele Cavenago, che è anche presidente onorario dell’ANPI di Lissone, è stata consegnata una pergamena a ricordo del suo impegno di giovane partigiano, membro delle Squadre di Azione Patriottica.
Per questa occasione, Gabriele Cavenago ha donato all’ANPI di Lissone una bandiera storica del 1945, quando a Lissone si era costituita la sezione dell’ANPI.
L’ANPI di Lissone a Sestri Levante
Sabato 9 aprile 2016, una delegazione dell’ANPI di Lissone ha partecipato a Sestri Levante alle cerimonie per ricordare coloro che persero la vita in combattimento o vennero uccisi dai nazifascisti nell’entroterra ligure, tra cui il lissonese Arturo Arosio.
L’intervento di Renato Pellizzoni, presidente dell’ANPI di Lissone
“l’assenza che ci unisce” così sta inciso sulla piasta di pietra di Lavagna che l’ANPI di Sestri ha donato a noi, Sezione dell’ANPI di Lissone, lo scorso anno quando una delegazione dell’ANPI di Sestri è venuta a Lissone per l’inaugurazione di una piazza dedicata al partigiano Arturo Arosio.
É anche grazie a voi che siamo riusciti a far dedicare un luogo della nostra città ad Arturo Arosio, uno dei giovani fucilati a Fossa Lupara. E, in occasione del 70° anniversario della Liberazione, l’Amministrazione comunale della nostra città ha intitolato uno spazio verde “Parco della Resistenza” vicino al Largo Arturo Arosio.
Ed oggi c’é un’altra “assenza che ci unisce”: quella di Lucifero, Daniele Massa.
Purtroppo abbiamo appreso della sua scomparsa, solamente dopo i suoi funerali. Per questo, a nome di tutti i cittadini lissonesi iscritti all’ANPI, porgiamo le nostre più sentite condoglianze ai suoi familiari.
Risale all’autunno del 2007, la mia conoscenza con Lucifero. Per la prima volta ci eravamo parlati per telefono quando avevo iniziato delle ricerche sui cittadini lissonesi caduti durante la guerra di Liberazione. Quindici furono i nostri concittadini che persero la vita per mano dei nazifascisti: otto vennero fucilati e sette non tornarono dai lager nazisti.
Fu allora che Lucifero mi invitò a partecipare alle cerimonie per ricordare coloro che persero la vita in combattimento o vennero uccisi dai nazifascisti nell’entroterra ligure. E così dalla primavera del 2008, ogni anno, membri dell’ANPI di Lissone sono stati presenti qui a Santa Margherita di Fossa Lupara.
E nel 2011, in occasione del suo compleanno, avevamo nominato Daniele Massa membro onorario della nostra Sezione.
Con la scomparsa di Lucifero viene a mancare un altro testimone diretto e un protagonista di quei giorni in cui uomini e donne, con il loro impegno e con il loro sacrificio, hanno riscattato la dignità del nostro Paese, contribuendo alla sua liberazione dal fascismo, un regime che lo aveva oppresso per più di vent’anni.
Ha scritto. il partigiano Enzo Biagi, nome di battaglia “il Giornalista”, nel suo libro “I quattordici mesi”:
«Il 25 aprile 1945 l’Italia era finalmente libera dall’occupazione nazista e dal fascismo: Quando ripenso a quel periodo, provo l'orgoglio di chi si sente di essere stato dalla parte giusta».
Ricordando Daniele Massa, desideriamo essere riconoscenti a tutti coloro che in vari modi hanno partecipato alla Resistenza.
Io sono nato quando è entrata in vigore la Costituzione della Repubblica italiana, in un Paese libero e democratico: libertà e democrazia che i miei genitori, la cosiddetta "generazione del Littorio", avevano dovuto conquistare faticosamente.
Non ho vissuto gli orrori della seconda guerra mondiale, una guerra inutile e sciagurata in cui l’Italia era stata trascinata dal regime dittatoriale fascista, che aveva fatto della guerra un dato fondamentale della propria azione politica e dell'educazione dei giovani.
Come viene anche affermato nel documento del prossimo congresso nazionale della nostra associazione, “la memoria” non può che restare ed essere il primo compito dell’ANPI, quello più tradizionale e consono alle sue stesse finalità.
É questo il compito che tocca a noi ed è per questo che oggi siamo venuti qui a Sestri, è questo il significato della nostra presenza.
Sestri Levante alcuni momenti della cerimonia 9 04 2016
INTERVENTO PER IL CONGRESSO ANPI 2016 SULLE RIFORME ISTITUZIONALI
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Di seguito l'intervento di Giovanni Missaglia, vicepresidente dell'ANPI di Lissone, al Congresso provinciale, tenutosi domenica 3 aprile a Lissone presso Palazzo Terragni.
1. Il primo passo dovrebbe essere di “pulizia linguistica”. Smettiamo di accettare la denominazione di “riforma del Senato” per una riforma che in realtà modifica tutta la parte seconda della nostra Costituzione: il tipo di bicameralismo, il processo di formazione delle leggi, il rapporto tra Governo e Parlamento, le modalità di elezione degli organi di garanzia. Prendiamo i titoli che strutturano la parte seconda della Costituzione. Titolo I: il Parlamento; Titolo II: il Presidente della Repubblica; Titolo III: il Governo; Titolo IV: la Magistratura; Titolo V: Comuni, Provincie e Regioni; Titolo VI: Garanzie costituzionali. Nessuna, dico nessuna di queste parti non è toccata dalla riforma. A rigore, siamo molto oltre il potere di “revisione costituzionale” previsto dall'articolo 138, che dovrebbe limitarsi a modifiche puntuali e omogenee. Qui siamo all'esercizio abusivo di un vero e proprio “potere costituente”, che richiederebbe ovviamente una vera assemblea costituente eletta con metodo proporzionale, non un Parlamento eletto con legge dichiarata incostituzionale dalla Corte! La modifica della parte seconda non può non incidere sulla prima e, direi di più, sugli stessi principi fondamentali. Prendiamo, per esempio, l’articolo 1, che stabilisce che la sovranità popolare si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Siccome cambiano questa forme e questi limiti, viene di fatto modificato lo stesso principio della sovranità popolare.
2. A proposito di pulizia linguistica: ci diranno che siamo contro “il cambiamento”, che siamo “conservatori”, “passatisti” ostinatamente incapaci di vedere che il mondo è cambiato. Dobbiamo essere molto chiari su questo punto. L'ANPI non è in linea di principio contraria a qualsiasi modifica costituzionale. Anzi, dobbiamo stare molto attenti a fare nostri slogan come “la Costituzione non si tocca” o “giù le mani dalla Costituzione”, che lasciano pensare a una specie di feticismo della Costituzione. La Costituzione non è un feticcio, non è un idolo e noi abbiamo ripetutamente dichiarato, anche attraverso delle proposte di merito, la nostra disponibilità a superare il bicameralismo perfetto. Detto questo, è ovvio che la parola “cambiamento”, di per sé, non significa nulla ed è profondamente ambivalente. I cambiamenti possono essere progressivi o regressivi e noi pensiamo che le modifiche istituzionali proposte dal Governo siano profondamente regressive. Chiedere la “conservazione” di alcune norme della Costituzione che la proposta governativa vuole cancellare significa opporsi al regresso, al grave passo indietro che un simile “cambiamento” finirà per determinare. Dobbiamo dire chiaramente che il cambiamento non è un valore in sé: nessuno cambierebbe la donna che ama con la prima che passa o una bottiglia di buon vino con un altro che non vale niente. Ma il vero punto è un altro: i termini “conservatore” e “progressista” non indicano, meccanicamente, chi vuole conservare e chi vuole cambiare, ma chi vuole conservare un certo assetto sociale e chi lo vorrebbe modificare per allargare gli spazi di partecipazione, di uguaglianza e di democrazia. In materia istituzionale, poi, storicamente i conservatori sono sempre stati coloro che hanno difeso le prerogative del Governo, dell’esecutivo, contrastando la crescita del ruolo del Parlamento, del legislativo: insomma, la buona borghesia timorosa di un eccessivo protagonismo popolare, di un trasferimento di competenze da un organo ristretto di maggioranza, il Governo, a un organo più largo di rappresentanza, il Parlamento. Ora, poiché questa riforma sposta clamorosamente il baricentro dal legislativo all’esecutivo, chi è il vero conservatore?
Ma, si obietta, bisogna rafforzare il potere del Governo per sbloccare una democrazia rissosa e incapace di decidere. Insomma, la governabilità esige queste riforme. Vediamo.
3. In primo luogo, non dimentichiamo che è un grave errore imputare al sistema costituzionale tutti i difetti del sistema politico: le regole istituzionali sono importanti, importantissime, ma è illusorio credere che l'instabilità dei governi, la rissosità delle maggioranze, le lentezze legislative, ecc., dipendano solo o principalmente dalle norme della Costituzione. Tant'è vero che con queste stesse regole i governi hanno avuto la durata più diversa (Berlusconi ha doppiato Prodi, Renzi ha doppiato Letta) e il Parlamento ha saputo legiferare rapidissimamente e a colpi di fiducia o, al contrario, ha discusso per mesi senza risultato. Nessuna norma costituzionale può sostituirsi alla coesione politica e nessun sistema costituzionale determina da solo l'efficacia di un sistema politico.
In secondo luogo, se è vero che è importante che una democrazia sappia decidere, che, come si dice, una democrazia sia “decidente” (e abbiamo appena visto che lo sa benissimo essere anche con queste regole costituzionali), è almeno altrettanto importante che una democrazia sia rappresentativa, capace di dare espressione istituzionale alle tante voci della società italiana. Non è forse vero che questo è il momento storico di un vertiginoso calo della partecipazione elettorale e della dilagante indifferenza politica? O riusciremo a costruire un Parlamento sufficientemente rappresentativo o la distanza tra la Piazza e il Palazzo, tra il Paese reale e il Paese Legale, tra – per dirla col linguaggio dei populisti – la Gente e la Casta diventerà incolmabile, dando spazio a tutti i populismi che giustamente ci preoccupano. Perché il populismo, non dimentichiamolo, non nasce solo o tanto nel contesto di una democrazia che non sa decidere, ma soprattutto in quello di un sistema istituzionale autoreferenziale che non sa rappresentare.
4. Nel merito, ciò che innanzitutto ci preoccupa profondamente è l'effetto congiunto, il combinato disposto come dicono i giuristi, della nuova legge elettorale, l'Italicum, e delle riforme costituzionali. Questo è il punto essenziale. Se passasse la riforma costituzionale, come noto non vi sarebbe più il rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento, ma solo tra Governo e Camera dei deputati. Il Senato, che, a proposito di pulizia linguistica, continuerebbe ad esistere e non verrebbe affatto “abolito”, non dovrebbe più accordare né potrebbe più revocare la fiducia al Governo. Ma allora, si dirà, la Camera dei deputati dovrà essere eletta in modo da garantire una vera rappresentanza del “popolo sovrano” di cui al primo articolo della Costituzione. Se solo la Camera sarà legata da un rapporto fiduciario col Governo, se, come si dice, solo la Camera dei deputati sarà la “camera politica”, allora ci aspetteremmo una legge elettorale che consenta a questa Camera sia, certo, di garantire al Governo la maggioranza per governare, sia però di rappresentare in maniera adeguata le opposizioni. Ma purtroppo non è così. L'Italicum garantisce forzosamente al Governo una maggioranza stabile con un incredibile premio di maggioranza, ma proprio per questo mortifica in modo impressionante la rappresentatività. La forza politica (anche da sola e non coalizzata!) che al ballottaggio avrà raggiunto il 40% dei voti avrà il 55% dei seggi. Al ballottaggio! A prescindere dall’anomalia di un ballottaggio nazionale (il ballottaggio in genere riguarda due candidati ed ha carattere territoriale), nulla vieta, quindi, che al primo turno possa aver ottenuto anche una percentuale molto ma molto inferiore. Aggiungete che i capilista saranno bloccati, come nel Porcellum, decisi dai vertici dei partiti, e che sarà ancora possibile il meccanismo delle pluricandidature (un candidato, lo stesso candidato, in 10 collegi elettorali, alla faccia del rapporto tra i candidati e il territorio!) in modo che anche i secondi eletti saranno di fatto controllati dai partiti più che decisi dagli elettori. Il pluricandidato, infatti, dovrà ovviamente optare per un collegio, lasciando graziosamente al secondo “eletto” il suo seggio. Insomma, una Camera dei deputati di “yes men”, di fedelissimi sempre pronti a votare le proposte del Governo, anzi del capo del Governo, alla faccia della divisione dei poteri e della funzione di controllo del Parlamento. Questo è tanto più vero se si pensa che con l’introduzione dell’istituto del cosiddetto voto a data certa, il Governo potrà imporre al Parlamento contenuto e tempistica dei provvedimenti che considera più importanti. Insomma, verrà costituzionalizzata la tendenza già in atto per cui non è il Parlamento a controllare il Governo, ma il Governo a controllare il Parlamento. Aggiungete, infine, che i deputati così “eletti” continueranno ad essere 630, mentre i senatori saranno solo 100: in questo modo la Camera, pura emanazione del Governo e solo in minima parte espressione delle opposizioni, riuscirà di fatto a controllare anche l'elezione degli organi di garanzia, il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale, cioè delle istituzioni che per eccellenza dovrebbero essere super partes, espressione del Paese in tutte le sue articolazioni e non della sola maggioranza governativa. Si obietta: ma è già così da molto tempo. Infatti! Questa riforma sta di fatto costituzionalizzando la sciagurata prassi della seconda Repubblica per cui chi vince (con leggi elettorali molto “premianti”) si prende tutto, governo, sottogoverno, ma anche cariche istituzionali. Niente a che vedere con la prima Repubblica, quando la sensibilità costituzionale e la preoccupazione per l’equilibrio dei poteri prevedevano che almeno una delle due Camere fosse presieduta dall’opposizione.
5. Veniamo rapidamente al Senato. I sostenitori della riforma useranno spudoratamente e populisticamente l'argomento “i senatori non saranno più pagati”. Ma il risparmio non è un argomento quando sono in gioco gli equilibri costituzionali della Repubblica, altrimenti dovremmo semplicemente abolire il Parlamento! E poi, a proposito di risparmio, non sarebbe stato molto più ragionevole dimezzare il numero di parlamentari, quindi anche dei deputati, mantenendo l'equilibrio delle istituzioni? O, persino, introdurre il monocameralismo, ma prevedendo ovviamente l'elezione dell'unica assemblea legislativa con una legge elettorale davvero rappresentativa? Soprattutto, non ci convince affatto né il modo in cui il nuovo Senato verrà formato né il tipo di funzioni che gli verranno attribuite. Il Senato non sarà più eletto direttamente dai cittadini, ma dai Consigli regionali e fra i consiglieri regionali, anche se, dice misteriosamente il testo della riforma, “nel rispetto della scelta dei cittadini”. Un pasticcio pericoloso: attraverso quella che in gergo si chiama “riserva di legge”, il nuovo articolo 57 rimanda a una futura legge elettorale per le Regioni, che dovrà fare in modo, chissà come?, che i consiglieri regionali eletti dai cittadini eleggano poi i senatori nel rispetto della scelta dei cittadini che, però, non avranno il potere di eleggere direttamente i senatori! Miracolo lessicale prima ancora che politico: i cittadini scelgono ma non eleggono i nuovi senatori! E ancora. Si dice, nel testo della riforma, nel nuovo articolo 67, che solo la Camera dei deputati rappresenta la Nazione, mentre il Senato rappresenta le istituzioni territoriali. Bene: in effetti, non si vede perché i senatori eletti, poniamo, dal Consiglio regionale della Lombardia dovrebbero rappresentare la Nazione. Ma allora perché attribuire al nuovo Senato un potere identico a quello della Camera dei deputati in materia di revisione costituzionale? Perché dei senatori eletti su base territoriale e per rappresentare i territori dovrebbero poter riformare la Costituzione della Repubblica italiana e non, giustappunto, lo Statuto della Regione che sono chiamati a rappresentare? E, soprattutto, come si può pensare che un Senato non eletto direttamente dal popolo sovrano possa esercitare il potere sovrano per eccellenza, quello di modificare la Costituzione del Paese? Infine, a proposito di costi e dell'argomento demagogico del risparmio, ovviamente resteranno inalterati i costi della struttura del Senato e questi senatori part-time, che dovranno anche fare i consiglieri regionali, dovranno pur essere spesati per le loro frequenti uscite romane.
Tutto questo potrà almeno servire a semplificare il processo legislativo? Nient'affatto. Come da settimane denuncia Alessandro Pace, professore emerito di Diritto costituzionale, insieme a decine di altri costituzionalisti, vi saranno leggi approvate dalla sola Camera, leggi approvate dal solo Senato, leggi approvate dalla Camera ma su cui il Senato avrà un “potere di richiamo”, chiedendo di discuterle, ecc. Ci saranno, continua Pace, almeno sette o otto tipi diversi di votazione delle leggi ordinarie con conseguenze pregiudizievoli per il funzionamento del Parlamento e con una prevedibile esplosione dei conflitti di attribuzione.
Insomma, almeno i principi fossero stati sacrificati sull'altare dell'efficienza. Qui i principi sono stati sacrificati all'insegna di un colossale pasticcio.
6. Merita una parola anche l'ennesimo intervento sul titolo V della parte seconda, quello dedicato agli enti locali. Si sa che, in base alla riforma proposta, molte materie che ora sono di competenza regionale o di competenza concorrente tra Stato e Regioni verranno affidate allo Stato. La legislazione concorrente verrà eliminata. Ognuno di noi può giudicare diversamente questa “ristatalizzazione” di molte materie, specie dopo la discutibile riforma del 2001. Ma allora perché, con una mano, attuare una nuova centralizzazione del potere e, con l'altra, esaltare retoricamente il ruolo dei “territori” e prevedere un Senato che rappresenti, appunto, le istituzioni territoriali?
7. Infine, ci si obietta anche al nostro interno: ma come facciamo a stare dalla stessa parte di Salvini e di Brunetta? Se volessi cavarmela con una battuta, dovrei dire: e allora? Oppure potrei dire che in realtà è stato lo stesso Renzi a politicizzare il referendum trasformandolo in un plebiscito sulla sua persona. Ma non voglio cavarmela così. Ricordiamoci allora la più grande lezione dei nostri Costituenti: la capacità di tenere distinto il piano politico da quello istituzionale. Votarono insieme, il 22 dicembre 1947, il testo della Costituzione, nonostante la drammatica rottura politica del maggio dello stesso anno, quando vi fu la cosiddetta “espulsione delle sinistre dal Governo”, che fino ad allora era stato di unità nazionale. I nuovi equilibri nazionali e internazionali imponevano l’uscita dei socialisti e dei comunisti dall’area di governo, ma questo non impedì il voto unanime in Assemblea Costituente. Grande lezione di responsabilità: non confondere la lotta politica contingente con il terreno delle istituzioni comuni E, allora, dovremmo dire di sì a una riforma costituzionale per il solo fatto che Brunetta e Salvini dicono di no? Non finiremmo per replicare, a parti invertite, la pura logica di schieramento e di posizionamento politico che contestiamo ai Brunetta e ai Salvini? Manteniamoci davvero sul terreno istituzionale, l’unico proprio per l’Anpi, se ne siamo capaci. Su questo terreno così alto, così proprio delle ragioni statutarie della nostra associazione, incontreremo solo buoni amici e non ci dovremo guardare dalle cattive compagnie.
Giovanni Missaglia
testo dell'intervento di Giovanni Missaglia sulle riforme istituzionali in formato pdf