Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"
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10 febbraio: Giorno del ricordo

6 Février 2025 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #episodi di storia del '900

le tragedie del confine orientale dell'Italia: fascismo, foibe, esodo
le tragedie del confine orientale dell'Italia: fascismo, foibe, esodo
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le tragedie del confine orientale dell'Italia: fascismo, foibe, esodo
le tragedie del confine orientale dell'Italia: fascismo, foibe, esodo

le tragedie del confine orientale dell'Italia: fascismo, foibe, esodo

«La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale "Giorno del ricordo" al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale» (legge 30 marzo 2004 n. 92)

Articoli sull’argomento pubblicati nel sito:

Per comprendere il perché delle foibe o dell’esodo di molti italiani che risiedevano lungo i confini orientali dell’Italia:

http://anpi-lissone.over-blog.com/pages/FASCISMO_FOIBE_ESODO_1918_1956_Le_tragedie_del_confine_orientale-240947.html

La fine per fame e malattie di donne, bambini e antifascisti. Nel campo fascista di Arbe morirono centinaia di sloveni e croati.

http://anpi-lissone.over-blog.com/pages/Il_campo_fascista_di_Arbe-4520561.html

Le dimensioni dell'Esodo degli italiani

http://anpi-lissone.over-blog.com/pages/Le_dimensioni_dellEsodo-8515033.html

Le motivazioni a spingere gli istriani ad abbandonare la loro terra

http://anpi-lissone.over-blog.com/pages/Le_motivazioni_degli_esuli-8515038.html

Tra il 1944 e la fine degli anni Cinquanta, alla frontiera orientale d'Italia più di 250.000 persone, in massima parte italiani, dovettero abbandonare le proprie sedi storiche di residenza, vale a dire le città di Zara e di Fiume, le isole del Quarnaro - Cherso e Lussino - e la penisola istriana, passate sotto il controllo jugoslavo.

http://anpi-lissone.over-blog.com/pages/LEsodo_dei_giulianodalmati-8515028.html

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Mostra “Campioni nella Memoria”

9 Janvier 2025 , Rédigé par Renato

In occasione del Giorno della Memoria 2025 l'ANPI di Lissone esporrà a Palazzo Terragni di Lissone la mostra “Campioni nella Memoria” proveniente dalla Sezione fiorentina dell’Unione Nazionale Veterani dello Sport, curata da Barbara Trevisan.

Comprendere è impossibile conoscere è necessario". Sono le parole di Primo Levi, che introducono la mostra fotografica “Campioni nella Memoria”. Storie di atleti deportati nei campi di concentramento. È un’esposizione dedicata ad atleti di varie nazionalità e discipline sportive deportati nei vari Campi di Concentramento dalla furia nazifascista. Erano giovani il cui scopo era quello di fare dello sport la loro passione e magari la loro professione, erano giovani con la voglia di vivere, di misurarsi con altri, non con la forza della sopraffazione ma con la loro abilità e preparazione atletica".

Lo scopo di questa mostra è osservare la più grande tragedia del XX secolo, anche dal punto di vista sportivo, rendendo onore e gloria a tutti quegli uomini e donne che nella loro vita hanno incarnato gli ideali sportivi e, con le loro scelte, hanno difeso i principi di libertà, di uguaglianza e di tolleranza".

Giorni e Orari di apertura della mostra "Campioni nella Memoria"

Domenica 26 gennaio, Lunedì 27 gennaio, Sabato 1 febbraio, Domenica 2 febbraio:

dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 18.

Inaugurazione Sabato 25 gennaio ore 16

La mostra gode del patrocinio e del contributo del Comune di Lissone

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MOSTRA CAMPIONI NELLA MEMORIA

Questa iniziativa dell’ANPI di Lissone avviene in occasione del Giorno della Memoria.

Sono trascorsi 80 anni da quando, il 27 gennaio 1945, l’Armata Rossa liberò il campo di sterminio di Auschwitz.

Una legge dello Stato Italiano ha istituito il "Giorno della Memoria" in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti.

Come è nata l’idea di portare nella nostra città questa mostra?

Ricercando tra le pagine di storia di Lissone, si viene a conoscere che, durante la seconda guerra mondiale, tra gli oppositori al fascismo ben 15 lissonesi morirono, 8 furono fucilati e 7 persero la vita in campi di concentramento.

Mostra “Campioni nella Memoria”

Tra questi ultimi vi è Mario Bettega.

Mostra “Campioni nella Memoria”
Mostra “Campioni nella Memoria”

Mario Bettega era un valido calciatore della ProLissone, che all’età di 26 anni morì nel lager di Mauthausen. All’ingresso del campo sportivo della ProLissone è stata posta una “Pietra d’Inciampo” in sua memoria.

Da qui lo stimolo e il desiderio di andare a ricercare storie di atleti, che non essendosi voluti allineare alle ideologie naziste e fasciste hanno dovuto subire la deportazione nei campi di concentramento.

Facendo questa ricerca, mi sono imbattuto in questa mostra.

Proviene dalla Sezione di Firenze dell’Unione Veterani dello Sport, che l’ha realizzata.

È stata ideata e curata da Barbara Trevisan Insegnante di Scienze Motorie Sportive, a Scandicci.

È un’esposizione dedicata ad atleti di varie nazionalità e discipline sportive deportati nei vari Campi di Concentramento dalla furia nazi-fascista.

Erano giovani il cui scopo era quello di fare dello sport la loro passione e magari la loro professione, erano giovani con la voglia di vivere, di misurarsi con altri, non con la forza della sopraffazione ma con la loro abilità e preparazione atletica.

Dei 40 atleti che figurano in questa mostra, per ognuno di loro, oltre alla fotografia, vengono presentati i fatti salienti della loro vita, la loro opposizione al nazismo o al fascismo, le motivazioni del loro arresto (se militari, politiche, religiose, razziali), le modalità del loro arresto, il lager di destinazione e la loro eventuale sopravvivenza.

In questa mostra il maggior numero di atleti deportati sono i calciatori, poi i pugili, due squadre di ginnastica ed altre specialità.

Lo scopo di questa mostra è osservare la più grande tragedia del XX secolo, anche dal punto di vista sportivo, rendendo onore e gloria a tutti quegli uomini e donne che nella loro vita hanno incarnato gli ideali sportivi e, con le loro scelte, hanno difeso i principi di libertà, di uguaglianza e di tolleranza".

Questa mostra è nata dalla convinzione che le storie delle singole persone possano essere la testimonianza più forte e incisiva per le nuove generazioni.

“Comprendere è impossibile conoscere è necessario". Sono le parole di Primo Levi.

N.B. ricercando in Internet: Campioni nella Memoria Schede, si possono vedere le fotografie degli atleti deportati e per ogni atleta la sua storia.

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1943-1945: la “campagna d’Italia”

11 Décembre 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

Quasi due anni è durata la “campagna d’Italia”, dallo sbarco degli Alleati in Sicilia alla liberazione di tutta la penisola dall’occupazione nazista e dal regime fascista: due anni che hanno causato al nostro Paese ancora lutti e rovine. Militarmente hanno dato il loro contributo gli Alleati, che ebbero un peso determinante nella vittoria finale della guerra, il Corpo Italiano di Liberazione, le Divisioni partigiane.

Nei seguenti articoli vengono descritti i momenti salienti di questa fase della seconda guerra mondiale:

 

La liberazione della Sicilia

 

Il convegno di Tarvisio: fine della collaborazione fra italiani e tedeschi

 

Dalla Sicilia, attraverso lo stretto, inizia l'attacco alla penisola

 

11 settembre 1943: la battaglia di Salerno

 

11 settembre 1943: il regno del Sud comincia a vivere

 

18 settembre 1943: Mussolini da radio Monaco

 

1° ottobre 1943: Napoli è libera

 

La difficile avanzata degli Alleati verso Roma e la nostra guerra a fianco degli Alleati

 

La repubblica di Mussolini

 

L’attacco alla linea Gustav

 

Il bombardamento di Montecassino

 

Cassino, la più terribile battaglia della “Campagna d'Italia”

 

Mussolini si incontra con Hitler

 

La liberazione di Roma

 

Firenze è libera

 

L’attacco alla linea Gotica

 

Dicembre 1944: il fronte si arresta

 

Il bando Alexander e l’accordo Wilson

 

Partigiani e Gruppi di combattimento in azione

 

La liberazione del Nord Italia

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La battaglia del San Martino

3 Décembre 2024 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

La battaglia del San Martino è una delle prime combattute in Italia nel novembre del 1943, quando una formazione al comando del ten. col. Carlo Croce si difese dall’attacco in forze dell’esercito tedesco.

san-Martino.jpgQuesto è il racconto di un protagonista, Giovanni Emilio Diligenti:

«Mio fratello ed io partecipammo alla battaglia di S. Martino, dove ci aveva inviati l'organizzazione clandestina comunista. Nella fortezza di S. Martino, sopra Varese, si era stanziato il gruppo Cinque Giornate, costituito poco dopo l'armistizio dal colonnello Carlo Croce. La formazione era composta per lo più da ex-avieri ed ex-ufficiali, ma in seguito vi affluirono molti operai di Cinisello Balsamo e di Brugherio, inviati dall'organizzazione clandestina di Sesto San Giovanni. Il colonnello Croce e gli ufficiali che guidavano la formazione si dichiaravano genericamente «badogliani» e seguivano una linea «attesista». Il reparto si era impossessato di una notevole quantità d'armi e di viveri con una serie di riuscite operazioni, come quella alla caserma della guardia di Finanza a Luino. Tutto era stato raccolto nella fortezza, che avrebbe dovuto diventare una base inespugnabile da cui sarebbe partita, in concomitanza con l'arrivo delle truppe alleate, la decisiva offensiva contro i nazi -fascisti. Inutilmente Gianni Citterio, inviato dal Clnai, cercò di convincere il colonnello Croce della necessità di dislocare le forze partigiane - circa centocinquanta uomini - in gruppi meno numerosi e più mobili, localizzati in diversi punti strategici. Prevalse purtroppo la mentalità degli ufficiali, illusi di aver creato una base inattaccabile.

Lo sbaglio fu pagato a caro prezzo: il 14 novembre più di duemila tedeschi mossero all'attacco, appoggiati da cannoni, mortai e anche da tre Stukas. La resistenza durò quarantotto ore, al termine delle quali il gruppo Cinque Giornate si disperse; la maggior parte dei suoi componenti si rifugiò in Svizzera. I partigiani morti in combattimento furono appena due, mentre trentasei furono fucilati dopo la cattura. Ben più pesanti le perdite nemiche: duecentoquaranta morti e un apparecchio (fui testimone oculare dell'abbattimento dello Stukas: un partigiano robustissimo, un vero gigante, prese sulle spalle una delle dieci mitragliatrici Breda pesanti di cui era fornito il reparto, fungendo da piazzola semovente; due altri sostenevano i piedi della mitragliatrice e un quarto sparava, finché riuscì a colpire l'aereo).

La difesa ad oltranza della posizione, concezione che esulava da una corretta conduzione della guerriglia, aveva sì provocato gravissime perdite tra le truppe attaccanti, ma aveva anche causato la fine di una formazione che, per la qualità e la quantità di mezzi e di uomini, avrebbe potuto rappresentare una grossa spina nel fianco dei nazi-fascisti per ancora molto tempo.

Durante la battaglia fui ferito alla gamba destra: la pallottola mi fu estratta con un paio di forbici da don Mario Limonta, un sacerdote di Concorezzo che fungeva da cappellano e da medico del gruppo. Di notte, don Limonta cercò di guidare me ed altri sei partigiani feriti nella discesa verso la pianura. L'impresa mi riuscì difficile, perché la ferita mi impediva di camminare, cosicché mio fratello Aldo dovette caricarmi sulle sue spalle. Dopo un po' perdemmo i contatti con gli altri feriti ma, sia pure a fatica, raggiungemmo la provinciale.

Attraversata la strada a una curva, procedendo un po' carponi e un po' sulle spalle di Aldo, arrivammo in un paese dove, all'alba, salimmo su un trenino che ci portò a Varese. Da qui in ferrovia a Saronno, poi in corriera a Monza e infine di nuovo a Cavenago. Nascosto in casa di Fumagalli, fui curato da Innocente e Mario, rispet­tivamente cucino e fratello di Raineri. In seguito, per ragioni di scurezza e per curare meglio la ferita, fui trasferito a Milano dal compagno Giacinto Parodi. In via Padova al 26, Parodi aveva un laboratorio artigiano di guarnizioni, mentre la sua abitazione era al n. 40 della stessa via. In casa di parodi fui curato da un medico che mi guarì completamente».

 

da “Partigiano in Brianza” di Giovanni Emilio Diligenti” Edito dall’ANPI di Monza

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Umberto Viganò: internato in Germania per aver scioperato

17 Novembre 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #storie di lissonesi

Umberto Viganò era nato a Biassono il 10 aprile 1908 e risiedeva a Lissone. Umberto, operaio specializzato alla Pirelli, aveva sposato la sorella di Pierino Erba, fucilato in Piazza Libertà a Lissone il 16 giugno 1944. 

Il 23 novembre 1944 in seguito ad uno sciopero viene arrestato con altri 160 compagni di lavoro. Subito dopo l’arresto viene tradotto al carcere di San Vittore, a Milano, dove rimane fino al 29 novembre.

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Racconta la moglie di Umberto, Giovanna Erba, allora madre di due bambine – una di 2 anni e l'altra di due mesi: «non mi ero ancora ripresa dalla perdita di mio fratello Pierino, quando la sera del 23 novembre, preoccupata per il ritardo di mio marito dal lavoro, mi son vista arrivare in casa un suo collega. Mi portava la notizia che, nello stesso giorno, c'era stato un rastrellamento alla Pirelli e 160 operai, tra i quali mio marito, erano stati prelevati dal lavoro per essere deportati in Germania». «I cinque giorni nei quali mio marito, coi suoi compagni di lavoro, è stato rinchiuso nel carcere di San Vittore, col pericolo d'essere vittima di una rappresaglia sono stati tremendi. Così come sono stati tremendi i momenti della partenza dallo scalo Farini per la Germania: centinaia di familiari ammassati in attesa dei pullman provenienti dalle carceri, un clima di tensione esasperata che avrebbe potuto degenerare, i soldati tedeschi che ci respingevano lontano. Questi giorni sono stati per me un incubo e li ho ancora chiari nella mente e nel cuore».

Umberto Viganò viene internato nel campo di concentramento di Beesem, a circa 100 km da Desdra. 

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Ogni giorno, a piedi, insieme a centinaia di altri prigionieri italiani, malnutriti, deve raggiungere  Schkopau, una città a 5 chilometri dal lager, per essere impiegato come lavoratore coatto in una delle più importanti fabbriche chimiche del Reich, la Buna-Werke, in cui si lavora a pieno ritmo per l’industria bellica del Reich. 

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Liberato dagli Americani nell’aprile del 1945, ritorna in Italia 19 giugno del 1945, provato e in cattive condizioni fisiche che richiedono mesi e mesi di cure.

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Il proclama Alexander

17 Novembre 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

Il 13 novembre 1944 la radio «Italia combatte» trasmetteva il proclama del generale Alexander dedicato ai «patrioti al di là del Po»: «La campagna estiva, iniziata l'11 maggio e condotta senza interruzione fin dopo lo sfondamento della linea gotica, è finita. Inizia ora la campagna invernale». In conseguenza di questa nuova fase bellica i patrioti avrebbero dovuto «cessare la loro attività precedente per prepararsi alla nuova fase di lotta e fronteggiare un nuovo nemico, l'inverno» e avrebbero dovuto eseguire le seguenti istruzioni:

1) Cessare le operazioni organizzate su larga scala;

2) conservare le munizioni e i materiali e tenersi pronti a nuovi ordini;

3) attendere nuove istruzioni che verranno date o a mezzo radio «Italia combatte» o con mezzi speciali o con manifestini. Sarà cosa saggia non esporsi in azioni troppo arrischiate: la parola d'ordine è: stare in guardia, stare in difesa ...

Il proclama non diceva esplicitamente di «tornare a casa», è vero; anzi nella conclusione accennava all'«opportunità» di continuare nella guerriglia e nel sabotaggio «purché il rischio non fosse troppo grande». ... il modo era il più infelice: un proclama radio che annunciava non solo ai partigiani, ma anche al nemico l'intenzione di rinviare ogni azione offensiva a primavera e di lasciarlo indisturbato sul fronte. Riguardo al momento, non si poteva sceglierne uno meno adatto, poiché il proclama giungeva nel pieno della controffensiva tedesca. ...

il generale Alexander, non solo dava «mano libera» ai tedeschi verso la Resistenza italiana, ma suscitava nell'interno di questa i più gravi dubbi sulle prospettive future ...

Nel giro di una settimana non rimase più un angolo dell'Italia partigiana che non fosse sconvolto, messo a ferro e a fuoco dai rastrellamenti: almeno la metà delle forze tedesche e tutte le forze repubblichine, furono impegnate contemporaneamente e in tutti i settori per schiacciare la Resistenza.

Alla fine di novembre 1944 viene catturato l'intero Comando GL piemontese, ucciso Duccio Galimberti; la stessa sorte subiva il Comando regionale veneto, e poi quello ligure. In Lombardia cadeva il comandante della piazza di Milano Sergio Kasman, venivano arrestati quasi tutti i tecnici militari del CVL e infine gli stessi dirigenti: il rappresentante liberale (Argenton) quello dc (Mattei) e lo stesso Parri. In Emilia, l'intero CLN di Ferrara viene arrestato dai fascisti e consegnato alle SS tedesche. Solo nel '46 le sette salme dei suoi componenti verranno ritrovate in una fossa comune, in località Caffè del Doro.


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il Generale Harold Alexander (a destra) e il Generale  Oliver Leese (a sinistra) con  Winston Churchill (Italia Agosto 1944)

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il proclama del generale Alexander

17 Novembre 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

Testo del proclama che il generale Alexander indirizzò ai partigiani italiani il 13 novembre 1944.

Il proclama venne trasmesso da «Italia combatte», la trasmissione più prestigiosa di Radio Bari.

«Nuove istruzioni impartite dal generale Alexander ai patrioti italiani. La campagna estiva, iniziata l’11 maggio, e condotta senza interruzione fin dopo lo sfondamento della linea gotica, è finita; inizia ora la campagna invernale.

In relazione alla avanzata alleata, nel periodo trascorso, era richiesta una concomitante azione dei patrioti: ora le piogge e il fango non possono non rallentare l’avanzata alleata, e i patrioti devono cessare la loro attività precedente per prepararsi alla nuova fase di lotta e fronteggiare un nuovo nemico, l'inverno. Questo sarà duro, molto duro per i patrioti, a causa della difficoltà di rifornimenti di viveri e di indumenti: le notti in cui si potrà volare saranno poche nel prossimo periodo, e ciò limiterà pure la possibilità dei lanci; gli Alleati però faranno il possibile per effettuare i rifornimenti.

In considerazione di quanto sopra esposto il gen. Alexander ordina le istruzioni ai patrioti come segue:

  1. cessare le operazioni organizzate su larga scala;
  2. conservare le munizioni ed i materiali e tenersi pronti a nuovi ordini;
  3. attendere nuove istruzioni che verranno date o a mezzo radio “Italia combatte” o con mezzi speciali o con manifestini. Sarà cosa saggia non esporsi in azioni troppo arrischiate: la parola d'ordine è: stare in guardia, stare in difesa;
  4. approfittare però ugualmente delle occasioni favorevoli per attaccare tedeschi e fascisti;
  5. continuare nella raccolta delle notizie di carattere militare concernenti il nemico, studiarne le intenzioni, gli spostamenti, e comunicare tutto a chi di dovere;
  6. le predette disposizioni possono venire annullate da ordini di azioni particolari;
  7. poiché nuovi fattori potrebbero intervenire a mutare il corso della campagna invernale (spontanea ritirata tedesca per influenza di altri fronti), i patrioti siano preparati e pronti per la prossima avanzata;
  8. il gen. Alexander prega i capi delle formazioni di portare ai propri uomini le sue congratulazioni e l'espressione della sua profonda stima per la collaborazione offerta alle truppe da lui comandate la scorsa campagna estiva».
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Parigi, 11 novembre 1940

10 Novembre 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza europea

In Francia, l’11 novembre è il giorno in cui si celebra la vittoria del 1918, i sacrifici e l’eroismo dei combattenti della prima guerra mondiale, il giorno in cui si rende loro omaggio all’Arco di Trionfo, ravvivando la fiamma ed esponendo il tricolore sulla tomba del milite ignoto.

 Parigi-tomba-milite-ignoto.jpg

Nella Francia occupata dai nazisti, l’11 novembre 1940 s’inscrive nella coscienza della nazione, malgrado la censura, la propaganda tedesca e quella della repubblica collaborazionista di Vichy. Giovani studenti parigini si radunano all’Arco di Trionfo, sfidando il divieto degli occupanti: è una delle prime forme di resistenza all’invasore nazista.

La manifestazione, che avviene solamente quattro mesi dopo la sconfitta della Francia, orienta il popolo alla resistenza e nello stesso tempo rende la stretta di mano tra Hitler e Pétain, avvenuta il 24 ottobre, il simbolo infamante del tradimento.

Pétain con Hitler

11 novembre 1940: come non scegliere questa giornata commemorativa per affermare l’amore della patria, la speranza di una vittoria?

Già, venerdì 8 novembre, gli studenti comunisti hanno manifestato davanti al Collège de France, scandendo il nome di Paul Langevin e gridando «Liberté» e «Vive la France». (Paul Langevin, arrestato il 30 ottobre 1940 dalla Gestapo, fisico, professore al Collège de France, scienziato di fama internazionale, era uno degli intellettuali che avevano sostenuto il Front Populaire e che erano impegnati nella lotta antifascista).

Si apprende che Radio Londra ha rivolto un appello a tutti i francesi, e in particolare agli ex combattenti, perchè depongano fiori sulla tomba del milite ignoto.

Le autorità tedesche d’occupazione, in un manifesto, hanno proibito qualsiasi forma di ricordo che costituirebbe, secondo loro, un insulto al Reich e un attentato all’onore della Wermacht. Ciò ha indignato diversi parigini. Se ne parla nelle brasserie, nelle classi dei licei, nei corridoi della Sorbona, nel Quartiere Latino.

La Commissione, incaricata della censura nei media, ha stabilito che, per la rievocazione dell’11 novembre, i giornali non potranno dedicare più di due pagine.

I giornali pubblicano un comunicato della prefettura di polizia di Parigi, che riecheggia quello del Kommandantur: « A Parigi e nel dipartimento della Senna, le pubbliche amministrazioni e le imprese private lavoreranno normalmente il giorno 11 novembre. Le  cerimonie commemorative non avranno luogo. Nessuna pubblica dimostrazione sarà tollerata».

Nel Quartiere Latino, nei grandi licei di Parigi, la collera e l’indignazione si diffondono. Gli studenti che hanno partecipato alla manifestazione dell’8 novembre davanti al Collège de France – quasi tutti comunisti – e i liceali – spesso dell’Action Française – dei licei Janson-de-Sailly, Buffon, Condorcet, Carnot, decidono di redigere e stampare dei volantini ed esporli nei licei e nelle facoltà universitarie, invitando tutti gli studenti a manifestare. «Studenti di Francia, l’11 novembre è per te un giorno di festa nazionale. Malgrado l’ordine delle autorità di occupazione sarà un giorno di raccoglimento. Tu andrai a rendere onore al milite ignoto, alle ore 17,30. Non assisterai a nessuna lezione. L’11 novembre 1918 fu il giorno di una grande vittoria. L’11 novembre 1940 sarà l’inizio di una più grande. Tutti gli studenti sono solidali. Vive la France! Ricopiate queste parole e diffondetele».

Tutto inizia il mattino dell’11 novembre. Vengono depositati dei fiori ai piedi della statua rappresentante la città di Strasburgo, in Place de la Concorde. Poi, con il passar delle ore, la folla risale gli Champs-Elisées, depone migliaia di bouquet, corone di fiori davanti alla statua di Georges Clemenceau.

Un commissario di polizia ripete, con una voce dolce: «Andate via, niente raggruppamenti, vi prego, sono proibiti». Subito dei soldati tedeschi, scesi da una vettura, circondano la statua. «Il comandante tedesco non vuole manifestazioni» ripete il commissario.

Improvvisamente, a partire dalle ore 17, migliaia di studenti riempiono il piazzale dell’Arco di Trionfo. Altri arrivano in corteo, drappo tricolore in testa, dall’Avenue Victor Hugo.

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Si sentono esplodere colpi di arma da fuoco. Dei veicoli carichi di soldati tedeschi zigzagano sul piazzale e sui marciapiedi, disperdendo i manifestanti. Ci sono dei feriti. Alcuni manifestanti sono travolti dai mezzi militari. Improvvisamente delle SS, armi in pugno, escono dal cinema Le Biarritz. Nuovamente si sentono dei colpi di arma da fuoco e delle raffiche di mitragliatrice.

Si ode la Marseillaise, poi il Chant du départ. Si sentono grida «Vive la France», «abbasso Pétain», «abbasso Hitler».

I tedeschi piazzano una batteria di mitragliatrici, colpiscono con i calci delle armi da fuoco. Si combatte. Una dozzina sono i morti, un centinaio gli arrestati, che vengono caricati su camion, condotti in Avenue de l’Opera, dove si trova un Kommandantur, poi alla prigione di Cherche-Midi, pestati con pugni e calci, con manganelli e il calcio dei fucili. Vengono fatti passare tra due ali di soldati ubriachi. Alcuni vengono sbattuti contro un muro, puntati da un plotone di esecuzione nel cortile della prigione di Cherche-Midi.

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Un generale fa irruzione nel cortile. Si è messo a picchiare i soldati, insultandoli «ubriachi, banda di ubriachi». E vedendo gli studenti, si è indignato, esclamando «ma sono dei bambini!». Questi giovani saranno trattenuti in carcere per tre settimane, prima di essere rilasciati.

Solamente sabato 16 novembre la radio e la stampa hanno dato la notizia  che «queste manifestazioni hanno richiesto l’intervento del servizio d’ordine delle autorità di occupazione». Ma la notizia della manifestazione si è propagata per tutta la Francia, suscitando un’ondata di emozioni. Non viene prestata alcuna attenzione al comunicato del Kommandantur. Genera indignazione il testo del documento del vice presidente del Consiglio - Pierre Laval – dal titolo «La verità sugli incidenti dell’11 novembre», in cui si dice «quattro persone sono state leggermente ferite, nessuno è stato ucciso».

Non si conosce l’esatto numero delle vittime, ma vista l’importanza dell’avvenimento, vengono presi provvedimenti da parte del governo di Vichy e dalle autorità di occupazione. Viene decretata la chiusura dell’Università di Parigi e degli istituti universitari della capitale. Gli studenti iscritti ai corsi dovranno, ogni giorno, recarsi a firmare presso il commissariato del loro quartiere.

Il rettore Roussy è revocato e sostituito dallo storico Jérome Carcopino, che riscuote la fiducia del potere di Vichy. La ripresa dei corsi viene fissata per il 20 dicembre, quando le vacanze di fine anno incominciano ... il 21.

Le trasmissioni di France Libre, dai microfoni delle BBC da Londra, ripetono: «Dietro questa folla coraggiosa, gli uomini di Vichy sentono che c’è tutto un paese che si rivolta ... ».

Bibliografia:

Max Gallo, 1940 de l’abîme à l’espérance, XO Éditions, 2010

 

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il Muro di Berlino

8 Novembre 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #il secondo dopoguerra

9 novembre 1989 - 9 novembre 2024: 35 anni dalla caduta del muro di Berlino

... ma bisogna aspettare il 9 novembre 1989, vedere la felicità impazzita delle due Berlino che in una notte ritornano per sempre una sola città, per capire come quella breccia che squarcia il Muro segni in realtà il passaggio da un'epoca all'altra.

                          _________________________________________

Il 13 agosto 1961, una domenica di festa, prima dell’alba, sotto l’occhio vigile della polizia, le strade che collegano la parte orientale alla parte occidentale vengono interrotte, disselciate, e si erigono barricate fatte di pali e filo spinato lungo la frontiera con Berlino Ovest; poco tempo dopo queste barricate saranno sostituite da un muro che attraverserà la città da una parte all’altra.

 

La capitolazione della Germania nel 1945 implica per Berlino dei cambiamenti radicali, di cui non si misura ancora l’ampiezza alla fine della guerra. Importante metropoli internazionale, è al centro dei giochi politici mondiali.

 

 

1948

La Guerra Fredda

La città viene divisa in 4 settori d’occupazione, come il resto del Paese: Berlino Est è sotto controllo sovietico mentre i distretti dell’Ovest sono divisi in tre settori amministrati rispettivamente dagli Americani, i Francesi e i Britannici.

I disaccordi politici e amministrativi tra l’URSS e gli Alleati non tardano a farsi sentire. Prendendo a pretesto una riforma monetaria varata dalle potenze occidentali e introdotta nei territori dell’Ovest, il 24 giugno 1948, l’URSS decreta il blocco totale di Berlino, interrompendo ogni comunicazione da e verso la città. Gli Alleati organizzano allora un ponte aereo per rifornire la popolazione durante gli 11 mesi in cui le strade, le ferrovie e le vie d’acqua sono totalmente bloccate.

 

Il 23 maggio 1949 è fondata la Repubblica federale tedesca (RFT) e il 7 ottobre la Repubblica democratica tedesca(RDT). Tutto ciò, ovviamente, avrà delle conseguenze per Berlino. La Legge fondamentale (Grundgesetz) fa dell’agglomerato urbano berlinese un Land della RFA, mentre la Costituzione della RDT rivendica la città come capitale. Tutte e due si riferiscono a Berlino nel suo complesso.

In pratica, i settori occidentali sono controllati da un’amministrazione tripartita, mentre la parte orientale è sotto il controllo sovietico.


La costruzione del Muro


Il 17 giugno 1953, a Berlino Est, uno sciopero contro le cadenze di lavoro eccessive viene repressa dai carri armati sovietici. Negli anni ’50 sono sempre più numerosi i Tedeschi orientali che fuggono verso la Germania occidentale.

Nel novembre 1958, Kruscev lancia un ultimatum: le potenze occidentali dispongono di sei mesi per ritirare le loro truppe e accettare la trasformazione di Berlino Ovest in una unità politica indipendente; l’Ovest lascia scadere l’ultimatum senza conseguenze.
Nel 1961, Mosca minaccia nuovamente di regolare il «problema di Berlino Ovest» entro un anno. Il presidente americano Kennedy ribatte con le «Three Essentials»: difesa della presenza occidentale, tutela del diritto di accesso, autodeterminazione degli abitanti di Berlino Ovest e garanzia della libera scelta del loro modo di esistenza; in quanto agli abitanti di Berlino Est, non vengono menzionati.
Il 13 agosto 1961, una domenica di festa, prima dell’alba, sotto l’occhio vigile della polizia, le strade che collegano la parte orientale alla parte occidentale vengono interrotte, disselciate, e si erigono barricate fatte di pali e filo spinato lungo la frontiera con Berlino Ovest; poco tempo dopo queste barricate saranno sostituite da un muro che attraverserà la città da una parte all’altra.


    
 

Nel 1963, il Presidente Kennedy, durante una visita molto attesa a Berlino, conclude il suo discorso davanti al Municipio di Schöneberg con la celebre frase: «Ich bin ein Berliner».


Nel dicembre 1963, dopo 28 mesi di separazione totale, viene concluso un accordo con le autorità dell’Est per permettere agli abitanti di Berlino Ovest di recarsi all’Est per un periodo massimo di 18 giorni.

 

La frontiera tra i due settori diventa allora l’unico punto di passaggio tra l’Est e l’Ovest. La costruzione di questo Muro, evento che ha segnato la memoria di tutti i Berlinesi, simboleggia anche la consolidazione delle sfere del potere in Europa.


 

 

 
 

Lo sgelo degli anni ‘70

Fino all’entrata in vigore dell’accordo quadripartito del 1971, dell’accordo sul transito e del Trattato di base nel 1972, e persino dopo, la questione dello statuto di Berlino rimane un problema. Con il Trattato di base, la Repubblica federale tedesca riconosce infine la Repubblica Democratica Tedesca come uno Stato della Germania. In cambio ottiene la garanzia dello statu quo di Berlino Ovest, ma deve accettare che questa parte della città non faccia parte integrante del suo territorio. Si afferma anche che il collegamento con i settori occidentali e la Repubblica federale va mantenuto e persino rafforzato, di qui l’insediamento sul posto di autorità federali. In realtà non cambia niente, ma esiste finalmente una base giuridica di referenza chiaramente definita. Il Cancelliere Willy Brandt (RFT) e il presidente del Consiglio di Stato Erich Honecker (RDT) conducono una politica di avvicinamento (Ostpolitik): la RDT semplifica le autorizzazioni di viaggio fuori dalle sue frontiere e consente ai Tedeschi dell’Ovest di soggiornare brevemente nelle regioni frontaliere.

 

Lo sviluppo parallelo

A Ovest come a Est, la pianificazione urbana è al centro delle discussioni politiche. A causa della divisione è necessario ricreare al più presto le istituzioni e gli organismi che mancano nelle due parti della città. I dintorni della Chiesa del Ricordo diventano il centro città di Berlino Ovest, e Alexanderplatz il punto forte della rinnovazione del centro città a Est. Le due parti vengono trasformate, a furia di sussidi, come vetrina dei loro sistemi politici rispettivi. A dispetto delle circostanze, da una parte e dall’altra del Muro, una certa «normalità» s’installa nella vita della maggior parte dei Berlinesi.

 

La caduta del Muro

Nel 1987, Berlino celebra il suo 750° anniversario. Il presidente americano Ronald Reagan pronuncia queste parole durante un discorso tenuto davanti alla Porta di Brandeburgo: «Signor Gorbacev, apra questa porta, signor Gorbacev demolisca questo muro! » All’Est, la festa si trasforma in tafferuglio quando la polizia caccia un gruppo di giovani che ascolta, vicino al Muro, un concerto di rock organizzato all’Ovest.

Dopo le elezioni comunali del maggio 1989, un movimento di resistenza inabituale e molto violento solleva Berlino Est e la RDT; i difensori dei diritti civili si rivoltano contro le accuse di manipolazione. Le prime manifestazioni hanno luogo contro il sistema politico del SED (Partito Socialista Unificato della RDT). Facilitati dall’apertura della frontiera tra l’Ungheria e l’Austria, i Tedeschi della Germania orientale partono in massa verso l’Ovest. Le ambasciate della RFT situate nei «paesi fratelli» socialisti sono occupate dai rifugiati, che vogliono ottenere i visti di uscita dal territorio.

 

11 novembre 1989

Il 7 ottobre 1989, l’esecutivo guidato da Erich Honecker festeggia i quarant’anni della repubblica Federale Tedesca a Berlino Est; tuttavia, appena 12 giorni dopo, il presidente del Consiglio di Stato deve abbandonare il SED, dopo esser stato a capo del partito per 18 anni. Il 4 novembre, più di mezzo milione di uomini e di donne si riuniscono in Alexanderplatz per reclamare riforme democratiche e la fine del dominio del partito unico.

Durante una conferenza stampa, il 9 novembre, Günther Schabowski, membro dell’ufficio politico del SED, annuncia un cambiamento nella rigida amministrazione dell’Est: sono autorizzati i viaggi all’estero «senza condizioni preliminari, autorizzazione particolare, né legame di parentela». Interrogato sulla data di entrata in vigore di questa nuova normativa, risponde: «Subito. Immediatamente.»

La notizia si sparge in men che non si dica. Decine di migliaia di Berlinesi dell’Est affluiscono ai posti di frontiera. Le guardie di confine sono sorprese e non avendo ricevuto istruzioni, li lasciano passare. Le barriere vengono aperte dapprima al punto di controllo della Bornholmer Straße e numerosi Berlinesi dell’Est fanno così una breve incursione all’Ovest.



Un immenso movimento d’euforia invade la città che rasenta il caos generale. I Berlinesi, armati di martelli e scalpelli, incominciano a smantellare il Muro.
Altri checkpoint sono aperti le settimane seguenti. L’apertura della porta di Brandeburgo, il 22 dicembre 1989, ha un valore particolarmente simbolico.

 

Il famoso violoncellista Rostropovitch, dovutosi esiliare all’Ovest, viene a suonare ai piedi del Muro per incoraggiare i demolitori (designati con il termine di Mauerspechte, i «picchi verdi del Muro»).
 
 


Una vita bruciata dalla Stasi

Un incontro commovente con Heinz Kamisnski, 60 anni, tedesco dell’Est. Quando sua madre era fuggita all’Ovest, fu rapito dalla Stasi (Stasi è l'abbreviazione di Ministerium für Staatssicherheit, "Ministero per la Sicurezza di Stato") all’età di 7 anni. Per i suoi tentativi di fuga ha subito delle persecuzioni di cui ancora soffre.

Tutti abbiamo sentito parlare della Stasi, soprattutto dopo il bellissimo film “La vita degli altri”.

La Stasi è il simbolo di una macchina terribile per distruggere gli uomini.

Abbiamo incontrato una vittima di questa repressione poliziesca che vigeva nella Germania dell’Est, ancora in terapia.

L’incontro avviene nel quartiere Wedding, al centro Gegenwild, un centro psicosociale di Berlino ovest. L’ambiente è caloroso, i mobili in legno, un locale per i colloqui individuali un altro per riunioni di gruppo. Bettina, una delle psicologhe, ci attende con Heinz Kaminski, un uomo robusto di 60 anni, che ha portato con lui un grosso dossier.

Bettina ci spiega che attualmente ha in cura una trentina di persone. Sono vissute tutte nella ex Repubblica Democratica di Germania.

Il centro è stato creato 11 anni fa da un vecchio militante dei diritti civili della  Germania dell’Est, Yurger Fox. Più di mille persone hanno avuto contatti con l’equipe del centro, la metà hanno chiamato, gli altri hanno preferito passare direttamente. Bettina racconta che molti hanno ancora paura di raccontare per telefono le loro vicissitudini, per il timore di essere ascoltati.

Heinz Kamisnski è nato nel 1950 a Berlino est. Sua madre era fidanzata con un ufficiale dell’esercito della Germania est. Un giorno decise di andare all’ovest, lei e suo figlio, che allora aveva tre anni. Siamo nel 1953, il muro non esisteva ancora. Heinz cresce  nella Germania ovest finché un giorno sua madre perde il diritto di affidamento. La Stasi viene a cercare Kamisnski e lo porta in una casa a Berlino est, controllata dal partito, la SED. Durante la sua adolescenza, la sua ossessione sarà quella di rivedere sua madre. Heinz Kamisnski tenterà, a più riprese, di scappare ma ogni volta viene ripreso e riportato a casa dove viene cresciuto con metodi duri. Un giorno tenta di passare la frontiera con la Cecoslovacchia. Ha 19 anni. Viene arrestato e posto in una cella di isolamento in una prigione di Berlino est. Per 12 mesi vivrà in una cella di 2 metri per 3. In prigione resiste a tutti gli interrogatori della Stasi che vuole sapere se ha dei contatti con l’Ovest. Lo minacciano dicendogli che scomparirà se non parla, che nessuno saprà che è esistito. La Stasi utilizza questi metodi di lavaggio del cervello per farlo cedere. Il giovane Kamisnski resiste ma si ammala perdendo tutti i capelli. La Stasi redige un rapporto sul suo stato di salute che contribuirà a considerarlo come un prigioniero politico della Germania Ovest, cosa che allora accadeva spesso.

Tornato libero Heinz Kamisnski decide di andare a vivere all’estero. Va negli Stati Uniti e in America del sud dove fa dei piccoli lavori. Poi ritorna in Germania, si sposa e trova un lavoro come capocantiere. Ma un giorno “perde le staffe”, litiga sempre più spesso con i suoi colleghi, diventa incontrollabile. Sua moglie lo lascia, perde il lavoro. Gli consigliano di consultare uno psicologo che lo consiglia di rivolgersi ad un centro di terapia sociale più adatto al suo caso.

Heinz Kamisnski viene una volta alla settimana. Quest’estate ha vinto una causa contro lo Stato tedesco ed ha avuto un’indennità di 20.000 euro come vittima, quasi una pensione con la quale possa vivere. Una vittoria per questo uomo che soffre di solitudine, una vittoria dal gusto terribilmente amaro. Heinz Kamisnski non riesce a voltare pagina dopo un passato che lo perseguita da 30 anni. Lo si vede: consulta freneticamente le pagine del suo enorme dossier, che ha recuperato nel 1996, dagli archivi della Stasi, in cui è depositata la storia di tutta la sua vita da quando aveva 7 anni. “Provo ancora odio” dice “contro quegli uomini che mi hanno fatto ciò”.


(Valérie Cova di France Info)

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4 Novembre

30 Octobre 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #I guerra mondiale

Giorno dell'Unità d'Italia e Festa delle Forze Armate  

Il 4 novembre del 1918, il giorno della Vittoria dell’Italia sull'Austria nella Prima guerra mondiale, simbolicamente si completò il processo dell'unificazione italiana. Un processo lungo e difficile, che aveva avuto i suoi albori con l'età napoleonica e si era sviluppato attraverso cospirazioni, movimenti politici, moti rivoluzionari e guerre. Dagli otto stati pre-unitari nasceva una nazione indipendente. Dai moti del 1820-21 a quelli del 1831, dalle insurrezioni del 1848 alla campagna dello stesso anno ed a quella dell'anno successivo, poi la II Guerra d'Indipendenza, i plebisciti, la spedizione dei Mille, l'Esercito Meridionale, l'intervento nelle Marche e nell'Umbria fino alla proclamazione del Regno d'Italia nel 1861. E poi i successivi tasselli per completare l'unità, con la guerra del 1866 e la presa di Roma. La Prima guerra mondiale diventa quindi la tappa conclusiva dell’unità dell’Italia. E per questo il 4 novembre è stato scelto come giorno in cui si celebrano le Forze armate e appunto l’Unità della nazione. I numeri della Prima guerra mondiale furono questi: oltre 5 milioni di mobilitati, di cui oltre 4 milioni assegnati all'esercito, 680.000 caduti, 270.000 mutilati, un milione di feriti, 600.000 prigionieri, 64.000 dei quali morti per stenti in mano nemica. Nato come "festa della Vittoria", con il tempo il 4 Novembre è diventato "Giorno dell'Unità Nazionale e Giornata delle Forze Armate" ».

Anniversario di Vittorio Veneto

 “Vittorio Veneto” è la località nei cui pressi si svolse l'ultimo scontro armato tra Italia e impero austro-ungarico durante la prima guerra mondiale, con la vittoria dell'esercito italiano e segnò la fine della guerra sul nostro fronte.

Nel 1914 l'Europa appariva ormai come una polveriera sul punto di esplodere, ma l'opinione pubblica europea sembrava del tutto inconsapevole del pericolo imminente.

1914 luglio Sarajevo

Sarebbe bastata una piccola scintilla - il 28 giugno del 1914, l'assassinio a Sarajevo in Serbia dell'erede al trono degli Asburgo, l'arciduca Francesco Ferdinando, e di sua moglie - per innescare il grande incendio della prima guerra mondiale.

L'Europa nel 1914 risultava divisa in due schieramenti contrapposti che facevano capo ad altrettante alleanze militari: la Triplice Intesa e la Triplice Alleanza. La prima vedeva l'adesione di Francia, Inghilterra e Russia; la seconda quella di Germania, Austria e Italia. Le aree di maggior tensione nello scenario europeo erano: l'Alsazia-Lorena tra Francia e Germania, il Trentino e la Venezia-Giulia tra Italia e Austria. Ma la vera zona calda erano i Balcani, verso i quali si concentravano le mire espansionistiche delle grandi nazioni.

Le dichiarazioni di guerra: Austria contro Serbia (28 luglio 1914), Germania contro Russia (1° agosto 1914), Germania contro Francia (3 agosto 1914), Gran Bretagna contro Germania (4 agosto 1914), Austria contro Russia (6 agosto 1914), Francia contro Austria (11 agosto 1914), Gran Bretagna contro Austria (12 agosto 1914).

Dopo alcuni mesi dall'inizio della guerra il conflitto si estende a buona parte dell'Europa, coinvolgendo anche paesi extra-europei come il Giappone. A scendere in guerra a fianco degli Imperi centrali furono Impero ottomano e Bulgaria, mentre con l'Intesa si schierarono Grecia, Romania e, nel 1915, l'Italia.

Quei fatidici quindici giorni dell'estate del 1914, che segnarono l'avvio e il dilagare delle ostilità, sarebbero rimasti impressi nella memoria degli europei.

Il 1914 rimane una data che marca profondamente la storia del mondo ed ecco perché il primo conflitto mondiale viene correntemente definito la Grande Guerra: iniziava in quel momento un processo destinato a cambiare il destino non solo delle popolazioni del vecchio continente, ma anche dei popoli colonizzati nel resto del pianeta.

la "Grande" Guerra

Nel novembre 1918 fa finiva la prima guerra mondiale. Nel mondo niente era più come prima della guerra. All’est la rivoluzione bolscevica aveva trionfato, la Germania era in ginocchio, l’Austria-Ungheria era scomparsa, nasceva una nuova Europa con nuovi paesi: gli Stati baltici, la Polonia, la Cecoslovacchia; a sud l’impero ottomano era disintegrato, ad ovest la Francia aveva ripreso l’Alsazia e la Lorena, passavano all’Italia il Trentino-Alto Adige e Trieste.

Più di 9 milioni di uomini avevano perso la vita sui campi di battaglia.

La guerra in Europa, iniziata nell’estate 1914, è stata la prima "guerra totale" che aveva opposto diverse nazioni, coinvolgendo le forze economiche.

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Una guerra totale è una guerra dove la distinzione tra militari e civili tende a ridursi e dove i civili ci vanno di mezzo come i soldati. Certo le atrocità commesse dalle truppe tedesche in Belgio e nel nord della Francia nell’estate del 1914 o ancora i bombardamenti di Reims sono diverse da quelle di Hiroshima e della distruzione di Desdra, ma la differenza tra le due guerre mondiali è una differenza di scala, dovuto ai limiti della tecnologia. Se i tedeschi avessero disposto di più “Grande Bertha”, i Parigini avrebbero sofferto di più. D’altro canto il genocidio degli Armeni preannuncia in un certo senso quello degli Ebrei.

Una novità della prima guerra mondiale é la nozione del "fronte". Nel XIX secolo le guerre erano fatte da armate in movimento. La guerra, 1914-1918, all’inizio era come quelle dell’800, con delle armate mobili che si cercano, ma nel giro di qualche settimana, il fronte si stabilizza su centinaia di chilometri.

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Si ha dapprima la trincea, che è la conseguenza di questa guerra di "fronte". Poi entra in gioco l’artiglieria: la novità sta nell'uso massiccio dell'artiglieria.

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Nessuna guerra nella storia aveva avuto un tale impiego esagerato di artiglieria: nella battaglia di Verdun (su un fronte di 17 Km di lunghezza e 3 di laghezza) è caduto un obice di grosso calibro (105 mmm o più) su ciascun metro quadrato. Per trasportare un così ingente quantitativo di munizioni erano stati necessari 872 treni e 26.000 vagoni. L’artiglieria distrugge tutto e stravolge completamente  il paesaggio.

Alcune innovazioni fanno di questa guerra la prima guerra industriale: le mitragliatrici, i gas, i lanciafiamme, ma anche i carri armati, i sottomarini e gli aeroplani, con i quali si entra veramente nel XX secolo.

 

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La morte in massa non si era mai vista prima: i morti raggiungeranno la cifra di 9.400.000, di cui 1.397.000 in Francia (pari a una media di 829 morti al giorno nei 1560 giorni di guerra), a cui si devono aggiungere altrettanti feriti e prigionieri, la maggior parte catturati nel 1914 e a Verdun). In Italia i morti furono 578.000 (mediamente 460 morti al giorno in 1258 giorni di guerra).

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Con la prima guerra mondiale si entra nell’era della violenza industriale, di una violenza cieca. La guerra del 1914-1918 è una guerra dove è raro che si uccida guardandosi negli occhi. La “pulizia delle trincee” sicuramente é esistita, ma resta marginale in quanto l’arrivo dei soldati in una trincea nemica è preceduto da una tale preparazione dell’artiglieria che gli uomini, di fatto, sono già morti o non sono in grado di opporre resistenza.

Nel 1918 il mondo non assomiglia più a quello del 1914: la principale conseguenza della Grande Guerra è lo spostamento del centro di gravità dell’economia mondiale dall’Europa verso gli Stati Uniti d’America. Nel 1914 l’Europa era il banchiere del mondo; nel 1918 non più. Per finanziare la guerra i paesi europei si erano indebitati: ormai Wall Street supera la City di Londra o la borsa di Parigi.

Gli Stati Uniti d’America erano entrati in guerra contro la Germania nell’aprile del 1917, al fianco dell’Intesa: per questo intervento fu ristabilita la coscrizione obbligatoria che era stata abolita dopo la guerra di secessione (1861-1865) . I soldati americani arrivarono in massa sul continente europeo: 300.000 nel marzo 1918, un milione nel mese di luglio, il doppio alla vigilia dell’armistizio. 114.000 caddero sui campi di battaglia.

Oltre all’apporto dei militari statunitensi alla vittoria dell’Intesa, non va dimenticato l’aiuto americano nel  campo economico: durante la guerra, gli alleati ricevettero materie prime, alimenti, macchine utensili, materiale ferroviario, benzina.

(Liberamente tratto da un’intervista al prof. Antoine Prost, insegnante alla Sorbona di Parigi, esperto in Storia dell’Educazione e di Storia sociale)

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