Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"
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25 Aprile 1945 - 25 Aprile 2025

26 Avril 2025 , Rédigé par anpi-lissone

 

25 Aprile 1945 - 25 Aprile 2025 80° anniversario della Liberazione dal nazifascismo

l'ANPI di Lissone propone il concerto multimediale " IL PREZZO DELLA LIBERTA' "

Domenica 27 aprile 2025 ore 17

BIBLIOTECA CIVICA DI LISSONE

Sala Polifunzionale - Piazza IV Novembre

 

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Lissone 80mo anniversario della Liberazione

25 Avril 2025 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Festa della Liberazione

Alcuni momenti della celebrazione in città

Lissone 80mo anniversario della Liberazione
Lissone 80mo anniversario della Liberazione
Lissone 80mo anniversario della Liberazione
Lissone 80mo anniversario della Liberazione
Lissone 80mo anniversario della Liberazione
Lissone 80mo anniversario della Liberazione
Lissone 80mo anniversario della Liberazione
Lissone 80mo anniversario della Liberazione
Lissone 80mo anniversario della Liberazione
Lissone 80mo anniversario della Liberazione
Lissone 80mo anniversario della Liberazione
Lissone 80mo anniversario della Liberazione
Lissone 80mo anniversario della Liberazione
Lissone 80mo anniversario della Liberazione

Gli interventi:

Giuseppe Valtorta a nome dell'A.N.C.R. Associazione Nazionale Combattenti e Reduci

Mariuccia Brusa per A.N.P.I Associazione Nazionale Partigiani d'Italia

e il Sindaco di Lissone Laura Borella

 

 

il discorso di Mariuccia Brusa per ANPI Lissone

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6 APRILE 2025 SANTA MARGHERITA DI FOSSA LUPARA

12 Avril 2025 , Rédigé par anpi-lissone

 

 

 

 

 

alcuni momenti della cerimonia in onore dei caduti delle valli tra cui il lissonese ARTURO AROSIO

Discorso di Pierangelo Stucchi presidente dell'ANPI di Lissone

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7 luglio 1944: sogno d’Europa

13 Mars 2025 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza europea

rêve d’Europe  traum von  Europa droom  van Europa  dream of Europe  όνειρο της Ευρώπης  sonho da Europa  sueño de Europa

 
Nell’agosto 1943, gli antifascisti italiani, Ernesto Rossi ed Altiero Spinelli, fondarono, dopo la caduta di Mussolini, il Movimento federalista europeo. Il Movimento si servì della Svizzera per divenire, nel 1944, un efficace promotore della causa federalista all’interno della comunità degli esuli. Così nacque la “Dichiarazione dei movimenti della Resistenza europea”, pubblicata a Ginevra il 7 luglio 1944, primo manifesto veramente europeo durante la guerra.

L’idea fu ripresa allorquando la guerra finì con una profonda crisi in tutti i paesi d’Europa, che rese obsoleti i vecchi partiti politici, sia essi compromessi, sia incapaci di affrontare la nuova realtà europea.

In effetti fu in Svizzera, in piena guerra, che si organizzarono le prime riunioni europee degli uomini della Resistenza, intorno ad uno zoccolo duro di esuli federalisti.

A Ginevra si svolsero clandestinamente più di cinque incontri, che riunirono Italiani, Francesi, Danesi, Olandesi, Cechi, Norvegesi, Yugoslavi e qualche tedesco antinazista.

Gli autori della Dichiarazione ritenevano che la fonte dei mali risiedeva essenzialmente nella frammentazione dell’Europa in 30 entità politiche. Questo problema non poteva essere risolto che con il superamento del “dogma della sovranità assoluta” degli Stati. Il mezzo di questo superamento doveva essere una “Unione federale” dotata di un governo responsabile verso i popoli e da loro eletto, di un esercito comune e di un tribunale supremo con il compito di deliberare sulle questioni relative all’interpretazione della Costituzione federale. Questa Unione avrebbe consentito la realizzazione di una politica capace di impedire i nazionalismi e il rischio di guerre.

“Solo un’Unione federale consentirà la partecipazione del popolo tedesco alla vita europea senza che sia un pericolo per gli altri popoli.

Solo un’Unione federale consentirà di risolvere problemi di confine nelle zone con popolazioni miste, che cesseranno così di essere l’oggetto di folli bramosie nazionaliste e diventeranno delle semplici questioni di delimitazioni territoriali di pura competenza amministrativa.

Solo un’Unione federale consentirà la salvaguardia delle istituzioni democratiche in modo tale da impedire che i paesi, che non abbiano una sufficiente maturità politica, possano mettere in pericolo l’ordine generale.

Solo un’Unione federale consentirà la soluzione logica e naturale dei problemi di accesso al mare dei paesi situati all’interno del continente, dell’utilizzazione razionale dei fiumi, che attraversano più Stati, del controllo degli stretti e, in generale, della maggior parte dei problemi che hanno turbato le relazioni internazionali nel corso di questi ultimi anni".

Tratto dalla “Dichiarazione dei movimenti della Resistenza europea”, redatta a Ginevra.

    

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In ricordo di Eugenio Colorni, sognando una nuova Europa

13 Mars 2025 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

rêve d’Europe, traum von Europa,  droom van Europa, dream of Europe, όνειρος της Ευρώπης, sonho da Europa, sueño de Europa

Chi era?

Eugenio Colorni (Milano, 22 aprile 1909 – Roma, 30 maggio 1944) è stato un filosofo, politico e socialista italiano.

Oltre che per le sue opere filosofiche, Colorni è noto come uno dei massimi promotori del federalismo europeo: mentre era confinato, in quanto socialista e antifascista, nell'isola di Ventotene, partecipò con Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, anch'essi lì confinati, alla scrittura del Manifesto per un’Europa libera e unita, che poi da quel luogo prese il nome. In seguito, nella Roma occupata dai nazisti, curò l'introduzione e la pubblicazione clandestina di questo documento fondamentale per lo sviluppo dell'idea federalista europea.

Fatti salienti della sua breve vita

Dopo due anni trascorsi in Germania - come lettore di italiano all'Università di Marburg, dove aveva approfondito i suoi studi su Gottfried Wilhelm Leibniz - nel 1933 era tornato a Milano. Abbandonato l'impegno sionistico degli anni dell'Università, aveva cercato collegamenti con l'antifascismo militante, impegnandosi per far rivivere nell'Italia settentrionale il "Centro interno" del Partito socialista.

L'8 settembre del 1938, all'inizio della campagna razziale promossa dal regime, fu arrestato dall'OVRA a Trieste, in quanto ebreo ed antifascista militante, venendo pertanto rinchiuso nel carcere di Varese. I giornali pubblicarono la notizia con gran risalto, sottolineando che egli «di razza ebraica, manteneva rapporti di natura politica con altri ebrei residenti in Italia e all'estero».

Dal gennaio del 1939 all'ottobre del 1941, Colorni fu confinato nell'isola di Ventotene, dove proseguì i suoi studi filosofico-scientifici e discusse intensamente con gli altri compagni confinati, Ernesto Rossi, Manlio Rossi Doria e Altiero Spinelli.

 

Nel 1941, partecipò alla stesura del Manifesto per un’Europa libera e unita, meglio noto come Manifesto di Ventotene.

Nella sua "Prefazione" al Manifesto, auspicò la nascita di una politica federalista europea di respiro universalista, come scenario democraticamente praticabile dopo la catastrofe della guerra.

Nell'ottobre del 1941, riuscì ad essere trasferito a Melfi, in provincia di Potenza, dove, nonostante lo stretto controllo della polizia, riuscì ad avere contatti con alcuni degli anti-fascisti locali.

Il 6 maggio del 1943 riuscì a fuggire da Melfi, rifugiandosi a Roma, dove visse in clandestinità.

Dopo l’arresto di Mussolini, il 25 luglio del 1943, si dedicò all'organizzazione del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, nato nell'agosto dalla fusione del PSI col giovane gruppo del Movimento di Unità Proletaria.

A seguito dell'8 settembre, svolse nella capitale un'intensissima attività nelle fila della Resistenza: prese parte alla direzione del PSIUP e s'impegnò a fondo nella ricostruzione della Federazione Giovanile Socialista Italiana e nella formazione partigiana della prima brigata Matteotti.

Fu redattore capo dell'Avanti! Clandestino.

Il 28 maggio del 1944, una settimana prima della liberazione della capitale, venne fermato da una pattuglia di militi fascisti della famigerata banda Koch: tentò di fuggire, ma fu raggiunto e ferito gravemente da tre colpi di pistola. Trasportato all'Ospedale San Giovanni, morì il 30 maggio, a soli 35 anni.

 

pagina dell'Avanti con l'articolo alla memoria di Eugenio Colorni
pagina dell'Avanti con l'articolo alla memoria di Eugenio Colorni
pagina dell'Avanti con l'articolo alla memoria di Eugenio Colorni

pagina dell'Avanti con l'articolo alla memoria di Eugenio Colorni

Trascrizione dell’articolo dell’Avanti! Del 18 luglio 1944 a lui dedicato.

Noi lo pensavamo nella schiera dei migliori, dedito ai nuovi compiti costruttivi del socialismo; con la sua forte intelligenza, con la passione e l’ardore che recava per la sua multiforme autorità. Ma egli non è più coi nostri compagni. È stato trucidato in Roma dai nazi, nei giorni stessi che sgombravano la città.

Dopo nove mesi di una lotta in cui s’era buttato tutto, come il suo ardente temperamento lo portava, mutatosi egli filosofo in uomo di guerra; quando in vista della liberazione agognata, non tanto per uscire da un pericolo che impavido aveva quotidianamente sfidato, quanto per potersi misurare nelle opere di pace, per recare ad attuazione un vasto programma di lavoro e di studi, è stato abbattuto come un cane per la via.

Eugenio Colorni era entrato giovanissimi nell’antifascismo militante e come socialista aveva lavorato per anni nella illegalità cospirativa.

Uomo di vastissima cultura, si era segnalato a Trieste dove insegnava storia e filosofia, esercitando grande fascino sui giovanissimi, assetati di qualche luce nelle tenebre della scuola fascista. Nel 1938 era stato arrestato, con una grande inscenatura antisemita, e poi assegnato al confino. Era riuscito a fuggire e da Roma aiutò in quegli anni i compagni dell’isola a gettare le basi del Movimento Federalista, di cui anche nella Roma arroventata degli ultimi mesi, continuò ad essere attivissimo assertore:

Egli faceva parte della redazione dell’Avanti! Clandestino e a lui si debbono iniziative culturali di partito che ebbero vivo successo e che egli si proponeva di sviluppare con idee originali come scuola di cultura socialista non appena la libertà fosse stata recuperata. Ma questa libertà che egli dimostrò d’amare più che la vita ha voluto anche il suo olocausto.

primo numero de L'UNITA' EUROPEA, voce del Movimento Federalista Europeo

primo numero de L'UNITA' EUROPEA, voce del Movimento Federalista Europeo

In ricordo di Eugenio Colorni, sognando una nuova Europa
In ricordo di Eugenio Colorni, sognando una nuova Europa
In ricordo di Eugenio Colorni, sognando una nuova Europa
In ricordo di Eugenio Colorni, sognando una nuova Europa
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Com'era il confino a Ventotene

13 Mars 2025 , Rédigé par Renato Publié dans #il fascismo

Isole PontineCi sono luoghi cui la natura, la volontà degli uomini e la storia affidano un particolare destino, quello di essere luoghi di esilio, le piccole isole ne sono un esempio peculiare. L’isola di Ventotene, anche per le sue ridotte dimensioni, non si è sottratta a tale sorte e da sempre luogo ideale di segregazione, fu individuata, durante il periodo fascista, come colonia di confino politico.

Il regime fascista per non arrecare pericolo allo Stato, inviò sull’isola, per 13 anni donne e uomini coraggiosi, allontanandoli dalle loro attività e dai loro affetti per fiaccarli, svilirli e umiliarli nella loro dignità, li riunì coattivamente in una sorta di pollaio, ma inconsapevolmente, trasformò l’isola in un’occasione speciale e irripetibile per la storia futura del nostro paese, perché è proprio a Ventotene che si forgiò la classe politica della futura Repubblica. L’isola da luogo di umiliazione, si trasformò in luogo di testimonianza e di riscatto per tutti coloro che opponendosi alla violenza e alla sopraffazione decisero di non mollare e difendere con dignità le proprie idee.

Il confino politico era regolato da alcuni articoli delle leggi speciali del 1926, leggi che avevano abolito i partiti e i loro giornali, i sindacati e le associazioni antifasciste. Con queste leggi fu anche istituito il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato e la Commissione Provinciale che assegnava al confino.

Lo scopo del confino era quello di allontanare gli individui ritenuti pericolosi per lo Stato ma anche per l’ordine e la sicurezza pubblica, così finirono al confino anche gli omosessuali, (soprattutto alle Tremiti) e i religiosi di fede diversa, testimoni di Geova, evangelisti.

Per finire al confino bastava veramente poco, come si evince dalle oltre 12000 ordinanze emesse dalle Commissioni Provinciali: partecipare al funerale di un amico comunista, deporre fiori sulla tomba di un antifascista, ironizzare o raccontare barzellette sul fascismo o sulla figura del duce, diffondere notizie ascoltate da una radio straniera, leggere libri ritenuti sovversivi, cantare inni considerati rivoluzionari, anche in abitazioni private. Festeggiare il primo maggio era poi considerata un oltraggio per il regime fascista.

Diversamente dal vecchio domicilio coatto, il confino non era una condanna stabilita dal potere giudiziario, ma una misura preventiva volta a liberarsi degli oppositori politici senza ricorrere ad un processo e soprattutto senza l’esibizione delle prove.

La durata del confino era variabile da uno a cinque anni ma spesso allo scadere del periodo assegnato si utilizzava il meccanismo del rinnovamento perché il confinato non aveva dato segni di ravvedimento e costituiva dunque ancora pericolo per lo Stato.

Per attuare le misure di repressione contro l’opposizione antifascista, il regime si dotò di una nuova forza, una polizia segreta appositamente istituita, l’OVRA, mentre la milizia fascista, M.V.S.N., fu individuata come forza d’ordine nelle colonie confinarie.

La storia della colonia di confino politico di Ventotene inizia nel 1930, quando per ragioni di sicurezza il Ministero degli Interni (Divisione Affari Generali e Riservati) decise di chiudere la colonia di Lipari, anche in seguito alla clamorosa fuga di Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Fausto Nitti, e individuò nell’isola di Ventotene il luogo che meglio rispondesse, date le ridotte dimensioni e la scarsa accessibilità delle coste, alle ragioni di sicurezza, il più adatto ad “ospitare” i confinati ritenuti più pericolosi ed irriducibili, comunisti ed anarchici . La colonia divenne veramente importante, dal punto di vista quantitativo e qualitativo, per i nomi dei suoi confinati, solo a partire dal 1939, quando fu ridimensionata la colonia di Ponza. Da quella data il capo della polizia, Arturo Bocchini, progetta per l’isola la nascita di una vera e propria colonia confinaria dove concentrare i più pericolosi avversari del regime.

Fu costruita a tale scopo una cittadella confinaria, con un’imponente caserma per gli agenti di PS, 12 padiglioni, uno destinato alle donne, uno ai tubercolotici e un’infermeria e fu trasferito sull’isola un intero reparto di milizia volontaria. Tra agenti, militi e carabinieri erano più di 350 ed assolvevano ad un efficiente controllo lungo le coste e per mare. Su circa 800 confinati presenti sull’isola la metà era costituita da comunisti, seguivano poi in ordine di grandezza gli anarchici e i socialisti, il gruppo di Giustizia e Libertà e i Federalisti di Altiero Spinelli. Erano presenti anche gli stranieri, i nuovi sudditi dissidenti dell’impero mussoliniano: albanesi, jugoslavi, dalmati, montenegrini, croati, sloveni.

Antifascisti verso il confinoIl confinato arrivava sull’isola, dopo un lungo ed estenuante viaggio con sosta nelle celle di transito sporche ed infestate di insetti, caricato con i ferri ai polsi e legato a catena con gli altri sul piccolo postale che collegava l’isola al continente, era condotto nei locali della Direzione della colonia e sottoposto ad un accurato controllo, era privato dei suoi documenti personali e fornito di una carta di permanenza, il famoso libretto rosso, nel quale erano segnate tutte le prescrizione alle quali doveva attenersi.

Il confinato poteva passeggiare in un percorso limitato, solo al centro del paese, senza superare il limite di confino che era segnalato da cartelli, da filo spinato o da garitte con guardie armate, poteva passeggiare solo con un altro confinato. Aveva l’obbligo di rispettare gli orari di uscita ed entrata nei cameroni e rispondere, due e in alcuni periodi, anche tre volte al giorno agli appelli; non poteva avere nessun rapporto con gli isolani, non poteva entrare nei locali pubblici se non per il brevissimo tempo dello scambio commerciale, non poteva partecipare a riunioni o intrattenimenti pubblici, non poteva parlare di politica, ascoltare la radio, non poteva avere carta da scrivere se non timbrata dalla direzione, poteva scrivere, con le persone autorizzate dalla direzione, una sola lettera a settimana, lunga 24 righe, ovviamente sottoposta a censura. Vi erano poi alcuni confinati speciali, che avevano come ulteriore umiliazione un milite che li seguiva a tre passi.

I confinati però negli anni seppero organizzarsi in una serie di imprese comunitarie: spacci, botteghe, mense, biblioteche, perfino un’orchestrina che si esibiva la domenica. A Ventotene, a differenza di quanto era avvenuto nelle altre isole di confino, le mense erano organizzate per appartenenza politica: vi erano 7 mense dei comunisti, componente più numerosa, con i nomi più importanti (Terracini, Secchia, Scoccimarro, Longo, Roveda, Curiel, Ravera …), 2 mense degli anarchici dove spiccava la figura quasi leggendaria di Paolo Schicchi; c’era Giovanni Domaschi, conosciuto in tutte le colonie confinarie per le sue rocambolesche fughe. Vi era poi la mensa dei giellisti dedicata ai fratelli Rosselli, con Ernesto Rossi, Bauer, Fancello, Calace, Dino Roberto. Vi era poi la mensa dei socialisti con a capo Sandro Pertini, due mense dei manciuriani, cioè di quei confinati isolati dalla componente politica perché ritenuti delatori al soldo della direzione politica e infine vi era la mensa dei federalisti europei con Altiero Spinelli, mensa che aggregava proprio per il consenso alle nuove idee contenute in quello che poi diverrà famoso come il Manifesto di Ventotene per un’Europa libera ed unita. C’era anche la mensa A degli ammalati, soprattutto tubercolotici, dove la generosità di alcuni confinati, tra i quali Di Vittorio, faceva arrivare il latte della loro stalla e i prodotti dei campi che coltivavano.

I confinati avevano a Ventotene una fornitissima biblioteca con volumi di storia, di economia, di filosofia di letteratura sia italiana che straniera, accanto alla biblioteca ufficiale vi era poi una biblioteca clandestina a cui potevano accedere solo in pochi.

Attorno alla biblioteca nacque in quegli anni un’intensa attività di studi, di riflessioni di preparazione, non a caso Ventotene è stata definita l’Università del confino, un autentico laboratorio culturale. Nelle stradine dell’isola, in una vera e propria organizzazione, i confinati studiavano, analizzavano, discutevano; si tenevano lezioni sistematiche e specialistiche di storia, di economia, di finanza, di statistica e perfino lezioni di tecniche militari impartite da alcuni ufficiali albanesi e dai combattenti di Spagna. Qualcuno ha poi raccontato che quelle lezioni furono fondamentali nella lotta partigiana.

Ognuno si specializzava nello studio dei testi, ma tutti si arricchivano e si formavano per lo scambio privilegiato con alcune personalità di altissimo spessore culturale e morale presenti allora sull’isola. Nella apparente immobilità della vita confinaria Pietro Grifone, scrisse la sua opera più importante Il capitale finanziario e nell’introduzione all’opera dedica una parte proprio a come si studiava al confino di Ventotene; anche Ernesto Rossi scrisse e soprattutto scrisse Altiero Spinelli il Manifesto di Ventotene .

Parallelamente all’efficiente sistema di sicurezza, di sorveglianza e di censura messo a punto dalla direzione della colonia negli anni, i confinati avevano altrettanto saputo organizzare un’ efficiente organizzazione per la ricezione e la trasmissione di documenti, da e per il continente, con la complicità di qualche familiare in visita o di qualche isolano, partivano messaggi clandestini celati negli oggetti più disparati. Per tutti quegli anni il collettivo del partito riuscì sempre ad essere collegato con il centro sia in Italia che all’estero, non a caso qualcuno argutamente ha definito il gruppo dei comunisti dell’isola, il governo di Ventotene, perché era proprio dall’isola che partivano le direttive più importanti.

Il 25 luglio cade il fascismo, i confinati si sentono liberi, ma il giorno dopo viene affondato, da quattro aerei siluranti inglesi, il piccolo postale che collegava l’isola al continente, e i confinati privi di mezzi rimasero bloccati sull’isola.

Il 28 luglio giunse nel piccolo porto dell’isola un ospite d’eccellenza Benito Mussolini che ironia della sorte, qualcuno aveva deciso di confinare a Ventotene, ma il direttore della colonia, Marcello Guida, per ragioni di sicurezza, considerata la presenza di quasi novecento confinati e della bene armata guarnigione tedesca, (che si occupava di un potente radar) decise di non accogliere. La corvetta si diresse allora verso la vicina Ponza.

Gli ultimi confinati partirono verso la fine di agosto, erano soprattutto anarchici e slavi che furono destinati ai campi di concentramento di Fraschette d’Alatri e Renicci d’Anghiari, gli altri si erano già uniti ai gruppi combattenti per la liberazione d’Italia.

L’8 settembre sull’isola sbarcano 45 paracadutisti americani e grazie alla collaborazione di un ex confinato, che era rimasto sull’isola dopo la partenza degli altri, i tedeschi consegnarono le armi e Ventotene divenne il primo comune della provincia di Latina ad essere liberato dagli alleati, di questo episodio si conosce la testimonianza di un inviato di guerra molto speciale, J. Steinbeck, che accompagnava i soldati in quella che fu chiamata Ventotene Mission; l’episodio è raccontato nel suo libro C’era una volta una guerra.

Siamo un popolo dalla memoria assai corta, che dimentica facilmente gli errori e i sacrifici compiuti dalle generazioni che ci hanno preceduto, così negli ultimi anni è accaduto che nell’immaginario collettivo la mistificatoria associazione confino-villeggiatura sia andata rafforzandosi e qualcuno ha utilizzato l’assonanza isola-villeggiatura per un revisionismo storico alterato e manipolato, rivalutando il regime fascista come benevolo e svilendo la repressione degli oppositori come fatto secondario. L’isola invece da luogo di umiliazione, si trasformò in luogo di testimonianza e di riscatto per tutti coloro che opponendosi alla violenza e alla sopraffazione decisero di non mollare e difendere con dignità le proprie idee.

 

 

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primavera del 1943: gli antifascisti italiani confinati a Ventotene

13 Mars 2025 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

Ventotene è un'isola del Mar Tirreno, situata al largo della costa al confine tra Lazio e Campania, in provincia di Latina.

Isole Pontine

Durante il periodo fascista, sull'isola furono confinati numerosi antifascisti, nonché persone considerate non gradite dal regime.

Antifascisti-verso-il-confino.jpg

Tra gli altri Sandro Pertini, Luigi Longo, Umberto Terracini, Giorgio Amendola, Lelio Basso, Mauro Scoccimarro, Giuseppe Romita, Pietro Secchia, Eugenio Colorni, Giovanni Roveda, Walter Audisio, Camilla Ravera, Giuseppe Di Vittorio, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi. Furono proprio questi ultimi due antifascisti a scrivere sull'isola, nella primavera del 1941, l'importante documento Per un'Europa libera e unita. Progetto di Manifesto diventato noto come Manifesto di Ventotene. Nel documento la federazione degli Stati d'Europa, sul modello statunitense, viene indicata come l'unica soluzione per la salvezza della civiltà europea.

Luigi Longo, confinato politico a Ventotene, ha scritto nel suo libro “Un popolo alla macchia”:

«Mentre tutto intorno crescevano e s'avvicinavano le fiamme della guerra, mentre nelle città e nelle campagne lavoratori, impiegati, professionisti e intellettuali si agitavano, si muovevano, premevano per avere pace e libertà, nelle carceri e nelle isole di confino italiane centinaia e migliaia di antifascisti si struggevano nella loro forzata inattività, tendevano ansiosamente l'orecchio a tutti i suoni, a tutte le briciole di notizia che giungevano dall'esterno, soffrivano crudelmente per le pene della patria e sentivano che presto, forse prestissimo, sarebbero stati chiamati a prendere in mano le sorti del paese e a tentarne l'estrema salvazione.

L'isola di Ventotene era come la capitale di questo mondo di captivi. Nella primavera del '43 essa raccoglieva un migliaio circa di dirigenti e di umili militanti di tutte le correnti dell'antifascismo italiano. Eravamo finiti là provenienti da tutte le parti - molti dopo cinque, dieci e anche quindici e più anni di reclusione sofferta - prelevati dalle città e dalle campagne d'Italia perché sorpresi a parlare contro il fascismo e la guerra; reduci, noi garibaldini di Spagna e gli emigrati, dai campi francesi di internamento, dove eravamo stati rinchiusi allo scoppio della guerra. Ci affratellavano le comuni sofferenze, le stesse speranze e un uguale amore di libertà.

Due volte la settimana un battello congiungeva l'isola al continente: portava le provviste, qualche familiare e sempre nuovi confinati. Ma portava anche i giornali e le notizie dall'Italia. Scorrevamo avidamente i comunicati ufficiali, che cercavamo di completare e di arricchire leggendo tra le righe, ma; soprattutto, correvamo a scoprire le comunicazioni confidenziali, “illegali”, che ci arrivavano nascoste nelle pieghe di un vestito, nella copertina di un libro, nei “doppi” più impensati.

Con emozione indicibile seguivamo in quei giorni il corso della guerra, apprendevamo le rovine che si accumulavano nelle nostre città bombardate, salutavamo le prime manifestazioni di resistenza popolare alla folle politica fascista. Il sentire - come sempre di più sentivamo - la grande anima dell'Italia vicina a noi ci risollevava, ci riempiva di fierezza e di speranza. Erano lunghe serate di attesa, nelle tristi camerate della nostra deportazione: lunghi giorni di meditazione, dinanzi al mare d'Italia; un'impaziente preparazione alla lotta aperta, tempestata di presentimenti amari, di preoccupazioni non mai sopite per la sorte del nostro. popolo. Era la nostra vigilia immediata? Si giungerà in tempo? Si potrà evitare che il popolo venga defraudato dei suoi sacrifici e della sua riscossa? Si salverà l'Italia dal tedesco e da nuovi tradimenti?

Intanto non si perdeva il tempo. Ventotene non era soltanto l'isola di confino voluta dal fascismo, ma era anche, come ogni carcere e ogni altra isola di deportazione, un centro di formazione politica dei confinati e di direzione del movimento per la pace e la libertà all'interno del paese. Molti, tra coloro che salparono da Ventotene dopo la caduta del fascismo, lasciarono la vita sulle montagne o nelle segrete nazifasciste. Non per nulla gli antifascisti definivano, con una punta di scherzo e una di profonda serietà, “governo di Ventotene” il gruppo dei confinati. Tra Ventotene e il paese si svolgeva, soprattutto a mano a mano che la lotta si acuiva, un ricambio continuo e proficuo: il lavoro unitario dell'isola si rifletteva sui «fronti nazionali» dell'interno, e viceversa; avveniva uno scambio, un'osmosi incessante fra le esperienze di Ventotene - che non erano meramente teoriche, proprio perché operavano sulla realtà dei rapporti politici e umani tra i suoi “ospiti”, e influivano sulla ben più complessa realtà del paese - e quelle del continente.

Nonostante la sorveglianza, nessuno dei confinati rimaneva all'oscuro degli avvenimenti, e soprattutto delle considerazioni politiche che se ne potevano trarre. Per i comunisti ad esempio, Scoccimarro, Secchia, Li Causi, Roveda, Di Vittorio, io, elaboravamo ogni settimana un rapporto di informazione sulla situazione italiana e lo diffondevamo “a catena”, fino a toccare tutti i compagni dell'isola nel giro di cinque o sei giorni. Ognuno di noi si dava a passeggiare con due compagni, tirandosi appresso le guardie incaricate di pedinarci, le quali però si stancavano presto e finivano per mettersi a passeggiare e a chiacchierare tra di loro. Ciascuno dei due compagni, a sua volta, ripeteva la relazione che aveva udita ad altri due. Non si poteva certo giurare che il primo e l'ultimo contesto dicessero esattamente la stessa cosa; ma un orientamento, una qualche indicazione arrivava in questo modo, di certo, su tutte le questioni più importanti a tutti i compagni del confino».

Bibliografia:

Luigi Longo “Un popolo alla macchia” Editori Riuniti 1965

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scioperi e partecipazione alla Resistenza dei lavoratori milanesi e lombardi, negli anni dal 1943 alla Liberazione del 1945

11 Mars 2025 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

testo dell'articolo di Antonio Pizzinato

La partecipazione del mondo del lavoro alla lotta contro la guerra ed il nazifascismo non ha paragoni in nessun altro Paese europeo. 

SCIOPERI MARZO 1943

Gli scioperi, nel 1943, iniziano a Torino il 5 marzo alle “ore 10” alla FIAT, al suonare delle sirene di verifica del “preallarme”, poi si estendono ad altre fabbriche di Torino. A Milano dove da mesi e mesi era in corso la riorganizzazione, dopo gli arresti, di una rete antifascista clandestina – coordinata da Umberto Massola, Giovanni Brambilla e Giuseppe Gaeta – la mobilitazione è prevista nelle settimane successive. Il malessere fra i lavoratori, per i bassi salari, la scarsità dei viveri e le conseguenze della guerra, è forte e si espande. Tant’è che, il 18 marzo, gli operai del turno di notte della Breda Aeronautica scendono in sciopero – per 11 ore – e rivendicano l’aumento delle retribuzioni. Il lavoro viene ripreso a fronte dell’impegno della Direzione a rivedere le retribuzioni. Negli stessi giorni gli operai del “reparto 64” (produzione gomme) della Pirelli protestano, attuano scioperi di due ore, contro l’orario di lavoro continuativo ed ininterrotto per 12 ore, poiché la Direzione ha eliminato i sostituti. Mentre gli operai del secondo turno del “reparto bulloneria” della Falck Concordia di Sesto San Giovanni, dopo aver dialogato, sugli scioperi in Piemonte, con i camionisti FIAT, addetti al trasporto della componentistica (bulloni) dalla Falck alla FIAT, il pomeriggio del 22 marzo, iniziano lo sciopero. Questo costringe il Comitato clandestino del nord Milano ad anticipare lo sciopero nelle fabbriche. Alle ore 10 del 23 marzo, scioperano i lavoratori degli stabilimenti Falck, Breda, Ercole Marelli, Magneti Marelli, Pirelli Bicocca.


Nei giorni successivi gli scioperi, che hanno come epicentro Sesto San Giovanni, si estendono a Milano: Officine Borletti, Alfa Romeo, Brown Boveri (TIBB), Face Standard, Caproni, Salmoiraghi, Geloso nel legnanese, a partire dalla Franco Tosi, in Brianza, e numerose grandi e medie aziende nel milanese ed in Lombardia. Questi scioperi, che si ponevano come obiettivo di migliorare i trattamenti retributivi, le condizioni di lavoro, ottenere la fornitura - attraverso spacci aziendali – di alimenti, olio, vestiario, oltreche la fine della guerra, si svilupparono, in questa o quella fabbrica, anche nei mesi successivi. Scioperi che – tra marzo e luglio del 1943 – interessano, nel Nord Italia, 217 aziende ed oltre 150 mila scioperanti; essi ebbero un peso non secondario sul Consiglio Generale del fascismo e la destituzione di Mussolini il 25 luglio del 1943; la formazione del governo Badoglio e l’avvio di una nuova fase nella storia del nostro Paese. Nello stesso periodo centinaia di lavoratori (di cui 20 donne) vennero arrestati, di notte, nelle loro abitazioni considerati tra gli organizzatori e partecipanti agli scioperi, o per l’attività antifascista. Oltre 60 di essi sono milanesi e vennero rinviati a processo presso il Tribunale Militare di Milano.

Pur con tutti i limiti, presenti in questa prima fase delle lotte nelle fabbriche, si ricrea una aggregazione sociale tra i lavoratori delle fabbriche, i quali scioperano sfidando non solo la dittatura fascista, ma anche le norme della legge del 3 aprile 1926 (poi introdotte, nel 1930, nel Codice penale) che considerano lo sciopero un reato penale punito con due anni di carcere o con una multa di 1.000 lire (un mese di stipendio). Questi scioperi, oltre a scuotere il Paese, contribuiscono a rovesciare Mussolini, portano dei limitati benefici ai lavoratori a livello aziendale, ma sono di stimolo a due misure che vengono adottate dal Governo Badoglio: la nomina, il 3 agosto, dei Commissari sindacali: Bruno Buozzi, Giovanni Roveda e Gioachino Quarello ed, il 2 settembre 1943, la stipula dell’Accordo – tra Commissari sindacali e dell’Industria - per l'elezione delle Commissioni Interne. Quindi, prima dell’armistizio – anche grazie agli scioperi di Torino e Milano – si determina un mutamento della situazione e delle relazioni sindacali che – di fatto – tenta di avviare il superamento del corporativismo sindacale fascista.
 

8 SETTEMBRE: ARMISTIZIO, OCCUPAZIONE, NUOVI SCIOPERI

La sottoscrizione, da parte del Governo Badoglio, dell’armistizio con gli anglo-americani, l’8 di settembre 1943, e la fine dell’alleanza con i nazisti tedeschi, registra sia manifestazioni e scioperi nelle fabbriche di Milano che manifestazioni in varie città d’Italia. Nell’arco di alcune settimane il Paese è diviso in due, le truppe alleate salgono dal sud, mentre le truppe tedesche occupano, a partire dal Nord, il resto del Paese ed al Nord viene costituita la Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.).

Nelle fabbriche inizia una nuova fase di lotta, mentre in molte – sulla base dell’accordo Buozzi-Mazzini – dopo un ventennio, si eleggono le Commissioni Interne.

Gli scioperi che, nelle grandi fabbriche della Lombardia, iniziano a svilupparsi a partire da novembre hanno contenuti rivendicativi sempre più precisi, vere e proprie piattaforme rivendicative che – pur con diversità, nelle varie fabbriche – prevedono :

- aumento del 100% delle retribuzioni (suddiviso nel 50% in natura (alimentari) ed 50% in denaro),

- corresponsione annuale di 192 ore come gratifica natalizia;

- elevare l’indennità giornaliera a 16 lire, per malattia ed infortunio, da corrispondere anche nei primi giorni di carenza;

- aumento delle razioni alimentari (grassi, olio, zucchero, ecc.) con distribuzione in azienda, creando spacci aziendali (ove non esistono) che devono fornire anche viveri ed indumenti;

- aumento della razione giornaliera di pane a 500 grammi;

- assicurare ai lavoratori combustibile e carbone;

- servizio mensa aziendale con due piatti (primo e secondo), per tutti i turni di lavoro;

- eguale trattamento annonario ed economico agli operai ed impiegati;

- parità di trattamento, per eguale mansione, tra uomini e donne;

- scarcerazione degli ex membri delle Commissioni Interne;

- cessazione della persecuzione politica a danno dei lavoratori;

- abolizione dei licenziamenti e le sospensioni dal lavoro.

A sostegno di tali richieste e della fine della guerra, le quali venivano presentate alle direzioni aziendali, dai comitati d’agitazione (o dalle C.I.), nelle fabbriche si svilupparono gli scioperi.

Il 13 dicembre, con inizio alle ore 10, scendono in sciopero decine di migliaia di lavoratori di Sesto San Giovanni, si bloccano FALCK, Breda, Ercole Marelli, Pirelli Sapsa, Magneti Marelli, ed altre aziende minori.

Lo sciopero è praticamente totale. I confronti con le direzioni non sbloccano la situazione. Il generale tedesco Zimmerman – che su ordine di Hitler e del generale Wolf era stato inviato, con poteri straordinari al comando tedesco di Milano – fa radunare sul piazzale dello stabilimento della Falck Unione, i lavoratori in sciopero della Falck. Dalla torretta di un carro armato, lo stesso svolge un intervento nel quale, dopo aver dichiarato che avrebbe esaminato e ricercato soluzione alle loro richieste, intimò: “chi non riprende il lavoro, esca dagli stabilimenti; chi esce dalla fabbrica è dichiarato nemico della Germania”. I lavoratori, a questa intimidazione, risposero proseguendo lo sciopero e lasciando tutti gli stabilimenti. Durante la notte centinaia furono arrestati; portati in carcere e poi nei campi di concentramento nazisti. La lotta proseguì (è da allora che Sesto San Giovanni, viene soprannominata “Stalingrado d’Italia”, con riferimento all’accerchiamento tedesco che era in corso a Stalingrado) e si estese in molte fabbriche del milanese. Il 5 gennaio 1944, il generale Zimmerman, compie un’analoga azione contro i lavoratori alla Franco Tosi di Legnano che sono in sciopero.

I soldati tedeschi, assieme a quelli della RSI, entrano in fabbrica, mettono al muro, nel cortile dell’azienda, 80 lavoratori, poi ne scelgono 60 compresi i componenti la C. I., li portano in carcere a Milano e 11 vengono deportati in campo di concentramento; nove non faranno più ritorno. Stessa operazione le SS attuarono alla Comerio di Busto Arsizio , con la deportazione di 5 lavoratori che non fecero più ritorno. Malgrado la violenta repressione, gli arresti e le deportazioni che vengono posti in atto dai nazifascisti diretti da Zimmerman, gli scioperi tra novembre 1943 e gennaio 1944 si estendono a nuove fabbriche, grandi e medie, della città e provincia. Questa fase, oltre agli scioperi in fabbrica, vede il formarsi dei nuclei partigiani (a partire dalle SAP e dai GAP), con l’attiva partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici alle brigate partigiane, che si vanno aggregando e costituendo sia sulle montagne che nelle campagne a partire dall’Oltrepò Pavese. Ma questa fase e la successiva, di lotte e scioperi, è caratterizzata - è doveroso porlo in evidenza - da significativi risultati sul piano economico, normativo, ed alimentare. Questo si realizza sia attraverso i confronti che avvengono in fabbrica, con anche la partecipazione – spesso – di rappresentanti del comando tedesco, che quelli presso la Prefettura di Milano, la quale svolge un ruolo di intermediazione. Infatti oltre ad aumenti salariali, forniture di alimenti, gomme e copertoni per le biciclette, carbone, si prevede l’erogazione annuale delle 192 ore (la gratifica natalizia) e l’istituzione nelle aziende del servizio mensa con la fornitura di due piatti (primo e secondo). Il diritto al servizio mensa sarà sanzionato con Decreto prefettizio pubblicato sul Bollettino ufficiale.

Questi parziali risultati rafforzano la nuova aggregazione, coesione sociale tra i lavoratori e la lotta antifascista, riescono a sconfiggere il “neopopulismo”, il falso “operaismo”, che tenta di attuare la Repubblica sociale, nonchè resistere alla repressione nazista.

LO SCIOPERO DEL MARZO 1944

Con alle spalle queste esperienze, l’avviata ricostruzione della rete di nuclei partigiani (dopo gli arresti del 3° GAP, le fucilazioni del 20 dicembre all’Arena, ed il 31 dicembre al Poligono di tiro della Cagnola e molti altri, nonché lo scioglimento dei gruppi partigiani lungo l’Adda ed il Ticino) il primo marzo 1944 si attua lo sciopero generale del Nord Italia. A Milano lo sciopero generale ha una partecipazione superiore al previsto, coinvolge centinaia e centinaia di aziende ed oltre 350.000 lavoratori (oltre un milione 350 mila lavoratori scioperano in tutta Italia), bloccherà la produzione, a partire da quella militare per giorni. Il giorno successivo – il 2 marzo – scendono in sciopero, per la prima volta, i tranvieri bloccando i mezzi di trasporto sia nei depositi che ai capolinea. I repubblichini di Salò, tentano di far circolare i mezzi, ma non riescono a sbloccare la situazione, sia per gli errori che commettono portando i tram fuori dai binari;

ma soprattutto per la compattezza dello sciopero e la determinazione dei tranvieri, che protraggono lo sciopero per 5 giorni. Contemporaneamente il Paese viene privato anche di informazioni poiché scendono in sciopero i lavoratori (tipografi e giornalisti) del Corriere della Sera, il più diffuso quotidiano del Paese. In quei giorni, in numerose banche, restano chiusi gli sportelli, poiché i lavoratori del settore creditizio partecipano in forme diverse allo sciopero. Uno sciopero generale che per estensione, partecipazione, combattività e compattezza, assume esplicitamente il carattere di “rivolta”, mobilitazione, contro la fame, la guerra e l’occupante nazifascista. Con sempre più nettezza emerge anche la combattività delle operaie, delle lavoratrici. Le lavoratrici erano state le prime a protestare - già nel 1942 – manifestando per le vie di Sesto San Giovanni rivendicando più viveri. Gli interventi repressivi (arresti, deportazioni) sia da parte delle truppe tedesche che della milizia fascista non riescono a porre fine allo sciopero generale, il primo dopo vent’anni di dittatura fascista. Come fallisce anche il tentativo di far intervenire le imprese (per la resistenza delle stesse) per mediare con i lavoratori e far riprendere il lavoro. Lo sciopero generale incise anche sugli orientamenti delle popolazioni lombarde poiché durante la guerra si ebbe un forte aumento degli occupati nelle fabbriche milanesi. Basti pensare che ben oltre 150 mila lavoratori erano pendolari. Cioè si recavano giornalmente in città, provenienti dalle valli, in specie dal lecchese, bergamasco e bresciano. Tutto ciò favorì la presa di coscienza e la diffusione degli orientamenti antifascisti e dell’esperienza delle lotte in fabbrica, nelle comunità rurali. È in questo quadro che il Comitato d’agitazione interregionale – Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia – decise di diffondere clandestinamente - il sabato e la domenica - un volantino che invitava i lavoratori a riprendere il lavoro l’8 marzo. Lo sciopero generale è prettamente politico, non era caratterizzato da una piattaforma rivendicativa economico-sociale Lo stesso segna una svolta nella lotta contro l’occupante tedesco, il fascismo e la guerra, come indicato nel comunicato sullo sciopero e per la ripresa del lavoro del Comitato d’agitazione della Lombardia. Esso afferma: “La cessazione dello sciopero deve segnare l’inizio di una guerriglia partigiana con l’intervento di tutte le masse lavoratrici dentro e fuori la fabbrica […]. Oggi per l’esistenza del popolo italiano, vi è una sola soluzione: rispondere con la violenza alla violenza. Alle deboli e disordinate forze del nemico, dobbiamo contrapporre le solide e numerose forze armate dei lavoratori”. Questa svolta, partiva certamente anche dal presupposto che vi fosse un’accelerazione dell’avanzata delle truppe Alleate e, quindi, della liberazione del Paese entro il 1944. Ciò che, purtroppo, si verificò solo l’anno successivo. Gli sviluppi della lotta di liberazione videro una forte e ampia partecipazione dei lavoratori sia nei GAP, nelle SAP che nelle Brigate partigiane, le quali andavano costituendosi anche nelle fabbriche, e nei quartieri della città. La repressione durante gli scioperi del marzo 1944 a Milano, portò fra l’altro, arresti, deportazioni che riguardavano sia, in particolare, gli antifascisti, (già condannati dal Tribunale speciale al confino ed al carcere), presenti nelle fabbriche, ritenuti organizzatori degli scioperi, nonché operai, tecnici, impiegati, molti dei quali erano ragazzi e ragazze giovanissimi. Di essi, centinaia , non hanno più fatto ritorno dai lager di sterminio. Gli scioperi nel Nord Italia ed in particolare lo sciopero generale del marzo 1944 – unico in Europa – ebbero una forte ricaduta politica non solo in Italia, ma anche a livello mondiale per la diffusione, da parte delle radio, dei media, della notizia a livello internazionale. Essi dimostrano la ripresa di un ruolo autonomo della classe operaia, sia come coesione sul piano sociale , che nell’azione per la conquista della indipendenza, libertà e democrazia. Essi contribuirono altresì a portare a conclusione il confronto, già in corso da mesi, fra le correnti sindacali per la definizione del “patto di Roma” sulla ricostituzione del sindacato, del sindacato unitario che venne sottoscritta a Roma il 3 giugno 1944 da Giuseppe Di Vittorio, Achille Grandi, ed Emilio Craveri.

Ma mentre nel Paese prosegue la lotta partigiana, con l’attivo apporto della classe operaia ed il sabotaggio della produzione militare, nei luoghi di lavoro non si arrestarono gli scioperi per rivendicare miglioramenti economici, la fornitura di alimenti e carbone per il riscaldamento. I tedeschi e fascisti rispondono a questi scioperi con un’ondata repressiva senza precedenti: rastrellamenti e stragi sulle montagne, nelle valli ed in città, nonché con arresti e deportazioni nelle fabbriche che scioperano. Così, ad esempio, alla Pirelli Bicocca, mentre è in corso uno sciopero aziendale, alle 11 del 23 novembre del 1944, entra nello stabilimento un reparto delle SS tedesche ed arrestano indiscriminatamente 181 operai e due tecnici, che vengono portati in carcere per la successiva deportazione in campo di concentramento. Le SS respingono la richiesta dell’azienda di rilasciare 105 degli arrestati poiché specialisti indispensabili alla produzione. Il comando tedesco respinge la richiesta e convoca Alberto Pirelli “accusandolo, insieme alla direzione della società, di connivenza con gli operai … e di tolleranza verso gli elementi socialisti e comunisti …”. Quindi le SS rilasciano 16 operai e deportano in Germania tutti gli altri. La repressione nazifascista nei confronti degli scioperanti, in Provincia di Milano, durante il periodo resistenziale colpisce migliaia di lavoratori, 800 dei quali vengono deportati –Essi partono, rinchiusi nei vagoni bestiame, dal “binario 21” della stazione F.S. di Milano – con destinazione nei campi di concentramento. Nelle sole fabbriche del Nord Milano (Pirelli, Magneti Marelli, Breda, Falck, Stazione Locomotive di Greco, Ercole Marelli, ecc.), come ricordato sul “Monumento al Deportato” del Parco Nord, sono 635, oltre 200 dei quali non fecero ritorno. Poiché i lavoratori deportati in Germania, da tutta Italia, sono oltre 12.000, queste cifre indicano la dimensione ed il carattere della repressione nazifascista nel milanese. I lavoratori delle aziende più colpite furono nell’ordine: Breda, Falck, Caproni, Alfa Romeo, Pirelli, Innocenti. Infine i lavoratori, oltre a partecipare alla insurrezione armata nella fase conclusiva della liberazione, occuparono e presidiarono le fabbriche per impedire che i soldati tedeschi, in ritirata, distruggessero il patrimonio industriale del nostro Paese.

 CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Da quanto sinteticamente illustrato sul ruolo e le modalità di lotta dei lavoratori milanesi nell’azione per la riconquista della libertà, la democrazia e l’indipendenza del paese con la Liberazione, si possono trarre le seguenti conclusioni.

1. La mobilitazione dei lavoratori, la partecipazione agli scioperi è stata possibile perché in modo puntuale la rete clandestina antifascista – già a partire dagli scioperi del marzo 1943 -, elaborò le piattaforme rivendicative da presentare alle direzioni partendo dai problemi concreti (retribuzioni, alimenti, condizioni di lavoro, diritti dei lavoratori - parità fra operai e impiegati, e tra donne e uomini -) oltre alla fine della guerra. Esperienza e prassi tutt’ora valida per aggregare i diversi mondi del lavoro.

2. Con quelle lotte e scioperi, mentre l’obiettivo fondamentale è la Liberazione e la fine della guerra, si conquistano risultati che aiuteranno e segneranno le conquiste sindacali della fase successiva alla Liberazione: la gratifica natalizia, il diritto al servizio mensa (con primo e secondo), la riconquista del diritto dei lavoratori ad eleggere le Commissioni Interne; elementi di parità fra uomo e donna e ed operai e impiegati.

3. Il ruolo dei lavoratori nella lotta di liberazione ed i valori di cui si fanno portatori nelle loro lotte, trovano implementazione nella Costituzione, che saranno poi tradotte in norme (salute, istruzione, previdenza, diritti dei lavoratori in fabbrica, parità-uomo donna) con decenni di mobilitazione e lotte per la conquista delle leggi attuative. Problema più che mai attuale per assicurare la parità di diritti, alle giovani generazioni, a fronte delle trasformazioni intervenute.

4. La ripresa e sviluppo dell’iniziativa dei lavoratori nelle fabbriche, la ricostituzione della coesione e solidarietà della classe operaia, ma anche dei vari strati dei lavoratori, favorisce la ricostituzione del sindacato unitario – la CGIL – come soggetto contrattuale e sociale autonomo (indipendente come diceva Di Vittorio) che dà un contributo importantissimo alla conquista della Repubblica ed alla elaborazione della Costituzione.

 

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8 marzo 2025

7 Mars 2025 , Rédigé par Renato Publié dans #La Resistenza delle donne

8 marzo 2025
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Prove di emancipazione

7 Mars 2025 , Rédigé par Renato Publié dans #La Resistenza delle donne

Nella primavera del 1915, mentre i soldati italiani si avviano ai campi di battaglia, un secondo esercito comincia a combattere una sua guerra particolare. È un esercito composto da milioni di donne, anziane e giovanissime, contadine e intellettuali, ricche borghesi e proletarie che da un giorno all'altro si trovano a prendere sulle spalle la conduzione di un paese che ha mandato tutti i suoi uomini validi al fronte. La maggioranza di loro occupa il posto degli operai che hanno lasciato le fabbriche quasi deserte, migliaia entrano negli uffici per sostituire gli impiegati assenti, molte guidano i tram, spazzano le strade, portano la posta o fanno mestieri che ancora non hanno una dizione al femminile: campanaro, fabbro, cantoniere, barbiere, cancelliere e persino pompiere.

Nei campi si caricano di fatiche maschili e affrontano compiti amministrativi, come vendere e acquistare bestiame, riuscendo a mantenere quasi costante la produzione agricola. Le più benestanti e le aristocratiche fanno le infermiere, assistendo feriti anche a ridosso delle linee di fuoco. Quelle che non vogliono o non possono lavorare a tempo pieno si prodigano in altre forme di partecipazione: madrine di guerra, assistenti di famiglie rimaste prive di sostegno, scrivane per gli analfabeti, organizzatrici di questue, di lotterie o anche dispensatrici di "baci patriottici" a cento lire l'uno. Qualcuna fa la spia, qualcuna la corrispondente di guerra, qualcun'altra tenta addirittura di arruolarsi travestendosi da uomo. Molte, di contro, spinte dalla miseria, si prostituiscono in bordelli itineranti organizzati nelle retrovie dai comandi militari.

Nel giro di pochi mesi l'Italia è interamente in mano alle donne, come del resto accade già da un anno in paesi come la Germania, l'Inghilterra o la Francia. In tutta Europa si crea così una frattura nell'ordine familiare e sociale che non esaurirà con la guerra ma avrà conseguenze più o meno incisive nei decenni a seguire. Anche la gerarchia tra i generi subisce un rivolgimento, seppur temporaneo. L’uomo è al fronte a sparare e uccidere, come vuole il suo ruolo atavico, ma impara a usare ago e filo per rammendarsi gli indumenti e a non nascondere le sue fragilità nelle lettere a madri e mogli. La donna accudisce casa e figli, ma affronta per la prima volta lo spazio aperto del mondo, conquistando (insieme alla doppia fatica) una improvvisa e straordinaria libertà di movimento.

Il punto di partenza (e anche quello di arrivo) delle donne italiane è però qualche passo indietro rispetto al resto d'Europa. Anche se molte già lavoravano da tempo in fabbrica e negli uffici, i loro diritti sono fermi al Codice di Famiglia del 1865. Cioè a zero. Non esercitano alcuna tutela sui figli, devono far gestire al marito i soldi del proprio salario, non possono stipulare contratti o far parte di una qualsiasi associazione senza la cosiddetta "autorizzazione maritale".

Una situazione che negli anni precedenti aveva fatto nascere anche in Italia un movimento per la parità dei diritti, sia pure condotto in tono minore rispetto ad altri paesi, specie all'Inghilterra dove le suffragette, attive già negli ultimi decenni dell'Ottocento, facevano manifestazioni clamorose rischiando spesso l'arresto. Il movimento italiano, nutrito in gran parte da associazioni femminili di assistenza e impegno sociale, era riuscito comunque a organizzare nel 1908 un grande Congresso Nazionale delle Donne e dar vita a riviste specializzate. Ma nel 1912 quando fu varato il suffragio universale maschile, il Parlamento respinse a grande maggioranza la richiesta di estendere il voto alle donne, giudicato da Giolitti «un salto nel buio».

Gli annunci di guerra avevano poi spaccato la compattezza del movimento, fino ad allora decisamente pacifista. Molte intellettuali, avevano optato per l'interventismo, come la socialista Anna Kuliscioff e come Margherita Sarfatti che smette di scrivere per "La difesa delle lavoratrici" e passa al "Popolo d'Italia". La storica Augusta Molinari, autrice di Una patria per le donne. La mobilitazione femminile nella Grande Guerra, osserva a questo proposito: «Pur non venendo meno la richiesta del diritto al voto, l'etica del dovere verso la patria fa apparire rinviabile ogni rivendicazione di diritti. La priorità dell'azione politica diventa, anche per il femminismo, quello di servire la patria».

Ma il coinvolgimento delle donne è nei fatti. Massiccio, diffuso, praticamente totale in molti settori della produzione e della scena sociale, occupa presto anche l'immaginario con riferimenti visivi sempre più forti: cartelloni, manifesti e le popolarissime cartoline.

Se tutto ciò sia stato un volano di emancipazione che ha cambiato in profondità la storia femminile del nostro Paese o soltanto una parentesi di necessità che il fascismo fece presto dimenticare riducendo di nuovo la donna a moglie e madre prolifica, è a tutt'oggi materia di dibattito tra gli storici. Ma se è vero che bisognerà aspettare il secondo dopoguerra perché il suffragio diventi davvero universale (le donne ottennero il voto 31 gennaio 1945), e altri trent'anni perché il nuovo diritto di famiglia del 1975 scardini i residui patriarcali, nessuno mette in dubbio che in quegli anni si verificò una mobilitazione femminile senza precedenti che produsse mutamenti di costume e di consapevolezza non più reversibili.

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