il Muro di Berlino
9 novembre 1989 - 9 novembre 2025: 36 anni dalla caduta del muro di Berlino
bisogna aspettare il 9 novembre 1989, vedere la felicità impazzita delle due Berlino che in una notte ritornano per sempre una sola città, per capire come quella breccia che squarcia il Muro segni in realtà il passaggio da un'epoca all'altra.
_________________________________________
Il 13 agosto 1961, una domenica di festa, prima dell’alba, sotto l’occhio vigile della polizia, le strade che collegano la parte orientale alla parte occidentale vengono interrotte, disselciate, e si erigono barricate fatte di pali e filo spinato lungo la frontiera con Berlino Ovest; poco tempo dopo queste barricate saranno sostituite da un muro che attraverserà la città da una parte all’altra.
La capitolazione della Germania nel 1945 implica per Berlino dei cambiamenti radicali, di cui non si misura ancora l’ampiezza alla fine della guerra. Importante metropoli internazionale, è al centro dei giochi politici mondiali.
1948
La Guerra Fredda
La città viene divisa in 4 settori d’occupazione, come il resto del Paese: Berlino Est è sotto controllo sovietico mentre i distretti dell’Ovest sono divisi in tre settori amministrati rispettivamente dagli Americani, i Francesi e i Britannici.
I disaccordi politici e amministrativi tra l’URSS e gli Alleati non tardano a farsi sentire. Prendendo a pretesto una riforma monetaria varata dalle potenze occidentali e introdotta nei territori dell’Ovest, il 24 giugno 1948, l’URSS decreta il blocco totale di Berlino, interrompendo ogni comunicazione da e verso la città. Gli Alleati organizzano allora un ponte aereo per rifornire la popolazione durante gli 11 mesi in cui le strade, le ferrovie e le vie d’acqua sono totalmente bloccate.
Il 23 maggio 1949 è fondata la Repubblica federale tedesca (RFT) e il 7 ottobre la Repubblica democratica tedesca(RDT). Tutto ciò, ovviamente, avrà delle conseguenze per Berlino. La Legge fondamentale (Grundgesetz) fa dell’agglomerato urbano berlinese un Land della RFA, mentre la Costituzione della RDT rivendica la città come capitale. Tutte e due si riferiscono a Berlino nel suo complesso.
In pratica, i settori occidentali sono controllati da un’amministrazione tripartita, mentre la parte orientale è sotto il controllo sovietico.
La costruzione del Muro

Il 17 giugno 1953, a Berlino Est, uno sciopero contro le cadenze di lavoro eccessive viene repressa dai carri armati sovietici. Negli anni ’50 sono sempre più numerosi i Tedeschi orientali che fuggono verso la Germania occidentale.
Nel novembre 1958, Kruscev lancia un ultimatum: le potenze occidentali dispongono di sei mesi per ritirare le loro truppe e accettare la trasformazione di Berlino Ovest in una unità politica indipendente; l’Ovest lascia scadere l’ultimatum senza conseguenze.
Nel 1961, Mosca minaccia nuovamente di regolare il «problema di Berlino Ovest» entro un anno. Il presidente americano Kennedy ribatte con le «Three Essentials»: difesa della presenza occidentale, tutela del diritto di accesso, autodeterminazione degli abitanti di Berlino Ovest e garanzia della libera scelta del loro modo di esistenza; in quanto agli abitanti di Berlino Est, non vengono menzionati.
Il 13 agosto 1961, una domenica di festa, prima dell’alba, sotto l’occhio vigile della polizia, le strade che collegano la parte orientale alla parte occidentale vengono interrotte, disselciate, e si erigono barricate fatte di pali e filo spinato lungo la frontiera con Berlino Ovest; poco tempo dopo queste barricate saranno sostituite da un muro che attraverserà la città da una parte all’altra.

Nel 1963, il Presidente Kennedy, durante una visita molto attesa a Berlino, conclude il suo discorso davanti al Municipio di Schöneberg con la celebre frase: «Ich bin ein Berliner».

Nel dicembre 1963, dopo 28 mesi di separazione totale, viene concluso un accordo con le autorità dell’Est per permettere agli abitanti di Berlino Ovest di recarsi all’Est per un periodo massimo di 18 giorni.
La frontiera tra i due settori diventa allora l’unico punto di passaggio tra l’Est e l’Ovest. La costruzione di questo Muro, evento che ha segnato la memoria di tutti i Berlinesi, simboleggia anche la consolidazione delle sfere del potere in Europa.

Lo sgelo degli anni ‘70
Fino all’entrata in vigore dell’accordo quadripartito del 1971, dell’accordo sul transito e del Trattato di base nel 1972, e persino dopo, la questione dello statuto di Berlino rimane un problema. Con il Trattato di base, la Repubblica federale tedesca riconosce infine la Repubblica Democratica Tedesca come uno Stato della Germania. In cambio ottiene la garanzia dello statu quo di Berlino Ovest, ma deve accettare che questa parte della città non faccia parte integrante del suo territorio. Si afferma anche che il collegamento con i settori occidentali e la Repubblica federale va mantenuto e persino rafforzato, di qui l’insediamento sul posto di autorità federali. In realtà non cambia niente, ma esiste finalmente una base giuridica di referenza chiaramente definita. Il Cancelliere Willy Brandt (RFT) e il presidente del Consiglio di Stato Erich Honecker (RDT) conducono una politica di avvicinamento (Ostpolitik): la RDT semplifica le autorizzazioni di viaggio fuori dalle sue frontiere e consente ai Tedeschi dell’Ovest di soggiornare brevemente nelle regioni frontaliere.
Lo sviluppo parallelo
A Ovest come a Est, la pianificazione urbana è al centro delle discussioni politiche. A causa della divisione è necessario ricreare al più presto le istituzioni e gli organismi che mancano nelle due parti della città. I dintorni della Chiesa del Ricordo diventano il centro città di Berlino Ovest, e Alexanderplatz il punto forte della rinnovazione del centro città a Est. Le due parti vengono trasformate, a furia di sussidi, come vetrina dei loro sistemi politici rispettivi. A dispetto delle circostanze, da una parte e dall’altra del Muro, una certa «normalità» s’installa nella vita della maggior parte dei Berlinesi.
La caduta del Muro
Nel 1987, Berlino celebra il suo 750° anniversario. Il presidente americano Ronald Reagan pronuncia queste parole durante un discorso tenuto davanti alla Porta di Brandeburgo: «Signor Gorbacev, apra questa porta, signor Gorbacev demolisca questo muro! » All’Est, la festa si trasforma in tafferuglio quando la polizia caccia un gruppo di giovani che ascolta, vicino al Muro, un concerto di rock organizzato all’Ovest.
Dopo le elezioni comunali del maggio 1989, un movimento di resistenza inabituale e molto violento solleva Berlino Est e la RDT; i difensori dei diritti civili si rivoltano contro le accuse di manipolazione. Le prime manifestazioni hanno luogo contro il sistema politico del SED (Partito Socialista Unificato della RDT). Facilitati dall’apertura della frontiera tra l’Ungheria e l’Austria, i Tedeschi della Germania orientale partono in massa verso l’Ovest. Le ambasciate della RFT situate nei «paesi fratelli» socialisti sono occupate dai rifugiati, che vogliono ottenere i visti di uscita dal territorio.
11 novembre 1989
Il 7 ottobre 1989, l’esecutivo guidato da Erich Honecker festeggia i quarant’anni della repubblica Federale Tedesca a Berlino Est; tuttavia, appena 12 giorni dopo, il presidente del Consiglio di Stato deve abbandonare il SED, dopo esser stato a capo del partito per 18 anni. Il 4 novembre, più di mezzo milione di uomini e di donne si riuniscono in Alexanderplatz per reclamare riforme democratiche e la fine del dominio del partito unico.
Durante una conferenza stampa, il 9 novembre, Günther Schabowski, membro dell’ufficio politico del SED, annuncia un cambiamento nella rigida amministrazione dell’Est: sono autorizzati i viaggi all’estero «senza condizioni preliminari, autorizzazione particolare, né legame di parentela». Interrogato sulla data di entrata in vigore di questa nuova normativa, risponde: «Subito. Immediatamente.»
La notizia si sparge in men che non si dica. Decine di migliaia di Berlinesi dell’Est affluiscono ai posti di frontiera. Le guardie di confine sono sorprese e non avendo ricevuto istruzioni, li lasciano passare. Le barriere vengono aperte dapprima al punto di controllo della Bornholmer Straße e numerosi Berlinesi dell’Est fanno così una breve incursione all’Ovest.


Un immenso movimento d’euforia invade la città che rasenta il caos generale. I Berlinesi, armati di martelli e scalpelli, incominciano a smantellare il Muro. Altri checkpoint sono aperti le settimane seguenti. L’apertura della porta di Brandeburgo, il 22 dicembre 1989, ha un valore particolarmente simbolico.

Il famoso violoncellista Rostropovitch, dovutosi esiliare all’Ovest, viene a suonare ai piedi del Muro per incoraggiare i demolitori (designati con il termine di Mauerspechte, i «picchi verdi del Muro»).
Una vita bruciata dalla Stasi
Un incontro commovente con Heinz Kamisnski, 60 anni, tedesco dell’Est. Quando sua madre era fuggita all’Ovest, fu rapito dalla Stasi (Stasi è l'abbreviazione di Ministerium für Staatssicherheit, "Ministero per la Sicurezza di Stato") all’età di 7 anni. Per i suoi tentativi di fuga ha subito delle persecuzioni di cui ancora soffre.
Tutti abbiamo sentito parlare della Stasi, soprattutto dopo il bellissimo film “La vita degli altri”.
La Stasi è il simbolo di una macchina terribile per distruggere gli uomini.
Abbiamo incontrato una vittima di questa repressione poliziesca che vigeva nella Germania dell’Est, ancora in terapia.
L’incontro avviene nel quartiere Wedding, al centro Gegenwild, un centro psicosociale di Berlino ovest. L’ambiente è caloroso, i mobili in legno, un locale per i colloqui individuali un altro per riunioni di gruppo. Bettina, una delle psicologhe, ci attende con Heinz Kaminski, un uomo robusto di 60 anni, che ha portato con lui un grosso dossier.
Bettina ci spiega che attualmente ha in cura una trentina di persone. Sono vissute tutte nella ex Repubblica Democratica di Germania.
Il centro è stato creato 11 anni fa da un vecchio militante dei diritti civili della Germania dell’Est, Yurger Fox. Più di mille persone hanno avuto contatti con l’equipe del centro, la metà hanno chiamato, gli altri hanno preferito passare direttamente. Bettina racconta che molti hanno ancora paura di raccontare per telefono le loro vicissitudini, per il timore di essere ascoltati.
Heinz Kamisnski è nato nel 1950 a Berlino est. Sua madre era fidanzata con un ufficiale dell’esercito della Germania est. Un giorno decise di andare all’ovest, lei e suo figlio, che allora aveva tre anni. Siamo nel 1953, il muro non esisteva ancora. Heinz cresce nella Germania ovest finché un giorno sua madre perde il diritto di affidamento. La Stasi viene a cercare Kamisnski e lo porta in una casa a Berlino est, controllata dal partito, la SED. Durante la sua adolescenza, la sua ossessione sarà quella di rivedere sua madre. Heinz Kamisnski tenterà, a più riprese, di scappare ma ogni volta viene ripreso e riportato a casa dove viene cresciuto con metodi duri. Un giorno tenta di passare la frontiera con la Cecoslovacchia. Ha 19 anni. Viene arrestato e posto in una cella di isolamento in una prigione di Berlino est. Per 12 mesi vivrà in una cella di 2 metri per 3. In prigione resiste a tutti gli interrogatori della Stasi che vuole sapere se ha dei contatti con l’Ovest. Lo minacciano dicendogli che scomparirà se non parla, che nessuno saprà che è esistito. La Stasi utilizza questi metodi di lavaggio del cervello per farlo cedere. Il giovane Kamisnski resiste ma si ammala perdendo tutti i capelli. La Stasi redige un rapporto sul suo stato di salute che contribuirà a considerarlo come un prigioniero politico della Germania Ovest, cosa che allora accadeva spesso.
Tornato libero Heinz Kamisnski decide di andare a vivere all’estero. Va negli Stati Uniti e in America del sud dove fa dei piccoli lavori. Poi ritorna in Germania, si sposa e trova un lavoro come capocantiere. Ma un giorno “perde le staffe”, litiga sempre più spesso con i suoi colleghi, diventa incontrollabile. Sua moglie lo lascia, perde il lavoro. Gli consigliano di consultare uno psicologo che lo consiglia di rivolgersi ad un centro di terapia sociale più adatto al suo caso.
Heinz Kamisnski viene una volta alla settimana. Quest’estate ha vinto una causa contro lo Stato tedesco ed ha avuto un’indennità di 20.000 euro come vittima, quasi una pensione con la quale possa vivere. Una vittoria per questo uomo che soffre di solitudine, una vittoria dal gusto terribilmente amaro. Heinz Kamisnski non riesce a voltare pagina dopo un passato che lo perseguita da 30 anni. Lo si vede: consulta freneticamente le pagine del suo enorme dossier, che ha recuperato nel 1996, dagli archivi della Stasi, in cui è depositata la storia di tutta la sua vita da quando aveva 7 anni. “Provo ancora odio” dice “contro quegli uomini che mi hanno fatto ciò”.
(Valérie Cova di France Info)
4 Novembre
Giorno dell'Unità Nazionale e Festa delle Forze Armate
Il 4 novembre del 1918, il giorno della Vittoria dell’Italia sull'Austria nella Prima guerra mondiale, simbolicamente si completò il processo dell'unificazione italiana. Un processo lungo e difficile, che aveva avuto i suoi albori con l'età napoleonica e si era sviluppato attraverso cospirazioni, movimenti politici, moti rivoluzionari e guerre. Dagli otto stati pre-unitari nasceva una nazione indipendente. Dai moti del 1820-21 a quelli del 1831, dalle insurrezioni del 1848 alla campagna dello stesso anno ed a quella dell'anno successivo, poi la II Guerra d'Indipendenza, i plebisciti, la spedizione dei Mille, l'Esercito Meridionale, l'intervento nelle Marche e nell'Umbria fino alla proclamazione del Regno d'Italia nel 1861. E poi i successivi tasselli per completare l'unità, con la guerra del 1866 e la presa di Roma. La Prima guerra mondiale diventa quindi la tappa conclusiva dell’unità dell’Italia. E per questo il 4 novembre è stato scelto come giorno in cui si celebrano le Forze armate e appunto l’Unità della nazione. I numeri della Prima guerra mondiale furono questi: oltre 5 milioni di mobilitati, di cui oltre 4 milioni assegnati all'esercito, 680.000 caduti, 270.000 mutilati, un milione di feriti, 600.000 prigionieri, 64.000 dei quali morti per stenti in mano nemica. Nato come "festa della Vittoria", con il tempo il 4 Novembre è diventato "Giorno dell'Unità Nazionale e Giornata delle Forze Armate" ».
Anniversario di Vittorio Veneto
“Vittorio Veneto” è la località nei cui pressi si svolse l'ultimo scontro armato tra Italia e impero austro-ungarico durante la prima guerra mondiale, con la vittoria dell'esercito italiano e segnò la fine della guerra sul nostro fronte.


Nel 1914 l'Europa appariva ormai come una polveriera sul punto di esplodere, ma l'opinione pubblica europea sembrava del tutto inconsapevole del pericolo imminente.
Sarebbe bastata una piccola scintilla - il 28 giugno del 1914, l'assassinio a Sarajevo in Serbia dell'erede al trono degli Asburgo, l'arciduca Francesco Ferdinando, e di sua moglie - per innescare il grande incendio della prima guerra mondiale.
L'Europa nel 1914 risultava divisa in due schieramenti contrapposti che facevano capo ad altrettante alleanze militari: la Triplice Intesa e la Triplice Alleanza. La prima vedeva l'adesione di Francia, Inghilterra e Russia; la seconda quella di Germania, Austria e Italia. Le aree di maggior tensione nello scenario europeo erano: l'Alsazia-Lorena tra Francia e Germania, il Trentino e la Venezia-Giulia tra Italia e Austria. Ma la vera zona calda erano i Balcani, verso i quali si concentravano le mire espansionistiche delle grandi nazioni.
Le dichiarazioni di guerra: Austria contro Serbia (28 luglio 1914), Germania contro Russia (1° agosto 1914), Germania contro Francia (3 agosto 1914), Gran Bretagna contro Germania (4 agosto 1914), Austria contro Russia (6 agosto 1914), Francia contro Austria (11 agosto 1914), Gran Bretagna contro Austria (12 agosto 1914).
Dopo alcuni mesi dall'inizio della guerra il conflitto si estende a buona parte dell'Europa, coinvolgendo anche paesi extra-europei come il Giappone. A scendere in guerra a fianco degli Imperi centrali furono Impero ottomano e Bulgaria, mentre con l'Intesa si schierarono Grecia, Romania e, nel 1915, l'Italia.
Quei fatidici quindici giorni dell'estate del 1914, che segnarono l'avvio e il dilagare delle ostilità, sarebbero rimasti impressi nella memoria degli europei.
Il 1914 rimane una data che marca profondamente la storia del mondo ed ecco perché il primo conflitto mondiale viene correntemente definito la Grande Guerra: iniziava in quel momento un processo destinato a cambiare il destino non solo delle popolazioni del vecchio continente, ma anche dei popoli colonizzati nel resto del pianeta.
la "Grande" Guerra
Nel novembre 1918 fa finiva la prima guerra mondiale. Nel mondo niente era più come prima della guerra. All’est la rivoluzione bolscevica aveva trionfato, la Germania era in ginocchio, l’Austria-Ungheria era scomparsa, nasceva una nuova Europa con nuovi paesi: gli Stati baltici, la Polonia, la Cecoslovacchia; a sud l’impero ottomano era disintegrato, ad ovest la Francia aveva ripreso l’Alsazia e la Lorena, passavano all’Italia il Trentino-Alto Adige e Trieste.
Più di 9 milioni di uomini avevano perso la vita sui campi di battaglia.
La guerra in Europa, iniziata nell’estate 1914, è stata la prima "guerra totale" che aveva opposto diverse nazioni, coinvolgendo le forze economiche.

Una guerra totale è una guerra dove la distinzione tra militari e civili tende a ridursi e dove i civili ci vanno di mezzo come i soldati. Certo le atrocità commesse dalle truppe tedesche in Belgio e nel nord della Francia nell’estate del 1914 o ancora i bombardamenti di Reims sono diverse da quelle di Hiroshima e della distruzione di Desdra, ma la differenza tra le due guerre mondiali è una differenza di scala, dovuto ai limiti della tecnologia. Se i tedeschi avessero disposto di più “Grande Bertha”, i Parigini avrebbero sofferto di più. D’altro canto il genocidio degli Armeni preannuncia in un certo senso quello degli Ebrei.
Una novità della prima guerra mondiale é la nozione del "fronte". Nel XIX secolo le guerre erano fatte da armate in movimento. La guerra, 1914-1918, all’inizio era come quelle dell’800, con delle armate mobili che si cercano, ma nel giro di qualche settimana, il fronte si stabilizza su centinaia di chilometri.

Si ha dapprima la trincea, che è la conseguenza di questa guerra di "fronte". Poi entra in gioco l’artiglieria: la novità sta nell'uso massiccio dell'artiglieria.

Nessuna guerra nella storia aveva avuto un tale impiego esagerato di artiglieria: nella battaglia di Verdun (su un fronte di 17 Km di lunghezza e 3 di laghezza) è caduto un obice di grosso calibro (105 mmm o più) su ciascun metro quadrato. Per trasportare un così ingente quantitativo di munizioni erano stati necessari 872 treni e 26.000 vagoni. L’artiglieria distrugge tutto e stravolge completamente il paesaggio.
Alcune innovazioni fanno di questa guerra la prima guerra industriale: le mitragliatrici, i gas, i lanciafiamme, ma anche i carri armati, i sottomarini e gli aeroplani, con i quali si entra veramente nel XX secolo.


La morte in massa non si era mai vista prima: i morti raggiungeranno la cifra di 9.400.000, di cui 1.397.000 in Francia (pari a una media di 829 morti al giorno nei 1560 giorni di guerra), a cui si devono aggiungere altrettanti feriti e prigionieri, la maggior parte catturati nel 1914 e a Verdun). In Italia i morti furono 578.000 (mediamente 460 morti al giorno in 1258 giorni di guerra).

Con la prima guerra mondiale si entra nell’era della violenza industriale, di una violenza cieca. La guerra del 1914-1918 è una guerra dove è raro che si uccida guardandosi negli occhi. La “pulizia delle trincee” sicuramente é esistita, ma resta marginale in quanto l’arrivo dei soldati in una trincea nemica è preceduto da una tale preparazione dell’artiglieria che gli uomini, di fatto, sono già morti o non sono in grado di opporre resistenza.
Nel 1918 il mondo non assomiglia più a quello del 1914: la principale conseguenza della Grande Guerra è lo spostamento del centro di gravità dell’economia mondiale dall’Europa verso gli Stati Uniti d’America. Nel 1914 l’Europa era il banchiere del mondo; nel 1918 non più. Per finanziare la guerra i paesi europei si erano indebitati: ormai Wall Street supera la City di Londra o la borsa di Parigi.
Gli Stati Uniti d’America erano entrati in guerra contro la Germania nell’aprile del 1917, al fianco dell’Intesa: per questo intervento fu ristabilita la coscrizione obbligatoria che era stata abolita dopo la guerra di secessione (1861-1865) . I soldati americani arrivarono in massa sul continente europeo: 300.000 nel marzo 1918, un milione nel mese di luglio, il doppio alla vigilia dell’armistizio. 114.000 caddero sui campi di battaglia.
Oltre all’apporto dei militari statunitensi alla vittoria dell’Intesa, non va dimenticato l’aiuto americano nel campo economico: durante la guerra, gli alleati ricevettero materie prime, alimenti, macchine utensili, materiale ferroviario, benzina.
(Liberamente tratto da un’intervista al prof. Antoine Prost, insegnante alla Sorbona di Parigi, esperto in Storia dell’Educazione e di Storia sociale)
Anni da Apocalisse
Nella cittadina siriana di Kafr Zita la nuvola è arrivata all'improvviso, subito dopo l'esplosione di alcune granate. Silenziosa, invisibile, soltanto l'odore acre ne ha tradito la presenza. A quel punto però era troppo tardi per scappare: almeno due persone sono morte e altre duecento hanno dovuto farsi curare per i danni ai polmoni. In quel venerdì di aprile l'aria è diventata veleno: l'effetto di una singola bomba riempita di cloro, sganciata tra le case, che ha scatenato un'onda di terrore. Nell'aprile 1917 furono 150 tonnellate di cloro affidate al vento belga di Ypres a segnare la nuova frontiera della capacità omicida: l'arma chimica. E come se l'eco dello stesso urlo disperato avesse continuato a risuonare lungo tutto un secolo: «Gas! Gas!». «Improvvisamente il grido terrificante "Gas!" percorse le fila», ha scritto il soldato britannico Gladen nel diario della primavera 1917. «Il nemico stava cannoneggiando con granate chimiche che uggiolavano in alto per poi infrangersi sul terreno con il loro caratteristico tonfo soffocato. Un odore disgustoso incominciò ad arrivare alle narici. La paura del gas era la più grande delle paure».
/image%2F1186175%2F20240224%2Fob_7b00a9_effetti-gas-i-guerra-mondiale.jpg)
Non è l'unica che la prima guerra mondiale ci ha lasciato in eredità. È stato anche il primo conflitto dell'era industriale, con una gara tra scienza, tecnologia e aziende per migliorare senza sosta qualità e quantità degli strumenti di morte: aerei, carri armati, sottomarini, corazzate ma soprattutto cannoni e mitragliatrici sempre più letali.
La rivoluzione è proprio nella velocità degli aggiornamenti e nel volume della produzione. Nel 1915 si usano su tutti i fronti solo 3.600 tonnellate di sostanze chimiche belliche, quasi sempre composti derivati del cloro a bassa tossicità; l'anno dopo diventano 15 mila con una predominanza di testate all'arsenico, molto più aggressive; nel 1917 le tonnellate sono 35 mila e negli arsenali entra l'iprite, capace di uccidere attraverso la pelle, e prima che le ostilità cessino le forniture salgono al record di 59 mila tonnellate. Quando sono cominciati i combattimenti, gli aeroplani erano macchine volanti per temerari: trabiccoli di legno e tela, scarsamente affidabili e con prestazioni modeste.
I bombardamenti dal cielo li avevamo inventati noi italiani, durante lo sbarco in Libia del 1911: quattro granate a mano da due chili ciascuna, tirate contro i turchi dal tenente Giulio Gavotti. Nel 1918 invece tutte le potenze avevano squadriglie di plurimotori come il Gotha o il Caproni in grado di sganciare più di una tonnellata di ordigni a 500 chilometri di distanza. La linea del fronte si era allargata a dismisura, trasformando le città in bersagli: da Parigi a Milano, da Liegi a Londra, duramente colpita per mesi con centinaia di vittime civili. Non esistono più zone franche. Con un'anticipazione del futuro, piovono bombe su metropoli lontanissime dalle trincee, persino su Napoli, centrata da un dirigibile Zeppelin germanico.
Con i progressi della meccanica tutto può trasformarsi in campo di battaglia, anche la profondità del mare. I sommergibili, fino ad allora, erano stati vascelli dalle incerte prestazioni: fantasie da Jules Verne, buone più per i feuilleton che per combattere. I cantieri del Kaiser li rendono mezzi micidiali, affidandoli il compito di stroncare i rifornimenti diretti in Gran Bretagna: l'assedio che non era riuscito a Napoleone viene tentato colpendo senza emergere. Con risultati clamorosi: solo negli ultimi due anni di ostilità i 345 U-Boote in servizio colarono a picco 9,5 milioni di tonnellate di naviglio alleato. Tra le prede, la più nefasta rimane il transatlantico americano Lusitania, il cui affondamento provocò l’entrata in guerra degli Stati Uniti.
La minaccia proveniente dagli abissi - oltre ai sommergibili, le mine ma anche i siluri dei motoscafi d'assalto - ha cambiato la natura degli scontri marini. Nel 1915 la poderosa flotta anglo britannica spedita davanti a Gallipoli perse tre corazzate senza nemmeno vedere una nave nemica. L'orgoglio della marina austro-ungarica rimase intrappolato nei porti adriatici con i piccoli Mas. italiani pronti ad aggredirla come quello di Luigi Rizzo che affondò prima la Wien e poi la Szent Istvàn. Le colossali navi da battaglia, mostri d'acciaio irti di batterie di grosso calibro, persero il ruolo di dominatori dei mari e furono costrette a rimanere sulla difensiva.
D'altronde con nuovi strumenti ed esplosivi avanzati si arrivò a stravolgere anche le profondità della terra, decapitando le montagne: sfruttando gli antenati dei martelli pneumatici, italiani e austriaci scavarono nella roccia fino a posizionare mine gigantesche sotto i capisaldi nemici costruiti sulle vette. Lo scoppio era sconvolgente: massi enormi venivano scagliati in aria, le fiamme si infilavano nelle reti di gallerie, tutto il paesaggio veniva sconvolto con voragini larghe cinquanta metri. «L'intero massiccio sembrò un mare di fiamme, dal quale emergevano vampe fino a trenta metri d’altezza», scrisse il generale Moritz Brunner descrivendo la detonazione sul Pasubio, chiamata "la montagna dei diecimila morti".
Alcune innovazioni restarono d'importanza poco più che psicologica, finché non si riuscì a sviluppare le tattiche per renderle determinanti. La forza dei primi carri armati era tutta nell'immagine di macchine demoniache: parallelepipedi di metallo rumorosi e lenti (la velocità era inferiore ai quattro chilometri l'ora), da cui spuntavano cannoni e mitragliatrici, che grazie ai cingoli superavano qualunque ostacolo. Lunghi poco meno di dieci metri, pesanti più di 27 tonnellate, stritolavano i reticolati e varcavano le trincee. La loro apparizione il 15 settembre 1915 nella Somme fu uno choc, sessanta Mark 1 britannici che travolgevano ogni cosa: pareva che nulla potesse fermarli. Ma lo spavento è durato poco: i bestioni di metallo andavano in panne facilmente e avevano troppi punti deboli. Solo nell’estate 1918 inglesi e francesi cominciarono a inscenare offensive coordinate di carri e aeroplani, creando il binomio che ha poi dominato i campi di battaglia.
I caccia smisero di duellare tra loro, come nelle tenzoni tra nobili del medioevo: la leggenda alata delle sfide tra biplani, come il mito delle ottanta vittorie del Barone Rosso Manfred von Richthofen e l'epopea nazionale dci Cavallino Rampante di Francesco Baracca, fu sostituita da un impiego di massa degli stormi, con intere formazioni che agivano compatte. Spiega il celebre storico militare Basil Liddell Hart: «In tal modo gli aerei divennero la cavalleria dell'aria, e la somiglianza fu accentuata dall'ennesimo tipo di azioni adottato con grande efficacia nelle ultime fasi della guerra: l'attacco contro truppe di terra. Fintantoché gli eserciti rivali erano al riparo delle trincee, l’attacco aereo aveva scarse possibilità di incidere sulla situazione. Ma quando nel marzo del 1918 il fronte britannico fu travolto, tutti i gruppi da caccia disponibili furono concentrati per colpire il nemico in avanzata».
Eppure tutte queste invenzioni e questa tecnologia hanno dato un contributo assolutamente secondario al massacro della Grande Guerra, che ha provocato otto milioni di morti e ventitré milioni di feriti. Aerei sommergibili, carri armati sono stati carnefici minori. Persino le bombe chimiche hanno avuto bassa letalità: considerando gli eserciti francese, britannico, tedesco e americano gli vengono attribuiti circa 20 mila caduti e meno di mezzo milione di feriti, ossia il 3,4 percento delle vittime.
La strage è figlia di armi più semplici; mitragliatrici e cannoni, però costantemente perfezionate e prodotte in stock mai visti prima. È grazie a loro che il fronte viene letteralmente inondato di pallottole d'ogni calibro. Questo volume di fuoco stravolge qualunque tradizione militare, annienta i tradizionali schieramenti, rende suicida l'azione della cavalleria e finisce per obbligare le armate a rintanarsi nelle trincee.
Nascono le mimetizzazioni, gli ufficiali nascondono gradi e simboli: un'ideale del guerriero scompare dopo millenni di retorica bellica. Come ha raccontato Sandro Pertini, tenente decorato per azioni eroiche e poi ferito dai gas: «Ricordo quei massacri. Per prendere una collina, mandavano all'assalto i battaglioni inquadrati, ufficiali in testa con la sciabola sguainata. La sciabola brillava alla luce del sole e quegli ufficiali diventavano sagome per un tragico tiro al bersaglio. Ma in luogo di adottare una più intelligente tattica di assalto, fu deciso di brunire le sciabole». Ogni offensiva è un'ecatombe: 600 mila tra morti e feriti a Verdun, 280 mila solo nell'undicesima delle battaglie dell'Isonzo. «La raffica della mitragliatrice è l'unica che non risparmia letteralmente nessuno», sentenziò Marcel Bloch. In Italia nel 1915 se ne producevano 600 l'anno, al momento di Vittorio Veneto il ritmo delle fabbriche era arrivato a quasi 20 mila. Ognuna era in grado di sparare tra i 400 e i 600 proiettili al minuto.
Ancora peggio hanno fatto i cannoni, diventati a "tiro rapido". In un singolo attacco del luglio 1916 gli inglesi scaricano sui tedeschi un milione e mezzo di granate: una pioggia ininterrotta di schegge, a cui viene attribuito il 70-80 per cento dei feriti e una proporzione appena inferiore di caduti. Negli ultimi mesi di guerra si confrontano batterie sterminate di obici: in ogni offensiva vengono schierati dagli alleati tra i 5 e gli 8 mila pezzi. Il cannone da 75 francese, forse il migliore costruito nel conflitto, sparava otto colpi al minuto: potete immaginare che tempesta di tritolo e metallo arrivava sulle trincee nemiche. Qualcosa di infernale. Il tiro di sbarramento faceva impazzire. Gabriel Chevalier ne La Paura ricorda: «Gli uomini non furono più altro che prede, animali senza dignità, il cui corpo si muoveva inseguendo l'istinto. Ho visto i miei compagni, pallidi e con gli occhi folli, spingersi e ammucchiarsi per non essere colpiti da soli, o, scossi come marionette dai soprassalti della paura, strisciare al suolo, nascondendosi il viso».
La Grande Guerra, “immenso impero regno della morte”
Le ricorrenze, quando non sono occasioni vuote o retoriche, possono servire da stimolo al ricordo e alla riflessione.
Costretti a morire per quella che papa Benedetto XV nel 1917 aveva definito "Un'inutile strage"
Ad centoundici anni dall'inizio della Prima guerra mondiale, l’orrore racchiuso nei numeri a cinque zeri, riguardanti le vittime i cui nomi restano, in ogni piccola frazione, incisi sui gelidi monumenti ai caduti, sembra dissolversi in una dimensione della memoria dai contorni sfuocati; come se quella tragedia in bianco e nero appartenesse alla storia di un altro pianeta, nonostante che abbia investito violentemente il passato di ogni famiglia e comunità, segnando l’esistenza di milioni di individui risucchiati dentro quello spazio estremo che nel 1917 un caporale dei bersaglieri di Asti definì «immenso impero, regno della morte», venendo condannato a due mesi di carcere per lettera denigratoria.
articolo completo
smitizzare il mito della Prima Guerra Mondiale
«Ogni due o tre generazioni, quando la memoria si indebolisce e gli ultimi testimoni dei massacri precedenti scompaiono, la ragione si offusca e degli uomini ricominciano a diffondere il male». (Olivier Guez)
Il 4 novembre 1918, in Italia finiva la prima guerra mondiale.
A “Vittorio Veneto” si svolse l'ultimo scontro armato sul nostro fronte, tra Italia e impero austro-ungarico, con la vittoria dell'esercito italiano.
La prima guerra mondiale è conosciuta anche con il termine di “Grande Guerra” perché così apparve alle popolazioni che vi si trovarono coinvolte. Fu una guerra “Grande” non solo per estensione dei fronti e per numero degli stati coinvolti: mai prima c'erano stati tanti soldati in trincea, tante armi in dotazioni agli eserciti, tante industrie impegnate a sostenere lo sforzo bellico.
Quella carneficina insanguinò l’Europa, un’Europa che, dalla sua fondazione negli anni Cinquanta, ci ha consentito di vivere anni di pace; un’unità europea che ora è minacciata dal rinascere dei nazionalismi, nazionalismi che furono una delle cause della Grande Guerra.
Benché avesse fatto parte della Triplice Alleanza, con la Germania e l’Austria-Ungheria fino allo scoppio del conflitto e fosse entrata in guerra contro i suoi ex alleati, l’Italia fu tra i vincitori della Prima Guerra mondiale.
Per avere un’idea della dimensione di quel conflitto che stravolse il mondo dal 1914 al 1918, caratterizzato da una violenza senza precedenti, si devono citare dei numeri: i numeri non hanno un’anima, ma quelli della guerra contengono tutto il dolore degli uomini.
Le cifre sono implacabili: complessivamente 9,7 milioni di uomini trovarono la morte, circa due milioni di tedeschi, un milione e ottocento mila russi, un milione e quattrocentomila francesi, un milione e centomila austroungarici, 885.000 britannici, 650.000 italiani e 116.000 americani e tanti di altri stati belligeranti.
20 milioni furono i feriti (12 milioni per i paesi dell’Intesa e 8 milioni per quelli della Triplice Alleanza).
L’Italia ebbe un milione di feriti, tra cui 500.000 mutilati, 74.620 storpi, 21.200 rimasti senza un occhio, 1.940 senza occhi, 120 senza mani, 3260 muti, 6.760 sordi, invalidi la cui vita fu definitivamente spezzata.
I civili che persero la vita raggiunsero la considerevole cifra di 8,9 milioni.
Dal 1915, a causa di ogni sorta di penuria, la vita diventò difficile in Europa.
In tutte le nazioni coinvolte nel conflitto, le donne, incoraggiate dalla propaganda ufficiale, sostituirono gli uomini, partiti per il fronte, nelle loro occupazioni professionali d’anteguerra.
La durata del lavoro aumentò, le condizioni igieniche si degradarono, i bisogni per il riscaldamento diventarono insoddisfacenti e le epidemie aumentarono di intensità.
La tubercolosi, malattia legata alla degradazione delle condizioni di vita, ancora virulenta all’inizio del XX secolo, guadagnò terreno in tutta Europa.
Le malattie veneree aumentarono anch’esse di intensità a causa delle numerose truppe sui territori dei paesi belligeranti, creando preoccupazioni sull’avvenire delle future generazioni.
Nel 1918 scoppiò una gigantesca epidemia di influenza spagnola che agendo su organismi indeboliti, fece circa 20 milioni di morti nel mondo.
350.000 furono gli italiani morti di spagnola, 500.000 se si considerano le complicazioni legate all’influenza.
Alla fine delle ostilità si contarono circa 7,5 milioni di soldati prigionieri e dispersi.
La Prima guerra mondiale generò un fenomeno inedito nella storia dei conflitti: 4,2 milioni di vedove. Il numero degli orfani si aggirò sugli 8 milioni.
La fine della guerra vide una pace precaria e un’Europa destabilizzata: il carattere radicale dei trattati conclusi con gli imperi centrali, in piena disintegrazione, generò dei sentimenti di rancore e di rivincita che faranno da substrato ai movimenti estremistici di sinistra e di destra.
La carta dell’Europa venne profondamente ridisegnata per la creazione di nuovi paesi, come la Polonia, la Cecoslovacchia, il regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, nocciolo della futura Jugoslavia.
I ritagli territoriali produssero grandissimi spostamenti di popolazioni e un numero considerevole di rifugiati.
Le perdite in vite umane durante la guerra produssero anche un deficit di natalità.
Le economie dei paesi belligeranti uscirono devastate dalla guerra. L’inflazione subì un’impennata catastrofica.
L’Italia, firmataria dei trattati con gli imperi centrali vinti, rimase delusa dei compensi territoriali ottenuti. Gabriele D'Annunzio coniò il termine “vittoria mutilata”, definizione che diventò un vero e proprio mito politico. All’Italia resterà un sentimento di amarezza e di frustrazione che in parte sarà la causa dell’ascesa del fascismo di Mussolini.
Appena conclusa la guerra, prese il via una sorta di “frenesia commemorativa” fatta di monumenti ai caduti, grandi sacrari militari, fino alla trasformazione del Vittoriano in monumento al Milite Ignoto. In un primo momento la necessità dell’elaborazione del lutto, anche collettiva, da parte dei famigliari e degli amici delle vittime ha avuto un ruolo importante, e lapidi e monumenti ai caduti hanno svolto anche questa funzione. Ma subito dopo, e in particolare dopo la presa del potere da parte del fascismo, è stata attuata una vera e propria “politica della memoria” per costruire una sorta di religione della patria fondata sul “sacrificio eroico” dei soldati.
A partire dal 1928, poi, il regime iniziò la progettazione e la costruzione di grandi monumenti e sacrari nazionali. Il sacrario militare di Redipuglia è l’emblema di questo uso politico della morte e della memoria: 22 giganteschi gradoni di marmo bianco, che contengono le spoglie di oltre 100mila soldati, su ciascuno dei quali è scolpita ossessivamente la parola «Presente», come nel rito dell’appello durante i funerali o le commemorazioni dei cosiddetti “martiri fascisti”.
Demistificare la narrazione apologetica e celebrativa della Prima guerra mondiale significa porre le basi per creare una più solida coscienza critica non solo del perché fu orrore quella guerra, ma di come lo sono state anche altre guerre.
Bibliografia:
AA. VV.- La guerre des affiches - Editions Prisma Paris 2018
Aldo Cazzullo - La guerra dei nostri nonni. 1915-1918: storie di uomini, donne, famiglie – Mondadori 2017
Valerio Gigante, Luca Kocci, Sergio Tanzarella - La grande menzogna. Tutto quello che non vi hanno mai raccontato sulla I guerra mondiale - Ed. Dissensi, Viareggio 2015
28 ottobre 1922
Il 23 marzo 1919, a Milano in un locale al primo piano di Piazza San Sepolcro, nasceva il movimento dei "Fasci italiani di Combattimento", destinato a diventare poi il P.N.F. (Partito Nazionale Fascista). Quel giorno passò alla storia per la nascita del fascismo ed anche per la nascita dello squadrismo.
Dopo pochi giorni, gli arditi di Ferruccio Vecchi, colui che aveva presieduto la riunione dei "Sansepolcristi", aggredirono un corteo socialista e incendiarono la redazione dell' "Avanti" nel centro di Milano.
Il 24 ottobre 1922 a Napoli si tenne una massiccia adunata di squadre fasciste, alle quali Mussolini annunciò il proposito di calare su Roma se entro poco tempo non gli fosse stato affidato il governo dell'Italia. Mentre il capo del governo Facta si dimetteva il 26 Ottobre, le squadre con la complicità di prefetti e sindaci bloccarono molti uffici pubblici e ferrovie, nonostante fossero mal armate rispetto all'esercito. Occuparono e si ammassarono in città come Civitavecchia, Mentana e Tivoli, ma le loro condizioni si facevano abbastanza precarie: mancavano viveri, le armi erano spesso insufficienti o non adatte.
Il re decise inizialmente la mobilitazione militare: Mussolini fu anche arrestato dal prefetto, ma il sovrano, temendo una guerra civile e la fine del suo regno, all'improvviso mutò atteggiamento non firmando il proclama di stato d'assedio del 28 Ottobre proposto da Facta. Mussolini che si era previdentemente ritirato a Milano (a pochi chilometri dalla neutrale Svizzera, possibile rifugio in caso di fallimento...), e da lì rifiutò anche le ultime mediazioni. Vittorio Emanuele sotto la spinta dei maggiori esponenti della classe industriale affidò la sera del 29 il compito di formare un nuovo governo a Benito Mussolini.

La marcia su Roma del 28 ottobre 1922 fu un evento che simbolicamente rappresenta l'ascesa al potere del Partito Nazionale Fascista (PNF), attraverso la nomina a capo del governo del Regno d'Italia di Benito Mussolini.
Dall’ottobre 1922 l’Italia è governata da Benito Mussolini, a cui il re Vittorio Emanuele III aveva dato l’incarico dopo la marcia su Roma.
il primo Consiglio dei Ministri del ministero Mussolini
20 ottobre 1944: Milano, quartiere di Gorla

Il bombardamento aereo del 1944 distrusse la locale scuola elementare uccidendone tutti gli alunni e gli insegnanti.

Se sono scarse, sui giornali, le notizie dei bombardamenti, mancano del tutto servizi che spieghino alla popolazione cosa fare in caso di bombardamenti pesanti. La stampa su indicazione dell'apposito ministero, preferisce non affrontare l'argomento. Bisogna, contro ogni evidenza, che la gente sia convinta che tutto va, ancora, per il meglio. La “Domenica del Corriere” come l' “Illustrazione Italiana” non ospitano mai fotografie di macerie né tantomeno di cadaveri, ma soltanto immagini rassicuranti, di monumenti protetti da impalcature, muretti di mattoni e sacchi di sabbia.
Il tentativo di «minimizzare» acquista toni di inaudito cinismo nelle parole di alcuni commentatori. Su “Critica Fascista” del dicembre del 1942 Emilio Canevari scrive: «Quale danno è stato poi prodotto dai famosi bombardamenti? Lo ha detto Mussolini: sono state buttate a terra alcune centinaia di case e ciò favorirà il rinnovamento edilizio contro il cattivo gusto antico e nuovo e sono state uccise meno di duemila persone. È doloroso perché si tratta in genere di donne, vecchi e bambini. Ma dobbiamo anche ricordare che queste cifre valgono sì e no alle perdite per incidenti automobilistici di un anno nelle metropoli moderne. Ma se il timore bombardamenti riuscisse a frenare l'urbanesimo con tutte le sue piaghe, ciò sarebbe certo un beneficio. Finalmente i borghesi se ne andranno nei loro poderi e li cureranno maggiormente».
Marzabotto

La “cavalcata” del terrore iniziò all’alba del 29 settembre 1944, quando la 16a SS-Panzergrenadier-Division, agli ordini del maggiore Walter Reder, detto “il monco”, partì squarciando con il ferro e con il fuoco le valli attorno al Monte Sole. A far da cani-guida, un pugno di militi delle Brigate nere, per l’occasione in divisa SS col distintivo simile a un “44” sulle mostrine, che sapevano i sentieri, le case, i rifugi e additavano mogli, figli e padri dei partigiani della Brigata “Stella Rossa”.
Dall’eccidio non fu risparmiato nessun paese, villaggio o fattoria della zona che, a una ventina di chilometri da Bologna, è delimitata dal corso dei fiumi Reno e Setta: Marzabotto (il Comune più grande), Grizzana, Vado di Monzuno e tutte le altre località che punteggiano le vallate declinanti dall’acrocoro dominato dalla cima del Monte Sole.
Il 13 gennaio 2007, il tribunale militare di La Spezia ha condannato all’ergastolo in contumacia 10 dei 17 imputati ex nazisti ancora in vita. Sono tutti ultraottantenni e non conosceranno mai il carcere, la legge italiana non lo permette.
Il processo, infatti, non si è potuto celebrare prima perché i documenti in grado di inchiodare i responsabili del massacro sono rimasti chiusi per cinquant’anni nell’armadio della vergogna e nei sotterranei delle procure italiane. Ritrovate a metà degli Anni 90, quelle carte, con nomi e fatti, hanno potuto dare finalmente il via ai procedimenti penali.
Finora per la strage di Marzabotto esisteva un solo colpevole: il maggiore Walter Reder. Nel 1951 il tribunale militare di Bologna sentenziò per lui una condanna a vita, da scontare nel carcere militare di Gaeta. Ci passerà trentaquattro anni, malgrado un’ipocrita richiesta di perdono giunta nel 1967 agli abitanti di Marzabotto che, riuniti in Consiglio comunale, respinsero al mittente con 356 voti su 360 la petizione di clemenza sostenuta anche dalla Chiesa. Poi, nel 1980, arrivò la sentenza del Tribunale di Bari che disponeva un periodo di “prova” di cinque anni per il condannato, in attesa della scarcerazione. Fu l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, nel gennaio 1985, a concedere la grazia e a spalancare le porte della galera a Walter Reder, morto nel 1991 nella sua residenza austriaca.
La testimonianza è tratta dal volume “Marzabotto parla” di Renato Giorgi, edito per la prima volta nel 1955, ristampato a cura dell’ANPI di Bologna nel 1991.
Località Casaglia, testimonianza di Lidia Pirini
«Era il 29 settembre, alle nove del mattino. (…) Quando a Casaglia fummo convinti che i nazisti stavano per arrivare perché si sentivano gli spari e si vedeva il fumo degli incendi, nessuno sapeva dove correre e cosa fare. Alla fine ci rifugiammo in chiesa, una chiesa abbastanza grande, piena per metà, e don Marchioni cominciò a recitare il rosario. Ho saputo in seguito che lo trovarono ucciso ai piedi dell’altare: allora non me ne accorsi e adesso riferisco solo quanto ricordo. Quando arrivarono i nazisti io non li vidi, avevo paura a guardarli in faccia. Chiusero la porta della chiesa e dentro tutti urlavano di terrore, specialmente i bambini. Dopo un poco tornarono ad aprire (…) e ci condussero al cimitero: dovettero scardinare il cancello con i fucili perché non riuscivano ad aprirlo. Ci ammucchiarono contro la cappella, tra le lapidi e le croci di legno; loro si erano messi negli angoli e si erano inginocchiati per prendere bene la mira. Avevano mitra e fucili e cominciarono a sparare. Fui colpita da una pallottola di mitra alla coscia destra e caddi svenuta. Quando tornai ad aprire gli occhi, la prima cosa che vidi furono i nazisti che giravano ancora per il cimitero, poi mi accorsi che addosso a me c’erano degli altri, erano morti e non mi potevo muovere; avevo proprio sopra un ragazzo che conoscevo, era rigido e freddo, per fortuna potevo respirare perché la testa restava fuori. Mi accorsi anche del dolore alla coscia, che aumentava sempre di più. Mi avevano scheggiato l’osso e non sono mai più riuscita a guarire bene, anche dopo mesi e anni di cura. (…) Intorno a me sentivo i lamenti di alcuni feriti. Così passò la notte e quasi tutto il giorno 30. (…) Verso sera, ci si vedeva ancora, trovai finalmente la forza di decidermi, riuscii a scostarmi i cadaveri di dosso e pian piano mi allontanai dal cimitero».
Marzabotto: è stato un inenarrabile martirio.
Non fu reazione senza limiti e controlli ad un episodio, non fu gesto sconsiderato di un singolo o di pochi, nel fuoco della guerra; fu il netto disegno, il proposito calcolato e deliberato di distruggere tutta una popolazione persino nelle nuove vite che sorgevano nel grembo delle madri.
Non fu gesto isolato per il numero delle formazioni militari germaniche che vi parteciparono e per la sua esecuzione condotta con metodo di guerra; guerra che si faceva sterminatrice contro una popolazione civile, dopo (ed era ben noto a chi lo comandava) che la eroica resistenza partigiana, costellata di sublimi sacrifici, era stata purtroppo in quel punto spezzata dalla forza schiacciante del numero e delle armi.
Non fu gesto isolato perché la ferocia brutale ed anche inutile agli stessi fini dell'invasore tedesco si abbatté su tante altre contrade del nostro Paese. Innumerevoli i delitti e gli orrori, terribili e gravissimi, ma nessuno che noi sappiamo di proporzioni così vaste come quello perpetrato dalla Wehrmacht e dalle SS a Marzabotto. Le vittime furono 1830 ed ebbero pace soltanto dopo la Liberazione; anzi, in certi casi nemmeno allora poiché le mine cosparse a perpetuare il delitto si accanirono contro le povere ossa senza riposo e contro i superstiti ritornati a compiere opera straziante e pietosa, a far rivivere la loro terra che quelli avrebbero voluta morta come le donne, i bambini, i vegliardi, i sacerdoti che avevano assassinato.
Non fu gesto isolato perché continuò nel tempo giorni e giorni: alla villa Colle Ameno, reso fosco dagli occupanti tedeschi, il 18 ottobre 1944 alcuni cittadini di Marzabotto venivano trucidati; lì era stato freddamente ucciso don Fornasini; e l'azione della Wehrmacht era incominciata il 28 settembre!
Siamo stati a Marzabotto. Siamo andati per "dare un futuro alla memoria, nella consapevolezza che la memoria è conoscenza e che la conoscenza è libertà e che solo nella conoscenza l'uomo può trovare le ragioni e le condizioni per qualsiasi scelta della sua vita, se vuole che possa essere veramente libera, senza condizionamenti".
Per i caduti di Marzabotto
Questa è memoria di sangue
di fuoco, di martirio,
del più vile sterminio di popolo
voluto dai nazisti di Von Kesselring
e dai loro soldati di ventura
dell’ultima servitù di Salò
per ritorcere azioni di guerra partigiana.
I milleottocentotrenta dell’altipiano
fucilati e arsi
da oscura cronaca contadina e operaia
entrano nella storia del mondo
col nome di Marzabotto.
Terribile e giusta la loro gloria:
indica ai potenti le leggi del diritto
il civile consenso
per governare anche il cuore dell’uomo,
non chiede compianto o ira
onore invece di libere armi
davanti alle montagne e alle selve
dove il “Lupo” e la sua brigata
piegarono più volte
i nemici della libertà.
La loro morte copre uno spazio immenso,
in esso uomini d’ogni terra
non dimenticano Marzabotto
il suo feroce evo
di barbarie contemporanea.
Salvatore Quasimodo
MARZABOTTO MEDAGLIA D'ORO
Incassata tra le scoscese rupi e le verdi boscaglie dell'antica terra etrusca, Marzabotto preferì ferro, fuoco e distruzioni piuttosto che cedere all'oppressore. Per quattordici mesi sopportò la dura prepotenza delle orde teutoniche che non riuscirono a debellare la fierezza dei suoi figli arroccati sulle aspre vette di monte Venere e di monte Sole sorretti dall'amore e dall'incitamento dei vecchi, delle donne e dei fanciulli. Gli spietati massacri degli inermi giovinetti, delle fiorenti spose, e dei genitori cadenti non la domarono ed i suoi 1830 morti riposano sui monti e nelle valli a perenne monito alle future generazioni di quanto possa l'amore per la patria.
Marzabotto, 8 settembre 1943 – 1° novembre 1944
Per quella “operazione” il feldmaresciallo Kesserling si complimentò con gli uomini della sedicesima divisione, in particolare con il maggiore Walter Reder.
Processato nel 1947 per crimini di Guerra (Fosse Ardeatine, Marzabotto e altre orrende stragi di innocenti), Albert Kesselring, comandante in capo delle forze armate di occupazione tedesche in Italia, fu condannato a morte. La condanna fu commutata nel carcere a vita. Ma già nel 1952, in considerazione delle sue "gravissime" condizioni di salute, egli fu messo in libertà. Tornato in patria fu accolto come un eroe e un trionfatore dai circoli neonazisti bavaresi, di cui per altri 8 anni fu attivo sostenitore. Pochi giorni dopo il suo rientro a casa Kesselring ebbe l'impudenza di dichiarare pubblicamente che non aveva proprio nulla da rimproverarsi, ma che - anzi - gli italiani dovevano essergli grati per il suo comportamento durante i 18 mesi di occupazione, tanto che avrebbero fatto bene a erigergli... un monumento. A tale affermazione rispose Piero Calamandrei, con una famosa epigrafe:
Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi
non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti vide fuggire
ma soltanto col silenzio dei torturati
piú duro d'ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari s'adunarono
per dignità non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo
su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci troverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
resistenza.
20 settembre 2025 a Monza
Si è celebrata a Monza, come in tutta Italia, la prima giornata degli Internati Militari Italiani nei campi di concentramento nazisti durante la seconda guerra Mondiale.
Per l’occasione a Monza nel Bosco della Memoria è stato inaugurato un monumento dedicato agli IMI.
20 settembre 2025 - Monza Bosco della Memoria - Inaugurazione del monumento dedicato agli IMI
20 settembre dedicato agli IMI-Internati Militari Italiani
/image%2F1186175%2F20250910%2Fob_cfe129_schiavi-di-hitler.jpg)
e in memoria di mio padre Arnaldo, uno dei 600.000 militari italiani a cui fu data la possibilità di non subire il lager se avessero accettato di continuare la guerra a fianco della Germania nazista o se avessero aderito alla Repubblica sociale italiana.
Il 20 settembre 1943, dopo la liberazione di Mussolini e poco prima della proclamazione del nuovo stato fascista (la Repubblica Sociale Italiana), Hitler ordinò di trasformare i prigionieri italiani in “internati militari”.
/image%2F1186175%2F20250910%2Fob_108a0c_imi.jpg)
/image%2F1186175%2F20250910%2Fob_eed556_imi-sandbostel.jpg)
/image%2F1186175%2F20250910%2Fob_0a3cbb_guardia-con-cane.jpg)
/image%2F1186175%2F20250910%2Fob_6a609b_cimitero-imi-nel-lager.jpg)
Dal sito internet della Camera dei Deputati
Su Iniziativa dei Deputati:
FABBRI, NACCARATO, CUPERLO, CARLO GALLI, FIANO, RICHETTI, GIORGIS, ROBERTA AGOSTINI, ALBINI, D'OTTAVIO, FAMIGLIETTI, FERRARI, GASPARINI, GRIBAUDO, INCERTI, LATTUCA, LAURICELLA, MARCO MELONI, MOGNATO, PAGANI, POLLASTRINI, FRANCESCO SANNA, SCHIRÒ, TARICCO, TULLO
Istituzione della Giornata dell'internato militare italiano
Onorevoli Colleghi! – La Seconda guerra mondiale fu causa di sofferenze materiali e morali per tutta l'umanità. Bombardamenti devastarono città e campagne, causando milioni di morti e di feriti.
Il potere della Germania nazista tenne in scacco tutta l'Europa occupata, con strategie terroristiche, rappresaglie e deportazioni in massa. Anche l'Italia, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, ne fece le spese, in quanto l'armistizio non pose fine alla guerra come si sperava ma, al contrario, intensificò le sofferenze del Paese e i primi a esserne colpiti furono i militari, in particolare quelli che si trovavano fuori del territorio nazionale, abbandonati a sé stessi.
La proposta di istituire la «Giornata dell'internato militare italiano» nasce per non disperdere il patrimonio storico, culturale e umano legato al grande dramma che, tra l'8 settembre 1943 e il maggio 1945, coinvolse più di 600.000 uomini delle Forze armate; i quali, catturati su più fronti dalle truppe tedesche dopo l'armistizio dell'Italia con gli alleati, subirono la deportazione, l'internamento nei lager e il lavoro coatto nei territori del Terzo Reich o da esso controllati.
Il regime nazista, dopo averli considerati in un primo tempo prigionieri di guerra, il 20 settembre 1943, nel disprezzo delle norme di diritto internazionale, modificò il loro status in «internati militari», per utilizzarli coattivamente come forza lavoro. Il termine «internato militare» ricorre infatti nel diritto internazionale solo con riferimento ai militari di uno Stato belligerante che si trovino sul territorio, inteso in senso lato, di uno Stato neutrale (articoli 57 e seguenti della Convenzione dell'Aia del 1899 sulle leggi e sugli usi della guerra terrestre).
Agli oltre 600.000 militari italiani fu data la possibilità di non subire il lager se avessero accettato di continuare la guerra a fianco della Germania nazista o se avessero aderito alla Repubblica sociale italiana.
Il rifiuto di continuare la guerra a fianco della Germania fu, sia per gli ufficiali che per i soldati, una scelta individuale; lontani dall'Italia e dalle loro famiglie, si trovarono a dover prendere una decisione autonomamente. La risposta, quasi unanime, fu un rifiuto a qualsiasi collaborazione con l'asse. Dopo l'8 settembre 1943, in tutti questi italiani, nati e cresciuti durante il fascismo, cominciò a formarsi una coscienza civile che portò, dopo la fine della guerra, alla nascita della Repubblica italiana e della sua Costituzione democratica.
Gli internati militari italiani (IMI) preferirono, quindi, restare nei lager ed essere sottoposti per venti lunghi mesi a un trattamento durissimo: subirono umiliazioni, fame, le più pesanti vessazioni e il lavoro coatto, in una Germania particolarmente ostile che li considerava traditori. Circa 50.000 non fecero più ritorno e quelli che tornarono furono segnati per sempre.
Anche il rientro in Italia degli internati nei lager a fine guerra fu causa di ulteriori pene e umiliazioni, in quanto essi furono considerati come reduci da una normale prigionia di guerra, quando addirittura non furono sospettati di aver lavorato «volontariamente» per il regime nazista. Molti di loro si chiusero nel più assoluto silenzio, in pubblico e in famiglia, e non ebbero la forza di raccontare i patimenti subiti.
Una coltre di silenzio ha coperto per molti decenni la vicenda degli IMI, «resistenti senza armi», ma da qualche tempo molte famiglie ricercano le storie che hanno coinvolto i loro padri o i loro nonni.
Nel vertice bilaterale italo-tedesco, tenutosi il 18 novembre 2008, i due Governi, nel ribadire la loro fedeltà agli ideali di riconciliazione, solidarietà e integrazione, che sono alla base del processo di costruzione europea, hanno convenuto di dare vita a una Commissione costituita da storici italiani e tedeschi, con il mandato di un approfondimento comune sul passato di guerra italo-tedesco e in particolare sugli IMI, come contributo alla costruzione di una comune cultura della memoria.
A conclusione dei suoi lavori, la Commissione ha presentato, il 19 dicembre 2012, presso il Ministero degli affari esteri, un articolato rapporto, che dedica un intero capitolo alla drammatica storia degli IMI, segnalando i momenti salienti della complessa vicenda individuale e collettiva. Il racconto degli storici sintetizza situazioni, stati d'animo, cause e concause che determinarono certe scelte, sia da parte dei militari italiani, sia da parte delle autorità del Terzo Reich. Si accenna, in un veloce excursus, alle condizioni di vita e di lavoro, al rapporto con gli organi di controllo, alle violenze fisiche e morali perpetrate verso quanti avevano deciso di non collaborare con il nazionalsocialismo, pronunciando ripetutamente il loro «no» di fronte alle offerte che avrebbero potuto alleggerire la loro condizione. Ben delineati, inoltre, sono gli interessi economici tedeschi legati all'uso dei militari italiani come forza lavoro e le modalità attraverso le quali, per una politica di sfruttamento si arrivò all'arbitrario cambiamento di status: da prigionieri di guerra a internati militari e a lavoratori coatti, tra il luglio e il settembre 1944.
Per perpetuare la memoria degli IMI che furono deportati e costretti al lavoro per l'apparato bellico tedesco, è necessario far conoscere i fatti che furono alla base della ricostruzione morale e materiale della nazione. A tal fine è opportuno affiancare alla concessione della medaglia d'onore, disposta dall'articolo 1, comma 1272, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, iniziative che promuovano il ricordo di quei tragici eventi, soprattutto presso i giovani, coinvolgendo in particolare le istituzioni universitarie e scolastiche di ogni ordine e grado.
Le associazioni storiche combattentistiche, l'Associazione nazionale ex internati (ANEI) e l'Associazione nazionale reduci dalla prigionia, dall'internamento e dalla Guerra di liberazione (ANRP), enti morali costituiti con decreto del Presidente della Repubblica, posti sotto la vigilanza del Ministero della difesa, con i rispettivi impegni e in coerenza con le proprie finalità statutarie, provvedono a «mantenere viva la memoria di coloro che immolarono la loro vita per la salvezza della patria e a tributare loro ogni onoranza», nonché a «conservare e custodire il patrimonio morale che gli IMI, con le loro sofferenze e la loro partecipazione morale e materiale alla lotta di Liberazione hanno acquisito, con l'impegno di trasmetterlo alle nuove generazioni». In particolare, con l'opera dell'ANEI – attraverso il Museo dell'internamento di Padova – e dell'ANRP – attraverso la realizzazione e l'aggiornamento dell'Albo degli IMI caduti nei lager nazisti 1943-1945, la Mostra permanente – Vite di IMI – e il Centro studi, documentazione e ricerca con biblioteca specializzata di Roma, hanno permesso di mantenere e diffondere la memoria degli eventi e delle vicende che coinvolsero oltre 600.000 militari italiani internati nei lager tedeschi.
Pensiamo sia utile che tale ricordo resti nella coscienza dei popoli, perché l'uomo di oggi e di domani non consideri inevitabile la guerra e chiunque possa vedersi riconosciuta la piena dignità umana, ma soprattutto perché gli orrori e l'infamia che hanno disonorato il nostro tempo siano risparmiati alle future generazioni.
A tale scopo si propone di istituire, come data commemorativa degli IMI, la Giornata dell'internato militare italiano, il giorno 20 settembre che nel 1943 fu la data in cui il regime nazista, nel disprezzo delle norme di diritto internazionale, modificò il loro status da prigionieri di guerra a «internati militari», per utilizzarli come forza lavoro. Gli IMI si sacrificarono per raggiungere quella pace di cui oggi, a distanza di oltre settantatré anni, l'Europa ancora può godere. La denominazione di IMI, voluta dal nazismo, a violazione di tutte le leggi di guerra, dei diritti inalienabili della persona e quale atto di coercizione, deve trasformarsi in un messaggio di pace. Lo stesso Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione del settantesimo anniversario della liberazione, il 25 aprile 2015, ha affermato, tra l'altro che: «alla lotta di liberazione è finalmente pienamente riconosciuto l'apporto decisivo dei 600.000 soldati internati nei campi di concentramento perché negarono ogni collaborazione agli occupanti intendendo con questo loro atto di compiere un dovere verso l'Italia».
PROPOSTA DI LEGGE
Art. 1.
1. La Repubblica riconosce il 20 settembre quale Giornata dell'internato militare italiano al fine di conservare e di rinnovare la memoria degli oltre 600.000 militari italiani internati nei lager nazisti i quali, a causa della loro decisione di non collaborare con il nazionalsocialismo e del loro rifiuto, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, di continuare a combattere a fianco del Terzo Reich e della Repubblica sociale italiana, in quanto regimi dittatoriali che consideravano la guerra uno dei loro obiettivi, subirono volontariamente violenze fisiche, morali e lavoro coatto.
2. La Giornata dell'internato militare italiano è considerata solennità civile ai sensi dell'articolo 3 della legge 27 maggio 1949, n. 260. Essa non determina riduzioni dell'orario di lavoro degli uffici pubblici né, qualora cada in giorni feriali, costituisce giorno di vacanza o comporta riduzione di orario per le scuole di ogni ordine e grado, ai sensi degli articoli 2 e 3 della legge 5 marzo 1977, n. 54.
Art. 2.
1. Ogni anno, in occasione della celebrazione della Giornata dell'internato militare italiano, con cerimonie pubbliche, è conferita, con diploma a firma del Presidente della Repubblica, la medaglia d'onore, di cui all'articolo 1, comma 1272, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, da concedersi ai cittadini italiani deportati e internati nei lager nazisti.
2. Nella Giornata di cui all'articolo 1 sono previste iniziative per diffondere la conoscenza della drammatica vicenda degli internati militari italiani, soprattutto presso i giovani delle università e delle scuole di ogni ordine e grado, al fine di costruire, conservare e rinnovare una memoria storica condivisa. È altresì favorita
la promozione di manifestazioni pubbliche, di incontri, di dibattiti, di momenti comuni di ricordo e di riflessione, di ricerche e pubblicazioni organizzate dall'Associazione nazionale ex internati e dall'Associazione nazionale reduci dalla prigionia, dall'internamento dalla Guerra di liberazione.
Un monumento dedicato agli IMI a Monza
/image%2F1186175%2F20250910%2Fob_f7171b_monumento-imi-monza.jpg)
Il monumento che realizzeremo si inserisce nel contesto del Bosco della Memoria di Monza inaugurato il 27 gennaio 2018 e realizzato in uno spazio pubblico dove sono stati piantati 92 alberi a ricordo dei 92 cittadini di Monza e Brianza deportati nel lager nazisti: ogni albero riporta il nome di ciascun deportato inciso su una lastra in acciaio corten piegata a forma di anello che “abbraccia” la pianta.
/image%2F1186175%2F20250911%2Fob_b4f86c_monumento-imi-monza.png)
Il nuovo monumento, in continuità con il progetto del Bosco, riprodurrà il segno identificativo dei NO incisi nella cintura di corten abbracciando un simbolico albero costituito da due rotaie ferroviarie avvolte da due rose rampicanti e da una base in massicciata di pietrame a spacco.
Tanti NO di varie grandezze e caratteri ad indicare le varie storie e provenienze di ciascuno degli internati e le conseguenze di una scelta tanto coraggiosa. Il monumento sarà posizionato nell’area centrale del Bosco, dove si svolgono ogni anno le manifestazioni civiche a ricordo dell’enorme responsabilità di tutti gli antifascisti che, con le loro scelte, hanno permesso di riscattare il nostro paese da tutte le vergogne.
Il monumento sarà inaugurato il 20 settembre 2025 presso il Bosco della Memoria a Monza alle ore 10.30.
/image%2F1186175%2F20140810%2Fob_e5a2c4_logo-anpi-copie.bmp)


/image%2F1186175%2F20240224%2Fob_6049ba_carri-armati-inglesi.jpg)
/image%2F1186175%2F20240224%2Fob_163079_sottomarino-francese-i-guerra-mondial.jpg)
/image%2F1186175%2F20240224%2Fob_6473d5_sottomarino-tedesco-i-guerra-mondiale.jpg)
/image%2F1186175%2F20240224%2Fob_a6a3d2_artiglieria-tedesca-i-guerra-mondiale.jpg)
/image%2F1186175%2F20240224%2Fob_09d175_cannone-tedesco-i-guerra-mondiale.jpg)
/image%2F1186175%2F20240224%2Fob_d97963_grande-berta.jpg)
/image%2F1186175%2F20240224%2Fob_0da8c8_sottomarino-francese-i-guerra-mondial.jpg)
/image%2F1186175%2F20240224%2Fob_695ba0_sottomarino-tedesco-i-guerra-mondiale.jpg)
/image%2F1186175%2F20240224%2Fob_477ce2_carri-armati-inglesi.jpg)
/image%2F1186175%2F20240224%2Fob_779a3a_proiettile-grande-berta.jpg)
/image%2F1186175%2F20240224%2Fob_b8601b_copie-de-numeriser0018.jpg)
/image%2F1186175%2F20171026%2Fob_4de0b6_effetti-gas-i-guerra-mondiale.jpg)
/image%2F1186175%2F20181021%2Fob_ddbe19_prima-guerra-mondiale-trincea.jpg)


/image%2F1186175%2F20241020%2Fob_18a1b4_1944-monumento-gorla.jpg)
/image%2F1186175%2F20241020%2Fob_c74170_1944-monumento-gorla-particolare.jpg)
/image%2F1186175%2F20250923%2Fob_159ac9_storia-degli-imi-su-lastra.jpg)
/image%2F1186175%2F20250923%2Fob_343dce_monumento-imi-no.jpg)
/image%2F1186175%2F20250923%2Fob_637bba_1.jpg)
/image%2F1186175%2F20250923%2Fob_73d1a2_3.jpg)
/image%2F1186175%2F20250923%2Fob_d10edc_4.jpg)
/image%2F1186175%2F20250923%2Fob_5e9c6f_5.jpg)
/image%2F1186175%2F20250923%2Fob_297745_6.jpg)
/image%2F1186175%2F20250923%2Fob_c17f23_7.jpg)
/image%2F1186175%2F20250923%2Fob_c16db0_8.jpg)
/image%2F1186175%2F20250923%2Fob_8c7ef7_9.jpg)
/image%2F1186175%2F20250923%2Fob_d28063_10.jpg)
/image%2F1186175%2F20250923%2Fob_cd0e94_11.jpg)
/image%2F1186175%2F20250923%2Fob_646dc3_12.jpg)
/image%2F1186175%2F20250923%2Fob_289761_13.jpg)
/image%2F1186175%2F20250923%2Fob_43c470_14.jpg)
/image%2F1186175%2F20250923%2Fob_0de742_15.jpg)