Dal 25 luglio all’8 settembre 1943
Nei 45 giorni che vanno dal 25 luglio, caduta del fascismo e nomina di Badoglio a capo del governo, all’8 settembre 1943, armistizio con gli Alleati, tutto è nelle mani del Re e di Badoglio. L'obiettivo che monarchia e governo perseguono non ha nulla in comune con le speranze degli antifascisti: la monarchia scartava la possibilità della formazione di un governo nel quale fossero inclusi i democratici - che avrebbe significato la rottura immediata dell'alleanza con la Germania e la richiesta di un armistizio agli Alleati - preferendo trasformare la dittatura fascista in dittatura militare e continuare la guerra.
La sola ed esclusiva preoccupazione del re era che si verificasse una sollevazione di popolo, che avrebbe ostacolato il pacifico trapasso dei poteri dal governo fascista al governo militare di Badoglio e quindi messo in pericolo le sorti della corona. Avvenne perciò che alla folla in tripudio si rispose con lo stato di assedio. L'ordine venne mantenuto al prezzo di 83 morti, 308 feriti e 1554 arrestati, per la quasi totalità operai scioperanti e dimostranti.
Ma per rendersi conto di che significasse lo stato d'assedio e delle ben più gravi conseguenze che ne sarebbero potute derivare, basterà leggere il seguente stralcio della circolare Roatta diramata a tutti i comandi militari: «Muovendo contro gruppi di individui che perturbino ordine aut non si attengano a prescrizioni autorità militare, si proceda in formazione di combattimento et si apra il fuoco a distanza anche con mortai et artiglieria senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche. Medesimo procedimento venga usato da reparti in posizione contro gruppi di individui avanzanti (...). Non è ammesso il tiro in aria; si tira sempre a colpire come in combattimento (...). Apertura immediata del fuoco contro automezzi che non si fermano all'intimazione; i caporioni e istigatori di disordini, riconosciuti come tali, siano senz'altro fucilati se presi sul fatto, altrimenti siano giudicati immediatamente dal Tribunale di Guerra sedente in veste di Tribunale straordinario».
La proclamazione dello stato d'assedio equivaleva a quello che nella terminologia militare viene detto il falso scopo. Si era infatti voluto giustificarla adducendo ad arte il pericolo di una reazione dei fascisti contro il nuovo governo. Lo scopo vero era di fronteggiare una temuta sollevazione popolare. La quale peraltro non era in quel momento minimamente ipotizzabile date le circostanze.
Certi comandi militari profittarono dello stato d'assedio per reprimere spontanee e legittime manifestazioni di gruppi politici. L'atteggiamento chiaramente repubblicano assunto da partiti e da uomini eminenti spaventò i circoli monarchici che consigliarono cautela, repressioni, reazione, Badoglio ricevette dal sovrano un promemoria, in cui questi timori sono riecheggiati: «L'attuale governo deve conservare e mantenere in ogni sua manifestazione il proprio carattere di governo militare come annunciato nel proclama del 26 luglio [...] deve essere lasciato a un secondo tempo e a una successiva formazione di governo l'affrontare i problemi politici [...] l'eliminazione presa come massima di tutti gli ex appartenenti al partito fascista da ogni attività pubblica deve quindi recisamente cessare [...] la sola revisione delle singole posizioni deve essere attentamente curata per allontanare e colpire gli indegni e i colpevoli [...] a nessun partito deve essere consentito né tollerato l'organizzarsi palesemente [...] le commissioni costituite in misura eccessiva presso i ministeri sono state sfavorevolmente accolte dalla parte sana del Paese; tutti, all'esterno e all'interno, possono essere indotti a credere che ogni ramo delle pubbliche amministrazioni sia ormai inquinato [...] ove il sistema iniziato perdurasse si arriverebbe all'assurdo di implicitamente giudicare e condannare l'opera stessa del re [...] la stessa massa onesta degli ex appartenenti al partito fascista, di colpo eliminata senza specifici demeriti, sarà facilmente indotta a trasferire nei partiti estremisti la propria tecnica organizzativa, venendo così ad aumentare le future difficoltà di ogni governo d'ordine; la maggioranza di essa, che si vede abbandonata dal re, perseguitata dal governo, mal giudicata e offesa dall'esigua minoranza dei vecchi partiti che per venti anni ha supinamente accettato ogni posizione di ripiego, mimetizzando le proprie tendenze politiche, tra non molto ricomparirà in difesa della borghesia per affrontare il comunismo, ma questa volta sarà decisamente orientata a sinistra e contraria alla monarchia ... ».
Quando si parlò al consiglio dei ministri di mandar via i prefetti troppo compromessi con il fascismo, Fornaciari, ministro degli Interni, non seppe proporre che tre o quattro nomi. Alla Cultura Popolare il ministro Rocco aveva conservati al loro posto tutti i capi servizio; si che la censura preventiva sulla stampa, istituita dal governo militare per motivi di guerra e di ordine pubblico, era fatta con criteri reazionari; era vietato occuparsi delle responsabilità del fascismo, impedito qualsiasi accenno alle persone che nel fascismo avessero rappresentato una parte qualsiasi; la censura vietò persino che si desse notizia della scomparsa di Ciano da casa sua. I giornali uscivano con grandi finestre bianche nel testo degli articoli di fondo e nelle colonne delle informazioni: ché la censura si faceva all'ultimo momento, sui bozzoni dell'impaginato.
I gerarchi fascisti furono per la maggior parte lasciati liberi. La Milizia fu sciolta, ma incorporata nell'Esercito; gli squadristi , invece di essere arrestati o sorvegliati, furono arruolati proprio in quelle formazioni che più avevano bisogno di essere sottratte a ogni influsso fascista che ne minava la compattezza.
Fu emanato un ordine perché i podestà fascisti rimanessero ai loro posti, così che a Roma, ad esempio, una commissione democratica di ingenui cittadini che si era recata in Campidoglio per chiedere la rimozione del governatore di nomina fascista fu arrestata e tradotta a Regina Coeli.
L'amnistia ai detenuti politici furono sì ottenuti per l'intervento energico del Comitato delle opposizioni di cui facevano parte Buozzi, Bonomi, De Gasperi, Ruini, Salvatorelli, Amendola.
L'amnistia per i detenuti fu emanata, ma ne furono praticamente esclusi, sulle prime, i comunisti, molti dei quali, anche quando l'assurda parzialità - che colpiva il
90% dei detenuti e l'80% dei confinati politici - fu potuta rimuovere, poterono uscire solo in agosto e spesso anche solo ai primi di settembre.
Scrive Luigi Longo nel suo libro “Un popolo alla macchia”: «Leo Lanfranco, l'uomo che nel marzo aveva diretto il primo grande sciopero della Fiat (verrà fucilato dai tedeschi nel 1945 perché comandante di una divisione partigiana), fu arrestato da Badoglio in agosto. Quarantasette antifascisti napoletani, rei di aver tenuto una riunione pubblica, furono arrestati nello stesso mese, e un mese più tardi scamparono per miracolo al massacro che i tedeschi, prima di sgombrare la città, avevano deciso di effettuare. Emilio Sereni una delle figure più notevoli della Resistenza reduce da anni e anni di carcere, di confino e dal “maquis” francese fu processato in regime badogliano, insieme a molti altri suoi compagni di lotta. Di questi, alcuni furono anche condannati a morte, e sottratti alla esecuzione solo nella confusione dell’8 settembre. Sereni stesso, e altri condannati a decine di anni di reclusione, poterono essere liberati dai partigiani soltanto un anno dopo, strappati dalle mani dei teschi e dei repubblichini. Noi di Ventotene fummo tra gli ultimi ad essere liberati; per lunghi giorni i compagni temettero seriamente per la nostra sorte, essendo l'isola sottoposta a pericoli di bombardamento e scarseggiando i mezzi di trasporto necessari per ricondurci in continente».
Ogni giorno i giornali annunciavano con grandi titoli ed elogianti commenti, i provvedimenti adottati dal governo Badoglio: lo scioglimento del partito; la soppressione del Gran Consiglio e del tribunale speciale; la soppressione della GIL (Gioventù Italiana del Littorio) con i Balilla e i Figli della Lupa; il sequestro del patrimonio degli ex gerarchi e la nomina di una commissione di magistrati per esaminare l'origine dell' arricchimento di gerarchi e di alti funzionari; la soppressione delle corporazioni, con la nomina a commissario della disciolta federazione dell'industria di Bruno Buozzi, ex segretario della federazione degli operai metallurgici, liberato dal confino, e la nomina a vicecommissario Giovanni Roveda, già organizzatore della Camera del lavoro di Torino; l'abrogazione delle leggi sul celibato; la soppressione del libro di stato per le scuole; il ripristino dei ginnasi-licei; l'abolizione del saluto romano nell'esercito; la soppressione del fascio littorio sui biglietti di banca; lo sbattezzamento della corazzata Littorio che diventava Italia, dei cacciatorpediniere Camicia Nera e Squadrista che diventavano Artigliere e Corsaro. Intanto nuove restrizioni della libertà venivano messe in atto, come il coprifuoco istituito per la prima volta a memoria d'uomo.
I partiti nel loro insieme non erano pronti ad assumere un ruolo politico di rilievo, lo assumeranno solo dopo l' 8 settembre.
Nel mese di giugno, a Milano, si erano tenute due riunioni fra i rappresentanti del Partito d'azione, del partito comunista, del partito socialista, del Movimento di unità proletaria, della Ricostruzione liberale e della Democrazia cristiana. Un progetto di appello al paese non fu approvato per la pregiudiziale repubblicana del Partito d'azione e perché i rappresentanti liberali e cattolici non approvarono l'invito alla lotta immediata. Era chiaro, però, che bisognava innanzi tutto rafforzare l'unità e la compattezza d’intenti del fronte antifascista.
Tra la gente, nel volgere di pochi giorni tornò la coscienza della paurosa condizione del Paese; la Sicilia pressoché perduta, e centinaia di migliaia di suoi abitanti profughi, ignudi, desolati; sul continente l'offensiva avversaria sempre più pesante e risoluta e i tedeschi sempre più prepotenti in casa, più padroni che alleati; l'impossibilità di continuare la guerra, l'impossibilità di smetterla; le campagne devastate, parte dei raccolti perduti; sospeso l’arrivo del grano dalla Romania, cessato l'arrivo del carbone dalla Germania, cessato l'arrivo del petrolio, perché i tedeschi così volevano punirci del colpo di Stato, e tenerci alla loro mercè.
Un'offensiva aerea scatenata dagli gli angloamericani superò per terribilità, per danni, per violenza ogni altra precedente.
Per tutto il mese di agosto, per tutta la prima settimana di settembre, fino a cinque ore prima della proclamazione dell'armistizio, attacchi dall'aria si abbatterono sulle illustri città nostre, non ci fu giorno che non giungesse il grido di dolore da una o più di esse, da Napoli o da Torino da Salerno o da Novara, da Cagliari, da Genova, da Milano: da Roma, da Viterbo, da Benevento, da Grosseto, da Foggia, da Taranto, da Bologna, da Terni, da Civitavecchia, da Orte, da Pisa, da Pescara, da Ancona, da Trento da Bolzano, da Capua, da Rimini, da Terracina, da Formia, da Cosenza, da Sulmona, da Catanzaro, da Frascati.
Il 3 settembre anche la Calabria è invasa, Corrado Alvaro scrive sul «Popolo di Roma» una pagina commossa per la sua terra divenuta prima linea del fronte di guerra. «Battuta secolarmente dai terremoti e dalle alluvioni distrutta e ricostruita almeno una volta ogni secolo, conosce ora la più grande rovina, quella che non ne colpisce solamante le abitazioni costruite Dio sa con quanta pena, vissute Dio sa con quante lacrime, traversie, emigrazioni, lontananze, rimpianti, ritorni, ma distrugge la terra stessa, quella che porta il pane e i frutti e l'olio e il vino, gli alimenti di questo popolo sobrio, silenzioso alla pena, che ama disperatamente la sua vita amara».
Le classi operaie volevano la pace, si capisce, e al più presto possibile, la chiedevano per prima cosa, non volevano più costruire armi e strumenti per una guerra odiata, per un alleato ripudiato, anzi rinnegato fino dal primo giorno (comparvero scritte cubitali sui muri di Trastevere: «Vogliamo la pace, via i tedeschi dall'Italia! A morte i tedeschi e i fascisti»): ma si rendevano conto come fosse minacciosa la faccia delle cose nel nostro paese povero, senza scorte, con i tedeschi in casa. Ahimè, non potevano immaginare che attraverso tanti errori e tante calamità si sarebbe arrivati a un armistizio che volle dire soltanto inizio di nuove tribolazioni. Né che l'esercito si sarebbe dissolto; e gli operai avrebbero avuto l'angosciosa esperienza - come quelli delle fabbriche di Milano accorsi in tuta ai comandi militari a chiedere armi, a chiedere di combattere, a chiedere che la città fosse difesa dai tedeschi - di vedersi negata anche la possibilità di correre alle barricate.
Bibliografia:
Luigi Longo - Un popolo alla macchia - Editori Riuniti 1965
Giovanni Battista Stucchi - Tornim a baita, dalla campagna di Russia alla Repubblica dell'Ossola - Vangelista Editore, 1983
Paolo Monelli - Roma 1943 – Einaudi 1993
Francia, anno 1936: il FRONT POPULAIRE
Toccata più tardi, ma non meno gravemente dalla crisi mondiale (del 1929), la Francia subisce allo stesso tempo il discredito che subisce il sistema repubblicano. Alla fine, la sinistra prende il potere e si impegna a promuovere un nuovo ordine sociale ed economico, incontrando delle forti opposizioni.
I mezzi economici francesi, benchè reali, si rivelano ben presto insufficienti per far fronte ad una crisi mal compresa dai responsabili politici, che rifiutano l’adozione di misure drastiche, utilizzate da altri paesi, specialmente la svalutazione. Sebbene l’economia francese non fosse crollata come quella degli stati vicini, tuttavia era in costante flessione; nel 1935, la produzione industriale raggiunge ancora il 75 per cento di quella del 1929, e i disoccupati, tra l’altro poco assistiti, non sono ufficialmente che 465.000.
La classica politica di deflazione e la diminuzione per legge degli stipendi o dei prezzi (decreti legge Laval del 1935) accrescono il malessere sociale, che aumenta per un antiparlamentarismo accresciuto dagli scandali che agitano la cronaca: l’affare Stavisky, seguito dalle dimissioni di Chautemps e dalla sostituzione del prefetto Chiappe, esaspera l’opinione pubblica.
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Nel febbraio 1934, non c’è stato un «complotto fascista» ma la gravità dei moti testimonia un malessere sociale e politico.
Nel gennaio 1934, l’ antiparlamentarismo dell’opinione pubblica è esacerbato dal misterioso suicidio di Stavisky,truffatore legato al mondo politico. Inoltre Chiappe, prefetto di Parigi, giudicato troppo indulgente con le leghe, viene sostituito. Queste ultime scendo allora nelle strade il 6 febbraio, giorno dell’investitura del governo Daladier. Si formano diversi cortei: la Croix-de-Feu (organizzazione di ex combattenti, antiparlamentare e nazionalista, fondata nel 1927, e sciolta dal governo del Front Populaire) manifesta in ordine, l’Union nationale des combattants mostra invece una maggiore aggressività nei confronti delle forze dell’ordine; infine, l’Action française e le Jeunesses-Patriotes hanno intenzione di marciare verso il Palais-Bourbon (la sede dell’Assemblea Nazionale). Lo scontro cercato avviene in place de la Concorde; i poliziotti, bombardati da proiettili, fanno fuoco. Negli scontri ci saranno 17 morti e 2.000 feriti. Per cercare di rappacificare gli animi, Daladier, nonostante il sostegno della Camera, si ritira, sostituito da Doumergue: il governo legittimo ha ceduto alla strada, ma il regime ha retto.
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LA NASCITA del FRONT POPULAIRE
Il 6 febbraio 1934, a Parigi, diverse leghe manifestano con estrema violenza contro «i ladri e i corrotti» ma senza cercare di abbattere il regime benchè screditato. Questi gravi incidenti - 17 morti e più di 2.000 feriti – finiscono tuttavia per suscitare un riflesso di «difesa repubblicana» tra i partiti di sinistra, nonostante una profonda ostilità reciproca, aggravata dall’isolamento del partito comunista, dovuto alla strategia di «classe contro classe» imposta da Mosca.
Qualche giorno dopo tutto evolve. La spinta della «base» si vede il 12 febbraio: i cortei socialista e comunista fraternizzano durante una sfilata di protesta.
Preoccupato della situazione tedesca, il Comintern impone al partito comunista la politica della «mano tesa». Nel giugno del 1934, Maurizio Thorez propone un patto di unità d’azione alla S.F.I.O. (Section Française de l’Internationale Ouvriere, dal 1969 PS, Parti Socialiste), che, il mese seguente, l’accetta; il 13 novembre rivolge la sua proposta ai radicali, con l’idea di un «Front Populaire del lavoro, della libertà e della pace».
Le sconfitte elettorali del partito radicale nel 1934 e nel 1935, la foga dei suoi «Jeunes-Turc» (corrente del partito radicale) - Cot, Mendès France e Zay – spingono questa formazione a partecipare a una giornata comune con la S.F.I.O. e il partito comunista, il 14 luglio 1935, vero atto di nascita del «Rassemblement populaire».
VITTORIA ELETTORALE
La manifestazione è un successo che prelude all’alleanza dei partiti e dei sindacati di sinistra in vista delle elezioni del 1936. Il programma di governo, pubblicato nel mese di gennaio, è composto di tre parti: difesa delle libertà contro le leghe faziose, lotta contro la crisi economica e sociale, sicurezza collettiva, che si riassume nella formula «pace, pane, libertà». La S.F.I.O. vi inserisce diverse misure precise e concrete che spera di realizzare. La destra conduce una campagna difensiva sul pericolo bolscevico. Un attentato dei Camelots du roi (organizzazione monarchica) contro Léon Blum in occasione delle esequie di Jacques Bainville (storico monarchico), la rimilitarizzazione della Renania condotta da Hitler, che la Francia lascia fare, la vittoria del Frente popular spagnolo pesano sulle ultime settimane precedenti le votazioni. Alla vigilia del primo turno elettorale, l’Humanité rassicura l’elettorato delle classi medie, intitolando: «Per l’ordine, votate comunista».
Nonostante un tasso di partecipazione record, la sinistra non ottiene che 300.000 voti di più di quelli ottenuti nel 1932, e i ballottaggi sono molto numerosi. Ma l’accordo di votare il candidato meglio piazzato assicura una netta maggioranza al Front Populaire in occasione del secondo turno: 378 seggi su 598. Due sorprese: da una parte, distanziati per la prima volta dai socialisti, i radicali perdono 49 seggi; dall’altra i comunisti moltiplicano per sette il numero dei loro eletti. Più che l’elettorato, il mondo politico va a sinistra. Vincitore della coalizione, Léon Blum diventa presidente del Consiglio alla riapertura delle Camere, il 4 giugno 1936. Primo problema: i comunisti declinano la loro partecipazione al governo; la pressione di Mosca li mantiene lontano dalle responsabilità, per lasciarli liberi di esercitare dal di fuori «una sorta di ministero delle masse», secondo il motto di Paul Vaillant Couturier, direttore de l’Humanité.
I socialisti occupano i ministeri economici e sociali, i radicali ottengono dei posti più politici. Questa prudente distribuzione degli incarichi ministeriali è innovativa per certi aspetti, tra cui la nomina di tre donne segretario di Stato - quando le donne non avevano ancora il diritto di voto – e un manifesto ringiovanimento. Inoltre, Léon Blum ha la saggezza di non cumulare la presidenza del Consiglio con altri ministeri.
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LÉON BLUM
L’affare Dreyfus e il prestigio di Jean Jaurés (fondatore del foglio socialista l’Humanité, pacifista, energico difensore di Alfred Dreyfus, assassinato da un nazionalista francese) sono determinanti per l’ingresso in politica di questo brillante e raffinato studente dell’Ecole Normale, proveniente da una famiglia di ebrei dell’Alsazia.
Consigliere di Stato, capo di gabinetto del ministro socialista Marcel Sembat nel 1914, ostile all’Internazionale comunista, artefice del cartello delle sinistre, fa crescere il numero dei votanti la S.F.I.O. fino a farla diventare il primo partito di Francia nel 1936; generoso, idealista, perfino entusiasta, il nuovo presidente del Consiglio è un riformista che tenta di piuttosto di conciliare giustizia sociale ed economia liberale. Il suo programma non manca di coerenza, ma ignorava le regole del mercato e si scontrava con l’incomprensione di un padronato distaccato a causa delle difficoltà dell’anteguerra. Capro espiatorio del governo di Vichy, Léon Blum è tradotto davanti alla corte di Riorn nel febbraio 1942, ma si difende così bene che il processo ridicolizza il regime. Deportato in Germania dopo l’invasione della zona libera, presiede un gabinetto effimero dal dicembre 1946 al gennaio 1947, poi si ritira dalla vita politica.
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UNA KERMESSE PRIMAVERILE
Una settimana dopo la vittoria del FRONT POPULAIRE, scoppiano degli scioperi spontanei che travalicano le tradizionali organizzazioni sindacali. Il movimento ha inizio il 12 maggio a Le Havre, raggiunge Parigi il 14, poi si propaga in provincia. Il 10 giugno, tre milioni di scioperanti occupano i loro luoghi di lavoro in un clima da “buoni ragazzi”. La gioia della vittoria elettorale, il timore diffuso di non poterne raccogliere i frutti, ma con la speranza di un miglioramento delle condizioni della vita quotidiana e il sentimento di una dignità acquisita, sono i principali caratteri di questi scioperi né rivoluzionari né aggressivi: gli operai rispettano gli attrezzi di lavoro e limitano i loro obiettivi alla fabbrica in cui lavorano.
Léon Blum, preso alla sprovvista, calma questo sfogo collettivo con una serie di decisioni spettacolari che vanno oltre il suo programma elettorale: L’11 e il 12 giugno 1936, alcune leggi istituiscono la settimana di 40 ore, 15 giorni di ferie pagate per tutti i salariati e dei contratti collettivi per tutte le categorie professionali.
Già la Confederazione nazionale francese del padronato negozia con la C.G.T. (Confédération Générale du Travail) con la mediazione del governo: gli «accordi Matignon» del 7 giugno rivalutano i salari dal 7 al 15 per cento, garantiscono la libertà sindacale, istituiscono i contratti collettivi così come l’elezione dei delegati del personale. Gli scioperi diminuiscono, mentre i «biglietti Lagrange (Ministro delle Attività ricreative)», a tariffe preferenziali, facilitano le prime vacanze per milioni di francesi. Nel corso dell’estate 1936, la volontà di giustizia sociale legata ad un rilancio dell’economia, induce il governo Blum ad una intensa attività legislativa: le industrie degli armamenti e l’industria aeronautica vengono nazionalizzate, sono riformati gli statuti della Banca di Francia (organizzazione privata), la scolarità obbligatoria è prolungata fino ai 14 anni, viene dato un forte impulso al tempo libero e alla cultura. Grandi lavori sono programmati per riassorbire la disoccupazione. Infine la creazione di un Ufficio del grano dovrebbe contribuire a far aumentare le tariffe agricole falcidiate dalla crisi.
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LO SCIOPERO BIANCO
Per la prima volta, le sospensioni dal lavoro assumono un carattere sorridente. Novità, le fabbriche e le officine sono occupate e diventano un luogo di festa popolare: gli scioperanti giocano a carte o alle bocce, ballano al suono delle fisarmoniche e sono riforniti dalle loro famiglie. Questo entusiasmo tutto pacifico resterà nella memoria.
Sorprende i partiti e le stesse centrali sindacali, perchè gli scioperi paradossalmente non riguardano i settori più sindacalizzati. Ordinati, le violenze sono rarissime, piuttosto moderati nelle loro rivendicazioni, questi scioperi cambiano il clima delle imprese; un padrone favorevole al Front Populaire parla di «cura psicoanalitica» della Francia.
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LE PRIME DIFFICOLTÀ
L’euforia è di breve durata. Il Front Populaire si scontra rapidamente con l’amara realtà della politica estera e dell’economia. La guerra civile spagnola, che scoppia il 18 luglio 1936, provoca la prime crepe nella coalizione di governo: ostili ad ogni sostegno ai repubblicani spagnoli, mentre i socialisti si dimostrano favorevoli, i radicali minacciano di far cadere il governo, Blum cede, ma il non intervento della Francia provoca lo stupore degli «antifascisti» e preannuncia la prossima rottura con i comunisti, fautori accaniti del sostegno.
La conclusione del patto Roma-Berlino sconvolge le alleanze e obbliga la Francia ad aumentere le spese militari, che appesantiscono il bilancio dello Stato. L’attività economica resta stagnante, malgrado una timida ripresa: i prezzi aumentano per compensare le concessioni accordate a giugno. Pierre Gaxotte, un acuto uomo di destra, sottoliea «questa cattiva abitudine del padronato di lasciarsi strappare quello che potrebbero concedere di buona grazia». Gli industriali si rifiutano di investire, alcuni speculano contro il franco; le riforme sono costate caro, senza dare i risultati sperati: la generalizzazione delle «quaranta ore» non ha fatto crescere l’occupazione. Il 28 settembre 1936, il ministro delle Finanze Vincent Auriol svaluta il franco del 25% .
La vita politica interna è avvelenata dagli odiosi attacchi dell’estrema destra, le cui calunnie spingono il ministro degli Interni al suicidio. Sciolte nel mese di giugno, le leghe si ricostituiscono in partiti politici e denunciano la «sovietizzazione della Francia». La stampa moderata approva in coro. Il malessere aumenta: i radicali si preoccupano per l’inefficacia delle riforme, i comunisti, al contrario, reclamano delle misure più dirigiste, come il controllo dei cambi. L’elettorato è sconcertato per l’aumento dei prezzi e per la svalutazione, che decurtano gli aumenti salariali; in autunno degli scioperi sporadici riprendono in tutti i settori ed altri, tuttavia, non possono essere evitati dall’intervento delle commissioni di conciliazione e di arbitrato, istituite nel mese di dicembre. La fiducia nel governo diminuisce: la fuga dei capitali si aggrava, il deficit del bilancio e l’inflazione aumentano.
LA FINE DEL FRONT POPULAIRE
Di fronte ad una situazione così delicata, Léon Blum auspica una «pausa» delle rivendicazioni. Il 13 febbraio 1937, il suo annuncio della sospensione delle riforme non frena l’agitazione sociale. Deluso, il presidente del Consiglio così si esprime durante l’inaugurazione dell’Esposizione internazionale del 1937: «I lavoratori non devono confondere libertà e licenza». Qualche settimana prima, la «sparatoria di Clichy» (5 morti e 500 feriti) aveva aggravato la tensione nella coalizione di governo. I comunisti non sostengono più il governo, già minato dal sabotaggio finanziario del padronato. La maggioranza moderata e radicale del Senato rifiutano a Blum la concessione dei pieni poteri, che gli consentirebbero di combattere la speculazione. Il presidente del Consiglio preferisce dare le dimissioni, fedele alle sue convinzioni: «Sono determinato ad affrontare tutto tranne una cosa: un disaccordo con il partito o con l’insieme della classe operaia». Quattro governi prolungano l’agonia del Front Populaire, a poco a poco abbandonato dai radicali. Il gabinetto Chautemps, appoggiato ancora dai socialisti, nazionalizza le compagnie ferroviarie deficitarie. La persistenza degli scioperi, appoggiati dai comunisti, ostacola la ripresa, ma i socialisti fanno dimettere Chautemps che vuole rimettere in discussione il principio delle quaranta ore. Un secondo gabinetto Blum dura qualche giorno. Il 10 aprile 1938, Daladier forma un governo di radicali e di centrodestra; il Front Populaire è ormai un ricordo e un decreto legge del novembre 1938 sopprime la settimana di quaranta ore lavorative.
UN MITO POLITICO
Il Front Populaire, primo esercizio del potere da parte di una maggioranza socialista riformista, non ha resistito alla congiunzione di un contesto internazionale teso e all’ostilità degli ambienti finanziari. Le numerose promesse del partito comunista all’elettorato e gli errori di gestione riducono ancora la sua portata politica. Ma l’eredità sociale pone un’ipoteca sul futuro e consente al Front Populaire di diventare un mito per la sinistra francese.
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LE QUARANTA ORE
La crisi economica rende popolare l’idea di una diminuzione del tempo di lavoro da quarantotto a quaranta ore settimanali, a parità di salario. I sindacati prevedono una miglioramento della produttività e la possibilità di una riduzione della disoccupazione, ma gli ambienti economici, al contrario, avanzano una serie di riserve. I decreti di applicazione promulgati dall’ottobre 1936 alla primavera del 1937 mancano di elasticità. Applicate troppo rapidamente, le «quaranta ore» producono pochi effetti sulla ripresa economica ed il padronato è reticente nell’applicare questa legge. D’altra parte, le imprese non possono sostituire il loro personale qualificato con dei lavoratori con poca esperienza e devono sopportare un aumento del costo del lavoro, soprattutto intervenuto in un periodo di recessione.
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LE FERIE PAGATE
Le «vacanze pagate» non erano un’innovazione: gli impiegati degli uffici già ne usufruivano. Di più, la recessione induce alcune aziende a fermarsi per qualche settimana durante il mese di agosto; ma queste ferie forzate sono una disoccupazione tecnica mascherata e non remunerata. Da ultimo, il Senato respinge tutti i progetti di legge. Tuttavia, l’11 giugno 1936, un voto quasi unanime – meno un voto – estende le «ferie pagate» a tutti i salariati che hanno almeno un anno di anzianità. L’iniziativa non figurava in modo esplicito nel programma elettorale, ma gli scioperi spingono Léon Blum a prendere tale misura. All’inizio dell’estate i beneficiari si affrettano a salire sui «treni del piacere» a tariffe ridotte del 40%. Scoprono la Francia, sacco in spalla o sui tandem,
alcuni vedono il mare per la prima volta nella loro vita o ritornano, dopo lungo tempo, ai paesi lasciati. Leo Lagrange; ministro dello Sport e del Tempo libero, moltiplica il numero degli stadi, le piscine, gli ostelli della gioventù. Certamente, qualche privilegiato scontroso deplora il degrado delle spiagge da parte dei «poveracci col baschetto che vogliono coprire la Francia di cartacce unte». Benchè molte famiglie rimangono a casa per mancanza di mezzi, le ferie pagate non saranno mai rimesse in discussione. Più commoventi le migliaia di cartoline postali che affluiscono al Matignon (residenza del Primo ministro) con queste semplici parole: «Grazie signor Blum».
L'avvento del regime nazista in Germania
Leggendo il libro “Come si diventa nazisti” di William Sheridan Allen, pubblicato nel 1968 da Einaudi, si può comprendere come una democrazia civile abbia potuto precipitare e affondare in una dittatura.
L’autore analizza la storia di una piccola città della Germania durante gli ultimi anni della repubblica di Weimar e i primi del Terzo Reich. William Sheridan Allen sostiene che: «Se un microcosmo ha il difetto di non essere rappresentativo, ha però il vantaggio di permettere uno studio preciso e dettagliato. ... La realtà immediata acquista risalto; le azioni possono essere inquadrate nello schema della vita quotidiana e così si riesce a stabilire perché gli individui agirono in quel dato modo, perché i tedeschi fecero quelle scelte che permisero a Hitler di salire al potere».
Le misure naziste a livello locale furono una delle chiavi che aprirono la via all'affermarsi del totalitarismo in Germania. Prima di giungere al potere, Hitler aveva ricevuto un forte appoggio dal virtuosismo e dall'adattabilità delle sue organizzazioni locali di partito, la NSDAP (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi). L'avvento al potere, nella primavera del 1933, si compì in gran parte per spinta dal basso, pur essendo facilitato e reso possibile dalla posizione di cancelliere tedesco cui Hitler era pervenuto: il Führer raggiunse la vetta, perché i suoi seguaci avevano avuto successo al livello di base.
La situazione economica, per quanto preoccupante, era soltanto una delle componenti della situazione nelle cui spire sempre più opprimenti si sentivano avvolti i tedeschi. A oltre dieci anni di distanza il trattamento punitivo riservato alla Germania dal Trattato di Versailles era sentito dalle masse di tedeschi come un'offesa personale. Essere costretti dai vincitori a pagare danni di guerra onerosissimi, doversi piegare al divieto (peraltro aggirato sin dalla metà degli anni Venti) di riarmare esercito e marina, veder rimessa in discussione la sovranità tedesca sulla Renania dopo aver già perso nel 1919 l’Alsazia, era un'onta per la nazione che ricadendo a livello individuale prendeva alla gola l'operaio come l'insegnante, il funzionario statale come l'agricoltore. Il tutto - l'ansia per lo stato dell' economia e il risentimento per l'umiliazione di Versailles - si era trasformato da anni in un diffuso discredito della classe politica, giudicata incapace di trovare soluzioni decenti all'una come all'altra questione.
I nazisti si seppero muovere con rapidità ed efficacia, proonendosi alle paure reali e fittizie delle classi medie come i soli capaci di sopprimere alla radice le loro cause.
Ad attrarre i voti della media borghesia fu la capacità dei nazisti di distribuire sicurezza, di ridurre con le loro promesse in campo economico e sociale il livello collettivo di angoscia. Al contrario, le forze porogressiste, tra cui SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, Partito Socialdemocratico di Germania) sommarono errore a errore. La borghesia era terrorizzata dallo spettro del comunismo: la NSDAP si presentava come un baluardo d'acciaio nei confronti del nemico rosso, laddove la SPD continuava a ricoprire con slogan massimalisti quelle che erano modeste proposte per una politica socialdemocratica. Sul piano dei rapporti internazionali, non solo tra le file della borghesia, ma anche tra quelle degli operai e dei contadini erano in molti a. sentire lesa la propria personale dignità per il modo in cui la Germania era stata trattata a Versailles e dopo.
Perciò gli articoli di giornale, i volantini, i discorsi dei rappresentanti della NSDAP battevano senza fine su tale tasto, assicurando che se loro fossero giunti al potere si sarebbero impegnati a morte - è la parola - per riscattare l'onore tedesco.
La SPD, infine, si mostrò del tutto incapace di stringere alleanze sia alla propria sinistra che alla propria destra, mentre i nazisti, di elezione in elezione, seppero allacciare le alleanze più spregiudicate con diversi partiti moderati e conservatori, adattandosi di volta in volta a cambiare linguaggio, programmi, slogan, uomini per assumere l'aspetto ora più battagliero, ora pru posato che conveniva al momento per irretire il potenziale alleato. Con questi mezzi i nazisti seppero convincere le classi medie d'essere il partito che le avrebbe, tutt'insieme, protette dai rossi, guarite dall'onore offeso, rimesse in condizione di far prosperare pacificamente i loro affari. Le classi medie li compensarono con una valanga di voti.
Il penultimo giorno di gennaio del 1933 il presidente Hindenburg, rispettando scrupolosamente la legge, nomina Hitler cancelliere del Reich. Il presidente sa che i nazisti sono tipi alquanto invadenti ma ritiene di aver preso adeguate contromisure: nel nuovo gabinetto i ministri nazisti sono soltanto due, Frick e Göring. Molto più perspicaci del vecchio maresciallo, alla notizia che Hitler ha ufficialmente varcato il soglio della Cancelleria, l suoi seguaci inondano la Germania di canti, bandiere, fiaccole e violenze a danno degli avversari politici. In effetti quella notte il colpo di stato a rate, come qualcuno appropriatamente lo definì, era legalmente cominciato. I tedeschi incoraggiarono Hitler a perfezionarlo assegnando al suo partito, alle elezioni nazionali del marzo 1933, quasi il 44 per cento dei voti; e Hitler capitalizzò tale consenso assumendo poco più di un anno dopo, alla morte di Hindenburg, anche la carica di capo dello stato.
Come in tutte le dittature, il primo scopo perseguito è la distruzione dei rapporti associativi tra gli individui, seguito dalla loro sostituzione con il rapporto diretto tra i singoli così isolati e atomizzati e un capo che li controlla. Con i pretesti più vari vengono progressivamente sciolti o costretti alla chiusura quasi tutti i gruppi politici, i centri culturali, le antiche associazioni religiose, le società di mutuo soccorso. Al loro posto subentrano associazioni preposte caso per caso all'inquadramento e all'indottrinamento dei giovani, delle donne, degli impiegati pubblici, degli insegnanti, degli operai, dei contadini: tutte controllate rigidamente sia dalla NSDAP, sia dalle pubbliche autorità, una volta che queste erano divenute semplicemente il braccio operativo di quella. Aumentano paurosamente le violenze, che sino al 1933 non avevano superato il tasso osservabile di regola nei momenti di aspra lotta politica di quei decenni. Con un sapiente dosaggio di percosse e di arresti, di distruzioni di case e di deportazioni nei primi campi di concentramento, la violenza dei nazisti si dirige dapprima contro gli avversari, per estendersi poi a coloro che danno segni pur minimi di dissenso o appaiono indifferenti ai richiami a partecipare con entusiasmo alle manifestazioni organizzate dalla NSDAP. In tutta l'amministrazione pubblica, dalla carica di bidello a quella di sindaco, subentrano uomini ligi al nazismo. Avvolta in una simile maglia, alla fine del 1935 la comunità di Thalburg (la città presa in considerazione dall’autore del libro per la sua analisi e per il suo studio), culturale e morale, ha cessato di esistere.
Bibliografia:
William Sheridan Allen - “Come si diventa nazisti” - Einaudi 1968
Bretton Woods e il nuovo ordine internazionale
Nel primo dopoguerra la mancanza di collaborazione fra i paesi vincitori, il desiderio di umiliare e ridurre all'impotenza la Germania sconfitta, la scelta isolazionista degli Stati Uniti che pure erano emersi dal conflitto mondiale come la nazione egemone, per forza economica e militare, avevano concorso a un'instabilità economica, destinata a culminare nella grande crisi del 1929. Gli effetti erano stati devastanti e non ultima ragione dell'avvento e della diffusione in Europa dei regimi totalitari che avevano trascinato il pianeta in una nuova devastante guerra. Errori questi che i responsabili politici e gli esperti economici dei paesi occidentali erano questa volta decisi a evitare. Un mondo più pacifico e prospero e, nella speranza di molti, più democratico, richiedeva innanzitutto la creazione di un ordine economico internazionale più stabile. Le istituzioni create per tutelarlo vennero messe a punto ancor prima della fine del conflitto, nel luglio del 1944, in una conferenza internazionale alla quale parteciparono 44 nazioni e che si tenne a Bretton Woods, una cittadina del New Hampshire, Stati Uniti.
Le soluzioni economiche
La ricerca di un nuovo ordine economico internazionale non significava abbandonare i principi del mercato e della concorrenza, ma assicurare un contesto di sicurezza e stabilità all'attività economica. Uno dei problemi fondamentali era quello della stabilità monetaria, ovvero dei rapporti di cambio fra le monete dei diversi paesi. Nel periodo fra le due guerre infatti l'oscillazione nei cambi delle monete era stato uno dei principali ostacoli alla ripresa del commercio internazionale. Molti paesi avevano fatto ricorso alla svalutazione della propria moneta per rendere le esportazioni più competitive sui mercati. In questo modo avevano anche "esportato" la loro disoccupazione innescando una catena di reazioni protezionistiche. Già nel 1942 il grande economista inglese John Maynard Keynes aveva proposto la creazione di un'Unione di compensazione internazionale, dotata di una propria moneta, il bancor, che avrebbe dovuto concedere prestiti alle nazioni la cui bilancia dei pagamenti era passiva, ovvero le cui importazioni superavano le esportazioni e la cui moneta tendeva quindi a indebolirsi. La soluzione adottata a Bretton Woods fu un po' diversa. Il compito di concedere prestiti ai paesi la cui moneta era momentaneamente indebolita venne affidato a un Fondo Monetario Internazionale (International Monetary Fund)
e anzichè creare una nuova moneta, venne ricostituito un sistema analogo al Gold Exchange Standard, ovvero le varie monete vennero agganciate alla valuta americana - cioè legate da cambi quasi fissi - con una limitata oscillazione al dollaro di cui il governo statunitense assicurava la convertibilità in oro al prezzo di 35 dollari all'oncia.
Uno strumento per promuovere il commercio internazionale avrebbe dovuto essere un General Agreement on Tariffs and Trade (GATT) , ovvero un accordo multilaterale per limitare il ricorso alle pratiche protezionistiche e favorire quindi la libertà di commercio. Per questo però fu necessario attendere la fine della guerra e il primo Gatt venne sottoscritto a Ginevra nel 1947.
Il problema della ricostruzione
L'altro grande problema da affrontare riguardava la ricostruzione che richiedeva un impegno gigantesco dopo un conflitto ancora più distruttivo di quello precedente. Per finanziarla a Bretton Woods venne creata un'altra istituzione destinata a svolgere un ruolo importante, la BIRS (Banca internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo) più comunemente nota come Banca mondiale.
Mentre il Fondo monetario internazionale avrebbe dovuto concedere prestiti a breve termine, la Birs avrebbe dovuto erogare prestiti a lungo termine per finanziare la costruzione di infrastrutture e impianti nei paesi devastati. In realtà la ricostruzione post bellica dell'Europa occidentale venne affidata al cosiddetto Piano Marshall e, nei decenni successivi, la Banca mondiale si sarebbe occupata essenzialmente della promozione dello sviluppo nei paesi del Terzo Mondo.
Il sistema di Bretton Woods sarebbe rimasto in vigore fino al 1973 quando la decisione degli Stati Uniti di non rendere più il dollaro convertibile in oro fece venir meno una componente essenziale. Le altre istituzioni - Fmi, Banca Mondiale e Gatt - continuarono tuttavia a operare.
Il GATT è stato sostituito dall'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), conosciuta anche con il nome inglese di World Trade Organization (WTO).
L'OMC ha assunto, nell'ambito della regolamentazione del commercio mondiale, il ruolo precedentemente detenuto dal GATT.
La conferenza di Potsdam
Al presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt, morto il 12 aprile 1945, successe il suo vicepresidente Harry Truman, già senatore del Missouri, tipico democratico del Sud, di stampo conservatore, dunque pragmatico, diffidente, incline a considerare Stalin un dittatore comunista e non il «vecchio zio Joe» della retorica, o delle illusioni, dei rooseveltiani.
Fu Truman a presentarsi a Potsdam, un sobborgo di Berlino, il 17 luglio 1945, alla terza conferenza tripartita, dopo Teheran e Jalta.
Il tema principale era ovviamente la Germania, ormai arresasi, dopo il suicidio di Hitler: le zone di occupazione, i confini con la Polonia, e della Polonia con l'Urss. E poi, in generale, gli sviluppi della situazione nell'Europa centro-orientale.
La conferenza durò fino al 2 agosto, anche perché nel frattempo si svolsero le elezioni politiche in Gran Bretagna e, sorprendentemente, Winston Churchill, il solo vero «eroe» europeo nella lotta contro il nazismo, fu sconfitto, a vantaggio del Partito laborista: il suo posto fu preso da Clement Attlee.
Ma la vera novità di Potsdam fu un'altra. Il 16 luglio, il giorno dopo il suo arrivo, Truman ricevette dal segretario alla Guerra, Henry Stimson, «lo storico messaggio della prima esplosione di una bomba atomica», come egli stesso annotò nelle Memorie.
I preparativi della bomba atomica erano cominciati a livello teorico, già nel 1939. È del 2 agosto la celebre lettera che Albert Einstein inviò a Franklin Delano Roosevelt: «Signor Presidente, recenti lavori di Enrico Fermi e di Leo Szilard ( ... ) mi portano a supporre che l'elemento uranio possa nell'immediato futuro trasformarsi in una nuova e importante fonte di energia». La preoccupazione degli scienziati, che avevano lasciato l'Europa per sfuggire al nazifascismo, era che la Germania hitleriana potesse arrivare per prima ad imbrigliare, ad uso militare, la nuovissima e imprevedibile fonte energetica. Una preoccupazione nutrita anche dagli inglesi. E così Stati Uniti e Gran Bretagna avevano unito gli sforzi, sul piano delle ricerche scientifiche e delle prove di laboratorio, finché Roosevelt non diede il via, nel 1943, al cosiddetto «Progetto Manhattan», cioè alla fase operativa, guidata da Robert Oppenheimer. Il tutto nella più grande, totale segretezza. Lo stesso Truman ammise che, come vice presidente, aveva saputo poco o nulla di ciò che si andava preparando nel New Mexico e che solo dopo la morte improvvisa di Roosevelt ne era stato messo compiutamente al corrente.
Il segreto fu strettamente mantenuto anche a Potsdam, salvo che per Churchill, che naturalmente sapeva del «progetto», ma non dell'imminenza di un'esplosione sperimentale. Solo otto giorni dopo, il 24 luglio, Truman accennò «casualmente» a Stalin che gli Stati Uniti disponevano di «una nuova arma di una forza distruttiva particolare». La bomba atomica fu effettivamente impiegata, a Hiroshima il 6 agosto e a Nagasaki il 9.
Anche Stalin aveva capito benissimo la straordinaria, decisiva importanza, strategica e politica, della nuova arma: l’Unione Sovietica ne potè disporre a sua volta nel 1949.
l’ANPI lissonese li ricorda
Lissone, 17 giugno 1944
Nel giugno 1944 piombo nazifascista stroncava le giovani vite di cinque lissonesi : Attilio Meroni, fucilato in Valdossola, di anni 19, Pierino Erba, di anni 28 e Carlo Parravicini, di anni 23, fucilati a Lissone nell’attuale Piazza Libertà, Remo Chiusi e Mario Somaschini, di anni 23, fucilati a Monza in Villa Reale.
Nel 67° anniversario del loro sacrificio per la liberazione dell’Italia dall’occupazione nazista e dal regime fascista, l’ANPI lissonese li ricorda.
In seguito ad alcune nostre ricerche presso gli Archivi di Stato di Milano, abbiamo rinvenuto i documenti originali che attestano l’avvenuta esecuzione dei nostri concittadini, operata da membri delle SS naziste e squadristi della Repubblica Sociale Italiana.
La conferenza di Jalta
Roosevelt, Stalin e Churchill si incontrarono a Jalta, stazione climatica della Crimea, dal 4 all' 11 febbraio 1945.
I cosiddetti «tre Grandi», cioè appunto Roosevelt, Stalin e Churchill, si erano già incontrati a Teheran dal 28 novembre al 1° dicembre 1943, per decidere l'attacco finale alla Germania, la cui sconfitta appariva ormai certa, ma era ancora lontana. Quasi un anno dopo, dal 9 al 19 ottobre 1944, c'era stato un altro incontro a Mosca, questa volta tra Stalin e Churchill, con gli Stati Uniti rappresentati dall'ambasciatore Averell Harriman, in qualità di «osservatore». E semmai proprio in quell'occasione ci fu qualcosa di simile a un mercanteggiamento tra Est e Ovest sulle future aree d'influenza (il famoso appunto di Churchill sul 90 per cento d'influenza sovietica in Romania contro il 90 per gli occidentali in Grecia, più il 75 per l'Urss in Bulgaria e il 50 a testa in Ungheria e Jugoslavia, appunto che Stalin approvò con un tratto di matita blu).
A quel tempo, vigeva ancora la promessa o l'impegno di Roosevelt, secondo cui le truppe americane si sarebbero ritirate dall'Europa entro due anni dalla fine della guerra; e quindi, in teoria, era la Gran Bretagna la più diretta interessata a quel che sarebbe successo nel continente, una volta chiusa la partita col nazismo.
Dominante, per Roosevelt, era quello di un'organizzazione internazionale capace di tenere sotto controllo le crisi future in tutto il mondo, e tale anche da essere approvata dal Congresso di Washington, fugando il pericolo di un nuovo isolazionismo, come quello che si era manifestato, col rifiuto della Società delle Nazioni, dopo la prima guerra mondiale.
Il presidente americano, nonostante le sue declinanti condizioni di salute, si sottopose a un lungo viaggio per mare,. con una tappa a Malta, per definire con Churchill una posizione comune, per poi proseguire insieme in aereo da Malta a Jalta.
Diverse furono le decisioni prese, dal 4 all'11 febbraio, a Jalta.
Sulla Germania, ormai prossima alla disfatta, fu abbandonata di fatto !'idea di uno «smembramento» e prevalse quella di una divisione in zone di occupazione, in attesa di definire lo status futuro (una zona, ricavata da quelle anglo-americane, fu accordata anche alla Francia).
Il tema centrale fu la Polonia, che era già interamente occupata dalle truppe sovietiche. Il suo governo in esilio, a Londra, il governo antinazista, era stato sconfessato da Mosca, che aveva concesso il suo riconoscimento al cosiddetto Comitato di Lublino, filocomunista, trasformato in governo provvisorio. L'obiettivo occidentale, scartata l'ipotesi di resuscitare il governo in esilio, era quello di dare vita a una formazione politica nuova e diversa. Il compromesso consistette in questo, che il Comitato-governo di Lublino sarebbe stato «riorganizzato su base più ampia», includendovi anche elementi «dell'emigrazione polacca» (Londra) e avrebbe quindi preparato libere elezioni «con tutti i partiti democratici e antinazisti». L'accettabilità del compromesso era rafforzata da una «Dichiarazione sull'Europa liberata», che prevedeva per tutti i Paesi usciti dal tunnel nazifascista «l'istituzione, il più presto, mediante libere elezioni, di governi rappresentativi della volontà della popolazione».
Un altro tema fu l'Onu, la cui conferenza istitutiva si sarebbe aperta a San Francisco il 25 aprile. Come sistema di voto nel Consiglio di sicurezza, venne stabilito che sarebbe stato necessario il voto unanime dei membri permanenti.
Infine, la conferma di Stalin dell'imminente entrata in guerra (peraltro strategicamente ormai inutile) contro il Giappone.
Roosevelt e Churchill ripartirono da Jalta molto soddisfatti. La delusione fu rapida. Passato un mese, si cominciò a vedere in che conto Stalin tenesse l'accordo sulla Polonia.
Il presidente degli Stati Uniti, ormai alla vigilia della morte, scrisse a sua volta a Stalin che, se fosse continuato il tentativo sovietico di dare tutto il potere al governo filocomunista di Lublino, «il popolo americano avrebbe considerato l'accordo di Jalta un fallimento».
Franklin Delano Roosevelt morì il 12 aprile, due mesi dopo la chiusura a Jalta.
Sotto la sua guida, (eletto quattro volte alla Casa Bianca, fu considerato un grande presidente per ragioni di politica interna oltre che estera, per aver salvato il sistema economico americano e anche occidentale dalla grande crisi degli anni Trenta, prima di portare definitivamente la potenza d'oltreoceano nell'agone mondiale), gli Stati Uniti sperarono in una ragionevole intesa post-bellica con l'alleato sovietico. E infatti lasciarono che l'Armata Rossa, che certo veniva da prove tremende e che aveva dato un contributo enorme al rovesciamento delle fortune hitleriane, dilagasse nell'Europa centro-orientale fin nel cuore della Germania, a Berlino.
Con la sua morte si aprì una nuova fase, molto più acuta, del confronto russo-americano, sulla testa dell'Europa, mentre stava per uscire di scena lo stesso Churchill.
Il massacro di Katyn
Katyn si trova a 14 chilometri da Smolensk (città della Russia, 362 chilometri a sudovest di Mosca). Nella primavera del 1940 le truppe dell'NKVD (Narodny Kommisariat Vnutrennikh Del, Commissariato del popolo agli affari interni, la polizia segreta sovietica) uccisero oltre 4000 ufficiali polacchi internati nel 1939 nell'URSS (dopo l'attacco simultaneo della Germania e dell'Unione Sovietica alla Polonia).
Il 23 agosto 1939 fu firmato a Mosca il tristemente celebre patto Ribbentrop-Molotov; Ribbentrop era ministro degli Esteri tedesco, Molotov era il capo del Governo sovietico.
Il 1° settembre, la III armata tedesca, venuta da nord, si ricongiunge ad est di Varsavia con la X, venuta dalla Slesia. La capitale polacca è messa sotto assedio. Tre giorni dopo, anche l’Armata Rossa di Stalin entra in Polonia, senza dichiarazione di guerra, in virtù del Patto di non aggressione concordato con Hitler, che prevedeva una divisione dello sfortunato Paese. Varsavia cade il 27 settembre, dopo una eroica resistenza.
Con la divisione della Polonia, l’URSS ricevette il 52% del territorio e un terzo degli abitanti del Paese, di cui circa 250.000 soldati e ufficiali dell’esercito polacco.
A differenza dei semplici soldati, gli ufficiali dell’esercito polacco, gli agenti di polizia, gli agenti dei servizi segreti e così pure i dipendenti e i funzionari dei tribunali furono internati nei campi di concentramento nei pressi di Kozielsk, Starobielsk e Ostachkov.
Oltre 15.000 furono i prigionieri di guerra polacchi uccisi nell’aprile del 1940 per fucilazione da parte di truppe speciali del NKVD.
Nell’Europa del 1940, quando l’URSS stalinista, dopo aver spartito la Polonia, invase e sconfisse la Finlandia, annesse i Paesi Baltici, e mentre la Germania nazista occupava i Paesi dell’Europa del Nord, costringendo la Francia a capitolare, e preparava l’invasione dell’Inghilterra, il destino dei prigionieri di guerra polacchi finì pressoché dimenticato dalla pubblica opinione. Solo alcune famiglie di ufficiali polacchi detenuti, che fortunatamente non erano state deportate, notarono che, nel marzo-aprile 1940, la corrispondenza con i loro parenti internati nei campi sovietici s’interruppe bruscamente e che le lettere ritornavano ai mittenti con un timbro postale “destinatario trasferito”.
Da un rapporto di Beria, ritrovato negli archivi segreti sovietici, «gli ufficiali prigionieri di guerra e gli agenti di polizia che si trovano nei campi tentano di continuare l’attività controrivoluzionaria, conducendo delle agitazioni antisovietiche ...». Il capo del NKVD dichiarò che «gli ufficiali dell’esercito polacco, gli agenti di polizia erano tutti nemici giurati del potere sovietico, pieni di odio verso il sistema sovietico»
La conclusione logica era che lasciarli in vita avrebbe gravemente nuociuto alla sicurezza dello Stato e che la loro eliminazione era la sola soluzione possibile.
Oltre a queste considerazioni riguardanti la sicurezza dello Stato, il massacro di Katyn è un caso di imperialismo e rientra nei tentativi secolari da parte dei russi di dominare la Polonia. L’URSS stava per invadere più della metà del territorio polacco e i dirigenti sovietici erano determinati a eliminare quei membri della nazione che, in futuro, avrebbero potuto condurre la lotta per la resurrezione della loro patria. Inoltre, non si deve sottovalutare un fattore psicologico: secondo diversi indizi, Stalin nutriva una avversione e una diffidenza particolare verso i Polacchi, ricordando l’umiliante sconfitta subita dall’Armata Rossa vicino a Varsavia nel 1920, nella quale egli aveva avuto una responsabilità diretta.
Il 22 giugno 1941, la Germania invase l’Unione Sovietica e, nel luglio e agosto dello stesso anno, i territori in cui si trovavano i campi degli ufficiali polacchi furono occupati dai tedeschi.
Il massacro di Katyn è esemplare per due caratteristiche comuni a tutti i sistemi totalitari moderni del XX secolo: l’utilizzo sistematico del terrore di massa come mezzo di ordinaria amministrazione e il ruolo dell’ideologia come guida del terrore.
I sistemi totalitari tentano, così di creare una nuova società, utilizzando i metodi «scientifici» dell’igiene sociale e della «purificazione» dal «contagio borghese».
Il terrore ideologico, fondato sull’idea della purificazione della società dai corpi estranei e nocivi, dei parassiti sociali, definiti in base all’appartenenza di classe sociale antagonista o al gruppo etnico nemico, e l’uso della violenza rappresentano il denominatore comune del regime nazista e del regime stalinista. Ai loro inizi, si posero come obiettivo l’eliminazione fisica non solamente degli oppositori politici, ma anche di intere categorie di cittadini, considerati come avversari per la loro stessa esistenza: la distruzione di «nemici oggettivi» o dei «nemici del popolo», gli uni individuati in base alla loro provenienza etnica, gli altri dallo loro classe di provenienza.
Nel dibattito ancora aperto sui totalitarismi, il massacro di Katyn rappresenta un caso emblematico della politica di «pulizia di classe» come Auschwitz fu una «pulizia etnica».
Nella primavera del 1943, una commissione tecnica della Croce Rossa polacca giunse alla conclusione che il massacro era avvenuto nella primavera del 1940. La commissione polacca decise comunque di non pubblicare le sue conclusioni per non fare il gioco della propaganda nazista. L’unica copia del rapporto fu trasmesso al governo inglese che dichiarò il documento ultrasegreto e lo tenne nascosto per quarantacinque anni. Il rapporto venne pubblicato solamente nel 1989.
Dopo la guerra, a Norimberga, la corte, composta da giudici delle forze alleate vincitrici, decretò che, tenendo conto che il crimine non era stato eseguito dai tedeschi (il pubblico ministero sovietico si trovò di fronte una difesa agguerrita, capace di provare che il massacro di Katyn non era opera dei tedeschi), non aveva il mandato per eseguire una nuova inchiesta. Inoltre, il governo sovietico non riuscì a chiudere l’affare di Katyn, perché il tribunale lo escluse dalla sentenza finale per mancanza di prove.
Solamente nel 1990 Mikhail Gorbachev ammise la responsabilità sovietica del massacro.
2 giugno 2011: festa della Repubblica italiana
In occasione della Festa della Repubblica
GIOVEDÌ 2 giugno, dalle ore 9 alle 13 in Piazza Libertà, , presentazione delle attività dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia Sezione “Emilio Diligenti” di Lissone.
Verranno distribuite copie della Costituzione italiana.
LUNEDÌ 6 giugno, alle ore 21,00 in Via S.Martino 34, presso la sede dell’Associazione Teatro dell'Elica di Sergio Missaglia (Cortile delle Scuole Medie B. Croce) , spettacolo teatrale
“NON SOLO CARTA
Breve viaggio nella Costituzione della Repubblica Italiana”. Ingresso libero.
Non è solo un pezzo di carta la Costituzione Italiana: è la tappa fondamentale della nascita dell’attuale Stato democratico, la mappa che ha orientato sessant’anni di vita e di governo degli italiani.
Un argomento che quindi tutti dovrebbero conoscere, ma che spesso viene dato per scontato.
Attori, pupazzi, immagini e musica accompagnano il pubblico in questo breve ma intenso viaggio che tocca i temi del lavoro, dell’uguaglianza, dell’istruzione, della guerra.
Con: Marco Clerici, Damiano Giambelli, Anna Mariani, Tatiana Milan
Coordinamento alla Regia: Cristina Discacciati
Immagini, scene e costumi: Teatro dell’elica
Pupazzi: Damiano Giambelli
Suoni e musiche: Marco Clerici, Damiano Giambelli
«I valori che ci uniscono come cittadini italiani sono proclamati solennemente nei primi dodici articoli della carta costituzionale, principi semplici e chiari scolpiti nei nostri cuori: la democrazia, i diritti inviolabili dell'uomo, i doveri inderogabili di solidarietà, l'eguaglianza e la pari dignità di tutti i cittadini davanti alla legge; il diritto e il dovere del lavoro; l'unità indissolubile della repubblica, nel rispetto delle autonomie locali; la promozione della cultura; la difesa della Patria; l'impegno per la pace». Carlo Azeglio Ciampi, decimo Presidente della Repubblica Italiana
2 GIUGNO 2011: LA REPUBBLICA E LA COSTITUZIONE
Vi è un legame indissolubile fra la Repubblica e la Costituzione: hanno le loro comuni radici nella Resistenza, quale moto popolare di donne e di uomini che ha liberato il Paese dall’occupazione tedesca, dalla dittatura fascista e riunificato l’Italia.
La guerra di Liberazione e poi la proclamazione della Repubblica pongono un suggello al Risorgimento ed a una rinnovata unificazione del Paese, facendo riconoscere gli Italiani, non più e non solo in confini geografici, ma in valori e precetti comuni: quelli della Carta Costituzionale!
La Costituzione è base della nostra libertà e del nostro vivere civile.
In essa sono scolpiti i pilastri della nostra democrazia:
· i diritti umani e sociali, la partecipazione della cittadinanza alla vita sociale e politica;
· la passione egualitaria, cioè la passione verso i diritti di cittadinanza, ugualmente riconosciuti a tutti. A partire dal diritto al lavoro e alla formazione, eliminando gli impedimenti e gli ostacoli e creando le condizioni al suo esercizio effettivo;
· l’autonomia e la separazione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), compreso quello dell’informazione; e la loro indipendenza, la loro laicità e l’equilibrio tra di essi.
La Costituzione è come un albero, radicato nella terra in cui nasce e cresce. Si può potarlo o innestarlo, ma non si può sradicarlo dalla sua terra, senza farlo morire.
Oggi questi pilastri e questi principi sono a rischio. E dunque la stessa democrazia può entrare in crisi e correre rischi di svuotamento e di involuzione.
Gli attacchi del Governo e della sua maggioranza parlamentare alla Costituzione e alle Istituzioni di garanzia, finiscono per delegittimare le regole fondamentali su cui si basa la civile convivenza e sulle quali si può costruire, per i giovani, una vita serena e dignitosa ed una speranza per il futuro.
Noi non possiamo più tollerare gli insulti alla Corte Costituzionale ed alla Magistratura, le surrettizie proposte di modifica all’articolo 1 della Costituzione, così come quella di abolire il divieto di ricostituzione del Partito Fascista.
Non casuali, crediamo altresì, sono i tentativi tardivi del Governo di artificiose modifiche di legge sui temi posti all’attenzione della popolazione dai prossimi referendum su Acqua, Nucleare e legittimo impedimento; questi escamotage legislativi tendono esclusivamente a vanificare il diritto al voto delle elettrici e degli elettori.
Noi non ci rassegniamo!
ANPI Lissone
Corso di storia del Risorgimento
È «nella ricchezza delle diversità delle nostre contrade, quel "sapore d'Italia" che viaggiatori del presente e del passato hanno sempre avvertito, che è natura, arte, lingua, cultura, modo di vita. Le radici dell'italianità sono antiche. È antica la nostra nazione. Ma le origini del nostro Stato sono assai più vicine. Risalgono all'inizio dell'Ottocento, allorché uno stuolo di uomini di pensiero, poeti, letterati, filosofi, economisti, mossi da un grande amore per l'Italia, animati da un profondo senso etico, da alti ideali e principi, diventarono anche uomini d'azione, e uomini di Stato». Carlo Azeglio Ciampi, decimo Presidente della Repubblica Italiana
“IL RISORGIMENTO E LE SUE EREDITÀ”
CORSO di STORIA
In occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, la Sezione lissonese dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia organizza un corso di storia del Risorgimento italiano.
Tre saranno le lezioni che il prof. Giovanni Missaglia (docente di Storia e Filosofia presso il Liceo Scientifico “Frisi” di Monza) terrà presso la sede dell’ANPI di Piazza Cavour 2 a Lissone.
Gli argomenti trattati saranno:
1) LA CONQUISTA DELL'UNITA'
2) LA QUESTIONE ROMANA: LO STATO E LA CHIESA CATTOLICA
3) LA QUESTIONE ISTITUZIONALE: ITALIA UNA E INDIVISIBILE?
Il corso è gratuito.
Le lezioni si terranno con il seguente orario: dalle ore 18 alle ore 19.30, nei seguenti lunedì:
1) 23 maggio
2) 30 maggio
3) 6 giugno
Per partecipare al corso, occorre iscriversi telefonando al numero 039 480229 (negli orari d’ufficio) o inviando una mail a anpilissone@libero.it
Il corso è aperto sia agli studenti delle scuole superiori sia a coloro che intendono approfondire le loro conoscenze sul nostro Risorgimento.