La scuola in guerra
Lo scoppio della seconda Guerra Mondiale coinvolse la scuola nel crescente sforzo richiesto alla Nazione. Un fiume in piena di retorica, di falsi miti, di false speranze, falsi messaggi travolse e stordì i bambini e i ragazzi.
Fino all'ultimo, quando ormai la realtà contraddiceva le parole, fu prospettata loro la vittoria come sempre più vicina, a portata di mano. In sostanza veniva chiesto alla scuola un importante contributo: mantenere unito il "fronte interno". Come sempre per tutta la durata del fascismo essa era la chiave segreta per aprire la porta della famiglia.
DISCIPLINA DEL CONSUMO DELLA CARTA
Nell'agosto del 1941 vennero disciplinate la produzione e l'utilizzazione della carta in relazione "alle superiori esigenze belliche". La scuola, essendo grande consumatrice di carta, avrebbe potuto fare molto in questo campo; allo stesso tempo gli alunni - a detta del ministro - sarebbero stati fieri di dare il loro piccolo aiuto alla Patria.
Gli insegnanti furono così costretti a ridurre il numero e la mole dei quaderni e a controllare che, prima di passare ad un nuovo quaderno, il vecchio fosse veramente finito. L'anno successivo furono richiesti maggiori sacrifici, poiché era necessario ridurre ulteriormente il consumo della carta. Bottai inviò precise disposizioni alle scuole: i quaderni dovevano essere ridotti al minimo, sia come numero che come quantità di pagine; non si poteva più foderarli con speciali carte pesanti o colorate; gli scritti che dovevano essere consegnati agli insegnanti andavano eseguiti su "mezzi fogli" di carta di quaderno o, in qualche caso, su "mezzi fogli" di carta protocollo. Le scuole dovevano adottare "formati ridotti" nel rinnovare le scorte di registri, moduli e stampati di ogni genere; nella corrispondenza si dovevano evitare le doppie minute di lettere. Il ministro contava, oltre che sulle economie dirette, anche e soprattutto sulla vasta azione che la scuola era in grado di compiere presso le famiglie nel diffondere "la coscienza delle necessità imposte dall'ora presente", tra le quali la più urgente era senza dubbio quella di ridurre al minimo tutti i consumi.
IL CONTRIBUTO DELLA SCUOLA ALL'ECONOMIA DI GUERRA
"La Scuola Fascista" non poteva certo tirarsi indietro in un momento particolarmente delicato. La sua collaborazione allo sforzo che il Paese stava compiendo "per incrementare la produzione sia nel campo militare che in quello attinente alla vita civile" era considerata della massima importanza.
Tra il 1941 e il 1942, con una serie di circolari dal tema fisso ''Azione della Scuola per la guerra", si istituirono gli "orti di guerra", le esercitazioni femminili furono impiegate per la confezione di indumenti per l'esercito; su deliberazione del Duce si decise di indire la "Giornata del Fiocco di lana". Le scuole di ogni ordine e grado furono mobilitate nella lotta contro gli sprechi e nella raccolta dei rifiuti.
Orti di guerra e lavori agricoli stagionali
Gli scolari, sotto la guida dei propri insegnanti, dovettero quindi cimentarsi nella coltivazioni di piccoli orti, posti su terreni incolti o comunque destinati a prato o giardino, spesso in prossimità della scuola. Parte del raccolto (patate, barbabietole ecc..), che serviva quale contributo alla produzione agricola nazionale, andava anche a beneficio della refezione scolastica o delle locali colonie elioterapiche. Capitava non di rado che i risultati fossero scarsi, per la scarsità o mancanza di sementi e per il cattivo tempo.
Tenuto conto della crescente importanza degli "orti di guerra" nella grave situazione alimentare di quel periodo, gli scolari "più volenterosi" dovevano continuare anche durante le vacanze estive a prestare la loro opera, affinché non fossero compromessi i frutti del lavoro compiuto durante l'anno scolastico. Non vi era alcun obbligo, ma naturalmente si puntava sull'opera di propaganda e persuasione svolta dagli insegnanti, i quali sottolineavano “il profondo significato patriottico del contributo dato".
Raccolta della lana e produzione di indumenti per i militari
Una iniziativa che coinvolse attivamente gli scolari fu la raccolta della lana, che doveva servire a garantire una buona scorta di filato per confezionare indumenti di lana per i combattenti. A tale scopo fu istituita "La Giornata del Fiocco di lana" dedicata alla raccolta del "prezioso" materiale.
Nessuno doveva sottrarsi dal compiere il proprio dovere. La lana raccolta nelle scuole veniva poi consegnata ai Fasci femminili, i quali, attraverso l'organizzazione delle massaie rurali e con la collaborazione tecnica dell'Ente Nazionale del Tessile, provvedevano a trasformare i fiocchi in filato. Il filato ottenuto era poi parzialmente restituito alle scuole ed usato dalle alunne - nelle ore di "Esercitazioni di lavoro femminile" - per la confezione di indumenti da montagna e coloniali per l'esercito.
Lotta contro gli sprechi e raccolta di rifiuti
Anche in questo campo la scuola, intensificò la sua azione di propaganda e di persuasione per fare in modo che gli scolari e le loro famiglie riducessero al minimo i consumi e contribuissero, con la raccolta e la consegna dei rifiuti (rottami di ferro) e degli oggetti rimasti inutilizzati nelle case, "alla lotta intrapresa per fronteggiare le esigenze delle varie produzioni nazionali". Tra gli scarti il più ricercato dall'Ente distribuzione rottami era lo "scatolame stagnato". Si raccomandava di conservarlo ben pulito ed in locali asciutti, soprattutto per evitare che l'ossidatura del ferro, a causa dell'umidità, potesse determinare l'eliminazione dello stagno.
Si giunse persino alla requisizione delle cancellate metalliche; le scuole non sfuggivano a questo provvedimento. Ha del paradossale una circolare di Bottai con cui il ministro suggeriva nuovi sistemi di recinzione nelle scuole con piante e fiori:
"Mi sarà gradito pertanto ricevere a tempo opportuno qualche fotografia più significativa di scuole che avranno adottato recinti arborei o floreali e che avranno ingentilito con piante e fiori l'aspetto interno ed esterno degli edifici”.
PROPAGANDA PATRIOTTICA E DI GUERRA
Il ruolo del maestro - che in genere seguiva pedissequamente le direttive del regime in questo frangente era ritenuto della massima importanza. A lui spettava il compito di esaltare tra i ragazzi quelli che venivano definiti "i valori ideali e rivoluzionari del conflitto, i suoi principi e le sue finalità storiche, politiche e sociali" (con ampio stravolgimento della realtà). In particolare in una circolare per l'anno scolastico 1942-43 - dal titolo significativo "La Scuola per la Vittoria - gli veniva espressamente richiesto di celebrare le "virtù della razza" e di manifestare fraterna simpatia per i camerati tedeschi, nipponici ed alleati". In questa opera di propaganda la sua parola giungeva anche alle famiglie degli alunni, attraverso i contatti tra scuola e famiglia, nel tentativo di mantenere quel consenso al regime che, in ogni caso, la guerra stava minando. Strettamente collegate alla propaganda erano alcune iniziative che vedevano coinvolti gli stessi scolari, quali l'assistenza alle famiglie dei combattenti, la visita di rappresentanze scolastiche ai feriti, la corrispondenza con i militari in guerra. In qualche provincia gli alunni venivano persino "utilizzati" per badare ai posti di ristoro per militari organizzati nelle stazioni, o ancora, per la formazione di squadre di vigili del fuoco.
Bibliografia:
- “A scuola col duce – l’istruzione primaria nel ventennio fascista” di Elena D'Ambrosio ricercatrice dell’Istituto di Storia Contemporanea "P. A. Perretta"
- Le immagini sono della mostra “A scuola col duce – l’istruzione primaria nel ventennio fascista” dell’Istituto di Storia Contemporanea "P. A. Perretta" di Como
Lissone: a scuola durante la seconda guerra mondiale
Per conoscere meglio quello che avveniva nelle aule di una scuola elementare durante gli anni della seconda guerra mondiale, ho analizzato il contenuto delle pagine del «Giornale della classe» (l’attuale registro), riservate alla "Cronaca ed osservazioni dell’insegnante sulla vita della scuola", negli anni scolastici, dal 1939 al 1945.
Dall’esame dei «Giornali» di alcune quinte elementari, maschili e femminili, di Lissone, di tre diverse scuole, Vittorio Veneto, Via Aliprandi e Santa Margherita, si scopre, oltre a ciò che veniva raccontato agli alunni dai loro maestri, in che modo la scuola e gli scolari erano coinvolti nelle manifestazioni della loro comunità locale, nelle celebrazioni del regime e negli avvenimenti del loro Paese in guerra.
Ho preferito ritrascrivere alla lettera alcune osservazioni degli insegnanti, ritenendole significative ed esaurienti ad illustrare il mondo della scuola elementare sotto la dittatura fascista: le immagini ne riproducono alcune, scritte di proprio pugno dal maestro o dalla maestra.
Sul «Giornale della classe» di una quinta elementare, nei giorni seguenti la Liberazione, un maestro ha scritto: "Il 25 aprile 1945 l’Italia settentrionale veniva liberata dal terrore nazifascista … Da quel giorno, finalmente la Scuola ha ripreso il suo carattere di seria educatrice della gioventù …". Penso che ciò sintetizzi anche la mia opinione dopo la lettura di molti “Giornali della classe” del ventennio fascista.
Renato Pellizzoni
La ricerca negli archivi scolastici e negli archivi comunali di Lissone è stata condotta con la collaborazione di Maurizio Parma, ricercatore e profondo conoscitore di storia locale.
Bibliografia:
- “A scuola col duce – l’istruzione primaria nel ventennio fascista” di Elena D'Ambrosio ricercatrice dell’Istituto di Storia Contemporanea "P. A. Perretta"
- Le immagini sono della mostra “A scuola col duce – l’istruzione primaria nel ventennio fascista” dell’Istituto di Storia Contemporanea "P. A. Perretta" di Como
Giuseppe Parravicini, un giovane lissonese ad Auschwitz
Nel seguente articolo ho ricostruito alcuni fatti salienti della vita di Giuseppe Parravicini, deportato politico ad Auschwitz, grazie ai documenti conservati dal figlio Ermes nell’archivio di famiglia. Ad Ermes Parravicini l’ANPI di Lissone ha consegnato la tessera ad honorem alla memoria del padre nel “Giorno della Memoria” 2010.
La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, come "Giorno della Memoria".
Giuseppe Parravicini nasce a Lissone il 7 febbraio 1921 da Protasio e Giuditta Morganti. Frequenta la scuola elementare presso il collegio Pio XI di Desio. Si iscrive poi alla scuola secondaria di avviamento professionale con indirizzo commerciale presso lo stesso collegio, conseguendone il diploma nell’agosto del 1935.
Inizia a lavorare come garzone, all’eta di quattordici anni, presso una ditta di Lissone, poi, dal luglio del 1939, presso la concessionaria della Fiat a Desio.
Svolge il servizio militare e viene congedato il 23 febbraio 1940 con destinazione ai servizi sedentari.
Viene assunto alla Garelli di Sesto San Giovanni in qualità di apprendista motorista addetto alla sala prove.
Dopo l’8 settembre 1943, entra a fa parte della 107ma Brigata Garibaldi SAP (Squadre di azione patriottica).
Nelle fabbriche sestesi e in Brianza dopo l’8 settembre non regnò la rassegnazione assoluta verso ciò che stava accadendo. Ci furono persone che cercarono di opporsi alla nuova realtà e si organizzarono per agire.
Le SAP erano piccoli gruppi di uomini che vivevano generalmente nelle loro cittadine, svolgendo il proprio lavoro e che venivano chiamate clandestinamente a svolgere azioni di propaganda, come volantinaggi notturni e distribuzione di stampa antifascista, atti di sabotaggio, fino ad azioni di recupero di armi sottratte a militi colti in solitudine e ad azioni più complesse, terminate le quali il sappista tornava ad inserirsi nel tessuto di sempre.
Le Sap, scriverà Luigi Longo, Comandante Generale delle Brigate d’assalto “Garibaldi”, sono state «il tentativo - in gran parte riuscito - di giungere a mobilitare, via via, in modo organico, la maggior parte della popolazione». E crediamo si possa aggiungere, che esse sono state, per la concezione e la portata del fenomeno, uno strumento di lotta originale e forse unico nella Resistenza europea nonché il fattore decisivo e insostituibile nella preparazione e nell'affermazione dell'insurrezione nel capoluogo lombardo. La denominazione di “Brigate Garibaldi” era stata assunta in ricordo della guerra antifranchista di Spagna.
Il ventiduenne Giuseppe Parravicini svolge funzioni di proselitismo antifascista tra i lavoratori della Garelli, l’azienda in cui presta la sua opera. Come attivista politico antifascista, gli vengono assegnati diversi incarichi, tra cui la costituzione di comitati di agitazione nelle fabbriche di Lissone e di Sesto San Giovanni e la creazione di GAP, Gruppi di Azione Patriottica. Aveva inoltre funzione di collegamento con altri centri in cui si stavano sviluppando le prime forme di resistenza al regime fascista e all’occupazione nazista.
Il 16 giugno 1944, anche in seguito ai tragici avvenimenti lissonesi (arresto e fucilazione dei quattro antifascisti lissonesi, Pierino Erba, Remo Chiusi, Mario Somaschini e Carlo Parravicini, suo cugino), Giuseppe Parravicini veniva ricercato.
Abbandonava il suo posto di lavoro e si dava alla macchia. Il 3 luglio 1944 veniva arrestato dalla Polizia speciale politica di Via Copernico di Milano e sottoposto a pesanti interrogatori. Era poi tradotto al carcere di San Vittore.
Il 15 luglio 1944 veniva deportato ad Auschwitz (il lager era ubicato a nord-est di Cracovia, in Polonia).
Incalzati dal dilagare della lotta partigiana nei territori occupati della Polonia e della Russia, i nazisti decisero la creazione di un Lager che, oltre a quelli già esistenti e che si dimostravano inadatti alle bisogna, potesse ospitare un gran numero di deportati insieme ad una complessa infrastruttura di imprese ed industrie alle quali adibire la manodopera concentrazionaria. Questo campo doveva inoltre rendere possibile la effettiva, efficiente e sollecita attuazione della «soluzione finale» del problema ebraico, cioè lo sterminio degli ebrei europei.
Nei pressi del villaggio polacco di Oswjecim fu individuato un vasto terreno demaniale che circondava una caserma d'artiglieria in disuso. Questo complesso di 32 edifici poteva costituire il nucleo ideale per l'installazione del Lager, che entrò in funzione nel maggio 1940.
Il campo aveva una capacità di almeno 100.000 persone. Nello stesso tempo fu anche deciso di costruirvi uno stabilimento per la produzione di gomma sintetica della IG Farben, che avrebbe assorbito i primi contingenti di deportati. Rigorosamente isolato dal resto del mondo, brulicava di deportati, uomini e donne, provenienti da tutti i paesi invasi ed occupati dai nazisti. Auschwitz era una vera e propria zona industriale, in pieno fervore di attività. La manodopera non mancava, continuamente sostituita da nuovi arrivi dato che la disciplina, la denutrizione, il clima, la fatica contribuivano alla falcidia dei deportati.
Nella foto buoni per ritirare del pane e della zuppa durante i turni di lavoro alla Farben, rimasti a Giuseppe Parravicini al suo rientro in Italia.
Dopo il suo arresto avvenuto il 3 luglio 1944, i parenti erano all’oscuro della sua sorte. In una testimonianza manoscritta, del luglio 1944, conservata nell’archivio personale di famiglia, la madre di Giuseppe Parravicini, Giuditta, rimasta vedova da sei mesi (il marito Protasio era deceduto nel gennaio all’età di 56 anni), così racconta:
«Dopo l’arresto di mio figlio, il mio cuore non aveva più pace, né giorno né notte. Lavoravo allora alla Brugola di Lissone da dove ho iniziato le mie ricerche. Prima a Monza, alla Villa Reale, poi al Comando tedesco, al Commissariato delle prigioni in Piazza Trento e Trieste, al Palazzo della G.I.L.: inutilmente. Allora mi recai a Milano: alla sede della questura di via Copernico, poi alla caserma nei pressi della stazione Centrale, al carcere di San Vittore ed infine al Palazzo di Giustizia dove seppi da un impiegato che mio figlio era in Germania ad Auschwitz. Era una giornata di bombardamenti su Milano tanto che dubitai di far ritorno a casa».
Il 12 dicembre 1944 Giuseppe Parravicini è ricoverato nel lazzaretto del lager per pleurite.
Il 17 gennaio 1945 le armate russe avanzano decisamente in direzione di Cracovia: il campo viene sgombrato.
In seguito all’avanzata dei Russi, Giuseppe Parravicini viene trasferito a Bielitz (Alta Slesia, vicino al confine cecoslovacco) e poi all’ospedale San Vincenzo di Linz, in Austria.
Documento rilasciato dall’ospedale austriaco
Nel marzo 1945 riesce a farsi rimpatriare per malattia; passata la frontiera a Tarvisio, stremato, il 7 marzo si fa ricoverare all’Ospedale civile “San Michele” di Gemona del Friuli. Diagnosi pleurite. Dopo le prime cure, il 21 marzo 1945, in seguito ad un miglioramento, esce dall’ospedale.
Con mezzi di fortuna arriva a Lissone il 22 marzo 1945. Ristabilisce i contatti con le forze della Resistenza. Entra a far parte della 119ma Brigata Garibaldina Di Vona.
La 119a Brigata Garibaldi era intitolata a Quintino Di Vona insegnante, nato a Buccino (Salerno) il 30 novembre 1894, fucilato a Inzago (Milano) il 7 settembre 1944.
Militante socialista, , il professor Di Vona aderì, nel 1921, al Partito comunista. Il professore, inquadrato nella 119ma Brigata Garibaldi, partecipò a numerosi atti di guerriglia.
Catturato in seguito a delazione da militi della Brigata Nera di Monza (che giunsero a Inzago all'alba del 7 settembre), Di Vona fu, per ore ed ore, picchiato a sangue. Dalle sue labbra non uscì una parola che potesse danneggiare la Resistenza. Nel primo pomeriggio i fascisti, al comando di un sottufficiale delle SS germaniche, trasportarono con un camion l'insegnante nella piazza principale del paese. Qui Di Vona fu fucilato da un manipolo di imberbi militi in camicia nera.
A Lissone Giuseppe Parravicini entra a far parte del Comitato di Liberazione Nazionale lissonese.
L’attestazione, datata 26 aprile 1945, è firmata da Gaetano Cavina, Attilio Gelosa e Agostino Frisoni, i tre dirigenti del CLN lissonese, socialista, democristiano e comunista, oltre a Riccardo Crippa del Comando Militare di Piazza di Lissone.
Nella foto del 27 aprile 1945 i membri del CLN lissonese, il Sindaco con i componenti della prima Amministrazione comunale straordinaria dopo la liberazione dall’occupazione nazista e dalla dittatura fascista (Giunta e Consiglio comunale). Giuseppe Parravicini è seduto, il primo a destra.
Il I maggio a Lissone si svolge una grande manifestazione, in occasione della festa dei lavoratori. È la prima dopo la Liberazione dell’Italia dall’occupazione nazista e dal regime fascista: il fascismo aveva abolito la festa del primo maggio e aveva accorpato la festa del lavoro con il natale di Roma, il 21 aprile.
Nella foto di destra in primo piano (da sinistra): Giuseppe Parravicini, Gaetano Cavina, Attilio Gelosa, Agostino Frisoni e Leonardo Vismara.
Dal balcone di palazzo Terragni membri del CLN lissonese, il Sindaco con i componenti della Giunta e del Consiglio comunale durante la manifestazione del I maggio 1945: oratore ufficiale è Ettore Reina, fondatore della Camera del Lavoro di Monza nel 1893. Si noti la scritta Piazza Quattro Martiri: prima di diventare Piazza Libertà, così fu chiamata per qualche giorno, in memoria dei 4 partigiani lissonesi fucilati nel giugno 1944.
Riconoscimento qualifica partigiano
e diploma in riconoscimento del valore militare e del grande amore di patria

L’attestato rilasciato a Giuseppe Parravicini, firmato dal Commissario delle Brigate “Garibaldi” Pietro Secchia e dal Comandante Luigi Longo.
Alla fine della guerra ritorna alla Garelli di Sesto come collaudatore.
Continua però il suo impegno civile. Diventato segretario della Camera del Lavoro di Lissone, la dirige per tre anni.
Il 4 marzo 1946 partecipa alla stipulazione del contratto dei lavoratori del legno tra l’Associazione Industriali di Monza e Brianza e la Camera del Lavoro di Monza.
A Roma l’8 maggio 1946 partecipa al primo convegno nazionale dei lavoratori del legno: viene eletto segretario e ne redige il verbale. Inoltre nel suo intervento, a difesa dei lavoratori del legno, espone le incongruenze sorte per il divieto di esportazione del Governo segnalando che Lissone ha ricevuto da diverse nazioni ordinazioni che potrebbero dare lavoro per diversi anni ai lavoratori non solo di Lissone ma anche della Brianza. Chiede perciò l’intervento della CGIL presso gli organi competenti.
Il primo convegno nazionale dei lavoratori del legno termina inneggiando alla Repubblica dei lavoratori e alla Costituente (manca un mese al referendum in cui gli Italiani dovranno scegliere tra monarchia e repubblica e contemporaneamente eleggere i “padri costituenti” che dovranno scrivere la nuova Costituzione).
Il 2 luglio 1949 Giuseppe Parravicini si sposa, a Lissone, con Pierina Secchi.
Giuseppe Parravicini si impegna per il settore del mobile lissonese e il 1° ottobre 1951 diventa rappresentante della Camera del Lavoro di Lissone nell’Ente Comunale per il potenziamento del mercato mobiliero e della lavorazione del legno, partecipando alla stesura dello Statuto. Svolge tale incarico fino al marzo 1953.
Il 10 giugno 1959 nasce il figlio Ermes.
I mesi trascorsi ad Auschwitz lo hanno provato nel fisico: deve subire diversi ricoveri per sottoporsi a continue cure. Nel 1971 muore in ancor giovane età.
Un particolare ringraziamento va ad Ermes Parravicini: con la sua collaborazione e dalla consultazione del suo archivio di famiglia abbiamo potuto ricostruire la vita, breve ma intensa, di suo padre del quale può essere sicuramente fiero.
(Renato Pellizzoni)
intervento di ELIEZER WIESEL, premio Nobel per la pace
INTERVENTO DEL PROFESSOR ELIEZER WIESEL, PREMIO NOBEL PER LA PACE
Celebrazione del Giorno della Memoria 2010 al Parlamento italiano
Signor Presidente della Repubblica italiana, onorevoli Presidenti della Camera e del Senato, signor Presidente del Consiglio dei ministri, Silvio Berlusconi, onorevoli deputati e senatori, signor presidente della Corte costituzionale, sopravvissuti, membri delle comunità ebraiche, come non dirvi della mia grande emozione nell’essere qui. Mia moglie Marion ed io, Presidente Fini, le siamo profondamente grati del calore dell’accoglienza e della sincerità delle sue parole. Ci congratuliamo con l’Italia perché abbiamo partecipato a tante cerimonie, abbiamo visitato tanti Paesi dove viene celebrata la memoria, e posso dirvi che questo Paese costituisce un modello perché la commemorazione in Italia abbraccia tutte le sfere della società.
Abbiamo assistito oggi ad una cerimonia in cui il Presidente della Repubblica Napolitano ha consegnato dei premi ad alcuni studenti, a dei bambini e quando vedi i bambini ovviamente non puoi che sorridere e ti senti anche profondamente coinvolto.
Ieri abbiamo visto l’inaugurazione della mostra sull’Olocausto e quindi vogliamo ringraziarvi perché tutti noi siamo impegnati per ricordare. Siamo qui per ricordare e allora ricordiamo insieme quest’epoca della storia che ha avvolto nelle tenebre la speranza dell’uomo. Un’epoca in cui gli assassini hanno tormentato, torturato, isolato, affamato e ucciso sei milioni di uomini, donne e bambini non per qualcosa che avevano fatto, o detto, o scritto, o posseduto, ma semplicemente perché erano i discendenti di un popolo antico, l’unico popolo dell’antichità che sia sopravvissuto all’antichità.
Dove inizia la memoria? Per l’ebreo che sono, parlare qui infonde un profondo senso di riflessione, di gratitudine e di rispetto perché Roma per noi occupa un luogo speciale. Gerusalemme e Roma hanno memorie che si intrecciano: i saggi della Giudea venivano a Roma per perorare, di fronte agli imperatori romani, la causa del loro popolo ed oggi io, che sono uno dei loro eredi e discepoli, sono qui di fronte a voi, leader di questa nazione straordinaria. Io, il numero A-7713, sono qui a portarvi un messaggio su avvenimenti accaduti duemila anni più tardi.
Proprio in questi giorni, sessantacinque anni fa, mio padre Shlomo, figlio di Nissel e Eliezer Wiesel, numero A-7712, moriva di inedia e malattia nel campo di sterminio di Buchenwald. C’erano italiani a Buchenwald ? Non ricordo, ma ad Auschwitz ce n’erano. Ricordo un certo Luigi, timido, gentile, introverso, non parlava né il tedesco, né lo yiddish, e senz’altro non parlava il polacco, sembrava più perso di altri.
Ho incrociato forse Primo Levi che poi è diventato mio amico, come lei Presidente Fini ha detto? Ad un certo punto siamo stati assegnati alla stessa baracca, ma non era presente nella marcia della morte verso i vagoni che ci hanno portato a Buchenwald; è rimasto in ospedale.
Buchenwald, ricordo la notte in cui siamo arrivati. Molti erano morti per strada, ricordo i vagoni aperti sul treno, ricordo la tormenta di neve, molti sono morti, ma alcuni con le loro ultime forze gridavano «Shma Israel.., Hashem hu haelokim »: ascolta Israele, Dio è il nostro Dio ! Dio, lì ? Io ero uno studente devoto e non ho potuto reprimere il desiderio di unirmi agli altri in questo appello ai cieli.
Sinceramente non posso spiegare perché.
Ricordiamo: nel 1945 la Germania praticamente aveva già perso la guerra contro gli alleati. L’ultima grande battaglia nelle Ardenne è finita con la sconfitta tedesca e, ciononostante, la guerra di Hitler contro il popolo ebraico è continuata senza sosta. I sei campi di sterminio in Polonia erano stati liberati, ma non i campi in Germania e in Austria. Gli ebrei erano ancora oggetto di distruzione, ma perché? Levi dice che ad Auschwitz non c’era luce.
Mi hanno chiesto in un’intervista: quando andrà in cielo, quali saranno le parole che dirà a Dio? Io dirò un’unica parola: perché? Questa domanda non dobbiamo farla soltanto a Dio creatore, ma anche alle creature: perché Hitler e i suoi accoliti, nati nel cuore del cristianesimo, hanno fatto quello che hanno fatto? Perché volevano ad ogni costo distruggere l’ultimo ebreo sul pianeta? Oggi, riuniti per ricordare quel fatto, quell’avvenimento, che non ha precedenti nella storia, ci si potrebbe chiedere: ma perché la memoria? Perché riaprire vecchie ferite? Perché infliggere un tale dolore ai giovani? Per i morti è troppo tardi. Sì, ciò che è stato fatto non può essere annullato, neanche Dio può annullare ciò che è stato fatto.
Tanta paura, dolore e tormento non possono essere dimenticati. Ma possono essere veramente ricordati? In che modo ? In che modo possiamo aprire i nostri cuori e le nostre anime al ricordo e, ancora, conoscere la speranza?
Oggi dovremmo dedicare la giornata non solo al ricordo, ma anche alla riflessione e alla presa di coscienza. In che modo la storia giudicherà il comportamento del mondo? In che modo la storia giudicherà il comportamento dell’Italia? Sì, ci sono state persone coraggiose e nobili in Italia e altrove che hanno cercato di aiutare gli ebrei. Alcuni ci sono riusciti e meritano la nostra profonda gratitudine. Mia moglie Marion ela sua famiglia sono state salvate da una giovane coppia italiana a Marsiglia: oggi è il compleanno di mia moglie e lei è qui con noi. Quindi, io devo lei e la mia felicità ad alcuni italiani a Marsiglia. Ma quanti hanno corso il rischio? Quanti hanno aperto la propria casa ad un bambino ebreo, ad una famiglia ebrea, ad un ebreo che aveva di fronte la prigione e la deportazione? A qualsiasi livello della politica e al più alto livello della spiritualità, il silenzio non aiuta mai la vittima: il silenzio aiuta sempre l’aggressore.
Per molti di noi Auschwitz resta un nodo spartiacque nella storia: c’è un prima e un dopo. Mai prima di allora tanti bambini e tante famiglie sono stati uccisi da tanti uomini, uomini spesso istruiti, colti, che continuavano a manifestare la loro ammirazione per Goethe, Schiller, Bach, Beethoven, Hegel e Dante. Ma che ne fu della loro umanità? Erano disumani? Forse sarebbe un’ipotesi troppo semplicistica. Cosa ha provocato quella metamorfosi ? Negli anni io ho letto ogni libro su quell’epoca, in ogni lingua che conosco, cercando di capire gli assassini.
In che modo il male ha potuto raggiungere una tale profondità e una tale portata? Non sono in grado di spiegare neanche la passività di chi è rimasto a guardare a tutti i livelli. Non era così difficile salvare una vita umana. Non sarebbe stato così difficile, all’inizio del 1944, bombardare i binari che portavano ad Auschwitz, ma per motivi inspiegabili e ingiustificabili quei binari non sono stati bombardati. Perché ?
Ho rivolto questa domanda a diversi Presidenti americani: nessuno mi ha dato una risposta valida. Anzi, avevo paura della loro risposta. Forse perché allora le vittime che avrebbero potuto essere salvate erano ebrei, ebrei ungheresi ?
Non è facile neanche capire le vittime. Come mai tanti sono riusciti ad aggrapparsi alla loro fede nel buio del ghetto e nell’orrore dei campi? Dove hanno trovato la forza di ricostruire la loro vita sulle rovine del loro passato? Nelle sue memorie di Treblinka, un superstite, Yankel Wiernik ha scritto: sarò mai capace di ridere ancora ?
A Birkenau, Zalmen Gradowski, membro del Sonderkommando si chiede: sarò mai in grado di piangere ancora?
Eppure i sopravvissuti in Italia, in Francia, in America, in Israele dopo la guerra sono riusciti ad elaborare il lutto e la rabbia e a creare uno Stato ebraico nella terra degli avi. Solo tre anni intercorrono tra Auschwitz e la rinascita di Gerusalemme e dello Stato sovrano ebraico.
In che modo le vittime di ieri sono riuscite a realizzare tutto ciò nel nome dell’umanità ? Forse qualcuno ha la risposta, io non ce l’ho. Ma forse, ricordando i morti, diamo un insegnamento di vitale importanza ai vivi, un insegnamento sulla vita e la morte, la luce e le tenebre, la crudeltà e la compassione. Insegniamo a chi vuole ascoltare che quello che accade ad una comunità riguarda tutti e che nessun essere umano è solo nel mondo di Dio, ma che solo Dio è solo. Non dobbiamo permettere che nessuna vittima del destino, o prigioniero della società – mai dobbiamo consentirlo – si senta solo, respinto, abbandonato, rifiutato.
La storia oggi vive grandi sconvolgimenti; la nostra generazione è segnata dal disorientamento e dalla sfiducia. I giovani abbracciano il fanatismo religioso che a volte porta anche a missioni suicide. Gli attentati suicidi sono assassinii, omicidi e debbono essere condannati come crimini contro l’umanità ed io rivolgo un appello a lei, Presidente Fini, e a lei, Primo Ministro Berlusconi, potreste essere i primi nel mondo ad introdurre un disegno di legge che designi l’attentato suicida come crimine contro l’umanità.
Questo non fermerebbe le mani degli assassini, ma potrebbe fermare i complici. Chi insegnerà ai giovani – che noi dobbiamo educare – il diritto di tutti i bambini a vivere una vita sicura se non noi che abbiamo visto la parte peggiore dell’uomo?
Io so che alcuni sopravvissuti sono preoccupati: cosa succederà quando l’ultimo di noi non ci sarà più? Io non sono tanto preoccupato. Non sono tanto preoccupato perché credo che chiunque ascolti un testimone diventa un testimone e quindi, parlamentari, diventate nostri testimoni, leader dell’Italia, diventate nostri testimoni.
Debbo confessare, però, che nutro anche una certa frustrazione.
I testimoni hanno parlato e poco o niente è cambiato nel mondo. Il mondo si è rifiutato di sentire, di ascoltare, si è rifiutato di imparare, altrimenti come possiamo comprendere la Cambogia, il Ruanda, la Bosnia, il Darfur, come possiamo comprendere l’antisemitismo oggi? Se Auschwitz non ha guarito il mondo dall’antisemitismo, cosa potrà farlo? Io parlo dell’antisemitismo.
Come si può trattare con il Presidente di una nazione, Ahmadinejad, che è il primo a negare l’Olocausto e che vuole distruggere uno Stato membro delle Nazioni Unite? Come osa? Io ho visitato tanti Paesi del mondo e ho un’idea, forse non realizzabile. Dovrebbe essere arrestato e tradotto di fronte alla Corte dell’Aia e accusato di incitamento a crimini contro l’umanità.
La paura esiste ancora, le guerre civili, la fame. Milioni di bambini muoiono di malattia, di fame e di violenza. Il Medio Oriente è in grande tumulto: la pace tra Israele ed i vicini palestinesi è ancora un sogno, ma un giorno arriverà, credetemi, amici; se Israele ha potuto stringere la pace con la Germania, senz’altro sarà in grado di farlo con i suoi vicini. Creiamo un’occasione e mandiamo un appello a coloro che tengono in prigione Shalit: voi avete la credibilità per farlo. Quest’uomo da tre anni vive imprigionato e però c’è la speranza, la speranza deve esserci.
Guardiamo l’Europa: l’Europa è diventata un simbolo della solidarietà internazionale. La Germania e la Francia erano da sempre nemici, si uccidevano per pochi chilometri di territorio, ma oggi sono convinto che tra questi due Paesi non ci sarà mai più la guerra, o tra l’Italia e la Francia non ci sarà mai più la guerra.
Cosa abbiamo quindi imparato dal passato ? Abbiamo imparato che il razzismo è stupido e che l’antisemitismo è un’infamia. Abbiamo imparato che la nostra umanità è definita dal nostro atteggiamento verso l’alterità dell’altro, che abbiamo una chiara scelta tra cadere nella provocazione del nemico e il nostro dovere morale nei confronti gli uni degli altri, la scelta tra il nichilismo e il senso, il significato, tra la paura e la speranza. Questa scelta appartiene a ciascuno di noi.
Per concludere, siamo profondamente grati a voi tutti e profondamente commossi – non sono neanche in grado di dirlo – per questa giornata. Io ho sempre creduto che la vita non è fatta di anni, ma di singoli momenti e questo momento conterà nelle nostre vite. Quindi noi non viviamo nel passato, ma il passato vive nel presente, ed il nostro dovere rimane quello di umanizzare il destino, il mio e il vostro destino. Ricordiamo: qualsiasi cosa noi facciamo, qualsiasi cosa noi diciamo, qualsiasi siano i nostri obiettivi, non dobbiamo consentire che il nostro passato diventi il futuro dei nostri figli.
per non dimenticare
Il Generale Dwight D. Eisenhower aveva ragione
nell’ordinare che fossero fatti
molti filmati e molte foto.
Esattamente, come è stato previsto circa 60 anni fa…
E’ una questione di Storia ricordare che,
quando il Supremo Comandante delle Forze Alleate
Generale Dwight D. Eisenhower,
incontrò le vittime dei campi di concentramento,
ha ordinato che fosse fatto il maggior numero di foto possibili,
e fece in modo che i tedeschi delle città vicine
fossero accompagnati fino a quei campi
e persino seppellissero i morti.
E il motivo, lui l’ha spiegato così:
'Che si tenga il massimo della documentazione
– che si facciano filmati – che si registrino i testimoni –
perchè, in qualche momento durante la storia,
– qualche idiota potrebbe sostenere
– che tutto questo non è mai successo'.
'Tutto ciò che è necessario per il trionfo del male,
è che gli uomini di bene non facciano nulla'.
(Edmund Burke)
Ricordiamo:
6 milioni di ebrei,
20 milioni di russi,
10 milioni di cristiani,
e 1900 preti cattolici
sono stati assassinati, massacrati, violentati,
bruciati, morti di fame e umiliati,
Ora, più che mai, è fondamentale fare in modo che
il mondo non dimentichi mai.
Lo sterminio nazista degli zingari
In occasione della Giornata della Memoria vogliamo ricordare l'olocausto degli zingari.
A forza di essere vento
Gli Zingari durante la Seconda guerra mondiale ebbero una sorte simile a quella degli Ebrei, dei prigionieri politici e degli omosessuali.
Essi furono perseguitati dai nazisti e rinchiusi nei campi di sterminio, sterilizzati in massa, usati come cavie per esperimenti, condannati ai lavori forzati, ed infine destinati alle camere a gas ed ai crematori. Cinquecentomila zingari morirono nei campi di concentramento, solo nel "Zigeunerlager", il campo loro riservato ad Auschwitz-Birkenau, tra il febbraio 1943 e l'agosto 1944 oltre ventimila tra rom e sinti vennero uccisi.

Malgrado ciò nessuno zingaro venne chiamato a testimoniare nei processi ai gerarchi nazisti, neppure a Norimberga. Infine, quando in Germania alcuni sopravvissuti si decisero a chiedere un risarcimento, questo fu loro negato con il pretesto che le persecuzioni subite non erano motivate da ragioni razziali ma dalla loro "asocialità" (caratteristica che i nazisti attribuivano a ragioni biologiche e che quindi li destinava ad una "soluzione finale" al pari degli Ebrei).
Dall'oblio oggi riemergono le testimonianze e la documentazione storica di questo "olocausto dimenticato". La casa editrice A di Milano ha pubblicato un doppio DVD intitolato "A forza di essere vento".
Il lavoro, prodotto in ricordo di Fabrizio De Andrè, che fu amico dei nomadi ed ai quali dedicò una canzone-poesia, è costituito da una ricca documentazione audiovisiva (6 documentari per una durata complessiva di circa due ore e mezza): interviste a due Zingari internati ad Auschwitz-Birkenau, uno spettacolo di Moni Ovadia con i musicisti Rom rumeni Taraf da Metropulitana, un filmato dell'Opera Nomadi dal titolo "Porrajmos" (la "Shoà" zingara), una serata multimediale tenutasi alla Camera del Lavoro di Milano ed una illuminante intervista di Marcello Pezzetti del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea sulla storia dello Zigeunerlager.
Il rapporto tra le vicende del popolo zingaro e del popolo ebraico trova un significativo riconoscimento nel coinvolgimento dell'UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) in tre dei sei documentari e dimostra una reciproca attenzione: gli Zingari, come gli Ebrei, hanno forgiato la propria identità nella diaspora, attraverso l'incontro con le altre nazioni. Oggi entrambe le comunità si debbono confrontare con una società omologante, lontana dai valori tradizionali e da modelli di vita che la gente condivideva in passato, una società che pone in modo drammatico le minoranze di fronte al pericolo dell'estinzione culturale, un rischio che può e deve essere efficacemente contrastato attraverso il recupero e la valorizzazione dell'identità fondata sulla memoria.
"A forza di essere vento" è quindi un'opera preziosa, di quelle che aiutano a non dimenticare il passato ed a non abbassare la guardia di fronte al pericolo di risorgenti sentimenti di intolleranza e di nazionalismo xenofobo.
foto tratte da Opera nomadi
«Vent'anni»
"Siamo nati che la «grande guerra» era appena finita. Nei racconti di nostro padre c'era ancora un' eco molto viva di quella lotta. Grandi cimiteri - tante croci in fila - accoglievano nel loro silenzio i morti di quelle battaglie, e anche nel cuore dei reduci c'era forse una croce, ma inestinguibile segno di quell' esperienza. A noi, bambini, sembrava che negli uomini che «l’avevano fatta», fosse come una sottile disperazione, qualcosa di esaltante e di profondamente triste. Eravamo bambini e trionfò il fascismo. Ci dissero che il fascismo voleva il bene della Patria, anzi che fascismo e Patria erano la stessa cosa, che le rinunce alle quali eravamo soggetti dovevano essere sopportate per il bene di tutti, perché l'Italia fosse grande e potente. Ma ci accorgemmo che il fascismo era una certa cosa e la Patria un'altra, i sacrifici li faceva il popolo ma non i capi, che sulla nostra buona fede si speculava. Fummo battezzati fascisti nascendo, ma in realtà noi giovani eravamo dei miscredenti. Ed eravamo anche tanto infelici.
Ci furono altre guerre, altri uomini caddero. E fummo gettati in questa che ancor continua, lunga e terribile. Cadde il fascismo, poi l'armistizio, la fuga del re, i tedeschi, la Repubblica, caddero tante illusioni. Il Paese in rovina, le coscienze esasperate nella ricerca di qualcosa a cui aggrapparsi, il domani incerto nebuloso. Sorsero i partigiani: e fu una aperta ribellione contro il mondo, contro uomini, contro idee umanamente e storicamente condannate, contro sistemi che avevano forzatamente agganciato a un carro in folle corsa verso la rovina il destino di 45 milioni di vite. E i ragazzi lasciarono le case e andarono sui monti. Lasciarono la loro giovinezza che non aveva e non avrebbe mai più trovato la sua stagione. Videro la morte e uccisero, seppero la crudeltà e l'amore, la disperazione e la speranza. Offrirono i loro vent'anni per avere una certezza, una fede che li sollevasse. La trovarono in un nome: libertà. Li sostenne nei giorni duri; li animerà se dovranno ancora combattere perché nessuno tolga - agli uomini di vent'anni già vecchi - quella libertà che fu spesso la sola fiamma per riscaldare la loro inesistente giovinezza".
Editoriale del terzo numero del giornale “PATRIOTI” dell’aprile 1945, scritto da Enzo Biagi, dopo la liberazione di Bologna. Enzo Biagi è stato partigiano per quattordici mesi con il nome di battaglia “il Giornalista”.
Tratto da “I quattordici mesi. La mia Resistenza” di Enzo Biagi – Rizzoli Editore - novembre 2009
il contributo del CLN di Lissone alla rinascita del paese dopo la Liberazione
A Lissone il Comitato di Liberazione Nazionale si riunì clandestinamente per l'ultima volta la sera tra il 24 e il 25 aprile 1945. La mattina successiva, emesso il proclama della Liberazione, si insediò come autorità riconosciuta insieme all'Amministrazione comunale scaturita dal Comitato stesso: il paese era controllato dagli insorti e due giorni dopo il commissario prefettizio Ruffini consegnò formalmente l'ufficio e l'amministrazione comunale al nuovo sindaco, Angelo Arosio. La ritirata dei nazisti avvenne lo stesso 27 aprile e, senza incidenti, una colonna motorizzata di circa duemila uomini attraversò le vie del paese. Ma la consapevolezza che la guerra era realmente finita si ebbe solo due giorni più tardi, il 29 aprile, quando la piazza centrale (ribattezzata piazza Libertà) gremita di folla accolse con una ovazione il passaggio di alcuni carri armati americani Sherman, salutati anche dalle autorità cittadine civili e religiose che avevano preso posto sulla balconata della Casa del popolo (l'ex Casa del fascio).
E in piazza Libertà, il l° maggio 1945, si svolse dopo anni una imponente festa del lavoro, alla quale parteciparono in sfilata le formazioni partigiane, i rappresentanti dei ricostituiti sindacati e dei partiti politici.
Il 3 maggio 1945, nella residenza comunale, il Comitato di liberazione nazionale insediò la nuova Giunta municipale, la cui composizione era stata decisa sin dalla riunione clandestina del 12 marzo. Per la scelta del sindaco i comunisti, superando la dura opposizione socialista, avevano comprensibilmente messo «il loro voto a disposizione dei democristiani, appellandosi alla situazione prefascista" e la scelta era caduta su Angelo Arosio, detto Genola. Vicesindaco fu nominato Giuseppe Crippa, comunista, e all'amministrazione andò Federico Costa, socialista. La Giunta fu completata da Mario Carnnasio (Dc) all' annonaria, Emilio Colombo (Psi) ai lavori pubblici e Giulio Meroni (Pci) all'assistenza ai quali si aggiunse il ragionier Giulio Palma, rappresentante del Partito liberale, quale assessore supplente.
Il Comitato di Liberazione Nazionale di Lissone aprì una grande sottoscrizione per garantire l'assistenza ai più poveri; i fondi verranno gestiti ed erogati da una speciale Commissione finanziaria che, oltre dell'assistenza si occuperà anche di sostenere l'ospedale della carità, il patronato scolastico, la scuola professionale di disegno, l' Associazione mutilati e invalidi di guerra e l'Associazione reduci e la Conferenza di San Vincenzo.
La guerra aveva avuto un costo umano ed economico di notevoli proporzioni. Si pensi che solo le spese sostenute dall' Amministrazione comunale di Lissone durante il periodo di occupazione germanica ammontarono a L 214.893.40. Comunque gli USA, una volta vinta la guerra, furono l'unica potenza in condizioni di prosperità di fronte ad un'Europa terribilmente impoverita e devastata. Perciò, con il preciso scopo di combattere l'influenza sovietica e mostrare agli europei il volto del loro possente capitalismo, gli americani programmarono notevoli aiuti ai paesi europei. Uno strumento importante sorto nel novembre 1943 a Washinghton con il fine di pianificare l'aiuto per la ricostruzione delle zone devastate dalla guerra, fu l'United Nation Relief and Rehabilitation administration (UNRRA), formalmente sotto il controllo ONU, ma di fatto frutto dell'intervento economico degli USA. Furono messi a disposizione capitali, materiali e generi alimentari.
A Lissone il problema dell'assistenza aveva determinato la nascita nel dicembre del 1945 del Comitato comunale per l'assistenza post-bellica con lo scopo di favorire la distribuzione di vestiario e generi alimentari, mentre il 9 gennaio 1946 il comune fu incluso nel piano di distribuzione viveri e prodotti tessili del comitato provinciale UNRRA. A tal proposito nello stesso anno si formò il comitato comunale di assistenza UNRRA e nacquero contemporaneamente quattro centri di assistenza, ubicati presso la scuola materna comunale di via G. Marconi, l'asilo infantile Maria Bambina di via Origo, la mensa materna ONMI di via Fiume e lo spaccio comunale ECA di piazza Libertà.
In definitiva nel luglio del 1946 erano assistiti tramite refezione gratuita e distribuzione di generi in natura circa 540 minori e 120 madri, anche se i bisognosi ammontavano in tutto a 900 persone.
L'iniziativa del CLN per lo sviluppo dell'edilizia economica
La guerra e le sue distruzioni avevano determinato una rarefazione di locali di abitazione e la stasi dell'attività edilizia, imputabile alle condizioni di sicurezza, ai divieti di nuove costruzioni e all'aumento del prezzo dei materiali. Il tutto era stato ampliato ulteriormente dalla più generale crisi degli alloggi che interessava direttamente l'Italia.
La crisi venne avvertita particolarmente a Lissone dove, come era già accaduto nel corso degli anni Venti e Trenta, l'edilizia privata si rivelò incapace di rispondere alle esigenze della popolazione economicamente più povera.
D' altra parte, la guerra non fece che peggiorare le cose nonostante non si registrassero distruzioni belliche, la grossa borgata della Brianza, accusava una mancanza di alloggi, dovuta principalmente all'incremento della popolazione locale e all'emergenza sfollati, molti dei quali non potevano più far ritorno nella città di provenienza o addirittura avevano trovato in paese occupazione stabile. La mancanza di abitazioni fece lievitare presto il prezzo degli affitti, mentre cominciarono a registrarsi numerosi casi di sfratto.
Nel corso del 1945 nacque la Commissione tecnico - finanziaria per la costruzione delle case popolari, formata dai rappresentanti delle più importanti realtà produttive locali come l'Incisa, l'Alecta, il Mollificio Cagnola e dell' artigianato a cui si aggiunsero i delegati dell' Associazione combattenti e della Camera del lavoro. La Commissione aveva il preciso scopo di far sorgere un quartiere popolare, per cui si dedicò inizialmente alla ricerca del terreno più adatto e al «sensato finanziamento dell'impresa economica». Contemporaneamente indisse un concorso indirizzato ai tecnici della zona che portò alla realizzazione di numerosi progetti, tra i quali si segnalarono quelli di Enrico Mola e Ferdinando Caiani.
Nonostante le buone intenzioni, mancavano i fondi e fu solo il diretto intervento del CLN, avvenuto nel corso del 1946, a permettere la costruzione del primo complesso di tipo popolare. Si trattava di un caseggiato, di quattro piani posto in via Francesco Ferrucci angolo via XX Settembre su terreno di proprietà del Comune.
La cifra necessaria era stata raggiunta grazie ad una pubblica sottoscrizione indetta dal CLN nel 1946 che fruttò L. 6.032.786, raccolte soprattutto tra i più facoltosi cittadini. Nell'ambito del progetto, venne definitivamente abbandonato il modello tradizionale di casa economica, giudicato poco adeguato a risolvere la crisi degli alloggi, costituito da due piani fuori terra con cucinette e stanze di soggiorno al piano terreno e camera da letto al piano superiore, con scala esterna, caratteristica delle case rurali italiane.
A Lissone, la stanza di soggiorno nelle uniche case popolari realizzate da privati era generalmente sostituita dalla tradizionale bottega del falegname, motivo per cui sembrava più opportuno mantenere il modello tradizionale, anche se alla fine a decidere fu il minor costo unitario, che favoriva la preferenza per il grande caseggiato tipo caserma, a quattro o più piani fuori terra.
L'iniziativa del CLN supportata con forza dal Comune aveva avuto il merito di dare inizio allo sviluppo dell'edilizia economica nel capoluogo; infatti, ad essa seguì tutta una serie di progetti edilizi pubblici e privati destinati ad intensificarsi.
Bibliografia:
- Archivi Comunali
- S. Missaglia, "Lissone racconta"
- Appunti di ricerca di Samuele Tieghi
accadeva a Lissone durante la seconda guerra mondiale
I primi segni premonitori della guerra comparvero in Brianza durante gli anni Trenta, accompagnati dalle numerose iniziative di protezione antiaerea dei vari comuni.
Anche il Comune di Lissone e la locale sezione dell'UNPA (Unione nazionale protezione antiaerea) si diedero da fare, organizzando il primo esperimento di protezione antiaerea sul territorio comunale nel 1933.
Dal “Giornale di classe” della classe V della scuola elementare "Vittorio Veneto" di Lissone nell’anno scolastico 1940-1941
Al timore dei bombardamenti si aggiunse subito la paura di attacchi con gas tossici per questo il Comune provvide nel 1938 ad acquistare maschere antigas, constatato che anche in altri paesi della Brianza era stato adottato il medesimo provvedimento. Fu così che tra l'erogazione di contributi per la colonia elioterapica
e per le cure marine e salsoiodiche, tra l'istituzione degli ormai noti premi di natalità
e di nuzialità e le numerose altre iniziative «popolari» del podestà Cagnola, trovasse posto la delibera d'acquisto di trenta maschere antigas, la cui motivazione era quella di «volgarizzare l'uso della maschera antigas con esperimenti tra la cittadinanza, specie nelle scuole elemetari.
Dal “Giornale di classe” della classe V della scuola elementare di Lissone nell’anno scolastico 1939-1940
In seguito, nel corso del 1939, comparvero nuovamente le tessere annonarie, mentre cominciavano a registrarsi fenomeni legati all'accaparramento dei generi alimentari e al razionamento della benzina.
Il controllo dei generi alimentari, che i lissonesi avevano già conosciuto durante la Grande Guerra, impose a tutti nuovi sacrifici. Divennero rapidamente rari i prodotti alimentari di prima necessità come il pane, gli articoli da minestra, i grassi, lo zucchero, la pasta, il riso, la farina di frumento, mentre il sapone e l'abbigliamento subirono, di lì a poco, la stessa sorte. Per avere un'idea di quello che stava accadendo, si pensi che negli ultimi mesi del 1940 il personale comunale cominciò a preparare 17.000 carte annonarie per il pane e i generi da minestra da distribuire l'anno successivo.
Seguirono le disposizioni prefettizie affinché non avesse più luogo l'illuminazione di gala dei pubblici edifici in nessuna delle ricorrenze nelle quali essa era disposta (18 maggio 1940). Insomma alla vigilia della Seconda guerra mondiale, il futuro non offriva grandi speranze ad un Paese di circa 16.000 abitanti, dei quali quasi 15.000 concentrati nel capoluogo.
La guerra giunse il 10 giugno del 1940 e con essa arrivarono le prime direttive richieste dalla nuova condizione del Paese, alle quali Lissone si adeguò prima con l'adozione del razionamento e in seguito con la realizzazione dell'Ente comunale legna da ardere (novembre del 1941), finalizzato a disciplinare la distribuzione e i consumi in previsione dell'inverno. Contemporaneamente furono incoraggiati gli allevamenti domestici (pollame, conigli e piccioni) e nacquero i primi orti di guerra. Così il piazzale IV Novembre, posto di fronte alle scuole Vittorio Veneto, divenne un ampio campo di grano.
Lo stato di guerra aveva delle necessità inderogabili che prevedevano anche la raccolta dei metalli necessari alla produzione bellica.
Il comune nel giugno del 1941 provvide al censimento delle campane. Esso fu il primo passo verso la requisizione di tali oggetti nei confronti della quale il prevosto, don Angelo Gaffuri, mantenne un atteggiamento apparentemente neutrale. Il dissenso da parte del più importante prelato lissonese era in linea con la posizione assunta dalle autorità ecclesiastiche, che dovettero, loro malgrado, fornire i dati relativi al numero e al peso delle campane.
In base al censimento effettuato il 19 giugno 1941 si apprende che il numero di campane esistenti a Lissone era di nove campane di bronzo, poste sul campanile della chiesa del capoluogo, fabbricate nel 1926 per un peso complessivo di 11,506 quintali e di 5 campane di bronzo posizionate sul campanile della parrocchia della frazione Bareggia, fabbricate nel 1904 per un peso complessivo di un quintale. Nessuna campana era stata ritenuta di eccezionale pregio artistico o storico.
Cinque delle nove campane costituenti il concerto della chiesa prepositurale vennero infine requisite; ad esse si aggiunse anche la campana del vecchio campanile demolito con la Chiesa prepositurale nel 1933 e destinato all'erigenda chiesa dell'oratorio maschile.
Incaricata dell'asportazione fu la ditta Ottolina di Seregno; le campane asportate furono la 2a, la 3 a, la 5 a, la 7 a, la 9 a.
Per raggiungere il quantitativo di peso stabilito dalla requisizione si dovette consegnare anche una campana residuata dalla Chiesa vecchia e che si conservava perché destinata all'erigenda chiesa dell'Oratorio maschile. Il peso complessivo delle campane consegnate è stato di q.li 59,86 più kg. 95 di materiale in ferro (attacchi delle campane). Lasciò pessima impressione nei lissonesi il fatto che le campane asportate furono lanciate dalla cella campanaria. La 2a e la 9 a si spezzarono.
Il concerto delle nove campane era in la bemolle grave: era uno dei più grandi della diocesi raggiungendo il peso complessivo di oltre 115 quintali. Era stato fuso dalla fonderia Barigozzi ed era dedicato a Cristo Re. Il concerto, portato a Lissone il 10 ottobre 1926, era stato benedetto da Mons. Adolfo Pagani il giorno 17 ottobre 1927 ma non potè essere collocato sul campanile fino ai primi dell'ottobre dell'anno seguente. Per la fusione era stato usato in parte il bronzo delle tre campane maggiori che nel settembre precedente erano state calate dal vecchio campanile. Le campane vennero tutte donate da generosi cittadini.
Alla requisizione delle campane seguì, nel febbraio del 1942, la raccolta del rame che il Comune dispose sia ricevendo le denunce obbligatorie dei cittadini sia dando luogo alle operazioni di raccolta.
Ovviamente anche a Lissone aumentarono notevolmente le preoccupazioni e le ansie per gli arruolati, alimentate dalla pressoché totale mancanza di notizie sulla loro sorte.
Come testimonianza, restano le molte cartoline dell'ufficio prigionieri della Croce rossa italiana indirizzate ai lissonesi per segnalare la presenza di compaesani nei campi di prigionia tedeschi e americani. Alle ricerche spesso partecipavano anche i programmi radiofonici dell'EIAR (Ente italiano audizioni radiofoniche), ma non sempre con esito positivo.
In compenso i vuoti provocati dagli assenti vennero presto colmati dall'afflusso sempre più consistente dei primi sfollati, soprattutto milanesi, diretti verso i comuni della Brianza. In paese, nel corso del conflitto, furono tantissime le famiglie che trovarono alloggio in seguito ai bombardamenti alleati su Milano.
Le prime persone giunsero proprio da lì nel gennaio del 1943, pochi mesi dopo il terribile attacco aereo del 24 ottobre;
va aggiunto che quello dello sfollamento da Milano, ma anche da Monza che registrò una diminuzione del 8,73% della popolazione, fu in ogni modo un fenomeno che continuò in tutta la Brianza sino al 1945. Tra i paesi maggiormente colpiti dall'esodo milanese troviamo Seregno con 6.510 sfollati, Carate Brianza con 6.000, Besana Brianza con 5.128.
Anche a Lissone venne preparato dal Comune un regolamento per la protezione antiaerea:
Lissone alla fine del 1944 giunse a contare circa 1.800 sfollati per la maggior parte provenienti da Milano. Non si dimentichi che la quantità di rifugiati che il comune poteva ospitare secondo la disponibilità di alloggi registrata nel 1938 era di 1.500 unità, per cui, sin dal dicembre 1942, le autorità si preoccuparono di rendere obbligatoria la denuncia degli alloggi e dei locali non usufruiti e adattabili ad abitazione. Molte famiglie cercarono di reperire ricoveri per i nuovi venuti, arrivando spesso ad ospitarli nei locali occupati da parenti e famigliari. Gli sfollati portarono anche notizie sul reale andamento della guerra; informazioni che velocemente si diffusero in paese e quando, nel marzo del 1943, sopraggiunsero gli scioperi delle industrie dell'Italia settentrionale; ad essi parteciparono anche gli operai dell'Incisa (1200 dipendenti) e dell' Alecta (500 dipendenti), contribuendo attivamente alla crisi delle istituzioni che doveva portare alla caduta del fascismo il 25 luglio.
Lissone salutò la fine del Ventennio con manifestazioni spontanee di piazza, animate dalla comune speranza di pace, presto vanificata dal governo Badoglio.
Il telegramma inviato dal prefetto Uccelli ai podestà e ai commissari prefettizi della Provincia era estremamente chiaro: “Italiani, dopo l'appello di S.M. il Re e Imperatore degli italiani e il mio proclama, ognuno riprenderà il suo posto di lavoro e di responsabilità. Non è il momento di abbandonarsi a manifestazioni che non saranno tollerate. L'ora grave che volge impone ad ognuno serietà, disciplina patriottismo fatto di dedizione ai supremi interessi della Nazione. Sono vietati gli assembramenti e la forza pubblica ha l'ordine di disperderli inesorabilmente”.
Ma l'atteggiamento del governo Badoglio, volto a non allarmare l'alleato tedesco, attenuò di poco le speranze che i lissonesi, come tutti gli italiani, riponevano in una pace immediata. Auspici presto frustrati dall' occupazione tedesca di buona parte della Penisola, seguita in settembre dalla nascita della Repubblica sociale italiana.
Da quel momento la guerra entrò direttamente nelle case dei lissonesi, attraverso gli avvisi alla popolazione controfirmati dall'ing. Aldo Varenna che l'undici agosto del 1943 (pochi giorni dopo la caduta di Mussolini) aveva sostituito il podestà Angelo Cagnola, dimissionario per «diplomatici» motivi di salute.
Si diffusero i bandi minacciosi del comando tedesco di stanza a Monza che comminavano la pena di morte per atti di sabotaggio,
che vietavano ogni assembramento e che imponevano il coprifuoco dalle ore 9 di sera sino alle 5 del mattino.
Il re Vittorio Emanuele III, accusato dai fascisti del tradimento del 25 luglio, scomparve dai documenti ufficiali e addirittura dalla piazza principale che dal 3 marzo 1944 verrà intitolata ad Ettore Muti.
Nella nuova piazza, presso il palazzo Mussi tra il febbraio e il marzo del 1944 troverà alloggio anche un comando antiaereo tedesco che, con i militi della GNR alloggiati nei locali di palazzo Magatti in via Garibaldi, garantiva un controllo più capillare del paese volto in particolar modo a contrastare la Resistenza. La locale sezione della GNR, dipendente dal comando di Desio, verrà soppressa nel Novembre 1944; al suo posto resterà sino agli ultimi giorni di guerra un distaccamento di militi delle Brigate nere.
Intanto al problema degli sfollati si aggiunse quello dei profughi delle terre occupate dagli alleati, anche loro bisognosi di ospitalità. I nuovi arrivati, che nel febbraio del 1945 superavano di poco le cento unità, vennero ospitati in buona parte nei locali della scuola elementare di via Aliprandi e presso alcuni privati, mentre nel cine-teatro Impero della Casa del fascio si organizzarono spettacoli per raccogliere gli aiuti necessari al loro sostentamento.
Nel dicembre del 1944 il numero degli sfollati ammontava a 1.738 persone. A maggio il numero era salito a 1.804.
Anche la locale sezione del Fascio repubblicano, nell'aprile 1944, intervenne nella questione costruendo il villaggio per sinistrati «Giuseppe Mazzini». Si trattava di tre baracche di legno di m. 30 di lunghezza e 7 di larghezza ciascuna, ognuna dotata di 4 appartamenti di tre locali e due di due. D'altra parte, stando alle parole del Commissario straordinario del fascio repubblicano: «E' ormai cosa arcinota che la crisi degli alloggi nel comune di Lissone ha assunto una forma vastissima, anche per il continuo affluire di italiani sinistrati per opera dei bombardamenti nemici e l'impossibilità di costruire case». Il terreno in questione, di proprietà del comune, si trovava nei pressi del cimitero e apparteneva all'Opera pia Riva (attuale via Leopardi).
Ma intanto il Comando Militare germanico si occupa anche dei piccioni viaggiatori: il 10 luglio 1944 invia la seguente comunicazione a tutti i podestà della provincia di Milano:
“In sostituzione delle precedenti disposizioni che prevedevano la consegna e l’abbattimento dei colombi viaggiatori, per mantenere in vita questi preziosi animali si dispone che a tutti i piccioni viaggiatori vengano tagliate le ali e che i proprietari e allevatori si notifichino ...”
I bombardamenti ferivano le principali città dell'Italia settentrionale, ma non colpirono mai Lissone, fatta eccezione per un mitragliamento avvenuto nei pressi della stazione (novembre 1944), senza gravi conseguenze, al di là del comprensibile spavento dei presenti. Le condizioni della popolazione destavano sicuramente apprensioni maggiori, considerato che tra il 1944 e la primavera del 1945 nelle relazioni mensili sull'attività amministrativa e politica del Comune, le preoccupazioni del Commissario prefettizio erano più di natura sociale che politica. L'inquietudine delle locali autorità era generata specialmente dalla penuria di alimenti, particolarmente aggravate dall'insufficienza o totale mancanza dei mezzi di trasporto necessari per ritirare i generi dalle località lontane. La distribuzione alimentare per la popolazione era garantita dai grossisti e dai dettaglianti posti sotto il controllo del Comune che gestiva l’ufficio tesseramento ma non impediva alla borsa nera di prosperare. Tra il novembre del '44 e il marzo del '45 la situazione si aggravò, in quanto vennero a mancare rispettivamente la farina gialla, il riso, i generi da minestra e il sapone, mentre tutti gli altri prodotti arrivavano con sensibile ritardo. Alla fame si aggiunse presto il freddo causato dalla mancata distribuzione della legna da ardere.
A febbraio si toccò il punto più critico ben sottolineato dalle parole del commissario prefettizio Giovanni Ruffini: «Dei generi contingentati sono stati distribuiti solo il formaggio duro e molle. E' necessario provvedere se le disponibilità lo consentono a qualche distribuzione di carne bovina e conserva di pomodoro».
Giovanni Ruffini sostituì il 26 luglio del 1944 il funzionario milanese Eugenio Campo, che era restato al suo posto meno di un mese, e che era subentrato a sua volta all'ing. Aldo Varenna il 17 giugno.
A tal proposito non si dimentichi che il giugno del 1944 fu il periodo più drammatico per gli abitanti del paese. In particolare il 16 vennero fucilati due dei quattro partigiani arrestati a Lissone il 15 giugno in seguito all'uccisione di due militi fascisti. Gli altri due partigiani catturati, furono fucilati il giorno seguente dietro la Villa Reale di Monza sede del comando delle SS.
In marzo venne istituita la quarta mensa di guerra ospitata in territorio comunale e se con la primavera giunse finalmente la Liberazione, di certo la fame resistette più dei tedeschi.
La guerra, d'altra parte, aveva avuto un costo umano ed economico di notevoli proporzioni. Si pensi che solo le spese sostenute dall'Amministrazione comunale durante il periodo di occupazione germanica ammontarono a L. 214.893,40 .
I lissonesi che furono prigionieri durante la seconda guerra mondiale furono 670.
Bibliografia
- Documenti conservati negli Archivi Comunali
- S. Missaglia, Lissone racconta
- Appunti di Samuele Tieghi
Movimento partigiano in Brianza: le forze in campo all’inizio del 1945
L'organizzazione e l'inquadramento del movimento partigiano in Brianza si avviarono nella primavera del '44: non fu un lavoro semplice e privo di rischi, ma in pochi mesi lo sviluppo delle adesioni, per certi aspetti persino sorprendente, rese possibile la costituzione di brigate su tutto il territorio della zona, e quindi della divisione Garibaldi Fiume Adda, del comando unificato Bassa Brianza, che facevano capo a Milano, della divisione Puecher, che operava soprattutto nella Brianza comasca e lecchese, e della divisione Garibaldi Sap Bassa Brianza che dipendeva dal comando di Varese. E non è tutto, perché dovremmo tener conto anche della 2adivisione Brigate del popolo, della divisione .Fiamme verdi della Bergamasca, in cui era incorporata una brigata Adda e di altre formazioni che in un certo senso sfuggivano all'attenzione o al controllo dei comandi centrali.
Comunque, il quadro particolareggiato delle forze in campo in Brianza all'inizio del '45, si presentava così: la divisione Garibaldi Fiume Adda comprendeva le brigate 103a, 104a, 105a, e Livio Cesana, con distaccamenti a Vimercate, Concorezzo, Brugherio, Cavenago, Trezzo, Arcore, Bernareggio, Caponago, Ornate, Ornago e Rossino. Con la Fiume Adda inoltre erano collegate la 52abrigata Garibaldi, con comando a Lentate e l'11abrigata Matteotti, che estendeva la sua presenza a Pioltello, Bussero, Cernusco, Carugate, Pessano, Brugherio e in qualche altro centro brianzolo. Ancora nella Brianza orientale operavano le Brigate del popolo 13a(Vimercate); 27a(Brugherio), 26a(Cernusco), 23a(Inzago), 36a(Carugate) e infine la brigata Regina Teodolinda (Concorezzo), squadre del Fronte della gioventù, soprattutto nel Vimercatese, e una brigata Ippocampo. A Monza c'erano i comandi della 150abrigata Garibaldi, della 181aGiustizia e Libertà, della 25aBrigata' del popolo e della brigata del Fronte della Gioventù. Nella Brianza centrale dominava la 176abrigata Garibaldi, con comando a Macherio, distaccamenti a Besana, Biassono, Carate, e squadre a Sovico, Albiate, Lesmo. A Seregno c'era il comando della 119aGaribaldi Di Vona, con distaccamenti a Desio, Meda, Muggiò e squadre a Cesano M., Varedo, Lissone, Nova e Bresso. La 119aera collegata con il comando unificato Bassa Brianza che comprendeva pure la 185abrigata Arienti, con squadre a Cesano, Seveso, Barlassina, Meda, Camnago e Lentate; la 2abrigata Mazzini (Cesano) e il raggruppamento brigate Matteotti. La 2adivisione Brigate del popolo comprendeva la 14a(Lissone), la 16a(Garbagnate), la 17a(Cinisello), la 25a(Monza), la 28a(Cantù). A Lissone operava anche una squadra Matteotti, a Carate il gruppo degli ex sindacalisti, bianchi, e a Macherio una brigata di « badogliani ». Dal comando di piazza Como-Lecco, incorporata nella divisione Puecher, «dipendeva la Brigata Livio Colzani, che aveva per epicentro il collegio Ballerini di Seregno; mentre dalla zona di Varese dipendeva la divisione Garibaldi Sap Bassa Brianza».
È questo lo schieramento partigiano che fronteggiava tedeschi e repubblichini qualche mese prima dell'insurrezione: e ci sembra che l'elenco delle brigate sia impressionante anche nella sua fredda schematicità. Quanti uomini erano mobilitati? E com'erano armati? Diremo subito che l'armamento non era completo, ma sufficiente per il tipo di guerriglia che essi dovevano condurre. Per quanto riguarda gli uomini, la risposta è difficile. Cercheremo di avvicinarci con un calcolo approssimativo fatto sulla base di due documenti del comando piazza di Milano. Vogliamo avvertire che il risultato sarà comunque discutibile. Secondo il «piano insurrezionale per la città di Milano » del febbraio '45, le «Forze foranee (o della provincia)» erano costituite da circa 45 brigate (17 Garibaldi, 5 G.L., 9 Matteotti, 12 del Popolo, 2 Mazzini) e 13.240 uomini. Il riassunto della «Forza delle unità dipendenti dal Comando piazza al 25 aprile 1945, presentava questi dati per la provincia: Garibaldi: 26 brigate, 7916 partigiani; Matteotti: 13 brigate, 4065 partigiani; Mazzini: 3 brigate, 1443 partigiani; G.L.: 5 brigate, 1515 partigioni; BdP: 20 brigate, 4070 partigiani. Totale: 67 brigate, 19.009 partigiani ». La media per brigata, come risulta dai due riassunti, nel Milanese era di circa 290/280 uomini. Prendendo in considerazione queste cifre ufficiali nel valutare la forza della Brianza, naturalmente tenendo conto di brigate meno «robuste» (240/250 uomini), possiamo trovarci di fronte a questi risultati: 12 brigate Garibaldi, 6 Matteotti, 10 del Popolo, 3 del Fronte della gioventù; 1 Ippocarnpo, 1 G.L., 1 Mazzini. Totale: 34 brigate, 8160/ 8500 uomini. Erano queste, più o meno, le forze partigiane organizzate alla vigilia dell'insurrezione.
Bibliografia:
Emilio Diligenti, Alfredo Pozzi “La Brianza in un secolo di storia d'Italia (1848-1945)” - Teti (Milano) 1980
Pietro Arienti “La Resistenza in Brianza 1943-1945” – Bellavite (Missaglia) 2006