Donne contro
Il contributo delle donne italiane alla liberazione dell’Italia dal regime fascista e dall’occupazione nazista.
Appartenenti ai Gruppi Difesa della donna: 70.000
Donne partigiane: 35.000
Arrestate, torturate, condannate 4.653
Fucilate, impiccate o cadute: 623
Deferite, tra il 1926 e il 1943, al Tribunale Speciale Fascista Per La Difesa Dello Stato: 748
Inviate al confino: 145
17 furono le donne decorate con Medaglia d’oro al Valor Militare
I “Gruppi Difesa della donna” furono una struttura attivissima nella guerra di Liberazione.
Il primo di questi organismi fu costituito a Milano nel novembre del 1943 da alcune esponenti di spicco dei Partiti che affluirono nel Comitato di Liberazione Nazionale, dopo la firma dell'armistizio, mentre i tedeschi assediavano le campagne e le città del Nord Italia, compiendo efferati rastrellamenti di civili, impegnati nella lotta contro il fascismo.
I Gruppi di Difesa della Donna e di Assistenza ai Combattenti della Libertà, da Milano, si estesero su tutto il territorio italiano ancora occupato, perseguendo l'obiettivo di mobilitare, attraverso un'organizzazione capillare e clandestina, donne di età e condizioni sociali differenti, per far fronte a tutte le necessità, derivate dalla recrudescenza della guerra.
Tali gruppi operativi femminili si segnalarono, durante la Resistenza, attraverso la raccolta di indumenti, medicinali, alimenti per i partigiani e si adoperarono per portare messaggi, custodire liste di contatti, preparare case-rifugio, trasportare volantini, opuscoli ed anche armi.
I Gruppi di Difesa della Donna erano quindi un'organizzazione unitaria "aperta a tutte le donne di ogni ceto sociale e di ogni fede politica e religiosa, che volevano partecipare all'opera di liberazione della patria e lottare per la propria emancipazione". I Gruppi di Difesa della Donna, nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole e nelle campagne, si proponevano la resistenza alle violenze tedesche , il sabotaggio alla produzione di guerra, il rifiuto di consegnare i viveri agli ammassi. I Gruppi di difesa della donna parteciparono alla organizzazione dei Comitati di liberazione periferici, e a quelli di agitazione nelle fabbriche; organizzarono scioperi contro fascisti e tedeschi e assicurarono l'assistenza alle famiglie dei carcerati, dei deportati e dei caduti.
I Gruppi di Difesa della Donna vennero ufficialmente riconosciuti dal Comitato di Liberazione dell'Alta Italia in un documento del 1944 nel quale si afferma: “Il Comitato di liberazione per l’Alta Italia, riconoscendo nei Gruppi di Difesa della Donna e di Assistenza ai Combattenti della Libertà un’organizzazione unitaria di massa che agisce nel quadro delle proprie direttive, ne approva l’orientamento politico e i criteri di organizzazione, apprezza i risultati sin ora ottenuti nel campo della mobilitazione delle donne per la lotta di liberazione nazionale e la riconosce come organizzazione aderente al Comitato di Liberazione Nazionale”.
Un padre della Repubblica come Ferruccio Parri dichiarò che «le donne furono la resistenza dei resistenti».
la "Rosa Bianca"
Il 22 febbraio 1943 furono processati e condannati a morte tre giovani del gruppo di resistenza tedesco la "Rosa Bianca".
Sophie Scholl, Hans Scholl e Christoph Probst vennero decapitati nello stesso giorno dopo solo qualche ora dalla sentenza.
La loro colpa era di aver scritto e distribuito sei volantini antinazisti.
Al di là del valore pratico della resistenza messa in atto dai ragazzi della "Rosa Bianca", ciò che va sottolineato è il valore etico della loro azione. La resistenza che questi giovani cercavano di suscitare nel popolo tedesco era una forma di non violenza: la disobbedienza.
La pericolosità dell'atto di dissenso per un regime totalitario e oppressivo rappresenta il maggior pericolo.
Non è la violenza che può spaventare i teorici dell'oppressione ma il pensiero che, finalmente libero, fa della disobbedienza arma di libertà.
per un approfondimento sulla "Rosa Bianca" leggere:
Ricordi della "Rosa Bianca"
di George J. Wittenstein
10 febbraio: Giorno del ricordo
le tragedie del confine orientale dell'Italia: fascismo, foibe, esodo
«La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale "Giorno del ricordo" al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale» (legge 30 marzo 2004 n. 92)
Articoli sull’argomento pubblicati nel sito:
Per comprendere il perché delle foibe o dell’esodo di molti italiani che risiedevano lungo i confini orientali dell’Italia:
La fine per fame e malattie di donne, bambini e antifascisti. Nel campo fascista di Arbe morirono centinaia di sloveni e croati.
http://anpi-lissone.over-blog.com/pages/Il_campo_fascista_di_Arbe-4520561.html
Le dimensioni dell'Esodo degli italiani
http://anpi-lissone.over-blog.com/pages/Le_dimensioni_dellEsodo-8515033.html
Le motivazioni a spingere gli istriani ad abbandonare la loro terra
http://anpi-lissone.over-blog.com/pages/Le_motivazioni_degli_esuli-8515038.html
Tra il 1944 e la fine degli anni Cinquanta, alla frontiera orientale d'Italia più di 250.000 persone, in massima parte italiani, dovettero abbandonare le proprie sedi storiche di residenza, vale a dire le città di Zara e di Fiume, le isole del Quarnaro - Cherso e Lussino - e la penisola istriana, passate sotto il controllo jugoslavo.
http://anpi-lissone.over-blog.com/pages/LEsodo_dei_giulianodalmati-8515028.html
Mostra “Campioni nella Memoria”
In occasione del Giorno della Memoria 2025 l'ANPI di Lissone esporrà a Palazzo Terragni di Lissone la mostra “Campioni nella Memoria” proveniente dalla Sezione fiorentina dell’Unione Nazionale Veterani dello Sport, curata da Barbara Trevisan.
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Comprendere è impossibile conoscere è necessario". Sono le parole di Primo Levi, che introducono la mostra fotografica “Campioni nella Memoria”. Storie di atleti deportati nei campi di concentramento. È un’esposizione dedicata ad atleti di varie nazionalità e discipline sportive deportati nei vari Campi di Concentramento dalla furia nazifascista. Erano giovani il cui scopo era quello di fare dello sport la loro passione e magari la loro professione, erano giovani con la voglia di vivere, di misurarsi con altri, non con la forza della sopraffazione ma con la loro abilità e preparazione atletica".
Lo scopo di questa mostra è osservare la più grande tragedia del XX secolo, anche dal punto di vista sportivo, rendendo onore e gloria a tutti quegli uomini e donne che nella loro vita hanno incarnato gli ideali sportivi e, con le loro scelte, hanno difeso i principi di libertà, di uguaglianza e di tolleranza".
Giorni e Orari di apertura della mostra "Campioni nella Memoria"
Domenica 26 gennaio, Lunedì 27 gennaio, Sabato 1 febbraio, Domenica 2 febbraio:
dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 18.
Inaugurazione Sabato 25 gennaio ore 16
La mostra gode del patrocinio e del contributo del Comune di Lissone
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MOSTRA CAMPIONI NELLA MEMORIA
Questa iniziativa dell’ANPI di Lissone avviene in occasione del Giorno della Memoria.
Sono trascorsi 80 anni da quando, il 27 gennaio 1945, l’Armata Rossa liberò il campo di sterminio di Auschwitz.
Una legge dello Stato Italiano ha istituito il "Giorno della Memoria" in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti.
Come è nata l’idea di portare nella nostra città questa mostra?
Ricercando tra le pagine di storia di Lissone, si viene a conoscere che, durante la seconda guerra mondiale, tra gli oppositori al fascismo ben 15 lissonesi morirono, 8 furono fucilati e 7 persero la vita in campi di concentramento.
Tra questi ultimi vi è Mario Bettega.
Mario Bettega era un valido calciatore della ProLissone, che all’età di 26 anni morì nel lager di Mauthausen. All’ingresso del campo sportivo della ProLissone è stata posta una “Pietra d’Inciampo” in sua memoria.
Da qui lo stimolo e il desiderio di andare a ricercare storie di atleti, che non essendosi voluti allineare alle ideologie naziste e fasciste hanno dovuto subire la deportazione nei campi di concentramento.
Facendo questa ricerca, mi sono imbattuto in questa mostra.
Proviene dalla Sezione di Firenze dell’Unione Veterani dello Sport, che l’ha realizzata.
È stata ideata e curata da Barbara Trevisan Insegnante di Scienze Motorie Sportive, a Scandicci.
È un’esposizione dedicata ad atleti di varie nazionalità e discipline sportive deportati nei vari Campi di Concentramento dalla furia nazi-fascista.
Erano giovani il cui scopo era quello di fare dello sport la loro passione e magari la loro professione, erano giovani con la voglia di vivere, di misurarsi con altri, non con la forza della sopraffazione ma con la loro abilità e preparazione atletica.
Dei 40 atleti che figurano in questa mostra, per ognuno di loro, oltre alla fotografia, vengono presentati i fatti salienti della loro vita, la loro opposizione al nazismo o al fascismo, le motivazioni del loro arresto (se militari, politiche, religiose, razziali), le modalità del loro arresto, il lager di destinazione e la loro eventuale sopravvivenza.
In questa mostra il maggior numero di atleti deportati sono i calciatori, poi i pugili, due squadre di ginnastica ed altre specialità.
Lo scopo di questa mostra è osservare la più grande tragedia del XX secolo, anche dal punto di vista sportivo, rendendo onore e gloria a tutti quegli uomini e donne che nella loro vita hanno incarnato gli ideali sportivi e, con le loro scelte, hanno difeso i principi di libertà, di uguaglianza e di tolleranza".
Questa mostra è nata dalla convinzione che le storie delle singole persone possano essere la testimonianza più forte e incisiva per le nuove generazioni.
“Comprendere è impossibile conoscere è necessario". Sono le parole di Primo Levi.
N.B. ricercando in Internet: Campioni nella Memoria Schede, si possono vedere le fotografie degli atleti deportati e per ogni atleta la sua storia.
1943-1945: la “campagna d’Italia”
Quasi due anni è durata la “campagna d’Italia”, dallo sbarco degli Alleati in Sicilia alla liberazione di tutta la penisola dall’occupazione nazista e dal regime fascista: due anni che hanno causato al nostro Paese ancora lutti e rovine. Militarmente hanno dato il loro contributo gli Alleati, che ebbero un peso determinante nella vittoria finale della guerra, il Corpo Italiano di Liberazione, le Divisioni partigiane.
Nei seguenti articoli vengono descritti i momenti salienti di questa fase della seconda guerra mondiale:
Il convegno di Tarvisio: fine della collaborazione fra italiani e tedeschi
Dalla Sicilia, attraverso lo stretto, inizia l'attacco alla penisola
11 settembre 1943: la battaglia di Salerno
11 settembre 1943: il regno del Sud comincia a vivere
18 settembre 1943: Mussolini da radio Monaco
1° ottobre 1943: Napoli è libera
La difficile avanzata degli Alleati verso Roma e la nostra guerra a fianco degli Alleati
Il bombardamento di Montecassino
Cassino, la più terribile battaglia della “Campagna d'Italia”
Mussolini si incontra con Hitler
Dicembre 1944: il fronte si arresta
Il bando Alexander e l’accordo Wilson
Partigiani e Gruppi di combattimento in azione
La battaglia del San Martino
Questo è il racconto di un protagonista, Giovanni Emilio Diligenti:
«Mio fratello ed io partecipammo alla battaglia di S. Martino, dove ci aveva inviati l'organizzazione clandestina comunista. Nella fortezza di S. Martino, sopra Varese, si era stanziato il gruppo Cinque Giornate, costituito poco dopo l'armistizio dal colonnello Carlo Croce. La formazione era composta per lo più da ex-avieri ed ex-ufficiali, ma in seguito vi affluirono molti operai di Cinisello Balsamo e di Brugherio, inviati dall'organizzazione clandestina di Sesto San Giovanni. Il colonnello Croce e gli ufficiali che guidavano la formazione si dichiaravano genericamente «badogliani» e seguivano una linea «attesista». Il reparto si era impossessato di una notevole quantità d'armi e di viveri con una serie di riuscite operazioni, come quella alla caserma della guardia di Finanza a Luino. Tutto era stato raccolto nella fortezza, che avrebbe dovuto diventare una base inespugnabile da cui sarebbe partita, in concomitanza con l'arrivo delle truppe alleate, la decisiva offensiva contro i nazi -fascisti. Inutilmente Gianni Citterio, inviato dal Clnai, cercò di convincere il colonnello Croce della necessità di dislocare le forze partigiane - circa centocinquanta uomini - in gruppi meno numerosi e più mobili, localizzati in diversi punti strategici. Prevalse purtroppo la mentalità degli ufficiali, illusi di aver creato una base inattaccabile.
Lo sbaglio fu pagato a caro prezzo: il 14 novembre più di duemila tedeschi mossero all'attacco, appoggiati da cannoni, mortai e anche da tre Stukas. La resistenza durò quarantotto ore, al termine delle quali il gruppo Cinque Giornate si disperse; la maggior parte dei suoi componenti si rifugiò in Svizzera. I partigiani morti in combattimento furono appena due, mentre trentasei furono fucilati dopo la cattura. Ben più pesanti le perdite nemiche: duecentoquaranta morti e un apparecchio (fui testimone oculare dell'abbattimento dello Stukas: un partigiano robustissimo, un vero gigante, prese sulle spalle una delle dieci mitragliatrici Breda pesanti di cui era fornito il reparto, fungendo da piazzola semovente; due altri sostenevano i piedi della mitragliatrice e un quarto sparava, finché riuscì a colpire l'aereo).
La difesa ad oltranza della posizione, concezione che esulava da una corretta conduzione della guerriglia, aveva sì provocato gravissime perdite tra le truppe attaccanti, ma aveva anche causato la fine di una formazione che, per la qualità e la quantità di mezzi e di uomini, avrebbe potuto rappresentare una grossa spina nel fianco dei nazi-fascisti per ancora molto tempo.
Durante la battaglia fui ferito alla gamba destra: la pallottola mi fu estratta con un paio di forbici da don Mario Limonta, un sacerdote di Concorezzo che fungeva da cappellano e da medico del gruppo. Di notte, don Limonta cercò di guidare me ed altri sei partigiani feriti nella discesa verso la pianura. L'impresa mi riuscì difficile, perché la ferita mi impediva di camminare, cosicché mio fratello Aldo dovette caricarmi sulle sue spalle. Dopo un po' perdemmo i contatti con gli altri feriti ma, sia pure a fatica, raggiungemmo la provinciale.
Attraversata la strada a una curva, procedendo un po' carponi e un po' sulle spalle di Aldo, arrivammo in un paese dove, all'alba, salimmo su un trenino che ci portò a Varese. Da qui in ferrovia a Saronno, poi in corriera a Monza e infine di nuovo a Cavenago. Nascosto in casa di Fumagalli, fui curato da Innocente e Mario, rispettivamente cucino e fratello di Raineri. In seguito, per ragioni di scurezza e per curare meglio la ferita, fui trasferito a Milano dal compagno Giacinto Parodi. In via Padova al 26, Parodi aveva un laboratorio artigiano di guarnizioni, mentre la sua abitazione era al n. 40 della stessa via. In casa di parodi fui curato da un medico che mi guarì completamente».
da “Partigiano in Brianza” di Giovanni Emilio Diligenti” Edito dall’ANPI di Monza
Umberto Viganò: internato in Germania per aver scioperato
Umberto Viganò era nato a Biassono il 10 aprile 1908 e risiedeva a Lissone. Umberto, operaio specializzato alla Pirelli, aveva sposato la sorella di Pierino Erba, fucilato in Piazza Libertà a Lissone il 16 giugno 1944.
Il 23 novembre 1944 in seguito ad uno sciopero viene arrestato con altri 160 compagni di lavoro. Subito dopo l’arresto viene tradotto al carcere di San Vittore, a Milano, dove rimane fino al 29 novembre.
Racconta la moglie di Umberto, Giovanna Erba, allora madre di due bambine – una di 2 anni e l'altra di due mesi: «non mi ero ancora ripresa dalla perdita di mio fratello Pierino, quando la sera del 23 novembre, preoccupata per il ritardo di mio marito dal lavoro, mi son vista arrivare in casa un suo collega. Mi portava la notizia che, nello stesso giorno, c'era stato un rastrellamento alla Pirelli e 160 operai, tra i quali mio marito, erano stati prelevati dal lavoro per essere deportati in Germania». «I cinque giorni nei quali mio marito, coi suoi compagni di lavoro, è stato rinchiuso nel carcere di San Vittore, col pericolo d'essere vittima di una rappresaglia sono stati tremendi. Così come sono stati tremendi i momenti della partenza dallo scalo Farini per la Germania: centinaia di familiari ammassati in attesa dei pullman provenienti dalle carceri, un clima di tensione esasperata che avrebbe potuto degenerare, i soldati tedeschi che ci respingevano lontano. Questi giorni sono stati per me un incubo e li ho ancora chiari nella mente e nel cuore».
Umberto Viganò viene internato nel campo di concentramento di Beesem, a circa 100 km da Desdra.
Ogni giorno, a piedi, insieme a centinaia di altri prigionieri italiani, malnutriti, deve raggiungere Schkopau, una città a 5 chilometri dal lager, per essere impiegato come lavoratore coatto in una delle più importanti fabbriche chimiche del Reich, la Buna-Werke, in cui si lavora a pieno ritmo per l’industria bellica del Reich.
Liberato dagli Americani nell’aprile del 1945, ritorna in Italia 19 giugno del 1945, provato e in cattive condizioni fisiche che richiedono mesi e mesi di cure.
Il proclama Alexander
Il 13 novembre 1944 la radio «Italia combatte» trasmetteva il proclama del generale Alexander dedicato ai «patrioti al di là del Po»: «La campagna estiva, iniziata l'11 maggio e condotta senza interruzione fin dopo lo sfondamento della linea gotica, è finita. Inizia ora la campagna invernale». In conseguenza di questa nuova fase bellica i patrioti avrebbero dovuto «cessare la loro attività precedente per prepararsi alla nuova fase di lotta e fronteggiare un nuovo nemico, l'inverno» e avrebbero dovuto eseguire le seguenti istruzioni:
1) Cessare le operazioni organizzate su larga scala;
2) conservare le munizioni e i materiali e tenersi pronti a nuovi ordini;
3) attendere nuove istruzioni che verranno date o a mezzo radio «Italia combatte» o con mezzi speciali o con manifestini. Sarà cosa saggia non esporsi in azioni troppo arrischiate: la parola d'ordine è: stare in guardia, stare in difesa ...
Il proclama non diceva esplicitamente di «tornare a casa», è vero; anzi nella conclusione accennava all'«opportunità» di continuare nella guerriglia e nel sabotaggio «purché il rischio non fosse troppo grande». ... il modo era il più infelice: un proclama radio che annunciava non solo ai partigiani, ma anche al nemico l'intenzione di rinviare ogni azione offensiva a primavera e di lasciarlo indisturbato sul fronte. Riguardo al momento, non si poteva sceglierne uno meno adatto, poiché il proclama giungeva nel pieno della controffensiva tedesca. ...
il generale Alexander, non solo dava «mano libera» ai tedeschi verso la Resistenza italiana, ma suscitava nell'interno di questa i più gravi dubbi sulle prospettive future ...
Nel giro di una settimana non rimase più un angolo dell'Italia partigiana che non fosse sconvolto, messo a ferro e a fuoco dai rastrellamenti: almeno la metà delle forze tedesche e tutte le forze repubblichine, furono impegnate contemporaneamente e in tutti i settori per schiacciare la Resistenza.
Alla fine di novembre 1944 viene catturato l'intero Comando GL piemontese, ucciso Duccio Galimberti; la stessa sorte subiva il Comando regionale veneto, e poi quello ligure. In Lombardia cadeva il comandante della piazza di Milano Sergio Kasman, venivano arrestati quasi tutti i tecnici militari del CVL e infine gli stessi dirigenti: il rappresentante liberale (Argenton) quello dc (Mattei) e lo stesso Parri. In Emilia, l'intero CLN di Ferrara viene arrestato dai fascisti e consegnato alle SS tedesche. Solo nel '46 le sette salme dei suoi componenti verranno ritrovate in una fossa comune, in località Caffè del Doro.
il Generale Harold Alexander (a destra) e il Generale Oliver Leese (a sinistra) con Winston Churchill (Italia Agosto 1944)
il proclama del generale Alexander
Testo del proclama che il generale Alexander indirizzò ai partigiani italiani il 13 novembre 1944.
Il proclama venne trasmesso da «Italia combatte», la trasmissione più prestigiosa di Radio Bari.
«Nuove istruzioni impartite dal generale Alexander ai patrioti italiani. La campagna estiva, iniziata l’11 maggio, e condotta senza interruzione fin dopo lo sfondamento della linea gotica, è finita; inizia ora la campagna invernale.
In relazione alla avanzata alleata, nel periodo trascorso, era richiesta una concomitante azione dei patrioti: ora le piogge e il fango non possono non rallentare l’avanzata alleata, e i patrioti devono cessare la loro attività precedente per prepararsi alla nuova fase di lotta e fronteggiare un nuovo nemico, l'inverno. Questo sarà duro, molto duro per i patrioti, a causa della difficoltà di rifornimenti di viveri e di indumenti: le notti in cui si potrà volare saranno poche nel prossimo periodo, e ciò limiterà pure la possibilità dei lanci; gli Alleati però faranno il possibile per effettuare i rifornimenti.
In considerazione di quanto sopra esposto il gen. Alexander ordina le istruzioni ai patrioti come segue:
- cessare le operazioni organizzate su larga scala;
- conservare le munizioni ed i materiali e tenersi pronti a nuovi ordini;
- attendere nuove istruzioni che verranno date o a mezzo radio “Italia combatte” o con mezzi speciali o con manifestini. Sarà cosa saggia non esporsi in azioni troppo arrischiate: la parola d'ordine è: stare in guardia, stare in difesa;
- approfittare però ugualmente delle occasioni favorevoli per attaccare tedeschi e fascisti;
- continuare nella raccolta delle notizie di carattere militare concernenti il nemico, studiarne le intenzioni, gli spostamenti, e comunicare tutto a chi di dovere;
- le predette disposizioni possono venire annullate da ordini di azioni particolari;
- poiché nuovi fattori potrebbero intervenire a mutare il corso della campagna invernale (spontanea ritirata tedesca per influenza di altri fronti), i patrioti siano preparati e pronti per la prossima avanzata;
- il gen. Alexander prega i capi delle formazioni di portare ai propri uomini le sue congratulazioni e l'espressione della sua profonda stima per la collaborazione offerta alle truppe da lui comandate la scorsa campagna estiva».
Parigi, 11 novembre 1940
In Francia, l’11 novembre è il giorno in cui si celebra la vittoria del 1918, i sacrifici e l’eroismo dei combattenti della prima guerra mondiale, il giorno in cui si rende loro omaggio all’Arco di Trionfo, ravvivando la fiamma ed esponendo il tricolore sulla tomba del milite ignoto.
Nella Francia occupata dai nazisti, l’11 novembre 1940 s’inscrive nella coscienza della nazione, malgrado la censura, la propaganda tedesca e quella della repubblica collaborazionista di Vichy. Giovani studenti parigini si radunano all’Arco di Trionfo, sfidando il divieto degli occupanti: è una delle prime forme di resistenza all’invasore nazista.
La manifestazione, che avviene solamente quattro mesi dopo la sconfitta della Francia, orienta il popolo alla resistenza e nello stesso tempo rende la stretta di mano tra Hitler e Pétain, avvenuta il 24 ottobre, il simbolo infamante del tradimento.
11 novembre 1940: come non scegliere questa giornata commemorativa per affermare l’amore della patria, la speranza di una vittoria?
Già, venerdì 8 novembre, gli studenti comunisti hanno manifestato davanti al Collège de France, scandendo il nome di Paul Langevin e gridando «Liberté» e «Vive la France». (Paul Langevin, arrestato il 30 ottobre 1940 dalla Gestapo, fisico, professore al Collège de France, scienziato di fama internazionale, era uno degli intellettuali che avevano sostenuto il Front Populaire e che erano impegnati nella lotta antifascista).
Si apprende che Radio Londra ha rivolto un appello a tutti i francesi, e in particolare agli ex combattenti, perchè depongano fiori sulla tomba del milite ignoto.
Le autorità tedesche d’occupazione, in un manifesto, hanno proibito qualsiasi forma di ricordo che costituirebbe, secondo loro, un insulto al Reich e un attentato all’onore della Wermacht. Ciò ha indignato diversi parigini. Se ne parla nelle brasserie, nelle classi dei licei, nei corridoi della Sorbona, nel Quartiere Latino.
La Commissione, incaricata della censura nei media, ha stabilito che, per la rievocazione dell’11 novembre, i giornali non potranno dedicare più di due pagine.
I giornali pubblicano un comunicato della prefettura di polizia di Parigi, che riecheggia quello del Kommandantur: « A Parigi e nel dipartimento della Senna, le pubbliche amministrazioni e le imprese private lavoreranno normalmente il giorno 11 novembre. Le cerimonie commemorative non avranno luogo. Nessuna pubblica dimostrazione sarà tollerata».
Nel Quartiere Latino, nei grandi licei di Parigi, la collera e l’indignazione si diffondono. Gli studenti che hanno partecipato alla manifestazione dell’8 novembre davanti al Collège de France – quasi tutti comunisti – e i liceali – spesso dell’Action Française – dei licei Janson-de-Sailly, Buffon, Condorcet, Carnot, decidono di redigere e stampare dei volantini ed esporli nei licei e nelle facoltà universitarie, invitando tutti gli studenti a manifestare. «Studenti di Francia, l’11 novembre è per te un giorno di festa nazionale. Malgrado l’ordine delle autorità di occupazione sarà un giorno di raccoglimento. Tu andrai a rendere onore al milite ignoto, alle ore 17,30. Non assisterai a nessuna lezione. L’11 novembre 1918 fu il giorno di una grande vittoria. L’11 novembre 1940 sarà l’inizio di una più grande. Tutti gli studenti sono solidali. Vive la France! Ricopiate queste parole e diffondetele».
Tutto inizia il mattino dell’11 novembre. Vengono depositati dei fiori ai piedi della statua rappresentante la città di Strasburgo, in Place de la Concorde. Poi, con il passar delle ore, la folla risale gli Champs-Elisées, depone migliaia di bouquet, corone di fiori davanti alla statua di Georges Clemenceau.
Un commissario di polizia ripete, con una voce dolce: «Andate via, niente raggruppamenti, vi prego, sono proibiti». Subito dei soldati tedeschi, scesi da una vettura, circondano la statua. «Il comandante tedesco non vuole manifestazioni» ripete il commissario.
Improvvisamente, a partire dalle ore 17, migliaia di studenti riempiono il piazzale dell’Arco di Trionfo. Altri arrivano in corteo, drappo tricolore in testa, dall’Avenue Victor Hugo.
Si sentono esplodere colpi di arma da fuoco. Dei veicoli carichi di soldati tedeschi zigzagano sul piazzale e sui marciapiedi, disperdendo i manifestanti. Ci sono dei feriti. Alcuni manifestanti sono travolti dai mezzi militari. Improvvisamente delle SS, armi in pugno, escono dal cinema Le Biarritz. Nuovamente si sentono dei colpi di arma da fuoco e delle raffiche di mitragliatrice.
Si ode la Marseillaise, poi il Chant du départ. Si sentono grida «Vive la France», «abbasso Pétain», «abbasso Hitler».
I tedeschi piazzano una batteria di mitragliatrici, colpiscono con i calci delle armi da fuoco. Si combatte. Una dozzina sono i morti, un centinaio gli arrestati, che vengono caricati su camion, condotti in Avenue de l’Opera, dove si trova un Kommandantur, poi alla prigione di Cherche-Midi, pestati con pugni e calci, con manganelli e il calcio dei fucili. Vengono fatti passare tra due ali di soldati ubriachi. Alcuni vengono sbattuti contro un muro, puntati da un plotone di esecuzione nel cortile della prigione di Cherche-Midi.
Un generale fa irruzione nel cortile. Si è messo a picchiare i soldati, insultandoli «ubriachi, banda di ubriachi». E vedendo gli studenti, si è indignato, esclamando «ma sono dei bambini!». Questi giovani saranno trattenuti in carcere per tre settimane, prima di essere rilasciati.
Solamente sabato 16 novembre la radio e la stampa hanno dato la notizia che «queste manifestazioni hanno richiesto l’intervento del servizio d’ordine delle autorità di occupazione». Ma la notizia della manifestazione si è propagata per tutta la Francia, suscitando un’ondata di emozioni. Non viene prestata alcuna attenzione al comunicato del Kommandantur. Genera indignazione il testo del documento del vice presidente del Consiglio - Pierre Laval – dal titolo «La verità sugli incidenti dell’11 novembre», in cui si dice «quattro persone sono state leggermente ferite, nessuno è stato ucciso».
Non si conosce l’esatto numero delle vittime, ma vista l’importanza dell’avvenimento, vengono presi provvedimenti da parte del governo di Vichy e dalle autorità di occupazione. Viene decretata la chiusura dell’Università di Parigi e degli istituti universitari della capitale. Gli studenti iscritti ai corsi dovranno, ogni giorno, recarsi a firmare presso il commissariato del loro quartiere.
Il rettore Roussy è revocato e sostituito dallo storico Jérome Carcopino, che riscuote la fiducia del potere di Vichy. La ripresa dei corsi viene fissata per il 20 dicembre, quando le vacanze di fine anno incominciano ... il 21.
Le trasmissioni di France Libre, dai microfoni delle BBC da Londra, ripetono: «Dietro questa folla coraggiosa, gli uomini di Vichy sentono che c’è tutto un paese che si rivolta ... ».
Bibliografia:
Max Gallo, 1940 de l’abîme à l’espérance, XO Éditions, 2010