Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"
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Ambrogio Avvoi

12 Mars 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #storie di lissonesi

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Oggi lo ricordiamo.
 12.4.1894 Lissone (Mi) – 12.3.1945 Flossenbürg

 

Nato a Lissone il 12/4/1894, da Ambrogio e Galimberti Giuseppina.

Sposato con Dassi Alessandrina Bice il 5 maggio 1921.

Professione: falegname ebanista.

Comunista, cinquantenne, viene arrestato a Monza nei primi giorni di marzo 1944 e portato nel carcere di Monza. Il 20 marzo 1944 è trasferito a Milano nel carcere di San Vittore. Da qui viene inviato al campo di Fossoli (MO) il 9 giugno 1944 per poi essere mandato, nei primi giorni di agosto 1944, nel lager di Bolzano. Durante il trasporto in treno da Bolzano al lager nazista di Flossembürg, il 18 dicembre 1944, a Vipiteno riesce a fuggire insieme a dieci compagni di sventura (7 sono operai delle industrie di Sesto San Giovanni). Sfortunatamente sono ripresi a Bressanone e rinchiusi nel carcere locale, dove rimangono per qualche giorno, per poi essere nuovamente trasferiti al campo di Bolzano.

Con un nuovo trasporto sono portati a Flossembürg, lager “di frontiera”, situato nel nord-est della Baviera vicino al confine con la regione dei Sudeti, luogo di “sterminio attraverso il lavoro”. Come negli altri lager era in funzione il forno crematorio.

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Ambrogio Avvoi, triangolo rosso di deportato politico, è registrato con numero di matricola 43841. Per il suo tentativo di fuga gli viene riservato un “trattamento particolare”.  
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Muore l’8 marzo 1945. 
Il lager fu liberato il 23 aprile 1945.

 

Nel cimitero di Lissone una lapide lo ricorda.   

 

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Nel 1963, l’Amministrazione Comunale, sindaco Fausto Meroni, ha dedicato ad Ambrogio Avvoi una via di Lissone.

 

 

 

Dati forniti dall’ANED

via dedicata ad Ambrogio Avvoi

via dedicata ad Ambrogio Avvoi

Pietra d'Inciampo 2024
Pietra d'Inciampo 2024

Pietra d'Inciampo 2024

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Anni da Apocalisse

11 Mars 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #I guerra mondiale

Nella cittadina siriana di Kafr Zita la nuvola è arrivata all'improvviso, subito dopo l'esplosione di alcune granate. Silenziosa, invisibile, soltanto l'odore acre ne ha tradito la presenza. A quel punto però era troppo tardi per scappare: almeno due persone sono morte e altre duecento hanno dovuto farsi curare per i danni ai polmoni. In quel venerdì di aprile l'aria è diventata veleno: l'effetto di una singola bomba riempita di cloro, sganciata tra le case, che ha scatenato un'onda di terrore. Nell'aprile 1917 furono 150 tonnellate di cloro affidate al vento belga di Ypres a segnare la nuova frontiera della capacità omicida: l'arma chimica. E come se l'eco dello stesso urlo disperato avesse continuato a risuonare lungo tutto un secolo: «Gas! Gas!». «Improvvisamente il grido terrificante "Gas!" percorse le fila», ha scritto il soldato britannico Gladen nel diario della primavera 1917. «Il nemico stava cannoneggiando con granate chimiche che uggiolavano in alto per poi infrangersi sul terreno con il loro caratteristico tonfo soffocato. Un odore disgustoso incominciò ad arrivare alle narici. La paura del gas era la più grande delle paure».

Non è l'unica che la prima guerra mondiale ci ha lasciato in eredità. È stato anche il primo conflitto dell'era industriale, con una gara tra scienza, tecnologia e aziende per migliorare senza sosta qualità e quantità degli strumenti di morte: aerei, carri armati, sottomarini, corazzate ma soprattutto cannoni e mitragliatrici sempre più letali.

Anni da Apocalisse
Anni da Apocalisse
Anni da Apocalisse
Anni da Apocalisse
Anni da Apocalisse
Anni da Apocalisse
Anni da Apocalisse

La rivoluzione è proprio nella velocità degli aggiornamenti e nel volume della produzione. Nel 1915 si usano su tutti i fronti solo 3.600 tonnellate di sostanze chimiche belliche, quasi sempre composti derivati del cloro a bassa tossicità; l'anno dopo diventano 15 mila con una predominanza di testate all'arsenico, molto più aggressive; nel 1917 le tonnellate sono 35 mila e negli arsenali entra l'iprite, capace di uccidere attraverso la pelle, e prima che le ostilità cessino le forniture salgono al record di 59 mila tonnellate. Quando sono cominciati i combattimenti, gli aeroplani erano macchine volanti per temerari: trabiccoli di legno e tela, scarsamente affidabili e con prestazioni modeste.

Anni da Apocalisse

I bombardamenti dal cielo li avevamo inventati noi italiani, durante lo sbarco in Libia del 1911: quattro granate a mano da due chili ciascuna, tirate contro i turchi dal tenente Giulio Gavotti. Nel 1918 invece tut­te le potenze avevano squadriglie di plurimotori come il Gotha o il Caproni in grado di sganciare più di una tonnellata di ordigni a 500 chilometri di distanza. La linea del fronte si era allargata a dismisura, trasformando le città in bersagli: da Parigi a Milano, da Liegi a Londra, duramente colpita per mesi con centinaia di vittime civili. Non esistono più zone franche. Con un'antici­pazione del futuro, piovono bombe su metropoli lontanissime dalle trincee, persino su Napoli, centrata da un dirigibile Zeppelin germanico.

Anni da Apocalisse

Con i progressi della meccanica tutto può trasformarsi in campo di battaglia, anche la profondità del mare. I sommergibili, fino ad allora, erano stati vascelli dalle incerte prestazioni: fantasie da Jules Verne, buone più per i feuilleton che per combattere. I cantieri del Kaiser li rendono mezzi micidiali, affidandoli il compito di stroncare i rifornimenti diretti in Gran Bretagna: l'assedio che non era riuscito a Napoleone viene tentato colpendo senza emergere. Con risultati clamorosi: solo negli ultimi due anni di ostilità i 345 U-Boote in servizio colarono a picco 9,5 milioni di tonnellate di naviglio alleato. Tra le prede, la più nefasta rimane il transatlantico americano Lusitania, il cui affondamento provocò l’entrata in guerra degli Stati Uniti.

 

Anni da Apocalisse Anni da Apocalisse

La minaccia proveniente dagli abissi - oltre ai sommergibili, le mine ma anche i siluri dei motoscafi d'assalto - ha cambiato la natura degli scontri marini. Nel 1915 la poderosa flotta anglo britannica spedita davanti a Gallipoli perse tre corazzate senza nemmeno vedere una nave nemica. L'orgoglio della marina austro-ungarica rimase intrappolato nei porti adriatici con i piccoli Mas. italiani pronti ad aggredirla come quello di Luigi Rizzo che affondò prima la Wien e poi la Szent Istvàn. Le colossali navi da battaglia, mostri d'acciaio irti di batterie di grosso calibro, persero il ruolo di dominatori dei mari e furono costrette a rimanere sulla difensiva.

D'altronde con nuovi strumenti ed esplosivi avanzati si arrivò a stravolgere anche le profondità della terra, decapitando le montagne: sfruttando gli antenati dei martelli pneumatici, italiani e austriaci scavarono nella roccia fino a posizionare mine gigantesche sotto i capisaldi nemici costruiti sulle vette. Lo scoppio era sconvolgente: massi enormi venivano scagliati in aria, le fiamme si infilavano nelle reti di gallerie, tutto il paesaggio veniva sconvolto con voragini larghe cinquanta metri. «L'intero massiccio sembrò un mare di fiamme, dal quale emergevano vampe fino a trenta metri d’altezza», scrisse il generale Moritz Brunner descrivendo la detonazione sul Pasubio, chiamata "la montagna dei diecimila morti".

Alcune innovazioni restarono d'importanza poco più che psicologica, finché non si riuscì a sviluppare le tattiche per renderle determinanti. La forza dei primi carri armati era tutta nell'immagine di macchine demoniache: parallelepipedi di metallo rumorosi e lenti (la velocità era inferiore ai quattro chilometri l'ora), da cui spuntavano cannoni e mitragliatrici, che grazie ai cingoli superavano qualunque ostacolo. Lunghi poco meno di dieci metri, pesanti più di 27 tonnellate, stritolavano i reticolati e varcavano le trincee. La loro apparizione il 15 settembre 1915 nella Somme fu uno choc, sessanta Mark 1 britannici che travolgevano ogni cosa: pareva che nulla potesse fermarli. Ma lo spavento è durato poco: i bestioni di metallo andavano in panne facilmente e avevano troppi punti deboli. Solo nell’estate 1918 inglesi e francesi cominciarono a inscenare offensive coordinate di carri e aeroplani, creando il binomio che ha poi dominato i campi di battaglia.

Anni da Apocalisse Anni da Apocalisse

I caccia smisero di duellare tra loro, come nelle tenzoni tra nobili del medioevo: la leggen­da alata delle sfide tra biplani, come il mito delle ottanta vittorie del Barone Rosso Manfred von Richthofen e l'epopea nazionale dci Cavallino Rampante di Francesco Baracca, fu sostituita da un impiego di massa degli stormi, con intere formazioni che agivano compatte. Spiega il celebre storico militare Basil Liddell Hart: «In tal modo gli aerei divennero la cavalleria dell'aria, e la somiglianza fu accentuata dall'ennesimo tipo di azioni adottato con grande efficacia nelle ultime fasi della guerra: l'attacco contro truppe di terra. Fintantoché gli eserciti rivali erano al riparo delle trincee, l’attacco aereo aveva scarse possibilità di incidere sulla situazione. Ma quando nel marzo del 1918 il fronte britannico fu travolto, tutti i gruppi da caccia disponibili furono concentrati per colpire il nemico in avanzata».

Eppure tutte queste invenzioni e questa tecnologia hanno dato un contributo assolutamente secondario al massacro della Grande Guerra, che ha provocato otto milioni di morti e ventitré milioni di feriti. Aerei sommergibili, carri armati sono stati carnefici minori. Persino le bombe chimiche hanno avuto bassa letalità: considerando gli eserciti francese, britannico, tedesco e americano gli vengono attribuiti circa 20 mila caduti e meno di mezzo milione di feriti, ossia il 3,4 percento delle vittime.

La strage è figlia di armi più semplici; mitragliatrici e cannoni, però costantemente perfezionate e prodotte in stock mai visti prima. È grazie a loro che il fronte viene letteralmente inondato di pallottole d'ogni calibro. Questo volume di fuoco stravolge qualunque tradizione militare, annienta i tradizionali schieramenti, rende suicida l'azione della cavalleria e finisce per obbligare le armate a rintanarsi nelle trincee.

Anni da Apocalisse
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Na­scono le mimetizzazioni, gli ufficiali nascondono gradi e simboli: un'ideale del guerriero scom­pare dopo millenni di retorica bellica. Come ha raccontato Sandro Pertini, tenente decorato per azioni eroiche e poi ferito dai gas: «Ricordo quei massacri. Per prendere una collina, mandavano all'assalto i battaglioni inquadrati, ufficiali in testa con la sciabola sguainata. La sciabola brilla­va alla luce del sole e quegli ufficiali diventavano sagome per un tragico tiro al bersaglio. Ma in luogo di adottare una più intelligente tattica di assalto, fu deciso di brunire le sciabole». Ogni offensiva è un'ecatombe: 600 mila tra morti e feriti a Verdun, 280 mila solo nell'undicesima delle battaglie dell'Isonzo. «La raffica della mitragliatrice è l'unica che non risparmia letteralmente nessuno», sentenziò Marcel Bloch. In Italia nel 1915 se ne producevano 600 l'anno, al momen­to di Vittorio Veneto il ritmo delle fabbriche era arrivato a quasi 20 mila. Ognuna era in grado di sparare tra i 400 e i 600 proiettili al minuto.

Anni da Apocalisse
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Ancora peggio hanno fatto i cannoni, diventati a "tiro rapido". In un singolo attacco del luglio 1916 gli inglesi scaricano sui tedeschi un milione e mezzo di granate: una pioggia ininterrotta di schegge, a cui viene attribuito il 70-80 per cento dei feriti e una proporzione appena inferiore di caduti. Negli ultimi mesi di guerra si confrontano batterie sterminate di obici: in ogni offensiva vengono schierati dagli alleati tra i 5 e gli 8 mila pezzi. Il cannone da 75 francese, forse il migliore costruito nel conflitto, sparava otto colpi al minuto: potete immaginare che tempesta di tritolo e metallo arrivava sulle trincee nemiche. Qualcosa di infernale. Il tiro di sbarramento faceva impazzire. Gabriel Chevalier ne La Paura ricorda: «Gli uomini non furono più altro che prede, animali senza dignità, il cui corpo si muoveva inseguendo l'istinto. Ho visto i miei compagni, pallidi e con gli occhi folli, spingersi e ammucchiarsi per non essere colpiti da soli, o, scossi come marionette dai soprassalti della paura, strisciare al suolo, nascondendosi il viso».

Anni da Apocalisse
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I fiori nelle Fiandre

9 Mars 2024 , Rédigé par anpi-lissone

Flanders Fields" è una poesia di guerra a forma di rondeau, scritta durante la prima guerra mondiale dal medico canadese tenente colonnello John McCrae. Fu ispirato a scriverlo il 3 maggio 1915, dopo aver presieduto il funerale dell'amico e commilitone tenente Alexis Helmer, morto nella seconda battaglia di Ypres.

Nei campi delle Fiandre spuntano i papaveri
tra le croci, fila dopo fila,
che ci segnano il posto; e nel cielo
le allodole, cantando ancora con coraggio,
volano appena udite tra i cannoni, sotto.

Noi siamo i Morti. Pochi giorni fa
eravamo vivi, sentivamo l'alba, vedevamo
risplendere il tramonto, amavamo ed eravamo amati.
Ma ora giacciamo nei campi delle Fiandre.

Riprendete voi la lotta col nemico:
a voi passiamo la torcia, con le nostre
mani cadenti, e sian le vostre a tenerla alta.
e se non ci ricorderete, noi che moriamo,
non dormiremo anche se i papaveri
cresceranno sui campi delle Fiandre

I fiori nelle Fiandre

Dormi sepolto in un campo di grano Non è la rosa non è il tulipano Che ti fan veglia dall'ombra dei fossi Ma sono mille papaveri rossi

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Le donne e le conquiste dal dopoguerra ad oggi

3 Mars 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #La Resistenza delle donne

La Costituzione repubblicana aveva stabilito l’uguaglianza formale fra i sessi, ma la conquista dei diritti civili si intrecciava da parte delle donne con la percezione, che divenne via via più nitida negli anni Sessanta e Settanta, di aver raggiunto diritti non completi, di avere di fronte consuetudini sociali e culturali che ancora non riconoscevano loro una reale parità.

Dalla fine degli anni Sessanta il cambiamento dell’idea stessa di politica diffuso dai movimenti giovanili e studenteschi iniziò a investire anche la sfera del privato, modificando le forme di partecipazione alla vita pubblica. Per settori consistenti della popolazione femminile, soprattutto nelle grandi città, l’adesione alla mobilitazione del '68 significò in molti casi una forma di iniziazione alla politica. Il bisogno di impegnarsi attivamente fu anche un modo per dar voce a istanze di emancipazione e di liberazione che fino a quel momento erano state scarsamente recepite a livello istituzionale.

Gli anni Settanta furono il periodo in assoluto più importante per il movimento femminista italiano, che dovette fronteggiare sia la crisi del Paese, sia una difficile modernizzazione. Questi anni, grazie anche e, forse, soprattutto, alle battaglie condotte dalle donne, segnarono importanti vittorie civili, sociali e culturali. In Italia, dal dopoguerra ad oggi, la condizione sociale e giuridica delle donne si è infatti lentamente ma radicalmente modificata.

Le donne e le conquiste dal dopoguerra ad oggi

Ecco alcune tappe fondamentali di tale cammino:

1948

Entra in vigore la Costituzione. Gli articoli 3, 29, 31,37,48 e 51 sanciscono la parità tra uomini e donne.

Angela Maria Cingolani Guidi è la prima donna sottosegretario (Industria e commercio con delega all'artigianato).

1950

Varata la legge 26 agosto 1950, n. 860, «Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri».

1956

Le donne possono accedere alle giurie popolari col limite massimo di tre su sei (la norma rimarrà in vigore fino al 1978) e ai tribunali minorili.

Le funzioni riconosciute alle donne sono ancora quelle legate alla figura materna. Il loro intervento viene giudicato opportuno in quei casi in cui i problemi vadano risolti, «più che con l'applicazione di fredde formule giuridiche con il sentimento e la conoscenza del fanciullo che è proprio della donna».

1958

La legge Merlin chiude definitivamente le case di tolleranza: legge 20 febbraio 1958, n. 75, «Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui».

1959

Viene istituito il Corpo di polizia femminile.

1963

Il matrimonio non è più ammesso come causa di licenziamento: legge 9 gennaio 1963, n. 7, «Divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio e modifiche della legge 26 agosto 1950, n. 860».

Marisa Cinciari Rodano è eletta vicepresidente della Camera. Le donne sono ammesse alla magistratura: legge 9 febbraio 1963, n. 66, «Ammissione della donna ai pubblici uffici ed alle professioni».

Un ulteriore passo avanti nell'effettiva attuazione dell'art.51 della Costituzione: le donne possono accedere a tutti i pubblici uffici senza distinzione di carriere né limitazioni di grado.

1968

L'adulterio femminile non è più considerato reato.

L'art. 559 del Codice penale recitava: «La moglie adultera è punita con la reclusione fino ad un anno. Con la stessa pena è punito il correo». Per il marito non esisteva nulla del genere: la disparità di trattamento non rispettava le norme fondamentali della Costituzione. Con due senten­ze del 19 dicembre 1968, la Corte costituzionale abroga l'articolo sul diverso trattamento dell'adulterio maschile e femminile e quello analogo del Codice penale.

1970

Viene approvata la legge sul divorzio: legge  dicembre 1970, n. 898, «Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio».

L'introduzione del divorzio in Italia era stata collegata alla questione del voto alle donne. In sede costituente, il PCI, per una scelta di fondo sfociata nell'approvazione dell'art. 7, non aveva sollevato la questione. La Commissione dei 75 avrebbe voluto includere l'indissolubilità del matrimonio nel testo della carta costituzionale, ma, dopo un'aspra battaglia in aula, la parola «indissolubile» non era stata inserita, bocciata con un esiguo margine di voti.

Nel 1965, il socialista Loris Fortuna avanzò la prima proposta di legge, sulle orme del collega Renato Sansone, che negli anni Cinquanta aveva proposto a più riprese e senza successo una legge di «piccolo divorzio», per i casi estremi di ergastolani, malati di mente, scomparsi, divorziati all'estero.

Dopo l'approvazione della nuova normativa, nel 1974 sarebbe stato indetto un referendum abrogativo, ma in seguito alla vittoria del fronte del NO col 59% dei voti la legge sarebbe rimasta in vigore.

1971

La Corte costituzionale cancella l'articolo del Codice civile che punisce la propaganda di anticoncezionali.

Dall'inizio degli anni Sessanta la pillola contraccettiva era in commercio in molti Paesi europei, ma nel 1968 la Chiesa condannò aspramente la contraccezione. Nel 1969 la pillola cominciò, tuttavia, a essere venduta anche in Italia, come farmaco per le disfunzioni del ciclo mestruale. Nel 1971 la Corte costituzionale, dopo un'aspra battaglia, abrogò l'art. 535 del Codice penale che vietava la propaganda di qualsiasi mezzo contraccettivo e puniva i trasgressori col carcere.

Viene approvata la legge sulle lavoratrici madri: legge 30 dicembre 1971, n. 1204, «Tutela delle lavoratrici madri».

Sono istituiti gli asili nido comunali: legge 6 dicembre 1971, n. 1044, «Piano quinquennale per l'istituzione di asili-nido comunali con il concorso dello Stato».

1975

Riforma del diritto di famiglia: legge 19 maggio 1975, n. 151, «Riforma del diritto di famiglia».

Fino a questa riforma, il peso dell'educazione dei figli gravava, di fatto, sulle madri, ma tale impegno non aveva un adeguato riconoscimento giuridico. La patria potestà spettava ad entrambi i genitori, ma il suo esercizio toccava al padre, secondo l'art. 316 del Codice civile.

Col nuovo diritto di famiglia, la legge riconosce parità giuridica tra i coniugi che hanno uguali diritti e responsabilità e attribuisce ad entrambi la patria potestà.

1976

Per la prima volta una donna, Tina Anselmi, viene nominata ministro (Lavoro e previdenza sociale).

1977

È riconosciuta la parità di trattamento tra donne e uomini nel campo del lavoro: legge 9 dicembre 1977 n. 903, «Parità fra uomini e donne in materia di lavoro».

1978

Viene approvata la legge sull'aborto.

Nel 1974 i radicali avevano iniziato una campagna per un referendum al fine di abrogare le norme che penalizzavano l'aborto. Gli articoli dal 546 al 551 del Codice penale stabilivano, infatti, che la donna che si procurava un aborto dovesse essere punita con la reclusione da uno a quattro anni (ma, se l'aborto era effettuato per "salvare l'onore", era prevista una riduzione, che andava da un terzo alla metà della pena).

Dopo l'approvazione della legge, un referendum abrogativo del maggio del 1981 non avrebbe avuto successo.

1979

Nilde Jotti è la prima donna presidente della Camera.

 

1981

Il motivo d'onore non è più attenuante nell'omicidio del coniuge infedele.

1983

La Corte costituzionale stabilisce la parità tra padri e madri circa i congedi dal lavoro per accudire i figli.

1984

Presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri è costituita la Commissione nazionale per la realizzazione delle pari opportunità, presieduta da Elena Marinucci.

1986

La commissione nazionale per la parità uomo e donna elabora il «Programma azioni positive»: aziende e sindacati devono tutelare accesso, carriera e retribuzioni femminili.

1989

Le donne sono ammesse alla magistratura militare.

1991

Legge 10 aprile 1991, n. 125, «Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro».

La legge dovrebbe essere in grado di intervenire nel rimuovere le discriminazioni e valorizzare la presenza e il lavoro delle donne nella società. Purtroppo, è ancora poco applicata.

1992

Legge, 25 febbraio 1992, n. 215, «Azioni positive per l'imprenditorialità femminile».

La legge sull'imprenditoria femminile favorisce la nascita di imprese composte per il 60% da donne, società di capitali gestiti per almeno 2/3 da donne e imprese individuali.

1993

Con la legge 25 marzo 1993, n. 81 per la prima volta vengono introdotte le "quote rosa" in merito alle elezioni dei rappresentanti degli enti locali.

Si stabilisce che per le elezioni regionali e comunali, i candidati dello stesso sesso non possano essere inseriti nelle liste in misura superiore ai due terzi: ciò riserva, di fatto, un terzo dei posti disponibili al sesso sottorappresentato (cioè le donne). Per le elezioni nazionali, viene introdotta l'alternativa obbligatoria di uomini e donne per il recupero proporzionale ai fini della designazione alla Camera dei deputati.

Nel 1995 questa serie di interventi legislativi è stata annullata con la sentenza n. 422 della Corte costituzionale, avendo il giudice stabilito che, in materia elettorale, debba trovare applicazione solo il principio di uguaglianza formale e che qualsiasi disposizione tendente ad introdurre riferimenti al sesso dei rappresentanti, anche se formulata in modo neutro, sia in contrasto con tale principio.

1996

La legge 15 febbraio 1996, n. 66, «Norme contro la violenza sessuale», punisce lo stupro come delitto contro la persona e non contro la morale come in precedenza.

Il governo nomina un ministro per le pari opportunità, Anna Finocchiaro.

2000

Legge 8 marzo 2000, n. 53, «Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città».

Sia il padre che la madre possono chiedere l'aspettativa, da sei a dieci mesi, entro gli otto anni di vita del bambino. La cura dei figli smette di essere, dal punto di vista legislativo, esclusiva prerogativa delle madri.

2003

Legge costituzionale 30 maggio 2003, n. l, «Modifica dell'art. 51 della Costituzione».

L’art. 51 della Costituzione («Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizione di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge») viene modificato, con l'aggiunta: «A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini».

2004

La legge sulle elezioni dei membri del Parlamento europeo introduce una norma in materia di "pari opportunità": legge 8 aprile 2004, n. 90, «Norme in materia di elezioni dei membri del Parlamento europeo e altre disposizioni inerenti ad elezioni da svolgersi nell'anno 2004».

L’art. 3 prescrive che le liste circoscrizionali, aventi un medesimo contrassegno, debbano essere formate in modo che nessuno dei due sessi possa essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati.

2019

La legge n.69 prevede, a fronte di notizie di reato relative a delitti di violenza domestica e di genere: che la polizia giudiziaria, acquisita la notizia di reato, riferisca immediatamente al pubblico ministero, anche in forma orale; alla comunicazione orale seguirà senza ritardo quella scritta.

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Le donne della Costituente

3 Mars 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #La COSTITUZIONE italiana

da La Domenica del Corriere : supplemento illustrato al Corriere della sera (4 agosto 1946, pag. 3) Milano

da La Domenica del Corriere : supplemento illustrato al Corriere della sera (4 agosto 1946, pag. 3) Milano

articolo tratto dalla Biblioteca del Senato Emeroteca Le donne della Costituente

Il 2 giugno 1946 il suffragio universale e l’esercizio dell’elettorato passivo portarono per la prima volta in Parlamento anche le donne. Si votò per il referendum istituzionale tra Monarchia o Repubblica e per eleggere l’Assemblea costituente che si riunì in prima seduta il 25 giugno 1946 nel palazzo Montecitorio.

Su un totale di 556 deputati furono elette 21 donne: 9 della Democrazia cristiana, 9 del Partito comunista, 2 del Partito socialista e 1 dell’Uomo qualunque.

Alcune di loro divennero grandi personaggi, altre rimasero a lungo nelle aule parlamentari, altre ancora, in seguito, tornarono alle loro occupazioni. Tutte, però, con il loro impegno e le loro capacità, segnarono l’ingresso delle donne nel più alto livello delle istituzioni rappresentative.

Donne fiere di poter partecipare alle scelte politiche del Paese nel momento della fondazione di una nuova società democratica.

Per la maggior parte di loro fu determinante la partecipazione alla Resistenza. Con gradi diversi di impegno e tenendo presenti le posizioni dei rispettivi partiti, spesso fecero causa comune sui temi dell’emancipazione femminile, ai quali fu dedicata, in prevalenza, la loro attenzione.

La loro intensa passione politica le porterà a superare i tanti ostacoli che all’epoca resero difficile la partecipazione delle donne alla vita politica.

“Le 21 donne alla Costituente”

Adele Bei

Bianca Bianchi

Laura Bianchini

Elisabetta Conci

Maria De Unterrichter Jervolino

Filomena Delli Castelli

Maria Federici

Nadia Gallico Spano

Angela Gotelli

Angela M. Guidi Cingolani

Leonilde Iotti

Teresa Mattei

Angelina Livia Merlin

Angiola Minella

Rita Montagnana Togliatti

Maria Nicotra Fiorini

Teresa Noce Longo

Ottavia Penna Buscemi

Elettra Pollastrini

M. Maddalena Rossi

Vittoria Titomanlio

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la "Stalingrado d'Italia"

18 Février 2024 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Comune di SESTO SAN GIOVANNI (MI)

Medaglia d'oro al valor militare Data del conferimento: 18-6-1971

motivo del conferimento:

Centro industriale fra i primi d’Italia, durante venti mesi d’occupazione nazifascista fu cittadella operaia della resistenza, che la lotta di liberazione condusse con la guerriglia, di sabotaggio esterno e nel chiuso delle fabbriche, l’intensa attività d’aggressive formazioni partigiane di città e di campagna, le coraggiose aperte manifestazioni di massa, la resistenza passiva e gli scioperi imponenti, esiziali per la produzione bellica dello straniero oppressore. Irriducibili a lusinghe, minacce e repressioni, maestranze e popolazione, di contro alle ingenti perdite umane e materiali del nemico pagarono con perdite in combattimento, dure rappresaglie, deportazioni e lutti atroci il prezzo della loro battaglia offensiva, di cui furono epilogo alla liberazione, gli ultimi scontri sanguinosi, la difesa delle fabbriche dalla distruzione, per la salvezza di un quinto del patrimonio industriale della Nazione. Decine di fucilati, centinaia di caduti in armi e in deportazioni, migliaia di partigiani e patrioti di ogni estrazione e di diversi ideali testimoniano il valore e il sacrificio del popolo sestese, ispirati da unico anelito d’indipendenza dallo straniero invasore e da comune amore di Patria e di libertà. - Sesto San Giovanni (Milano), settembre 1943 - aprile 1945
  


Per tutto il XIX secolo Sesto San Giovanni fu un borgo rurale che contava meno di 5000 abitanti. Dal 1840 il borgo fu attraversato dalla seconda linea ferroviaria italiana, la Milano-Monza, destinata ad allungarsi sino al confine svizzero, e a collegarsi, dal 1882, con il centro Europa attraverso la galleria del San Gottardo. Dai primi anni del Novecento Sesto San Giovanni divenne, quindi, l'epicentro dell'asse Greco-Niguarda-Monza percorso dalla linea ferrovia internazionale, da una tramvia elettrica interurbana, e dal grande stradone napoleonico che univa piazzale Loreto (Milano) alla Villa Reale di Monza.

Fra il 1903 e il 1913 Sesto San Giovanni divenne una "piccola Manchester", una "città delle fabbriche". Accanto ai pochi opifici preesistenti, si trasferivano nei nuovi stabilimenti costruiti in pochi mesi, aziende grandi e medie dei settori siderurgico e meccanico, chimico e alimentare: la Società italiana Ernesto Breda, la Davide Campari (1903), la Turrinelli (1904), la Ercole Marelli, la Trafilerie Spadaccini, la Fonderia Balconi, la Fonderia Attilio Franco, le Pompe Gabbioneta, il nastrificio Kruse (1905), le Acciaierie e Ferriere Lombarde Falck (1906), il Laminatoio Nazionale (1907), la Pirelli (1909), l'Alimentari Maggi, le Trafilerie Barelli e le Distillerie Italiane (1910). Alcune aziende - Breda, Pirelli, Falck ed Ercole Marelli - si ampliarono rapidamente, raggiungendo rinomanza europea.
 

 

I grandi viali industriali creati ad hoc erano costeggiati e attraversati da rotaie che consentivano il transito su treni di materie prime e prodotti finiti (anche incandescenti). All'inizio e alla fine dei turni di lavoro le vie erano percorse da migliaia di biciclette, le fermate dei tram e dei bus nei pressi delle fabbriche e la stazione ferroviaria erano gremite di pendolari. La vita della cittadina era scandita dal suono delle sirene delle varie fabbriche, ognuna riconoscibile dalla tonalità.

Nel 1942, le grandi aziende ebbero un notevole incremento di occupati - Breda e Falck raddoppiarono gli addetti. In gran parte erano donne e ragazzi, a bassa qualificazione professionale, costretti dalla necessità a lasciare i settori di origine entrati in crisi (ad esempio: commercio, edilizia e agricoltura). Con i bombardamenti alleati su Milano, le sconfitte militari, le difficoltà negli approvvigionamenti alimentari e la "borsa nera", la fabbrica divenne il centro della sopravvivenza quotidiana, con le mense e gli spacci aziendali. In quel periodo i lavoratori delle fabbriche dell'area industriale di Sesto San Giovanni erano oltre 50.000, mentre la popolazione residente era di 40.914 unità.

Sesto San Giovanni è stata una delle aree industriali più importanti d'Italia e d'Europa per la concentrazione di industrie e di lavoratori che hanno animato una Resistenza collettiva e di massa, che ha coinvolto la città e l'area milanese e lombarda, nella quale gli scioperi contro il fascismo e l'occupazione nazista e la deportazione di massa di lavoratori che hanno scioperato contro i nazifascisti hanno assunto un valore emblematico che ha travalicato i confini del nostro Paese.

Dopo i massicci bombardamenti dell'ottobre­ novembre del 1942, si crea il primo «embrione di opposizione» che all'inizio del 1943, comincia a prendere contatti con l'antifascismo milanese. Per gli scioperi, nei giorni 22 e 23 marzo 1943, si fermano le officine meccaniche e la direzione chiede l'intervento dell'autorità militare. Giunge invece la polizia fascista che opera numerosi arresti.

Dopo gli scioperi del 1943 si organizzano fra gli operai delle collette, allora severamente proibite, per aiutare le famiglie degli arrestati. Il fattivo interessamento di Alberto e Piero Pirelli facilita la liberazione di alcuni di loro dopo uno o due mesi di carcere. Gli altri saranno liberati dopo il 25 luglio, senza alcun processo. Durante i 45 giorni del governo Badoglio, gli interventi attuati dall'autorità militare per sedare scioperi di natura economica sono formalmente condannati a più riprese dalla direzione della società.

L'area industriale di Sesto San Giovanni, per i grandi scioperi operai, verrà definita "Stalingrado d'Italia".

Particolarmente significativi furono lo sciopero generale del 21 settembre 1944 che coinvolse Breda, Pirelli ed Ercole Marelli e lo sciopero del 23 novembre alla Pirelli Bicocca, dove i nazisti, capeggiati dal capitano delle SS Theo Saewecke, effettuavano 183 arresti; l'intervento della Direzione, peraltro minacciata di deportazione in blocco, valse a far rilasciare 27 operai. 156 lavoratori furono comunque avviati alla deportazione nei lager nazisti.

A proposito di Sesto San Giovanni in un rapporto confidenziale G. Zanuso, Comandante militare di zona delle Brigate nere di Monza, redatto il 21 febbraio 1945 e indirizzato al Comando provinciale del corpo ausiliario delle Brigate nere scriveva: “è una vera maledizione questo centro industriale totalmente sovversivo! Lì sta veramente il cancro della Lombardia (unitamente a Milano) e questa città rossa dovrebbe essere completamente distrutta all'infuori delle industrie con il sistema germanico. La popolazione maschile deportata in Germania”.

 La deportazione politica ha assunto nell'area industriale di Sesto San Giovanni dimensioni di massa per la grande e compatta partecipazione dei lavoratori agli scioperi politici del 1944 e per l'impegno degli operai nelle organizzazioni clandestine della Resistenza e nelle brigate partigiane di città e di montagna che nella fabbrica avevano le proprie basi. Il numero dei lavoratori deportati e dei caduti fu altissimo: 553 i deportati immatricolati.

A eccezione dell'arresto degli scioperanti della Pirelli Bicocca il 23 novembre 1944, dei rastrellati e delle vittime delle rappresaglie, gli arresti degli altri deportati vennero operati dalla Polizia repubblichina, dai carabinieri, dalla GNR con l'appoggio della Legione autonoma "Muti", dalle diverse polizie repubblichine: SS italiane, aviazione, Brigate nere o, secondo alcune testimonianze di deportati e loro familiari, da indistinti "fascisti italiani". I tedeschi non comparvero sulla scena degli arresti, si riservarono il compito di comandare, picchiare e torturare, assumendo il ruolo di arbitri della vita dei catturati.

Su 495 deportati dei quali sono noti i luoghi e le circostanze dell'arresto, 196 furono prelevati in fabbrica, 177 vennero arrestati a casa di notte, 18 a casa in altre ore, 101 furono catturati in luoghi diversi, in montagna, nei locali pubblici, sui mezzi di trasporto e in rastrellamenti.

Numerosi arrestati a causa dell'attività politica e per la partecipazione ad azioni partigiane vennero trattenuti per uno o più giorni nelle celle dei diversi Gruppi rionali fascisti di Milano, in quelle della Questura in piazza San Fedele a Milano, o nelle Carceri mandamentali della provincia o in luoghi di detenzione e di tortura come l'ex Macello di Monza.

I deportati morti furono 220, tutti uomini. 215 morirono nei lager o negli ospedali alleati, 5 furono fucilati nel poligono di Cibeno, nei pressi del campo di Fossoli, il 12 luglio 1944. Altri 10 morirono dopo il loro rientro in Italia tra il 1945 e il 1950 a causa della deportazione.

da

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La deportazione politica nell'area industriale di Sesto San Giovanni 1943-1945

di Giuseppe Valota

Edizioni GUERlNI E ASSOCIATI Milano 2007

 


Lo sciopero del 23 novembre 1944 alla Pirelli Bicocca

La repressione dello sciopero politico e la razzia di mano d'opera a bassissimo costo per l'industria tedesca sono alla base delle deportazioni del 23 novembre 1944 degli operai della Pirelli Bicocca. In solidarietà con Caproni, Falck e Magneti Marelli colpite da una serrata, conseguenza di uno sciopero generale dichiarato, ma parzialmente fallito, la Pirelli Bicocca - unica azienda dell'area industriale che, seguendo le indicazioni del Comitato sindacale di Milano e provincia, scese in sciopero compatta alle 10 del “23.11. Da Sesto San Giovanni - benché non sia stato dato il segnale delle 10, le maestranze della Pirelli fermarono uniti e compatti negli stabilimenti della Bicocca, Milano e Varedo, con la partecipazione dei tecnici e impiegati". Tra questi operai in sciopero anche il lissonese Umberto Viganò.


Le SS arrivarono in tarda mattinata e iniziarono una caccia all'uomo, fra lo scompiglio generale che impedì ogni reazione. "Reparto per reparto è stato presidiato dai tedeschi, le maestranze non si spaventano; le maestranze sono trattenute nei reparti. Avviene l'interrogatorio non so su che cosa. Nessuno può uscire. Alle 15 danno da mangiare. I familiari in gran numero si presentano davanti allo stabilimento chiedendo la loro sorte; si risponde che saranno mandati in Germania a lavorare". Le SS catturarono 183 lavoratori - fra loro
vi erano due ingegneri e un impiegato - addossandoli ai muri e malmenandoli. Vennero tutti caricati su camion e portati a San Vittore. La mattina successiva la Direzione aziendale entrò in contatto con l'ingegner Knierin, incaricato tedesco per l'elettroindustria cercando di ottenere il rilascio di 105 lavoratori specializzati o in particolari condizioni di salute e di famiglia. Dopo l'intervento diretto di Alberto Pirelli presso il generale Leyers, rappresentante del RUK (Direzione generale degli armamenti e produzione bellica) che non prese alcuna posizione, il tenente Bauer, sottoposto del capitano Teo Saevecke, dirigente della SD di Milano, accusò Pirelli di connivenza con gli operai comunisti e socialisti, asserendo che il rastrellamento aveva avuto luogo per un “provvedimento di polizia". Ciononostante Alberto Pirelli avanzò formalmente la richiesta che tutti i dipendenti arrestati fossero rilasciati.

A cinque giorni dall'arresto 156 lavoratori vennero deportati in Germania, 3 riuscirono a fuggire dai vagoni piombati in territorio italiano, 153 furono immatricolati in diversi campi di lavoro, 12 morirono, uno morì dopo il rimpatrio in conseguenza della deportazione.

Quella dei lavoratori della Pirelli Bicocca, al di là dei lager di destinazione in Germania, è stata la deportazione di massa più rilevante operata dai nazifascisti in una singola azienda, seconda solo a quella di 1500 lavoratori, effettuata in 4 fabbriche genovesi: San Giorgio, Siac, Piaggio e Cantieri navali, il 16 giugno 1944. Lo sciopero di protesta e di solidarietà del 23 novembre 1944 e la deportazione dei lavoratori della Pirelli concludono il ciclo di scioperi nell’area milanese, iniziati nel marzo 1943 e culminati con lo sciopero generale del marzo e con quello del 21 settembre 1944. Saranno gli scioperi preinsurrezionali del marzo e dell'aprile e lo sciopero insurrezionale del 25 aprile 1945 a chiudere il nuovo ciclo di lotte che culminerà con l'occupazione e la difesa delle fabbriche da parte degli operai sappisti in armi e con la Liberazione del Paese.

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La deportazione politica nell'area industriale di Sesto San Giovanni 1943-1945

di Giuseppe Valota

Edizioni GUERlNI E ASSOCIATI Milano 2007

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Gli scioperi del marzo 1944

17 Février 2024 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Lo sciopero generale attuato nel Nord Italia dall'1 all'8 marzo 1944 costituì  l'atto conclusivo di una serie di agitazioni cominciate, in forme e modalità diverse, già nel settembre 1943, all'indomani della costituzione della Repubblica Sociale Italiana e dell'occupazione tedesca, e sviluppatesi soprattutto nei mesi di novembre e dicembre. Lo sciopero del marzo 1944 presentò tuttavia una sostanziale novità. Esso fu infatti caratterizzato da una precisa matrice di natura politica, mentre le precedenti agitazioni, seppur non prive di risvolti politici, erano state attuate sostanzialmente in un'ottica di tipo economico-rivendicativo e avevano avuto come scopo primario il miglioramento sia delle condizioni salariali, attraverso la richiesta di aumenti, sia della situazione alimentare.


Con lo sciopero generale del marzo 1944 invece «le lotte operaie assunsero un carattere differente» perché si configurarono come una precisa forma di lotta politica antifascista e antitedesca. Deciso su iniziativa dei comunisti e approvato, dopo qualche esitazione dei socialisti, anche dagli altri partiti che facevano parte del Comitato Nazionale di Liberazione, lo sciopero iniziò il 1° marzo nelle fabbriche del "triangolo industriale", si diffuse rapidamente e per più di una settimana, fino a quando non venne represso dai tedeschi e dalla polizia di Salò attraverso una massiccia azione di rappresaglia e di deportazione dei lavoratori, bloccò gran parte delle attività produttive del Nord Italia.

Secondo fonti repubblichine allo sciopero parteciparono complessivamente 208.549 operai. A Milano gli scioperanti erano stati 119.000 nell'arco di cinque giorni e a Torino 32.600 per tre giorni. Addirittura maggiore risultava per i tedeschi il numero di coloro che si erano astenuti dal lavoro. Poiché Hitler aveva ordinato di deportare in Germania il 20% degli scioperanti, l'ambasciatore tedesco presso la Repubblica Sociale, Rudolph Rahn, calcolò che tale percentuale corrispondeva a 70.000 persone. Ciò significava valutare gli astenuti dal lavoro in 350.000, cifra veramente imponente. Proprio il consistente numero di coloro che avrebbero dovuto essere deportati, che avrebbe potuto rivelarsi controproducente sul piano politico e avere conseguenze di rilievo sullo sviluppo della Resistenza, indusse poi i tedeschi a ridurre le deportazioni. Anche se «la cifra esatta» dei deportati «non si è potuta avere», non è tuttavia «improbabile che ammontasse a 1200». Occorre inoltre sottolineare che i lavoratori tennero, nella maggior parte dei casi, un atteggiamento fermo di fronte ai tentativi dei dirigenti politici e sindacali repubblichini di indurli a riprendere il lavoro, cedendo alla fine solo per la repressione tedesca.

Preso in considerazione nell'ottica della «dimostrazione politica», lo sciopero generale ebbe «una grandissima importanza».

Fu la più grande protesta di massa con la quale dovette confrontarsi la potenza occupante: attuata dimostrativamente senza aiuti dall'esterno, senza armi ma con grande energia e sacrifici. E non fu soltanto (assieme a quello dell'anno precedente) il più importante sciopero in Italia dopo vent'anni di dominio fascista, fu anche il più grande sciopero generale compiuto nell'Europa occupata dai nazionalsocialisti.

A ciò si deve aggiungere che «nella sottovalutazione del peso politico dello sciopero generale» non si è tenuto conto «a sufficienza del fatto che esso si svolgeva in un paese sottoposto alle leggi di guerra e dell'occupazione: più di 200.000 operai contemporaneamente in sciopero, dopo un inverno in cui le fabbriche erano state in continua agitazione, tranne che nel mese di febbraio, era un fatto di eccezionale rilievo e significato».Lo sciopero ebbe risvolti importanti anche nel favorire lo sviluppo della Resistenza perché, «dopo questa prima prova di forza condotta con armi diseguali», fece capire che «ormai il tempo degli scioperi era passato». La «scena dello scontro» quindi «si trasferì sui monti» e apparve chiaro che «soltanto la lotta armata delle bande partigiane contro gli occupanti avrebbe potuto avere successo». Non va inoltre dimenticato che le agitazioni diedero il colpo mortale alle speranze dei fascisti di Salò di "agganciare", attraverso la "socializzazione", i lavoratori.

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Il primo Congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale: Bari gennaio 1944

29 Janvier 2024 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Il I congresso dei Comitati di Liberazione nazionale si svolse a Bari il 28 e 29 gennaio 1944 nel teatro Piccinni.

L'organizzazione del congresso era stata un'impresa difficile; Bari venne scelta come seconda sede perché l'ACC (Allied Control Commission), su pressione del governo Badoglio, aveva negato Napoli. Badoglio inviò a Bari il generale Pietro Gazzera come commissario straordinario per l'ordine pubblico. Soltanto in extremis fu possibile mitigare le misure restrittive del governo e far sì che 120 delegati in rappresentanza di 21 province, 50 giornalisti, 15 addetti alla segreteria e 800 cittadini partecipassero alla seduta inaugurale del congresso, che ebbe un enorme rilievo politico.

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Radio Londra lo definì «il più importante avvenimento nella politica internazionale italiana dopo la caduta di Mussolini». L’inviato della Reuters, lo considerò «di grande rilievo perché il suo scopo principale sarebbe stato la questione istituzionale». Non minore risalto attribuirono all'evento il New York Times, che ne pubblicò la mozione finale, e il Times di Londra che ne sottolineò la richiesta secondo cui «Presupposto innegabile della ricostruzione morale e materiale italiana è l'abdicazione immediata del Re, responsabile delle sciagure del Paese». Mentre il presidente americano Franklin Delano Roosevelt, riconoscendone le conclusioni, disse che «gli Stati Uniti sono ora (...) fermamente determinati a lasciare ogni decisione al popolo italiano».

Dal capoluogo pugliese si alzò la prima voce libera in un paese per due terzi occupato dalle truppe naziste. I lavori furono introdotti dal giudice Michele Cifarelli segretario del CLN di Bari, che dette lettura dei messaggi di Roosewelt, Stalin, Chiang Kai-shek, e da un importante discorso di Benedetto Croce, che schierato su posizioni liberali e moderate, propose la liquidazione del re, corresponsabile della guerra e dell'avvento di Mussolini.

La registrazione del discorso di Croce, messo in onda immediatamente da Radio Londra.

Benedetto Croce

Venne, inoltre, autorizzata dai responsabili del PWB (Ufficio della guerra psicologica) la trasmissione di un commento dell’assise barese di Alba De Cespedes che con lo pseudonimo di Clorinda era la voce di "Italia Combatte" (la trasmissione più prestigiosa di Radio Bari, poi di Radio Napoli e Radio Roma, alla liberazione della capitale), la rubrica che aveva la funzione di sostenere la resistenza al Nord.

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«Questo Congresso - sostenne Clorinda - è stato in parole semplici, la prima riunione ufficiale dei partiti d'opposizione. Andai lì ad assistere, seduta in un palco. Perché la riunione si svolse al teatro Piccinni ... Io ero mossa come quando si vede una persona che è stata lungamente malata, sul punto di morire addirittura, uscire finalmente a muovere i primi passi al sole. E avevo anche dentro di me la sensazione di fare cosa proibita, non potevo ancora abituarmi all'idea che in Italia, ormai, ognuno poteva fare e dire quel che voleva. Quando vidi Benedetto Croce - del quale avevo appreso attraverso i libri ad avere tanto rispetto ed amore - entrare sul palcoscenico come un ometto, con un paltoncino marrone e posare il cappello sul tavolino, semplicemente, senza nessuno attorno a lui che s'affannasse ad aiutarlo, e quando lo vidi leggere il suo discorso confidenzialmente, alzando un poco gli occhi sul pubblico… lo udii dire così semplicemente, la libertà, come avrebbe detto una parola qualunque, una di quelle parole che gli spiriti liberi sono abituati a pronunciare con dimestichezza, allora mi gettai ad applaudire furiosamente ...».

In realtà i partiti antifascisti non intendevano soltanto discutere, ma fare qualche cosa di più. Le idee più chiare le aveva, forse, il Partito d'Azione, ma erano idee irrealizzabili pur costituendo in quel momento ciò che si poteva desiderare di meglio in astratto e cioè: “l'abdicazione immediata del re e sua messa in stato d'accusa per le violazioni da lui commesse dello Statuto; la proclamazione del congresso in assemblea rappresentativa che segga in permanenza, integrata a suo tempo dei rappresentanti delle province non ancora liberate, fino alla Costituente; la elezione d'una Giunta esecutiva che fino alla liberazione di Roma rappresenti il popolo italiano nei rapporti con le Nazioni Unite”.

Intorno alla mozione approvata dai delegati del PdA si scatenò la battaglia congressuale, sollecitata anche dall'arrivo d'un messaggio del CLN centrale, portato attraverso le linee dal socialista Lizzadri e dal liberale Marconcini, in cui si ribadiva una posizione di netta intransigenza verso il governo Badoglio. L'abilità di Croce consistette appunto nell'indirizzare tutto lo stato di profondo disagio e d'insofferenza degli antifascisti del Sud verso quest'unico obiettivo e anche di ridurre il problema della lotta contro il fascismo all'eliminazione del suo «superstite». E su questa linea si mosse poi il congresso dalla relazione politica di Arangio Ruiz alla mozione finale votata all'unanimità dopo un aspro dibattito. In essa sono accolte le istanze formulate dal PdA, ma soltanto formalmente, svuotate d'ogni significato giacobino. «Presupposto della ricostruzione morale e materiale italiana è l'abdicazione immediata del re responsabile delle sciagure del paese»; perciò il Congresso, in rappresentanza del popolo italiano, «proclama l'urgenza dell'abdicazione, dichiara la necessità di pervenire alla composizione di un governo con i pieni poteri del momento d'eccezione e con la partecipazione di tutti i partiti rappresentati al Congresso» e delibera infine «la costituzione di una Giunta esecutiva permanente che predisponga le condizioni necessarie al raggiungimento degli scopi suddetti». Si è ben lontani dalle intenzioni del PdA di trasformare il congresso in «Convenzione»; ma si è anche lontani dal dare un'indicazione concreta di lavoro alla Giunta sulla quale si scarica tutto il peso e la responsabilità.

Un passo avanti nella situazione generale fu costituito dalla restituzione all'amministrazione italiana dell'«Italia continentale a sud dei confini settentrionali delle province di Salerno, Potenza e Bari» e della Sicilia, avvenuta da parte dell' AMGOT l'11 febbraio. E parve a un certo momento che la stessa Commissione alleata di controllo - attraverso la sua sezione politica - volesse finalmente risolvere la questione istituzionale, appoggiando il piano della Giunta di Bari (abdicazione di Vittorio Emanuele III, delega da parte del nuovo re Umberto II dei suoi poteri a una luogotenenza collegiale). L'accettazione di questo piano fu raccomandata dal governo americano ai capi di Stato maggiore combinati. Ma immediatamente s'inserì nella situazione Churchill che bloccò ogni ulteriore sviluppo con il suo discorso ai Comuni del 22 febbraio, in cui confermò esplicitamente il suo appoggio alla monarchia con una metafora di pungente sarcasmo.« Quando occorre tenere in mano una caffettiera bollente, è meglio non rompere il manico finché non si è sicuri di averne un altro egualmente comodo e pratico o comunque finché non si abbia a portata di mano uno strofinaccio».

 

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ORDINE DEL GIORNO VOTATO DAL CONGRESSO DI BARI
(29 GENNAIO 1944)

Il Congresso, udita ed approvata la relazione Arangio-Ruiz sulla politica interna;
ritenuto che le condizioni attuali del Paese non consentono la immediata soluzione della questione istituzionale; che, però, presupposto innegabile della ricostruzione morale e materiale italiana è l'abdicazione immediata del Re, responsabile delle sciagure del Paese; ritenuto che questo Congresso, espressione vera e unica della volontà e delle forze della Nazione, ha il diritto ed il dovere, in rappresentanza del popolo italiano, di proclamare tale esigenza;

Dichiara

la necessità di pervenire alla composizione di un governo con i pieni poteri del momento di eccezione e con la partecipazione di tutti i partiti rappresentanti al Congresso, che abbia i compiti di intensificare al massimo lo sforzo bellico, di avviare a soluzione i più urgenti problemi della vita italiana, con l'appoggio delle masse popolari, al cui benessere intende lavorare, e di predisporre con garanzia di imparzialità e libertà la convocazione dell'Assemblea Costituente, da indirsi appena cessate le ostilità;

Delibera

la costituzione di una Giunta esecutiva permanente alla quale siano chiamati i rappresentanti designati dei partiti componenti i Comitati di Liberazione e che, in accordo col Comitato Centrale ed in contatto con le personalità politiche e riconosciute come alta espressione dell'antifascismo, predisponga le condizioni necessarie al raggiungimento degli scopi suddetti.

Per il Partito Liberale: Michele Di Pietro Per la Democrazia Cristiana: Angelo Venuti Perda Democrazia del Lavoro: Andrea Gallo Per il Partito d'Azione: Adolfo Omodeo Per il Partito Socialista: Luigi Sansone Per il Partito Comunista: Paolo Tedeschi

Sono stati designati dai rispettivi partiti, come membri nella G.E.P.: Francesco Cerbona, per il Partito della Democrazia del Lavoro; Vincenzo Arancio-Ruitz, per il Partito Liberale; Paolo Tedeschi, per il partito Comunista; Vincenzo Calace, per il Partito d'Azione; Angelo Raffaele Jervolino, per la Democrazia Cristiana; Oreste Longobardi, per il Partito Socialista. 

Bibliografia:

Gloria Chianese - Quando uscimmo dai rifugi. Il Mezzogiorno tra guerra e dopoguerra (1943-46)-  Ed. Carocci 2004

Roberto Battaglia - Storia della Resistenza italiana - Einaudi 1964

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Giorno della Memoria 2024

9 Janvier 2024 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Giorno della Memoria

Sabato 20 Gennaio 2024 alle ore 16,30 si terrà, presso la sala al piano terra di Villa Magatti, Piazza Pertini 1, il concerto multimediale “LA SONATA DI AUSCHWITZ”.

Un incontro per non dimenticare la più grande tragedia del XX secolo attraverso l’insolito sguardo della musica.

Esecuzioni musicali, racconti, immagini e filmati riveleranno curiosi e inediti aspetti della politica culturale delle dittature nazi-fasciste e degli orrori dei campi di concentramento.

Il concerto è curato dal musicista, storico e ricercatore Maurizio Padovan.

Giorno della Memoria 2024

Presentazione concerto multimediale

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Dicembre 1944: il fronte si arresta

25 Novembre 2023 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

La stagione era ancora propizia quando le vittoriose truppe della V e dell'VIII Armata mossero all'attacco della linea «Gotica». Il nuovo e poderoso ostacolo che sbarrava l'avanzata verso la valle del Po era forte almeno quanto la «Gustav» che per sei mesi aveva fermato gli Alleati davanti a Cassino.

Gemmano, un paesino alto sulla valle del fiume Conca, a pochi chilometri da Rimini, fu uno dei tanti caposaldi che gli attaccanti trovarono sulla loro strada. In questo caso gli attaccanti erano gli indiani del V Corpo britannico che nell'assalto si fidavano della loro arma tradizionale, il coltello, più che delle mitragliatrici e delle bombe a mano. Il 14 settembre, dopo combattimenti durissimi, essi conquistarono il paese all'arma bianca.

E ancora una volta gli Alleati dovevano provare la inadeguatezza dei loro grandi mezzi al terreno di battaglia.

Nel nostro paesaggio rotto e sconvolto certi mastodontici mezzi corazzati sembravano più un ingombro che altro. Eppure si andava avanti abbastanza speditamente. E i soldati avevano fiducia di arrivare nella pianura padana prima dell'inverno.

In pochi giorni di battaglia Gemmano fu completamente distrutta. La chiamarono la «piccola Cassino». Le città e i paesi dell'appennino tosco-emiliano, anche i più sperduti, dividevano la sorte di tanti altri luoghi dell'Italia Centrale e Meridionale che la guerra s'era lasciati indietro.

L'azione del V Corpo britannico su Gemmano faceva parte dell'offensiva generale contro la linea «Gotica », che lungo il litorale adriatico veniva condotta in forze dai polacchi e dai canadesi. A sinistra, il X Corpo attaccava sulle montagne incontrando accanita resistenza.

Contemporaneamente all'VIII Armata anche la V aveva iniziato l'offensiva concentrando i propri sforzi nel settore centrale, oltre Pistoia e lungo la direttrice Firenze-Bologna.

I tedeschi sfruttavano le difficoltà del terreno seminando di ostacoli la strada degli Alleati. Resistere o ritardare: in questa strategia, che durava ormai da due anni, erano diventati maestri.

Per il momento i tedeschi non avevano alternative.

Hitler aveva promesso nuove e più clamorose offensive con armi che avrebbero sbalordito il mondo. Ma quanti ci credevano? Le truppe che nell'autunno del '44 combattevano sugli Appennini, non avevano prospettive di vittoria.

L'attacco più violento della V Armata fu sferrato contro il paese di Giogo, sulla strada per Imola. In tre giorni di combattimenti la resistenza tedesca era infranta e davanti agli americani si apriva la testata delle valli. La «Gotica», su cui Kesselring e Hitler facevano tanto affidamento, non aveva retto al primo attacco. Tutto lasciava credere che al nuovo urto sarebbe crollata.

Anche sul fronte adriatico l'offensiva non dava tregua ai tedeschi. La strategia degli Alleati era mutata: non più un solo attacco massiccio, come a Cassino, ma una serie di attacchi, in settori diversi, per logorare la resistenza del nemico tenendolo sempre nell'incertezza.

San Marino era sulla strada dell'VIII Armata; per entrarvi, il 20 settembre, gli inglesi dovettero combattere. Kesselring aveva garantito ai sanmarinesi che avrebbe rispettato la loro neutralità. Ma nella notte fra il 2 e 3 settembre i tedeschi in ritirata ne avevano invaso il territorio. Di colpo la minuscola repubblica era stata sommersa dalla guerra: i suoi abitanti e i centomila sfollati che vi si erano rifugiati, vissero giornate di indescrivibile disagio. Poi finalmente, la liberazione. I profughi potevano ritornare alle proprie case, sperando di ritrovarle intatte: anche per loro la guerra era passata.

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La grande espansione partigiana dei mesi estivi, che aveva portato alla costituzione di numerose zone libere in tutta l'Italia settentrionale, rappresentava una grave minaccia per i tedeschi. Lo stesso Kesselring scrisse che la eliminazione di quel pericolo «era un obiettivo di capitale importanza ». Così, mentre giungevano rinforzi per la linea «Gotica», i nazifascisti poterono dedicarsi a una dura repressione contro le formazioni della Resistenza.

Parri fece il quadro della guerra partigiana nell'autunno 1944:

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« La repressione nazista e fascista si è sviluppata, naturalmente, lungo i settori e i punti che essa riteneva più vulnerabili e più pericolosi. In Piemonte e lungo l'arco alpino con le comunicazioni con la Francia, diventate importanti dopo l'offensiva della Provenza, offensiva massiccia nelle valli del basso Cuneense per liberare i valichi alpini; poi si sviluppò fortemente nell'Appennino ligure e emiliano (anche quella fu la zona di aspri combattimenti) e poi, soprattutto, si intensificò nel Veneto; quindi forti offensive e feroci repressioni sugli altipiani di Asiago, del Grappa, del Cansiglio. Basta ricordare il "viale degli impiccati" di Bassano del Grappa. E poi nel Friuli contro la Carnia; tremende quelle del Friuli: paesi interi come Nimis, Attimis, Velis, bruciati. E questi facevano, come dire?, "pendant" al primo sviluppo delle repressioni naziste con le quali i nazisti avevano cercato di liberare dalla minaccia partigiana insurrezionale tutto l'Appennino, quello nel quale si andava assestando la loro linea "Gotica"». 

L'azione fu affidata alle colonne della Divisione «Goering» che iniziarono il tragico percorso sulle Apuane, a Vinca, passando per Valla, San Terenzio, Sant'Anna di Stazzema e in altri paesi, lasciando dietro di sé le impressionanti tracce della rappresaglia: centinaia di civili uccisi, case distrutte, chiese bruciate. Dopo un nuovo eccidio presso Fucecchio, in Toscana, le colonne naziste risalirono la valle del Mugello e conclusero il loro itinerario a Marzabotto.

Non v'è nulla che dica più di Marzabotto cos'è stata questa tragedia ed esprima meglio la protesta che da quei morti s'alza contro la barbarie della guerra.

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Mentre la «Goering» a Marzabotto completava la sua opera, a pochi chilometri di distanza tuonava il cannone. Il II Corpo americano, sfondate le difese della linea «Gotica », aveva raggiunto Castel del Rio, sulla nazionale per Imola e superato sulla Firenze-Bologna il passo della Futa e la Raticosa. Il 30 settembre larghe brecce erano ormai aperte nella «Gotica», specie nel settore centrale del fronte e lungo il litorale adriatico, dov'era proseguita l'offensiva dell'VIII Armata.

Sui monti intorno al passo della Futa gli Alleati potevano misurare da vicino tutta l'importanza del successo. Lungo il crinale appenninico i tedeschi avevano costruito alcune difese poderose. C'erano «Bunker» e postazioni di artiglieria in cemento armato; vi era un fosso anticarro lungo quasi cinque chilometri; vi erano reticolati, trincee e una grande quantità di campi minati. Da quelle posizioni formidabili i tedeschi controllavano tutte le vie d'accesso ai valichi. Adesso quel sistema era infranto. Minacciato d'aggiramento, il nemico si era dovuto ritirare con gravi perdite.

Ma l'avanzata a questo punto rallentò. I tedeschi continuavano a far affluire rinforzi e gli Alleati erano stanchi. Tutto andava piano, ora, mentre si cominciava a scendere verso la pianura.

Una serie di cartelli piantati a lato di una strada e diretti ai soldati, riassumeva umoristicamente le difficoltà dell'avanzata. Dicevano:

«Se ti fermi su questa strada, il traffico si ferma, i rifornimenti si fermano, la guerra si ferma, tu resti sotto le armi fino al 1950». «Va avanti» diceva l'ultimo cartello.

Invece su tutto il fronte l'offensiva stava morendo.

1943 44 carta geo avanzata alleati Italia

Finiva a poco a poco, per mancanza di fiato; moriva penosamente nel fango, sotto le piogge autunnali, quando era giunta ormai a un passo dal successo finale. Forse si sarebbe potuto fare un ultimo sforzo: oltre quelle colline una luce più chiara indicava già la pianura; Bologna non era lontana. Ma a fine ottobre Alexander sospese le operazioni.

Il generale Leese, comandante l'VIII Armata, giudicò quella decisione: 

«Posso assicurare che la decisione di sospendere l'offensiva fu presa nonostante il nostro parere assolutamente contrario. Era l'ultima cosa al mondo che avremmo voluto fare. Io ero sicurissimo, come lo erano del resto Alexander, Churchill e anche Clark, che avremmo potuto valicare l'Appennino e raggiungere la pianura veneta e di lì proseguire per l'Austria. E sono persuaso che sarebbe stato molto meglio per il mondo, oggi, se in Austria ci fossimo arrivati prima noi, e non i russi. Personalmente sono convinto che fu una decisione che ebbe conseguenze catastrofiche. Noi fummo tutti amaramente delusi, e siamo assolutamente sicuri che ce l'avremmo fatta».

Soltanto nel settore adriatico l'avanzata non era finita del tutto. Oltre il fiume Marecchia comincia la via Emilia. Lasciata Rimini alle spalle, i soldati dell'VIII Armata entrarono a Cesena il 20 ottobre iniziando un vasto movimento avvolgente allo scopo di raggiungere Bologna da Est. Presto anche da questa parte l'impeto degli inglesi si affievolì. I fiumi erano in piena, i ponti distrutti, il maltempo non cessava, e la marcia alleata si faceva sempre più lenta. Si dovette aspettare il 9 novembre per liberare Forlì. Sarebbero occorse nuove truppe, persino le munizioni scarseggiavano. Soprattutto mancava la volontà di concludere la campagna. Dopo Roma il fronte italiano aveva perso importanza e i tedeschi se ne avvantaggiavano.

Davanti a Faenza il nemico contrattaccò decisamente.

Ormai la situazione stava diventando quasi paradossale. Non volendo condurre un'offensiva a fondo, gli Alleati subivano a tratti l'iniziativa germanica trovandosi impegnati in battaglie logoranti. E purtroppo si combatteva in una regione fittamente abitata, fra i campi coltivati, da una cascina all'altra. Per alcuni giorni Faenza rimase per gli Alleati una fila di case lontane dietro gli alberi.

Sulla costa, intanto, Ravenna era liberata dai canadesi il 5 dicembre. Finalmente anche Faenza cadeva. I neozelandesi vi entrarono il 16 dicembre e fu l'ultima città occupata nel '44. Giungeva l'inverno: anche quella guerra fatta col contagocce si esaurì.

S'arrivò di nuovo a Natale. La neve cadde precocemente a seppellire le ultime speranze degli italiani, rimasti nella zona ancora occupata dai tedeschi. Gli Alleati si erano lasciati sfuggire la grande occasione di liberare entro l'anno tutta l'Italia e di spostare il fronte verso l'Austria e i Balcani.

I cannoni non sparavano più. Anche i piccoli scontri di pattuglia cessarono, tutto il fronte s'immobilizzò. Furono i tedeschi a rompere la tregua. All'improvviso, il giorno dopo Natale, sferrando un attacco in Garfagnana, giù per la valle del Serchio, in direzione di Lucca, giungendo fino a Barga. Tutto si risolse con un po' di paura. Una settimana dopo le linee erano ripristinate: l'azione dimostrativa dei tedeschi era fallita.

Dalla fine di settembre il fronte aveva compiuto un curioso movimento di rotazione. Sostanzialmente fermo nel settore tirrenico, sulla destra invece, per effetto della maggiore pressione dell'VIII Armata, si era spostato sempre più a nord, come una porta che poco a poco si apre girando sui cardini. A fine d'anno si era stabilizzato su una linea che andava dalla Garfagnana alla confluenza fra i fiumi Senio e Reno. Su questa linea le operazioni stagneranno fino ad aprile.

Bibliografia:

Manlio Cancogni in AA.VV - Dal 25 luglio alla Repubblica - ERI 1966

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