Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"
Articles récents

erano le 16,30 del 28 aprile 1945 ...

28 Avril 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #il fascismo

Il 27 aprile 1945. Mussolini venne catturato a Dongo (Como). Aveva abbandonato Milano nel tardo pomeriggio del 25 aprile e, con gli ultimi fedelissimi e il codazzo di gerarchi in fuga, aveva raggiunto Como sotto la vincolante custodia di una trentina di SS.

Da Menaggio nella notte tra il 26 e il 27 aprile, si accodò con i suoi gerarchi ad una autocolonna della Luftwaffe che puntava su Chiavenna per raggiungere Merano attraverso il passo dello Stelvio.

La mattina seguente la colonna venne bloccata dai partigiani in quel di Musso, abbandonò il suo seguito, indossò un cappotto dell’aviazione tedesca e cercò di superare i controlli partigiani nascondendosi in un camion tedesco. Riconosciuto, venne fermato dai partigiani della 52ª brigata Garibaldi.

Il 28 aprile 1945 Walter Audisio ufficiale addetto al Comando generale del CVL, col nome di battaglia di "Colonnello Valerio", ricevette l’ordine di recarsi a Dongo, per eseguire la sentenza capitale decretata dal CVL nei confronti di Benito Mussolini, sulla base del decreto emesso, il 25 aprile 1945, dal CLN Alta Italia. L’art. 5 del decreto diceva: " I membri del governo fascista e i gerarchi del fascismo colpevoli di avere contribuito alla soppressione delle garanzie costituzionali, d’aver distrutto le libertà popolari, creato il fascismo, compromessa e tradita la sorte del Paese e d’averlo condotto all’attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte e, nei casi meno gravi, con l’ergastolo".


Sull’esecuzione del capo del fascismo a Giulino di Mezzegra, il Colonnello Valerio ebbe a raccontare:

"… cominciai a leggere il testo della sentenza di condanna a morte del criminale di guerra Benito Mussolini: Per ordine del Comando generale del Corpo volontari della Libertà, sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano. ..”

 

Lire la suite

La morte di Antonio Gramsci

26 Avril 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

Dopo undici anni di detenzione nelle carceri fasciste, Gramsci si spegne nella clinica Quisisana, all’alba del 27 aprile 1937. Ha appena compiuto quarantasei anni. Quarto di sette figli di Francesco Gramsci e Giuseppina Marcias, Antonio - Nino, come era chiamato in famiglia – era nato ad Ales, in provincia di Cagliari, il 22 gennaio del 1891.

Quando muore è in corso la guerra di Spagna. Una batteria di artiglieri garibaldini porta il suo nome.

Negli scritti che gli vengono dedicati sulla stampa comunista viene sempre definito capo del partito.

Nel parco di cultura Gor'kij a Mosca, campeggia il ritratto di Gramsci e il suo figliolo minore, Giuliano (che il padre non ha mai potuto vedere), allora sui dieci anni, lo scopre con sorpresa e vuole sapere dalla madre Giulia «tutto ciò che si riferisce» alla sua vita e alla sua sorte.

La fama internazionale, la solidarietà antifascista, non leniscono molto l’isolamento di Gramsci, che non è stato meno profondo negli ultimi anni di semiprigionia, di vigilanza poliziesca strettissima, immutata, anzi rafforzatasi nel passaggio dalla clinica di Formia a quella Quisisana di Roma.

Il malato si trova, fino alla vigilia della morte, in «libertà condizionale», piantonato e sorvegliato. Le sue condizioni di salute sono gravi anche se non ci si aspetta che possano da un momento all'altro diventare gravissime.

Gramsci era stato trasferito alla clinica di Roma (accompagnato da un commissario di PS e da due agenti) il 23 agosto 1935. Ciò è avvenuto soltanto perché, dopo reiterati solleciti della cognata Tatiana e il certificato medico del professor Puricelli, appariva urgente sottoporre il malato ad un intervento chirurgico di ernia. Era stata scelta la clinica Quisisana di Roma, «presi gli ordini da S.E. il capo del governo» e dopo attenti sopralluoghi, perché, secondo il capo della polizia «si presta(va) a una più efficace vigilanza».

Oltre alle visite assidue del fratello Carlo, e a quelle periodiche di Sraffa (Piero Sraffa, antifascista torinese, vicino ai comunisti, quelli dell'«Ordine Nuovo», che ha conosciuto nella prima giovinezza, insegna a Cambridge ed è un economista di grande valore), egli è assistito senza posa dalla cognata Tatiana. La moglie, Giulia Schucht, è stata lunghi anni ammalata, ricoverata in una clinica per malattie nervose. A Gramsci é stata taciuta la gravità dello stato di salute della sua compagna.

Giulia non verrà a trovarlo, probabilmente perché non è in grado di affrontare tale viaggio, e sarà un nuovo motivo di dolore per il prigioniero (che indirizza in questo ultimo periodo frequenti, affettuosissime lettere ai due figli). La sua esistenza nella clinica Quisisana è meno tormentata di quella passata a Formia ma le forze declinano di mese in mese.

Durante il 1936, Gramsci comincia a progettare di trasferirsi in Sardegna non appena finirà il periodo della «libertà vigilata », cioè nell’aprile del 1937.

La sera del 25 aprile 1937 sopravviene improvvisamente un'emorragia cerebrale. Neppure in questa estrema circostanza è assistito adeguatamente dal punto di vista clinico (mentre le suore della clinica gli mandano un sacerdote).

Gramsci si spegne all'alba del 27 aprile, alle 4,10.

La cognata è al suo capezzale: poco dopo arriverà il fratello Carlo. Soltanto questi due congiunti possono vedere la salma, «circondati da una folla di agenti e di funzionari del Ministero degli Interni», ricorda Tatiana. Un fonogramma del questore di Roma, il 28 aprile, dà conto dei funerali: «Comunico che questa sera, alle 19,30, ha avuto luogo il trasporto della salma noto Gramsci Antonio seguito soltanto dai familiari. Il carro ha proceduto al trotto dalla clinica al Verano dove la salma è stata posta in deposito in attesa di essere cremata».

Il cadavere sarà cremato il 5 maggio. I giornali italiani dànno la notizia della morte di Gramsci in poche righe attraverso un dispaccio dell’agenzia Stefani: «É morto nella clinica privata Quisisana di Roma, dove era ricoverato da molto tempo, l'ex deputato comunista Gramsci». L’eco all’estero, sui giornali democratici in Europa e in America, nella stampa comunista e antifascista, sarà grandissima.

Il 22 maggio 1937 (18 giorni prima di venire ucciso con il fratello Nello), Carlo Rosselli, in una commemorazione alla sala Huyghens di Parigi, ricordava Gramsci come uomo «intimo, riservato, razionale, severo, nemico dei sensitivi e delle cose facili, fedele alla classe operaia nella buona come nella cattiva sorte, agonizzante in una cella, con tutto un esercito di poliziotti che cercano di sottrarlo al ricordo e all’amore di un popolo ...». Per Gramsci «conta(va) solo la coerenza e la fedeltà a un ideale, a una causa, che vive di se stessa, indipendentemente da ogni carriera e da ogni interesse personale».

La notizia del sacrificio e l'esaltazione della figura del capo comunista vengono divulgate sulle onde dell'etere da una trasmissione di «Radio Milano», cioè dall’emittente che i comunisti hanno in Spagna e che in Italia viene ascoltata tutte le sere, verso le ore ventitre, da numerossimi radioascoltatori nostante divenga di mese in mese più intensa la caccia della polizia a quanti captano la voce della Spagna. Sulla base dell'intercettazione fatta dalla stazione di Imperia dei carabinieri apprendiamo che la trasmissione speciale in onore di Gramsci, con la partecipazione di oratori comunisti, socialisti e di “Giustizia e Libertà” italiani, ebbe luogo il 22 maggio 1937. In essa si descrive la vita del rivoluzionario, si cita il “processone” del 1928, si dà conto della solidarietà dei combattenti spagnoli per la libertà, si ricordano gli altri prigionieri politici del fascismo e si conclude: «Il nome di Antonio Gramsci sta scritto a lettere d'oro sulla bandiera dei lavoratori italiani».

Bibliografia:
Paolo Spriano - Storia del Partito comunista italiano – Einaudi 1970
La morte di Antonio Gramsci
La morte di Antonio Gramsci
Lire la suite

Senza memoria non c'è futuro

26 Avril 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #Festa della Liberazione

"Senza memoria non c'è futuro" ha detto il Presidente della Repubblica ieri 25 aprile 2024 a Civitella in Val di Chiana a "ottanta anni dalla terribile e disumana strage nazifascista perpetrata sull'inerme  popolazione"  che fece 244 vittime. 

25 aprile 2024

25 aprile 2024

Alcuni momenti della celebrazione a Lissone 

 

fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli

fotografie di Gianni Redaelli

Intervento del prof. Giovanni Missaglia nella celebrazione della Festa di Liberazione dal nazifascismo

La Costituzione è antifascista dall’inizio alla fine

 Il Presidente della Repubblica invita a "una doverosa unità popolare sull'antifascismo

note di Bella Ciao

note di Bella Ciao

Il 25 aprile 1945 a Lissone

CLN e Giunta municipale

CLN e Giunta municipale

CLN Lissonese

CLN Lissonese

Angelo Genola primo Sindaco di Lissone nominato dal CLN

Angelo Genola primo Sindaco di Lissone nominato dal CLN

Appello del Sindaco ai cittadini Lissonesi

Appello del Sindaco ai cittadini Lissonesi

Gli Alleati a Lissone il 29 aprile 1945Gli Alleati a Lissone il 29 aprile 1945

Gli Alleati a Lissone il 29 aprile 1945

Lire la suite

Mostra Schiavi di Hitler Internati Militari italiani Altra Resistenza

13 Avril 2024 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Memoria e dell'Impegno

inaugurazione 20 aprile 2024 Palazzo Terragni  Lissone

inaugurazione 20 aprile 2024 Palazzo Terragni Lissone

Dopo l'8 settembre del 1943, data dell'armistizio, oltre 600 mila soldati italiani vengono facilmente catturati dalle truppe tedesche. Tuttavia, non mancano gli episodi di resistenza, come, ad esempio, la battaglia che si combatté a Cefalonia.

Subito dopo la cattura, ai soldati italiani viene posta l'alternativa tra collaborare con i tedeschi o essere deportati in Germania. Secondo gli storici, il 70% dei prigionieri rifiutò ogni forma di collaborazione. Stipati sui treni merci, i militari italiani viaggiarono verso i campi di prigionia nazisti.

Catturati come prigionieri di guerra, i militari italiani vengono successivamente classificati come Internati Militari Italiani: IMI. Fu questo un modo per sottrarli al controllo della Croce Rossa internazionale e avviarli con più facilità al lavoro coatto.

Tra i primi provvedimenti che i nazisti presero nei confronti degli IMI ci fu quello di dividere i soldati semplici dagli ufficiali. Gli ufficiali furono rinchiusi in appositi campi di prigionia mentre i soldati furono destinati ai campi di lavoro obbligatorio.

I militari italiani vennero impiegati in tutti i diversi settori dell'economia di guerra nazista: dal lavoro nei campi alle fabbriche di armi. Le condizioni di vita e di lavoro era molto dure. Gli IMI lavoravano 12 ore al giorno e ricevevano una scarsissima razione di cibo.

Spesso gli IMI furono accusati di sabotaggio e per questo severamente puniti. Addormentarsi per la stanchezza sul posto di lavoro, ad esempio, veniva sanzionato con diverse settimane di detenzione nei terribili campi di punizione.

Per tutto il periodo della loro detenzione, gli ufficiali italiani prigionieri in Germania furono sottoposti alla continua richiesta di collaborazione. Ma la maggior parte dei militari internati, o per spirito di fedeltà al Re o per odio nei confronti dei nazisti, rifiutò di giurare fedeltà a Hitler e Mussolini

Nell'estate del 1944 gli IMI furono trasformati d'imperio in liberi lavoratori civili. Molti militari italiani si opposero a questa imposizione. Un rifiuto che sarà pagato con la detenzione nei campi di rieducazione.

Nella primavera del 1945, con l'avanza dell'esercito sovietico e di quello alleato, i militari italiani internati in Germania riacquistano la libertà.

La testimonianza di MICHELE BONFIGLIO: "Una part di me suferenz"

poesia in dialetto

Lire la suite

in attesa della Festa della Liberazione

13 Avril 2024 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Memoria e dell'Impegno

verso il 25 aprile

verso il 25 aprile

A.N.P.I. A S S O C I A Z I O N E N A Z I O N A L E P A R T I G I A N I D ’ I T A L I A 

VIVA LA REPUBBLICA ANTIFASCISTA

Appello dell’ANPI per uno straordinario 25 aprile

La data del 25 aprile è simbolo dell’Italia libera e liberata, dopo venti mesi di Resistenza e uno straordinario tributo di sangue e di dolore. Fine dell’occupazione tedesca. Fine del fascismo. Fine del conflitto. Si abbatteva lo Stato fascista, ma anche il vecchio Stato liberale, e si avviava la costruzione di un nuovo Stato e di una nuova società. Il 2 giugno del 1946 il popolo sceglieva la Repubblica e con la Costituzione del 1948 nasceva l’Italia democratica che si fonda sul lavoro e che ripudia la guerra.  Oggi tutto è in pericolo. C’è un governo che comprende una destra estrema che ha le sue radici nel ventennio fascista e nelle sue nostalgie, che per questo intende cambiare la Costituzione. Con un uomo solo (o una donna sola) al comando – il cosiddetto “premierato” - ed un Paese frantumato in tante regioni in competizione fra di loro, con diritti diversi dei cittadini – l’autonomia differenziata delle regioni -. Una destra estrema che in vari modi tende a reprimere qualsiasi dissenso, qualsiasi protesta. Una destra estrema aggressiva, vendicativa e rivendicativa.  Tutto è in pericolo perché ci sono milioni di poveri, dilaga il lavoro precario, con un governo che taglia la sanità e la scuola pubblica, con l’intera Europa che rischia la recessione economica. C’è una grande solitudine sociale, il futuro viene visto come una minaccia.  Tutto è in pericolo perché c’è la guerra, e se ne parla spesso in modo irresponsabile, come se fosse una dura necessità o, peggio, una nuova e accettabile normalità. Mentre il mondo intero si riarma come prima dei due conflitti mondiali, si dichiara possibile una guerra convenzionale ad alta intensità in Europa. Siamo alla follia. Ha ragione il Presidente Mattarella quando sottolinea che il compito del nostro Paese è "costruire ponti di dialogo, di collaborazione con le altre nazioni, nel rispetto di ciascun popolo". È urgente un 25 aprile 2024 di liberazione dalla guerra. Cessate il fuoco ovunque. Diciamolo: va lanciato un allarme. Sono in discussione democrazia, libertà, uguaglianza, lavoro, solidarietà, pace, cioè la repubblica democratica fondata sulla Costituzione e nata dalla Resistenza. Questo 25 aprile non può essere come gli altri. Dev’essere il giorno in cui si ritrova nelle piazze di tutte le città, a cominciare da Milano, l’Italia antifascista e democratica, le famiglie, le donne, i giovani, il nostro grande popolo illuso e deluso, a cui va restituita una speranza vera di futuro, fatta di un buon lavoro, di una retribuzione sufficiente per una vita libera e dignitosa, di una pace stabile e duratura. Costruiamolo insieme questo 25 aprile, costruiamolo come un appuntamento straordinario a cui non si può mancare, come una insormontabile e pacifica barriera contro qualsiasi attacco alla democrazia e alle libertà. Costruiamolo insieme sventolando le bandiere del Paese migliore, la bandiera della Costituzione antifascista, la bandiera dell’Italia fondata sul lavoro e che ripudia la guerra, la bandiera di coloro dal cui sacrificio sorsero i semi di una nuova Italia.

FACCIAMO DI QUESTO 25 APRILE UNA GIORNATA INDIMENTICABILE. INSIEME.

LA SEGRETERIA NAZIONALE ANPI 11 aprile 2024

Lire la suite

7 APRILE 2024 SANTA MARGHERITA DI FOSSA LUPARA

8 Avril 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #Memoria e dell'Impegno

7 APRILE 2024 SANTA MARGHERITA DI FOSSA LUPARA

 

alcuni momenti della cerimonia in onore ai caduti delle Valli tra cui Arturo Arosioalcuni momenti della cerimonia in onore ai caduti delle Valli tra cui Arturo Arosio
alcuni momenti della cerimonia in onore ai caduti delle Valli tra cui Arturo Arosioalcuni momenti della cerimonia in onore ai caduti delle Valli tra cui Arturo Arosio

alcuni momenti della cerimonia in onore ai caduti delle Valli tra cui Arturo Arosio

Discorso di Renato Pellizzoni, membro del direttivo di ANPI Lissone, pronunciato a Sestri

Lire la suite

Monumento alla pace

28 Mars 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #il secondo dopoguerra

Da un’intervista di ENZO BIAGI con KENZO TANGE

 Kenzo-Tange.jpegArchitetto e urbanista giapponese (Imabari 1913 - Tokyo 2005). Tra i più noti protagonisti dell'architettura contemporanea, svolse una intensa attività a livello internazionale, che lo vide presente con numerose realizzazioni sia in Giappone sia in Italia, Stati Uniti, Australia, Arabia, Asia e Singapore. In Italia progettò diverse opere tra cui l'urbanizzazione di Librino, Catania (dal 1970), il piano per la Fiera di Bologna (1971-74), il Centro direzionale di Napoli (dal 1982) e i quartieri S. Francesco e Affari a San Donato Milanese (dal 1991).

La prima opera importante affidata a Kenzo fu lo progettazione del Centro della pace sui resti della città di Hiroshima distrutta.

Come ricorda lo scoppio della seconda guerra mondiale?

«Il 1939 credo sia stato l'anno successivo a quello in cui io terminai i miei studi di architetto. A quel tempo pur essendo laureati, per gli architetti non c'era quasi lavoro. Era un'epoca in cui non si poteva costruire nient'altro che con legno, e non era possibile usare né cemento né ferro. Ma, noi, ci siamo resi conto della guerra praticamente solo quando il Giappone ha attaccato a Pearl Harbour. Molta gente rimase stupita chiedendosi perché il Giappone s'era gettato in un'impresa così stupida. Poi ci fu l'atomica su Hiroshima, e con ciò finì la guerra. Per caso i miei genitori vivevano ad Imabari, una piccola città sul mare che si trova dall'altra parte di Hiroshima; erano sfollati là per sfuggire alle conseguenze della guerra. Invece morirono entrambi: mio padre per le radiazioni e mia madre colpita da una bomba incendiaria. I miei fratelli si erano sistemati poco più lontano da Imabari presso nostri parenti, e là io mi diressi non appena seppi del lancio dell'atomica su Hiroshima. E fu lì, in quella piccola città di campagna, che ascoltai alla radio l'annuncio della fine della guerra. Per me fu come se l'estrema tensione dello spirito fosse all'improvviso scomparsa».

Quella dura vicenda che cosa ha insegnato ai giapponesi?

«Nel mio caso, la morte dei miei genitori e la bomba su Hiroshima si sono sovrapposti e mi hanno lasciato quindi una impressione estremamente forte. Ma penso che, in un certo senso, sono stati proprio questi due fatti luttuosi, terribili che mi hanno insegnato il valore della pace. Finita la guerra noi giovani architetti fummo mobilitati per tracciare i piani di ricostruzione delle città giapponesi distrutte nel conflitto. Però, ad Hiroshima erano pochi ad andarci, volentieri: si diceva che, ad andarci subito ci si sarebbe ammalati e si sarebbe morti certamente. Io, non ebbi paura e chiesi quella destinazione. Fu così che venni mandato ad Hiroshima».

Che cosa significa per lei il "Memorial" che ha progettato per ricordare la bomba di Hiroshima?

peace-memorial-park.jpg untitled.jpg

«Per Hiroshima vi fu una specie di concorso nazionale e quando seppi di avere vinto pensai che non fosse vero. Del resto, ritenevo che non ci sarebbe mai stato il finanziamento per un'opera del genere. Poco alla volta, tuttavia, nel giro di due anni i denari, furono trovati. Occorse poi quasi un decennio prima che la costruzione potesse essere completata. Per me, quindi, Hiroshima rappresenta la prima opera della mia carriera di architetto, ed è quindi qualcosa di molto importante come punto di partenza nella evoluzione della mia produzione».

Bibliografia

     Enzo Biagi - la Seconda guerra mondiale – Parlano i protagonisti - Corriere della Sera 1990

Lire la suite

Roma 24 marzo 1944, l’eccidio delle Fosse Ardeatine

22 Mars 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

È il massacro compiuto dalle truppe di occupazione della Germania nazista, ai danni di 335 civili e militari italiani, come atto di rappresaglia in seguito all'attentato, avvenuto il giorno precedente, contro le truppe germaniche in via Rasella, che aveva provocato la morte di trentatré riservisti inquadrati nella Wehrmacht.

Scrive Carla Capponi, che aveva partecipato a quell'azione in via Rasella, nel suo libro Con cuore di donna- Il Ventennio, la Resistenza a Roma, via Rasella: i ricordi di una protagonista”:

 Cuore-di-donna.jpg«Per noi quell'ordine assassino era un crimine contro il quale occorreva mobilitarsi, attaccare con maggiore durezza e determinazione. L'annuncio "questo ordine è già stato eseguito" con cui terminava il breve comunicato, suonava come una sfida: non avevano scritto "La sentenza è già stata eseguita", perché nessun tribunale avrebbe sancito una condanna così efferata, contro ogni legge, contro ogni morale, contro ogni diritto umano.

Dopo la liberazione di Roma, quando si indagò su quella strage si scoprì che solo tre delle vittime erano state condannate a morte con sentenza; neppure il tribunale tedesco installato a via Lucullo aveva avuto il coraggio o la possibilità di emettere una sentenza che desse appoggio legale a quel massacro. Volevano fare intendere che al di sopra di tutte le leggi del diritto e della morale, c'erano gli "ordini" del comando nazista, il "Deutschland über alles", della razza ariana, destinata a dominare tutte le altre considerate inferiori e per le quali non c'era bisogno né di tribunale né di sentenze.

Avevano assassinato in fretta gli ostaggi, occultato i cadaveri e lasciato le famiglie senza notizie, così che ciascuna potesse sperare che i propri cari non fossero nel numero dei destinati alla morte e aspettassero fiduciose. Per questo non fecero indagini, non cercarono i partigiani, non usarono il mezzo del ricatto chiedendo la resa dei GAP. L'eccidio doveva consumarsi per vendetta, non per cercare giustizia.

Volevano nascondere un altro crimine, l'avere ucciso quindici persone oltre i trecentoventi dichiarati, come scoprimmo quando, liberata Roma, furono riesumate le salme: trecentotrentacinque. I tedeschi uccisi erano stati trentadue, uno dei settanta feriti era morto durante la notte a seguito delle ferite: Kappler decise di sua iniziativa di aggiungere dieci vittime a quelle già predestinate e, nella fretta di dare immediata esecuzione all'eccidio, ne prelevarono dal carcere quindici, cinque in più della vile proporzione tra caduti tedeschi e prigionieri da assassinare, quindici in più di quelli autorizzati dal comando di Kesserling. Dell'" errore" si rese conto Priebke mentre svolgeva l'incarico di "spuntare" le vittime prima dell'esecuzione, rilevandole da un elenco all'ingresso delle cave Ardeatine, luogo prescelto per l'esecuzione e l'occultamento dei cadaveri. Lui stesso e Kappler decisero di assassinare anche quei cinque, rei di essere testimoni scomodi della strage».

1944-fosse-ardeatine-ingresso.JPG l'ingresso della cava dove avvenne l'esecuzione  

Alle undici e trenta del venticinque marzo, l'Agenzia Stefani emise un comunicato del Comando tedesco di Roma: "Nel pomeriggio del 23 marzo 1944, elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bombe contro una colonna tedesca di Polizia in transito per via Rasella. In seguito a questa imboscata, trentadue uomini della Polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da comunisti badogliani. Sono ancora in atto le indagini per chiarire fino a che punto questo criminoso fatto è da attribuirsi ad incitamento angloamericano. Il Comando tedesco è deciso a stroncare l'attività di questi banditi scellerati. Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato siano fucilati dieci criminali comunisti badogliani. Quest'ordine è già stato eseguito".

1944-Unita-clandestina-30-marzo.jpg L'Unità clandestina del 30 marzo 1944 (in realtà gli ostaggi trucidati furono 15 in più) 

 

Giulia-Spizzichino.jpgNel libro La farfalla impazzita Giulia Spizzichino, scrive:

«Non ricordo come, ma a un certo punto si venne a sapere che alle Fosse Ardeatine c'era un numero impressionante di cadaveri. Non si sapeva esattamente chi vi fosse sepolto, ma era chiaro che si trattava di prigionieri prelevati dalle carceri dopo l'attacco di via Rasella. Erano loro gli scomparsi, e poi c'era stato l’annuncio sul giornale della rappresaglia eseguita. Il comando tedesco non aveva mai comunicato i nomi delle persone trucidate, ma le famiglie che non avevano notizie dei propri cari non si facevano illusioni circa loro sorte.

Chi andò alle cave a vedere riferì che era impossibile solo pensare di dare un nome alle vittime. Quei corpi erano rimasti là sotto per quasi tre mesi ed erano tutti ammassati, a formare un unico groviglio. Qualcuno propose di chiudere l'entrata, rendendo il luogo una grande tomba comune. Le famiglie degli scomparsi però non lo accettavano. Le figlie del generale Simoni, per esempio, si opposero violentemente, obiettando che in quel modo non avrebbero mai saputo se il loro padre fosse lì dentro.

Quando l'odio produce effetti tanto devastanti, per averne ragione non c'è che l'opera dell'amore. Chi si offrì di compierla fu un medico ebreo, il dottor Attilio Ascarelli. Un uomo stupendo, non ho altri modi per definirlo, che impegnò nella difficile impresa tutta la sua passione, la sua professionalità. Voleva attribuire un volto a ciascuno di quei miseri resti. Iniziò a separare i corpi uno per uno, dato che si erano attaccati. Attraverso i ritagli degli abiti e gli oggetti che avevano addosso - i documenti erano stati loro sottratti - riuscì un po’ alla volta a ottenere il riconoscimento di quasi tutti.

Naturalmente anche la mia famiglia fu coinvolta, tanti dei nostri cari mancavano all'appello, ma io andai sul posto poche volte, mia madre non voleva condurmi con sé. Ero sempre triste ogni volta che tornavo alle Fosse Ardeatine!

Ricordo che c'erano tanti pezzetti di stoffa lavati e sterilizzati, appesi a dei fili con le mollette. Erano numerati, per effettuare un riconoscimento bisognava annotarsi quei numeri. All’epoca i vestiti venivano fatti su misura dal sarto, non c'erano abiti confezionati come adesso, quindi le donne di casa tenevano da parte degli avanzi della stoffa per poterla utilizzare per le riparazioni. Per noi, come per tanti, è stata una fortuna. Solo così abbiamo potuto ritrovare i nostri familiari, li abbiamo riconosciuti attraverso la comparazione dei tessuti. Un pezzetto di stoffa per il nonno Mosè, un altro per lo zio Cesare. Mio cugino Franco, i suoi sogni e i suoi presentimenti: tutto in qualche lembo di tessuto! E ogni volta quanto dolore, quanto quanto dolore ... ».

Tra le vittime delle Fosse Ardeatine cinque insegnanti romani: Gioacchino Gesmundo, Pilo Albertelli, Salvatore Canalis, Paolo Petrucci e Fiorino Fiorini.

Vennero uccisi anche gli studenti Ferdinando Agnini (vent’anni), Ferruccio Caputo (ventidue anni), Romualdo Chiesa, (vent’anni), Pasquale Cocco (ventidue anni), Gastone De Nicolò (diciannove anni), Unico Guidoni (ventuno anni), Orlando Orlandi Posti (diciotto anni), Renzo Pensuti (ventiquattro anni) e Bruno Rodella (ventisei anni).

E anche dodici carabinieri:

Carabinieri uccisi alle Fosse Ardeatine 

Carabinieri-uccisi-alle-Fosse-Ardeatine-2.jpg


da "Lettere a Milano. 1939-1945" di Giorgio Amendola - Editori Riuniti 1981

La polemica sulle responsabilità dell'azione di via Rasella dell'eccidio delle Fosse Ardeatine continuò a lungo anche nel dopoguerra. Fummo accusati di essere stati noi comunisti i responsabili dell'eccidio perché dovevamo presentarci alle autorità naziste e dichiararci gli autori dell'attentato. In realtà non ci fu alcun invito rivolto dalle autorità tedesche agli organizzatori dell'attentati a presentarsi per essere fucilati al posto degli ostaggi. Il comando tedesco diede l'annuncio della rappresaglia ad esecuzione avvenuta. Ma, a parte questa circostanza di tempo, noi partigiani combattenti avevamo il dovere di non presentarci, anche se il nostro sacrificio avesse potuto impedire la morte di tanti innocenti. Noi costituivamo un reparto dell'esercito combattente, anzi facevamo parte del comando di questo esercito, e non potevamo abbandonare la lotta e passare al nemico con tutte le nostre conoscenze della rete organizzativa. Avevamo solo un dovere: continuare la lotta.

Quando fu celebrato, molti anni dopo, il processo contro il maggiore Kappler io, come teste di accusa, assunsi le mie responsabità di comandante delle brigate Garibaldi, per avere dato l’ordine dell'azione di guerra compiuta dai GAP contro il reparto tedesco a via Rasella. Sulla base di questa assunzione di responsabilità, un piccolo gruppo di famiglie di fucilati alle Fosse Ardeatine (soltanto cinque famiglie su 335) intentò un processo contro di me e contro gli esecutori dell'azione per essere dichiarati responsabili civili (visto che l'azione penale era estinta per amnistia) della strage delle Fosse Ardeatine. Soltanto molto tempo dopo fummo assolti dall'imputazione perché il Tribunale riconobbe che l’azione di via Rasella doveva essere considerata un'azione di guerra.

Sull'Unità clandestina fu pubblicato il seguente comunicato, redatto personalmente da Mario Alicata:

« 1. Contro il nemico che occupa il nostro suolo, saccheggia i nostri beni, provoca la distruzione delle nostre città e delle nostre contrade, affama i nostri bambini, razzia i nostri lavoratori, tortura, uccide, massacra, uno solo è il dovere di tutti gli italiani: colpirlo, senza esitazione, in ogni momento, dove si trovi, negli uomini e nelle cose. A questo dovere si sono consacrati i Gruppi di azione patriottica.

« 2. Tutte le azioni dei GAP sono dei veri e propri atti di guerra, che colpiscono esclusivamente obiettivi militari tedeschi e fascisti, contribuendo a risparmiare così altri bombardamenti aerei sulla capitale, distruzioni e vittime.

« 3. L'attacco del 23 marzo contro la colonna della polizia tedesca, che sfilava in pieno assetto di guerra per le strade di Roma, è stato compiuto da due gruppi di GAP, usando la tattica della guerriglia partigiana: sorpresa, rapidità, audacia.

« 4. I tedeschi, sconfitti nel combattimento di via Rasella hanno sfogato il loro odio per gli italiani e la loro ira impotente uccidendo donne e bambini e fucilando 320 innocenti. Nessun componente dei GAP è caduto nelle loro mani, né in quelle della polizia italiana. I 320 italiani, massacrati dalle mitragliatrici tedesche, sfigurati e gettati nella fossa comune, gridano vendetta. E sarà spietata e terribile! Lo giuriamo!

« 5. In risposta all'odierno comunicato bugiardo ed intimidatorio del comando tedesco, il comando dei GAP dichiara che le azioni di guerra partigiana e patriottica in Roma non cesseranno fino alla totale evacuazione della capitale da parte dei tedeschi.

« 6. Le azioni dei GAP saranno sviluppate sino all'insurrezione armata nazionale per la cacciata dei tedeschi dall'Italia, la distruzione del fascismo, la conquista dell'indipendenza e della libertà» (L’Unità, n. 6, 30 marzo 1944).

Il comunicato dei GAP fece una grande impressione. I comunisti sono i soli ad agire, ed anche a sapersi assumere in ogni circostanza le responsabilità delle loro azioni. In un momento difficile della guerra, quando le forze alleate non riuscivano né a superare lo scoglio di Cassino, né a spezzare la rete entro cui era costretto il corpo di spedizione sbarcato ad Anzio; in un momento di crisi del CLN, quando dal sud arrivavano notizie di una crescente impotenza del movimento antifascista di uscire dal vicolo cieco in cui si era cacciato con il congresso di Bari; mentre la popolazione romana era alle prese, in una città assediata, con la fame e con le razzie, l'azione dei GAP di via Rasella aveva dimostrato che il tedesco non era, malgrado la sua tracotanza, invincibile, e che lo si poteva colpire duramente. Il sangue delle vittime innocenti fucilate ·alle Fosse Ardeatine sarebbe ricaduto sui responsabili della strage, sui nazisti e sui loro servi repubblichini. La popolazione romana comprese questo nostro atteggiamento non ci fece mancare la protezione della sua solidarietà. Cominciò, contro il comando delle brigate Garibaldi e dei GAP, una vera caccia all'uomo da parte dei nazisti. Sapevamo che erano intensificate le ricerche per giungere alla nostra cattura, ma potemmo continuare a muoverci e ad agire perché coperti sempre, come prima e più di prima, dall'appoggio popolare. 

 

Lire la suite

21 marzo 2024

21 Mars 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #Memoria e dell'Impegno

21 marzo 2024

XXIX Giornata Nazionale della Memoria e dell'Impegno in ricordo delle vittime delle mafie

Oggi 21 marzo si è celebrata la Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti di mafia.

Come ogni anno, anche il primo giorno di primavera è stata l’occasione per un rinnovato impegno contro l’indifferenza e l’illegalità, ma soprattutto è stato un giorno dedicato a chi si ribella a mafie e corruzione che distruggono beni comuni, impoveriscono territori e sottraggono la speranza di un presente più giusto.

Alla cerimonia erano a presenti Autorità civili, militari, religiose, le associazioni lissonesi e delle delegazioni studentesche cittadine. Sono state letti i nomi delle vittime di mafia. Sono state suonate musiche dall’Orchestra della Scuola Benedetto Croce.

 

21 marzo 2024
21 marzo 2024
21 marzo 2024
21 marzo 2024
21 marzo 2024
21 marzo 2024
21 marzo 2024
21 marzo 2024
21 marzo 2024
21 marzo 2024
21 marzo 2024
Lire la suite

dai diari di Pietro Nenni

20 Mars 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

«Tempo di guerra fredda. Diari e lettere 1943-1956»

di Pietro Nenni

1929 Nenni esilio Nizza

Pietro Nenni, esule in Francia con altri antifascisti italiani dal novembre 1926,

1942 Nenni confinato politico

viene arrestato dalla Gestapo a Saint Flour, villaggio dell’Auvergne ad un centinaio di chilometri da Vichy dove risiedeva con i suoi familiari, la sera dell’8 febbraio 1943, vigilia del suo cinquantaduesimo compleanno.

Dopo varie peregrinazioni in carceri francesi e tedesche, viene tradotto in Italia: il 24 aprile, a Roma, viene rinchiuso a Regina Coeli nel braccio riservato ai politici a disposizione del Tribunale speciale. Condannato, viene inviato al confino a Ponza, isola delle Pontine.

Il 26 luglio giunge sull’isola la notizia che Benito Mussolini era stato tratto in arresto per ordine del re, in seguito alla seduta del Gran consiglio, dove il “duce” era stato messo in minoranza (19 voti contro 6) su un ordine del giorno Grandi che suonava sconfessione della sua direzione della guerra e invito al sovrano a provvedere a norma della Costituzione.

 Dal diario di Nenni del 26 luglio 1943:

«Il giorno si spegne sul mare tranquillo in un pulviscolo d'oro e di azzurro che è un tramonto e potrebbe essere un'aurora. Io vado sul molo fra strette di mano e saluti di amici vecchi e nuovi. Mi commuove e mi esalta il pensiero di ciò che la breve notizia “Mussolini è caduto” rappresenta per migliaia di uomini sui quali si è accanita la persecuzione della polizia fascista e per migliaia di famiglie».

Scherzi del destino! Il 28 luglio viene condotto a Ponza anche Benito Mussolini.

 Dal diario di Nenni del 28 luglio 1943:

«Ed ecco, stasera il destino ci riunisce nella breve cerchia di un comune destino, ma Mussolini è un vinto, è l'eroe dannunziano che, ruzzolato dal suo trono di cartapesta, morde la polvere e non c'è attorno a lui che gente che lo rinnega per volgersi verso altre mangiatoie. Noi, i suoi avversari di venti anni, i «rottami» contro i quali egli ha avventato i suoi sarcasmi, noi siamo in piedi per altre tappe, altre lotte, altri cimenti, in piedi con la dignità della nostra vita, in piedi con la fierezza della parola mantenuta, italiani senza aureola di gloria o di successo, ma dei quali si dovrà pur dire che per essi la politica fu una cosa seria. Mentre è stata per Mussolini e per i suoi niente altro che farsa e impostura».

Il 4 agosto, un telegramma del direttore generale della PS Senise ordina la liberazione di Nenni. Il giorno dopo, con un peschereccio arriva a Terracina. Il 6 agosto è a Roma dopo un’assenza di diciassette anni.

«Eccomi a Roma dopo un'assenza di diciassette anni. Anche nella capitale le bandiere garriscono al vento e c'è nei volti e nei cuori della gente un'aria di festa. Le vie sono arcigremite e ciò che mi stupisce è il numero rilevante dei soldati tedeschi che vanno e vengono tra la folla cittadina. Da piazza dell'Esedra a via Nazionale, da piazza Venezia col suo storico palazzotto cinquecentesco ridivenuto silenzioso, al Corso, da piazza del Popolo a piazza Cavour ai lungotevere, vado tra la folla e ne ascolto i discorsi. Come il fascismo pare lontano, il fatto di un'altra epoca. Sui muri non sono che scritte di esecrazione a Mussolini e di evviva a Matteotti. I simboli del fascismo sono già stati scalpellati dai pubblici edifici e si direbbe che non abbiano mai avuto la mi­nima presa nei cuori. Anche la guerra sembra lontana, malgrado i quotidiani bollettini del comando supremo e l'incombente minaccia aerea.

A San Lorenzo una folla chiassosa si aggira fra le rovine del recente bombardamento. Si parla di migliaia di vittime  tuttora insepolte. Ma già il pensiero è volto ad altre cure e chi giace giace.

Il telegrafo mi porta i primi saluti dei miei concittadini e dei compagni di Milano e di Genova. Il comitato provvisorio di riorganizzazione del partito mi nomina direttore dell'« Avanti! ».

Sono di nuovo immerso nell'azione. Che importano più oggi gli anni tetri dell'esilio, i rischi della lotta, le difficoltà della prigionia?».

Nel viaggio verso Milano passa da Faenza:

«Faenza, la mia città natale, da dove si può dire che manco dall'adolescenza, mi ha accolto con affetto. Per quanto il giorno e l'ora del mio arrivo fossero noti a pochi intimi, una folla di centinaia di persone mi ha accolto alla stazione. Per le strade sono oggetto di una curiosità generale e simpatica. A casa delle mie cognate è una ininterrotta processione di amici. Non inutile dunque è stato resistere. Per anni è sembrato che noi fossimo soli e Mussolini ha potuto dileggiarci come rottami. Ma in ogni cuore era un palpito per noi, in ogni mente un pensiero di affetto. Il fascismo era per alcuni una camiciola di forza e per i più una vernice. Raschiata la vernice, strappata la camicia di forza, ecco l'anima popolare prorompere verso le usate convinzioni, socialista, comunista, repubblicana, liberale, democratico-cristiana, tutto fuorché fascista.

Mi ci vuole uno sforzo per sottrarmi alla gioia di questo ritorno e all'affetto di tanti amici. Qui è tutta la mia giovinezza che mi viene incontro. In questo vicolo che si chiama dei Mendicanti sono nato cinquantadue anni or sono e se appena socchiudo gli occhi, in una vecchierella che prende il fresco all'ombra della chiesa di Sant'Agostino posso immaginare mia madre, infagottata di stracci e curva sotto il peso di molti guai e di molta miseria. Questo palazzo dalla facciata severa, che fu dei conti Ginnasi, mi ricorda mio padre che vi era come inserviente e vi chiuse gli occhi alla vita quando io avevo appena cinque anni. In corso Porta Imolese, l'orfanotrofio dove fui per quasi dieci anni, la mia prima prigione, la prigione che battezzano beneficienza. Davanti alla scuola comunale mi assale il ricordo della grande febbre di sapere che mi divorava e che mi fu impossibile appagare. E queste strade che si aprono sui campi, questo fiumiciattolo che sembra un rigagnolo, questi canali mi ricordano i primi passi verso la vita, i primi sogni, le prime lotte, il primo sciopero nel 1908, il primo incontro con Carmen.

Allora la mia giovinezza era protesa alla conquista di un mondo ideale e la povertà mi era di stimolo. Ma il cinquantenne può volgersi indietro e dire all'orfanello di un tempo, al monello che queste viuzze hanno conosciuto indisciplinato e ribelle: «lo non ti ho tradito e sotto i capelli grigi sono sempre quello che fui».

 

L’arrivo a Milano:

«Il treno che mi porta a Milano si ferma a Rogoredo. I binari sono invasi da una folla di fuggiaschi. Intere famiglie aspettano qui da giorni un convoglio che li porti da qualche parte, lungi dalla città devastata.

Imbocco un corso XXVIII Ottobre che è stato ribattezzato corso della Libertà.

Ogni passo verso Milano è una pena e uno schianto. Davanti ai miei occhi esterrefatti si stende un'immensa rovina. Personalmente non ho mai visto niente del genere, per quanto dall'agosto. 1936, da Madrid a Valenza a Barcellona, alla guerra mondiale a Parigi a Tours a Bordeaux lo spettacolo delle città sventrate dal cannone o dalle bombe mi sia diventato abituale. Al centro la desolazione ancora più grande che alla periferia. Corso Vittorio Emanuele, via Manzoni, l'ex Verziere sono ridotti a cumuli di macerie. Un fumo acre avvolge la città. Si respira il fuoco che cova sotto le rovine. Non c'è un tram che funzioni, non un telefono.

Tra le case in rovina si aggirano donne vecchi fanciulli inebetiti. In molti fabbricati si devono ancora iniziare gli scavi per estrarre i cadaveri. Si sente parlare di sepolti vivi che per giorni hanno implorato un soccorso impossibile.

La Scala, Palazzo Marino, la Galleria sono duramente colpiti.

In piazza San Fedele la statua di Manzoni si erge quasi intatta fra i cumuli di rovine. Lungo corso XXII Marzo le deva stazioni sono meno impressionanti. La casa dove ho abitato è in piedi. Di qui sono partito verso l'esilio nei primi giorni del novembre 1926. La mattina dell'1 novembre il mio appartamento era stato saccheggiato con molti altri a titolo di rappresaglia per l'attentato di Bologna contro Mussolini.

Rivedo con gli occhi della memoria le stanze messe a soqquadro, i mobili spezzati, i libri sparpagliati sul selciato della strada, le fotografie dei miei genitori crivellate di colpi, le carte lacerate, le stoviglie infrante, le poche misere cose di una famiglia povera, ma che hanno tutte un pregio inestimabile, calpestate ... Ricordo la crisi di lacrime di mia figlia Vittoria che era rientrata per cercare i suoi quaderni e che un «bravaccio» aveva messo alla porta dicendole: «E considerati fortunata se non mettiamo le mani su tuo padre e non gli facciamo fare la fine di Matteotti ». Oggi questa mia figliola è internata in Germania senza che io sappia esat­tamente dove... e in quali condizioni. E oggi la visione del piccolo sopruso individuale sofferto tanti anni or sono si allarga alla visione della distruzione dell'intera città.

Come sottrarsi al pensiero di un intimo legame fra due fatti così diversi nelle loro proporzioni? Dal delitto contro il singolo il fascismo è passato con la guerra al delitto contro la nazione.

Ma dove sono i giovani fascisti che venti anni fa muovevano baldanzosi all'assalto dell'"Avanti!”, della Camera del lavoro, delle nostre case e delle nostre persone? Dove sono i tremebondi borghesi che acclamavano l'occupazione fascista di Palazzo Marino? Non si vede in Milano una divisa fascista né una scritta fascista né un distintivo del littorio. Tutti sono rientrati nell'ombra. Ci restino per il bene dell'Italia».

Bibliografia:

 

Pietro Nenni -Tempo di guerra fredda. Diari e lettere 1943-1956 - Sugarco Ed. 1981

Lire la suite
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 20 30 40 50 60 70 > >>