Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

L'Uomo Qualunque

29 Avril 2012 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #il secondo dopoguerra

Nel dicembre 1944, proprio mentre la Resistenza subisce al nord la prova più dura e la Monarchia gioca la carta del referendum (Umberto di Savoia, come Luogotenente, in un'intervista al «New York Times» del 7 novembre 1944, sosteneva che un apposito referendum, e non l'Assemblea costituente, dovesse decidere tra monarchia e repubblica), nasce il settimanale L'uomo Qualunque, destinato a diventare l'organo di un vasto movimento e poi nel febbraio 1946 di un vero partito.

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Ne è promotore Guglielmo Giannini, un geniale commediografo napoletano, che dimostra acuta sensibilità per contenuti di opinione e sentimenti che agiscono nel profondo della società italiana, ai quali dà voce in maniera brillante e polemica.

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Giannini si oppone ad ogni idea di Stato etico «che pretende di insegnare a pensare al cittadino», nega ogni spazio alla politica che non sia quello della «amministrazione». Alle classi sociali contrappone la «folla» degli «uomini qualunque», nega ogni valore ideale alla patria; definisce come unico e ardente desiderio dell'uomo qualunque quello «che nessuno gli rompa più le scatole», come scrive il 27 dicembre nel primo numero del settimanale. Giannini non è un nostalgico del fascismo. Critica aspramente la guerra nella quale il fascismo ha trascinato il paese e che fra l'altro è costata la vita a un suo figlio, ma di fatto raccoglie tutti i sentimenti di delusione e di risentimento che vanno formandosi nell'Italia liberata nei confronti dei primi e incerti passi dei partiti e del C.L.N. L'uomo Qualunque, che raccoglie consensi diffusi anche in ambienti cattolici e polemizza aspramente contro la Democrazia Cristiana, rappresenta l'espressione più significativa di quello che è stato definito «il vento del sud» in contrapposizione al «vento del nord», alimentato dalla esperienza della Resistenza.

Per capire con precisione cosa sia L'Uomo qualunque, basti tener presente che nelle elezioni politiche del 2 giugno 1946 (alle quali partecipa col nome di Fronte dell'Uomo qualunque ) esso avrà 30 deputati. Sui 20 deputati eletti nei singoli collegi (gli altri 10 rientrano nel Collegio nazionale) uno soltanto proviene dal nord (dal collegio elettorale di Milano - Pavia): gli altri 19 vengono eletti nei collegi di Roma, Benevento-Campobasso, Napoli-Caserta e Bari-Foggia (il massimo: 4 per ogni collegio), a Salerno, in Calabria, in Sicilia e in Sardegna. Alle elezioni amministrative del 1946, L'Uomo qualunque avrà 30 candidati, eletti nell'Italia Settentrionale, 68 nell'Italia centrale (di cui ben 58 a Roma e nelle province limitrofe), 981 nell'Italia meridionale, 218 in Sicilia e in Sardegna.

Alle elezioni dell'aprile 1948 avviene il crollo di questo movimento, il quale non è altro che un segno di protesta; il suo significato, per così dire, è quello d'una reazione: trascorso un certo periodo, il suo compito sarà esaurito.

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Lissone, 25 aprile 2012

26 Avril 2012 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #avvenimenti recenti

manifesto 25 aprile rid

Discorso pronunciato dal prof. Giovanni Missaglia, dell’ANPI di Lissone, durante la celebrazione del 25 aprile a Lissone. 

Giovanni MissagliaA quasi Settant’anni della liberazione dell’Italia dal nazifascismo, nel quadro di un contesto storico così profondamente trasformato sia sul piano nazionale che su quello internazionale, il dovere della memoria deve essere accompagnato dal tentativo di individuare e valorizzare gli elementi più attuali dell’esperienza resistenziale. A me pare che oggi, fra le tante possibili, siano tre le questioni sulle quali vale la pena concentrarsi per vedere se l’esperienza storica della Resistenza può ancora parlarci: la questione del ruolo e della funzione dei partiti politici; la questione dell’Europa e della sua unità; infine, la questione del razzismo.

Il ruolo dei partiti politici è stato fondamentale nelle vicende della Liberazione. Basti pensare alla funzione del Comitato di Liberazione Nazionale prima e a quella dell’Assemblea Costituente poi. In un caso come nell’altro, forze politiche diverse e persino configgenti rispetto all’assetto politico e sociale da dare all’Italia da liberare e all’Italia liberata hanno saputo costruire delle esperienze unitarie: al di là delle loro differenze ma anche a partire dalle loro differenze. Insomma, l’esatto opposto del Fascismo, che, mentre negava alla radice le differenze politiche imponendo per legge il partito unico, il Partito Nazionale Fascista appunto, seminava in realtà divisioni laceranti e drammatiche che sfociarono tra l’altro in una “guerra nella guerra”, la lotta tra i partigiani e i fascisti che si svolgeva sullo sfondo delle vicende della seconda guerra mondiale.

I partiti antifascisti seppero operare al di là delle loro differenze, dicevo. Ci sono momenti in cui devono prevalere le ragioni dell’unità. Fu così quando i dirigenti del C.L.N. decisero di accantonare la questione istituzionale, che li vedeva divisi tra repubblicani e monarchici, per farla decidere direttamente dal popolo a liberazione avvenuta, come poi accadde attraverso il referendum del 2 giugno 1946. Fu così durante i lavori dell’Assemblea Costituente, quando le forze politiche, nonostante le posizioni assai diverse che erano emerse durante i lavori preparatori, seppero trovare tutte le convergenze necessarie per votare a larghissima maggioranza, quasi all’unanimità, il testo finale della Costituzione. Trovare le ragioni dell’unità nei momenti più difficili della storia di un Paese è la responsabilità più rilevante di una classe dirigente.

Forse è proprio questo il motivo per cui, oggi, nonostante tutte le differenze del caso, molti apprezzano il cosiddetto governo tecnico: dopo anni di delegittimazione dell’avversario politico è forte in molti la speranza, per qualcuno l’illusione, di poter entrare in una nuova stagione della vita politica, caratterizzata appunto più dalla capacità di costruire sintesi che di seminare divisioni.

Dicevo, anche, però, che i partiti antifascisti seppero operare, non solo al di là delle loro differenze, ma anche a partire da queste differenze. L’unità, insomma, non fu, non è e non dovrebbe mai essere, l’inesistenza delle differenze, ma il convergere di soggetti diversi che stabiliscono modalità comuni per regolare il loro fisiologico conflitto. Dalle differenze (differenze di visioni della società e dell’economia, differenze di valori morali e politici di riferimento, differenze di interessi sociali e materiali rappresentati) si deve costruire un’unità, cioè quell’insieme di norme condivise – e per questo costituzionali - per regolare la coesistenza ma anche il conflitto tra tutte queste differenze per tanti versi irriducibili. E può darsi che sia questo il lato negativo di ciò che chiamiamo governo tecnico: l’illusione che in una società possano non esistere differenze, che vi siano soluzioni neutrali, tecniche appunto, che il conflitto non abbia anche un ruolo propulsore e positivo.

Dunque: lavorare al di là delle differenze ma a partire dalle differenze. Questo seppero fare i partiti. E oggi ne sentiamo un gran bisogno. Critichiamoli, lavoriamo per rinnovarli, inventiamone di nuovi, ma non delegittimiamo il sistema dei partiti. Senza i partiti tradiremmo la Resistenza. Senza i partiti non c’è democrazia. “Tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, recita l’articolo 49 della Costituzione. Senza i partiti non ci sarebbe che il plebiscitarismo e, a determinare la politica nazionale, non resterebbe che il duce, l’unto del Signore, il demagogo senza scrupoli; oppure, se così si può dire, il partito unico della Tecnica, un potere apparentemente neutrale ma nella realtà capace di imporre come neutrali delle scelte di parte, legittime, ma di parte. Perciò guardiamo con interesse alla proliferazione di liste civiche, nel nostro territorio come in tutto il Paese, non perché rappresentano un’alternativa ai partiti, ma, al contrario, perchè si tratta pur sempre di parti, partiti sui generis se si vuole, di cittadini che prendono parte, che prendono partito non a caso per candidati e progetti diversi, a dimostrazione del carattere originariamente e costitutivamente conflittuale della scena politica e del carattere parziale, partitico, delle opzioni e delle soluzioni di volta in volta proposte. Non lasciamoci fuorviare, perciò, dalla sterile contrapposizione tra i partiti, che sarebbero il male assoluto, e la società civile, che rappresenterebbe invece il bene. Ricordiamoci, piuttosto, della lezione di un grande antifascista, Gaetano Salvemini che, riferendosi alla classe politica del suo tempo, scriveva: “Per un dieci per cento rappresenta la parte migliore del paese, per un altro dieci per cento rappresenta la feccia, per il restante ottanta per cento rappresenta il paese come esso è”.

Per venire al tema dell’Europa e della sua unità, vorrei cominciare col richiamare il nome di Altiero Spinelli, l’esule antifascista che, al confino sull’isola di Ventotene, nel 1941 vide con straordinaria lucidità le ragioni della catastrofe che attraversava l’Europa e le forme per superarla. Spinelli scrisse il celebre Manifesto per un’Europa libera e unita, per una federazione degli Stati Uniti d’Europa. I nazionalismi dilaganti nella prima metà del Novecento avevano prodotto due guerre mondiali sorte proprio a partire dalle rivalità tra paesi europei. Sessanta milioni di morti furono il prezzo di questa cecità nazionalistica. Spinelli vide che solo un processo di integrazione europea avrebbe potuto evitare una nuova, una terza catastrofe. E la costruzione della CECA nel 1951, della CEE nel 1957 e della UE nel 1992 hanno rappresentato, pur tra molte manchevolezze, una politica di pace oltre che una politica economica. Per questo dobbiamo guardare allarmati alla crisi che l’Unione Europea sta attraversando. Essa non è soltanto una crisi economica scandita dagli impietosi dati sulla recessione e neppure soltanto una crisi politica segnata dal deficit di legittimità democratica di molte istituzioni europee  capaci di assumere decisioni importantissime senza adeguate procedure per misurare il consenso dei popoli. Crisi economica e crisi politica sono ormai due aspetti di una più generali crisi spirituale dell’Europa, se è vero che persino un popolo tradizionalmente europeista come quello italiano avverte sempre più l’Europa come un ostacolo o un fattore di impoverimento. Sono già molti i segnali che ci parlano dell’emergere di nuovi nazionalismi e di nuovi localismi. Ma la strada per risolvere i problemi non è un di meno, ma un di più di Europa. Le chiusure nazionalistiche e localistiche le abbiamo conosciute bene e non abbiamo nessun desiderio di rivederle. Il progetto di integrazione europea è stato forse il più grande risultato della sconfitta del nazifascismo. La crisi di questo progetto, perciò, è un’offesa alla Resistenza e allo spirito dell’antifascismo, che è sempre stato patriottico senza mai essere nazionalista. L’amore di patria, il patriottismo, la volontà di riscattare il Paese, sono stati fattori essenziali della lotta antifascista, ma, come insegna la lezione di Altiero Spinelli, essi non si sono mai confusi con un gretto nazionalismo, perché ne facevano parte integrante la consapevolezza della libertà e dell’uguaglianza di tutti i popoli e quella della necessità di creare istituzioni sovranazionali.

Infine, lasciatemi dire che, se è vero che la xenofobia e il razzismo sono l’essenza del nazifascismo, nella sua visione gerarchica della società e dell’umanità, ossessivamente divise in superiori ed inferiori, in superuomini e in sottouomini, non possiamo non guardare con orrore ai tanti episodi di cronaca che ci parlano di intolleranza per chi è straniero, per chi è nero, per chi è ebreo, per chi è omosessuale, per chi è diverso. Ma l’orrore non basta. Il razzismo è un fenomeno sociale e culturale complesso che l’indignazione non basta certo a sconfiggere. Nel quadro della drammatica crisi economica che stiamo attraversando, poi, esso trova un terreno fertile di sviluppo, che innesca con molta facilità  meccanismi atavici come quello della ricerca del capro espiatorio. Per  questo occorre combattere il razzismo su più fronti. Quello economico sociale, perché la dilagante crescita delle disuguaglianze che attraversa anche il nostro Paese non può non favorire una guerra tra poveri. Quello culturale, perché il sapere e la cultura servono a dare un nome alle cose e perciò a non esserne schiacciati e a non alimentare reazioni violente e irrazionali. Ma anche quello politico e amministrativo, perché il governo della cosa pubblica, anche e soprattutto a livello locale, è uno strumento per favorire occasioni di conoscenza,  di incontro e di composizione pacifica dei conflitti.

Difendere e rinnovare il sistema dei partiti e contrastare il qualunquismo dell’antipolitica; lottare per forme più democratiche di integrazione europea e contrastare il ritorno dei nazionalismi e dei localismi; combattere il razzismo e le sue cause sono, oggi, i compiti che ci spettano, che spettano a tutti coloro che sanno ancora vedere nella Resistenza l’atto fondativo della Repubblica italiana e della sua Costituzione.

alcune immagini della Festa della Liberazione a Lissone

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dedicata a tutti i partigiani torturati

25 Avril 2012 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Torture

 

Nulla è cambiato.

Il corpo prova dolore,

deve mangiare e respirare e dormire,

ha la pelle sottile, e subito sotto - sangue,

ha una buona scorta di denti e di unghie,

le ossa fragili le giunture stirabili.

Nelle torture di tutto ciò si tiene conto.

 

Nulla è cambiato.

Il corpo trema, come tremava

prima e dopo la fondazione di Roma,

nel ventesimo secolo prima e dopo Cristo,

le torture c’erano, e ci sono, solo la terra è più piccola

e qualunque cosa accada, è come dietro la porta.

 

Nulla è cambiato.

C'è soltanto più gente,

alle vecchie colpe se ne sono aggiunte di nuove,

reali, insinuate, temporanee e inesistenti,

ma il grido con cui il corpo ne risponde

era, è e sarà un grido di innocenza,

secondo un registro e una scala eterni.

 

Nulla è cambiato.

Se non forse i modi, le cerimonie, le danze.

Il gesto delle mani che proteggono il capo

è rimasto però lo stesso.

Il corpo si torce, dimena e svincola,

fiaccato cade, raggomitola le ginocchia,

illividisce, si gonfia, sbava e sanguina.

 

Nulla è cambiato.

Tranne il corso dei fiumi,

la linea dei boschi, del litorale, di deserti e ghiacciai.

Tra questi paesaggi l'animula vaga,

sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana,

a se stessa estranea, inafferrabile,

ora certa, ora incerta della propria esistenza,

mentre il corpo c'è, e c'è, e c'è

e non trova riparo.

 

Wislawa Szymborska

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“Ribelli” per amore

15 Avril 2012 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Storie di sacerdoti durante la guerra di Liberazione.

«Sono preti che hanno educato al senso autentico della libertà».

Cardinale Carlo Maria Martini

 

Sacerdoti della Brianza deportati nei lager nazisti

Durante la Resistenza una cinquantina furono i sacerdoti italiani che furono deportati, identificati con il triangolo rosso dei deportati politici. Erano stati accusati di aver avuto contatti o aver aiutato partigiani, ebrei, militari sbandati, renitenti alla leva, prigionieri alleati evasi, oppure di aver biasimato in pubblico le violenze tedesche, consegnato bigliettini clandestini alle famiglie o impartito l’estrema unzione a partigiani in fin di vita. Essi furono destinati per lo più a Dachau, alla baracca 26, sulla base di accordi intercorsi con la Santa Sede, e la loro opera nei campi fu di conforto ai compagni deportati; alcuni di loro furono adibiti ai lavori pesanti nelle cave di Mauthausen o nelle gallerie di Melk o Ebensee e in 14 persero la vita.

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Nel libro di Pietro Arienti “Dalla Brianza ai lager del III Reich sono riportate le vicissitudini di due sacerdoti brianzoli, don Riccardo Corti e don Mauro Bonzi.

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Don Riccardo Corti

Nato nel 1876, era parroco dal 1909 di Giovenzana, una località ora frazione di Colle Brianza, posta a quasi 700 metri d'altitudine. La vicenda di deportazione di questo anziano prete è dettagliatamente e con molta cura descritta dallo stesso don Riccardo che, appena tornato dalla prigionia, completò di sua mano nel Liber chronicon parrocchiale ciò che suo fratello, il missionario del Pime padre Ferruccio, aveva già cominciato a fare nel periodo in cui lo sostituì alla guida della comunità di Giovenzana. Lo scritto è stato recuperato e meritoriamente stampato e pubblicato nel 1978 e costituisce la fonte principale per esporre quanto accadde al sacerdote della Brianza lecchese.

Subito dopo l'armistizio dell'8 settembre, i campi di prigionia in cui erano custoditi i militari alleati si svuotarono e parecchi di loro sconfinarono nella provincia di Como dirigendosi verso la Svizzera neutrale. Contravvenendo alle dure disposizioni emanate dalle nuove autorità fasciste e soprattutto dall'occupante tedesco, buona parte della popolazione che s'imbattè in questi fuggiaschi, offrì loro rifugio e protezione; alcuni furono anche inglobati nelle prime formazioni partigiane che andavano formandosi nell'alto lecchese. Don Riccardo Corti, più per carità sacerdotale ed umana che per altri motivi, accolse parecchi ex-prigionieri sistemandoli in parte a Pessina, una località appartenente al beneficio parrocchiale nella quale erano state edificate due piccole baite, altri otto nella casa del sacrestano dove avevano cominciato a svolgere piccoli lavori domestici e ad aiutare nei campi, mentre un altro gruppo si nascondeva nei boschi più a monte. Già due volte nel mese di settembre due sconosciuti erano saliti a Giovenzana e avevano invitato il parroco ad accettare delle armi per equipaggiare gli sbandati onde utilizzarli, dicevano, per contrastare i tedeschi da poco arrivati nella pianura. Don Riccardo rifiutò fermamente l'offerta dei due che erano evidentemente dei provocatori, ma commise l'imprudenza di acconsentire bonariamente a condurre i visitatori a Pessina e a Cagliano, l'altra località in cui erano rifugiati presso le famiglie del luogo altri ex-militari.

Il 9 ottobre 1943, festa patronale di S. Donnino, quegli individui si ripresentarono, mettendogli cibo e vestiario per i prigionieri ospitati e salirono ancora a Pessina.

Don Corti, quando si troverà già in carcere, apprenderà che gli emissari fascisti erano stati imbeccati da alcuni sfollati che, ripresi dal parroco per la loro condotta, si erano vendicati. L'11 ottobre, all'alba, il curato si era già alzato per eseguire i primi servizi religiosi del mattino; dopo pochi attimi alla porta della chiesa alcuni uomini bussarono in maniera violenta e ordinarono di aprire i battenti. Come il sacerdote eseguì il comando si vide puntare contro una pistola mentre un altro milite con il mitra lo sospinse, insieme alla domestica, sulla piazzetta del paese dove, notarono, c'erano già gli otto militari stranieri alloggiati dal sacrestano, circondati da 32 tedeschi delle SS con a capo un maresciallo. Il sottufficiale ordinò una requisizione nella casa dell’ecclesiastico, i soldati se ne uscirono con alcune uova e un pezzo di formaggio con le quali completarono una ricca colazione ordinata all'osteria del paese. Mentre i tedeschi mangiavano e bevevano, si sentirono improvvisamente spari e scoppi di bombe provenire da Pessina e dai boschi circostanti. La caccia ai fuggiaschi era sfociata in uno scontro armato nel quale furono uccisi due spagnoli volontari nell'esercito inglese, Josè Martinez e Andrea Sanchez. Alla fine dell'operazione furono caricati su due camion delle SS 26 prigionieri, mentre su due auto distinte, fra due poliziotti italiani, sedettero don Riccardo Corti e il fratello padre Ferruccio, presente a Giovenzana per aiutare la parrocchia e che in questo frangente fu duramente percosso. Fra la paura e lo sgomento della popolazione locale, la colonna si mosse scendendo a Galbiate per passare poi da Lecco e da lì raggiungere alle quattro del pomeriggio, Bergamo.

Nel presidio tedesco della città orobica don Corti subì il primo interrogatorio da parte dello stesso maresciallo che lo aveva arrestato. Gli s'imputò il fatto di aver dato rifugio ai prigionieri fuggiti trasgredendo agli ordini germanici trasmessi alla radio, comparsi sui giornali ed esposti agli albi comunali. Il sacerdote rispose che a Giovenzana non c'erano apparecchi radiofonici, né edicole e l'albo non esisteva; il graduato minacciò di dare fuoco al paese considerando l'appoggio offerto agli evasi da tutta la sua popolazione ma il parroco si assunse tutta la responsabilità dell' accaduto.

Conclusa l'inquisizione fu associato col fratello alle carceri di S. Agata a Bergamo alta. Il 14 ottobre i due prelati furono già trascinati davanti ad un tribunale tedesco per un processo che si dimostrò solo una formalità di facciata. Il presidente non fece altro che leggere un fascicolo accusatorio in tedesco e, senza la presenza di alcun testimone e di alcun avvocato, provvide a condannare padre Ferruccio a due mesi di carcere che scontò a Bergamo stessa, e a comminare al sessantottenne parroco di Giovenzana ben un anno e mezzo di prigione. Don Corti entrò in questa fase in un periodo di grande abbattimento morale, aggravato anche dai problemi fisici portati dall'artrite che gli impedivano un agevole uso delle mani e dalla comparsa della febbre.

Ai primi di dicembre si recò a visitarlo l'arcivescovo di Milano cardinale Ildefonso Schuster, portandogli cibo e soldi e il conforto religioso. Con lui in cella furono in seguito aggregati altri tre sacerdoti bergamaschi, don Alessandro Ceresoli assistente a Ponte S. Pietro, don Alessandro Brumana, parroco di Valcava e don Antonio Seghezzi assistente diocesano dell'Azione Cattolica. Saranno tutti deportati in Germania e Seghezzi morirà a Dachau poco dopo la liberazione; di quest'ultimo è in corso la causa di beatificazione.

Dopo due mesi e mezzo trascorsi al S. Agata, don Riccardo, insieme agli altri preti reclusi, fu trasferito al forte S. Mattia di Verona: era il 24 dicembre 1943. Il forte S. Mattia era un residuo intatto del sistema di fortificazione di Verona, edificato Dagli austriaci nel 1843 sull'altura più elevata dei dintorni della città. I tedeschi, dopo l'occupazione, lo avevano adibito a carcere duro per detenuti politici. Il forte è scavato nella roccia, è tetro e umido e, osserva il parroco di Giovenzana:

      Il maresciallo che dirige detto carcere è semplicemente terribile, minaccioso, insolente e molto generoso nel dispensare calci, pugni e scappellotti a chiunque, e le guardie ne seguono l'esempio

I sacerdoti vennero rinchiusi in una grande cella, dove però potevano starei una trentina di prigionieri e in verità se ne stiparono quarantacinque, in una perenne semioscurità per la mancanza di luce. Dormirono su brande vecchie e marce e i pidocchi e le cimici abbondavano. Solo due buglioli servivano per questa massa di persone e il fetore era opprimente. L'alimentazione giornaliera era costituita da un surrogato di caffè, una zuppa di sole verdure e mezza pagnotta ammuffita. Le condizioni di Don Riccardo inevitabilmente peggiorarono ancora, dimagrì considerevolmente e l’artrite gli causò forti dolori ora anche alle gambe, perciò fu dichiarato inabile al lavoro. Malgrado questa classificazione che avrebbe dovuto evitargli la deportazione in Germania, il 14 gennaio 1944 venne incluso in una lista con diciotto prigionieri politi ci da spedire in Germania. Alle tre del mattino il gruppetto fu caricato su un autocarro e condotto alla stazione di Verona dove una tradotta, nella stessa giornata, li recapitò a Monaco di Baviera, nel carcere situato sette chilometri fuori dalla grande città.

Paradossalmente l'anziano parroco trovò qui delle condizioni di prigionia, soprattutto in termini di pulizia, luce e calore, migliori che a Verona; continuavano invece i maltrattamenti dei guardiani e per la prima volta don Riccardo fu svestito dell'abito talare per indossare la divisa da galeotto, un'evenienza che a sessantotto anni doveva ulteriormente pesare sull'animo del deportato. Nel carcere di Monaco rimase 47 giorni, sempre rinchiuso in cella, con la sola possibilità, due volte la settimana di uscire all'aria aperta in cortile per mezz'ora. Erano giorni di terribili bombardamenti sulla capitale della Baviera e quando le bombe cadevano le guardie correvano nei rifugi, mentre i prigionieri rimanevano in cella, pregando affinché il carcere non fosse centrato.

Il 26 febbraio don Corti venne chiamato dalla guardia, gli fu restituito l'abito ecclesiastico con la comunicazione che sarebbe rientrato in Italia. Si trattava di un inganno, in realtà già il 5 gennaio il Generale plenipotenziario delle Forze armate tedesche in Italia aveva respinto al cardinal Schuster la domanda di grazia. Insieme ad altri reclusi, fu portato per tre giorni alla stazione di polizia di Monaco e poi, il giorno 29, inviato, dopo una giornata terribile trascorsa nello spazio angusto di un vagone cellulare, a Donauworth, città bavarese sul Danubio a 45 chilometri da Augsburg. A piedi, ammanettati per due, con un freddo terribile e le strade piene di neve, la colonna dei detenuti fu fatta affluire alla caserma della polizia e poi trasportata al carcere per lavori forzati del piccolo paese di Kaisheim. Don Corti perse di nuovo la tonaca e vestì di nuovo la divisa del galeotto e, come tutti i sacerdoti detenuti, per spregio, adibito al mestiere di calzolaio. Montagne di scarpe arrivavano in vagoni merci da varie zone d'occupazione tedesca e i prigionieri effettuavano la cernita e il recupero del materiale ancora godibile.

Dopo circa tre mesi di questa vita, parve aprirsi uno spiraglio. Il 26 maggio venne data comunicazione al parroco detenuto che gli era stata concessa la grazia per l'intercessione sempre del cardinal Schuster. Era vero solo in parte, l'arcivescovo ci aveva riprovato ma la concessione avvenne solo alla fine di luglio, così don Riccardo convisse penosamente per mesi con questa speranza. Nel frattempo, in considerazione della sua età e del suo stato di salute, fu dirottato ad un lavoro più leggero in ambito cartario, nella produzione di sacchetti e quaderni.

Nemmeno quando la decisione di liberare il prelato fu ufficializzata, questi riacquistò la libertà. L'autorità carceraria berlinese, giunta a Kaisheim per altri motivi, scoprì sei telegrammi e tutta la documentazione di concessione della grazia giacente nell'ufficio del direttore che volontariamente l'aveva ignorata impedendo la liberazione del vecchio parroco. Il funzionario e i suoi sottoposti pagarono l'insubordinazione ai superiori con la loro destituzione. Questo fatto ebbe luogo a fine dicembre del '44 ma neanche in quel momento don Corti fu scarcerato. Con una serie di giustificazioni fu trattenuto a Kaisheim fino al 9 febbraio 1945, in pratica, malgrado la grazia, gli si fece scontare tutta la pena alla quale era stato condannato. I guai però non erano finiti, perché l'ormai sessantanovenne parroco quel giorno venne semplicemente messo alla porta; malfermo di salute, senza soldi, senza conoscere la lingua e senza aver mai avuto modo in sedici mesi di comunicare con l'Italia, si trovava in Germania, solo, nel pieno della guerra.

Riuscì ad arrivare a Monaco, ormai rasa al suolo, sotto un'intensa nevicata. Raggiunse, aiutato da una donna, il consolato italiano e fu ricevuto da Vittorio Mussolini in persona. Dopo un'inutile ramanzina sul fatto che ne aveva determinato l'arresto gli venne pagato il viaggio di ritorno. L'anziano deportato, però, poco pratico, sbagliò treno e fu costretto a scendere in una minuscola stazione, ancora una volta senza denaro. Corse il rischio di morire assiderato e fu salvato da un operaio italiano che stava rientrando in Italia attraverso Innsbruck che lo portò con sé.

Don Riccardo Corti l'11 febbraio varcò la frontiera al Brennero e, dopo altre e numerose peripezie, riuscì ad arrivare a Milano. Fu ricevuto da Schuster che gli diede oltre che un po’ di soldi, anche il permesso di riprendere possesso della sua parrocchia di Giovenzana. Il 14 febbraio 1945 il sacerdote rientrava a casa, trionfalmente, fra la sua gente incredula ed entusiasta e gli sguardi malevoli dei militi fascisti.

 Venimmo avvisati che spiavano ogni mio atto e parola, masticavano molto amaro vedendomi ritornato. Nella chiesa affollata all'inverosimile, don Riccardo salutò i suoi parrocchiani e li benedì, dopo un anno e mezzo nelle prigioni del Reich.

       

Don Mauro Bonzi

Nato il 15 gennaio 1904 a Legnano. Ordinato sacerdote nel 1928 fu dapprima destinato al seminario di S. Pietro martire a Seveso e successivamente a quello di Venegono Inferiore. Nel 1939 assunse la carica di rettore del Collegio Pio XI di Desio che mantenne fino all'incarcerazione.

Sembrerebbe che il fermo di don Bonzi sia avvenuto in due fasi. La prima ebbe luogo il 29 aprile 1944 secondo tutte le pubblicazioni che hanno parlato di questo sacerdote. Nel registro d'iscrizione dei detenuti del carcere di S. Vittore viene invece annotata come data d'arresto il 30 aprile, poco cambia, è solo a beneficio della precisione e sempre per la precisione il volume che traccia la storia del Collegio Arcivescovile Pio XI scrive che il rettore venne prelevato alle 17.30 del pomeriggio. Fu una camionetta tedesca che si presentò al collegio, mentre gli insegnanti e i prefetti raccolsero i ragazzi che erano nel cortile per la ricreazione e si chiusero nelle aule finché l'operazione non si concluse. Per quanto riguarda le motivazioni che portarono all'arresto di don Mauro, sempre il registro delle matricole di S. Vittore riporta che il fermo fu operato dall'Ufficio di Polizia Speciale con l'accusa formale di avere violato l'articolo 247 del Codice penale (incitamento alla disobbedienza della legge e all'odio fra le classi sociali) e di "assistenza ai partecipi di cospirazione o di banda armata". Le testimonianze locali portano luce sull'operato di don Bonzi, facendolo apparire come un sicuro appoggio per gli antifascisti desiani e del circondario. Una delle attività del sacerdote era sicuramente il procurare documenti falsi per i renitenti alla leva e gli sbandati. Proprio dal fermo di due dei giovani protetti dai fogli contraffatti e fatti parlare con la tortura, si giunse all'individuazione del rettore del collegio desiano. Si è sempre parlato, poi, di armi nascoste nei sotterranei del collegio e fatte pervenire ai gruppi sui monti, ma niente di dimostrabile è possibile riferire.

Don Bonzi, comunque, era già inviso ai fascisti per la sua freddezza e la sua mancanza di collaborazione con i nuovi occupanti. Il rettore del collegio, sotto interrogatorio, fece convergere su di sé le colpe e le accuse dei fascisti per non compromettere altre persone. Questo è confermato da un rapporto della questura che dichiara il prete reo confesso di:

aver dato assistenza a componenti di bande armate e di aver nascosto nel collegio fucili e munizioni consegnate poi ai banditi. 

A S. Vittore, comunque, è registrato il 2 giugno “proveniente dalle carceri di Monza, consegnato da agenti di P.S.”, questo significa che don Bonzi aveva già trascorso più di un mese nella prigione brianzola prima di essere inoltrato a Milano. Il sacerdote venne messo a disposizione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato e per ordinanza dello stesso organo fu rilasciato il 27 giugno 1944. Qui potrebbe cominciare quindi la seconda fase della vicenda, segnalata da due pubblicazioni, che vede il prelato nuovamente arrestato e inviato da S. Vittore a Bolzano il 7 settembre. All'arrivo nel lager a don Bonzi venne tolto tutto quello che aveva, gli venne consegnata una tuta blu con una croce sulla schiena e il numero di matricola, 3869, da applicare su una gamba dei pantaloni. Durante il periodo di detenzione nel campo di transito, il sacerdote riuscì a far pervenire una lettera alla famiglia di un suo allievo con la quale chiedeva aiuto per un sostegno materiale; la missiva è particolarmente importante perché con l'indirizzo a fondo pagina al quale far pervenire i soccorsi, ci permette di conoscere la matricola e il blocco in cui fu internato e, soprattutto, l'accenno all'avere trascorso già 80 giorni in carcere a Milano, ci suggerisce che se rilascio c'era stato il nuovo arresto era avvenuto dopo pochi giorni, oppure che, malgrado il registro di S. Vittore riporti la data del rilascio, questo significasse solo un passaggio al raggio controllato dai tedeschi e che quindi una scarcerazione non sia mai avvenuta. Ecco il testo della lettera: 

Egregio signor Sparer

Sono il rettore del Collegio Pio XI di Desio, dove il suo Elmar frequenta la scuola. Mi trovo a Bolzano in campo di concentramento dal 7 u.s. come detenuto politico e forse sarò presto trasferito in Germania. Ho già fatto 80 giorni di carcere a Milano e ora mi trovo qui nel bisogno di tutto e nell'impossibilità di avere dal collegio quello che mi occorre. Mi prendo perciò la libertà di chiedere a Lei, per amore del suo Elmer che mi è tanto affezionato, qualche soccorso di vitto (pane o qualcos'altro) perché a dire la verità patisco anche la fame. Se potessi avere anche qualche centinaio di lire, le sarei veramente riconoscente; avrei premura poi di restituire appena sarò tornato a Desio. Non può credere con quanta commozione penso a questa fortuna di avere vicino a me la famiglia di un mio alunno, e forse lo stesso Elmer che sarà a casa in vacanza. Lo abbracci e lo baci per me quel caro figliolo. È la Provvidenza che mi dà questo gran conforto.

E la signorina Maria è costì o a Desio? Se è con lei le faccia i miei saluti più rispettosi. È dalla fine di aprile che soffro per la cattiveria degli uomini: forse me lo sarò meritato e mi rassegno alla volontà di Dio. Preghino per me come io prometto di ricordare loro nelle mie preghiere. Dio benedica lei e la sua famiglia.

Abbia la bontà di spedire la lettera qui unita a mia mamma perché così sono sicuro che la riceverà. La ringrazio dal profondo del cuore e la ossequio.

De.mo

Sac. Mauro Bonzi

Rettore del Collegio Arcivescovile Pio XI, Desio.

P.S. Questa lettera le perviene di nascosto per mano di un soldato che la conosce. Mi faccia risposta con questo stesso mezzo e con precauzione per non incontrare dei guai e per evitarli anche lei. Sac, Mauro Bonzi, matricola 3869. Blocco H. Polizeiliches Durchgangslager, Bolzano.

Bolzano 14/9/44 

Da Bolzano don Mauro scrisse anche al cardinale Schuster, arcivescovo di Milano, per confermargli che, anche nelle avversità, la fede è ben salda.

Mi manca il conforto della S. Messa e di ogni altro privilegio sacerdotale, ma faccio tutto il possibile per tenermi unito al Signore durante le ore di lavoro e di inoperosità... Questa vita è dura e mortificante ma l'accetto a mia purificazione ed elevazione. 

A Bolzano rimase quasi un altro mese e il 5 ottobre 1944 fu deportato a Dachau dove arrivò il 9 ottobre per essere immatricolato con il numero 113150. Fu classificato come schutz Geistlicher, ossia "cappellano".

Dachau era il lager dove quasi esclusivamente erano stati internati gli ecclesiastici cattolici. Su 2720 religiosi che passarono nelle baracche del campo, 2579 erano cattolici, ne morirono 1034 in gran parte, ben 868, polacchi; gli italiani furono 28, generalmente tutti erano ammassati nel blocco 26 e una parte nel 28.

Sulla sua permanenza a Dachau non abbiamo notizie estese ma diversi sacerdoti anch'essi deportati a Dachau che scrissero delle memorie, lo citano come compagno di prigionia. Così è per padre Giannantonio Agosti, don Angelo Dalmasso, don Paolo Liggeri e don Roberto Angeli. Proprio quest'ultimo nel suo volume Il Vangelo nel lager, racconta la fine della schiavitù nel campo di concentramento che visse in condivisione con don Mauro Bonzi fino al ritorno a casa. Dopo la liberazione avvenuta il 29 aprile 1945: 

Gli ammalati più gravi furono trasportati nelle baracche delle SS fuori dei reticolati ... una parte di quei caseggiati (uffici, residenze, comandi, cucine, magazzini) fu adibita a ospedale da campo. Il comando alleato chiese ai preti di contribuire allo sforzo che stava facendo per salvare migliaia di vite umane. Avevano bisogno d'infermieri. Così il giorno 7 maggio, insieme a don Giovanni, don Berselli, don Camillo Valota, don Bonzi e don Aldrighetti, uscii dal campo ed indossai il camice bianco. Si trattava di curare uomini ridotti a scheletri, incapaci di muoversi, afflitti dalla terribile dissenteria foriera di morte. Bisognava cambiare le lenzuola di ciascuno più volte al giorno, bisognava propinare speciali pillole a determinate ore, misurare e segnare la febbre sulle cartelle cliniche, fare iniezioni, accorrere a tutte le chiamate e soprattutto fare la spola ininterrottamente tra i letti e i gabinetti trasportando le padelle. 

Era una vita dura anche per loro, erano deboli e avevano in testa l'obiettivo di tornare in Italia al più presto. Cinque sacerdoti, fra i quali don Angeli e don Bonzi, decisero così di non aspettare che fossero gli americani ad organizzare una partenza che appariva ancora lontana e abbandonarono la compagnia senza autorizzazione. Il viaggio un po' a piedi e un po' con un'infinità di mezzi a motore, durò dall’8 al 30 maggio. I cinque ormai ex-deportati attraversarono le rovine di Monaco, giunsero in Austria ospitati di volta in volta da parroci e frati a volte ospitali, a volte diffidenti o cortesi. Raggiunsero Innsbruck il 27 maggio ma solo il 30 riuscirono varcare il Brennero. Ed al ritorno in Brianza è legato un fatto che certo a don Bonzi non doveva aver fatto un gran piacere. Don Angeli, livornese, non trovava un passaggio a Bolzano per le sue terre, seguì quindi don Mauro a Monza. Questi poi lo portò a “far visita ad una personalità importante" la quale, dopo avere fatto fare ai due una lunga anticamera, li ricevette abbastanza freddamente e con severità li ammonì: "So che avete sofferto molto, ma dovevate essere più prudenti". Quindi dispose di consegnare loro 500 lire e li congedò. Anni dopo, don Paolo Liggeri confermò che: 

... il cardinal Schuster era rimasto contrariato dalle vicende di don Bonzi, probabilmente per il fatto che si trattava di un esponente di un collegio arcivescovile ... Don Bonzi non era un intellettuale, ma un sacerdote sensibile, di gran cuore e certamente questo lo portò a rischiare, direi più sul piano della carità che politico. 

E forse, per un sacerdote, aver rischiato per la carità è stato più vicino al senso della sua missione che non mille atteggiamenti di prudenza. Il fisico del prete legnanese al suo ritorno era però minato dalla tubercolosi. Fu nominato parroco della città comasca di Lurago Marinone ma la sua attività fu molto breve. La malattia, eredità di Dachau, lo vinse il 28 aprile 1947; don Mauro Bonzi fu sepolto nella sua città natale di Legnano.

 

Tre sacerdoti nati a Lissone impegnati nella Resistenza

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Nel libro “Memorie di sacerdoti ribelli per amore”, curato da don Giovanni Barbareschi, in cui sono raccolte biografie riguardanti sacerdoti che hanno avuto un qualche ruolo nella Resistenza, sono contenute notizie riguardanti tre sacerdoti originari di Lissone: don Luigi Brusa, don Enrico Cazzaniga, padre Mario Fossati.

libro Memoria di sacerdoti

 

don Luigi Brusa

Nato a Lissone il 16-4-1899, ordinato sacerdote a Milano il 6-6-1925, negli anni dal 1943-45 Rettore del Santuario della Vittoria a Lecco, morto il 29-10-1969.

Persona riservata e oltremodo schiva, non ha lasciato memoria scritta di quanto la sua generosità e la sua carità gli hanno suggerito di fare.

Quello che sappiamo di lui lo si deve a don Aldo Cattaneo, che viene mandato a Lecco ad aiutarlo nel 1944.

Don Luigi ha collegamenti con la Resistenza lecchese, soprattutto con don Teresio Ferraroni, e per la sua attività rischia la deportazione.

Nella cripta del Santuario della Vittoria di cui è Rettore e nel salone sottostante la chiesa, organizza un magazzino di rifornimento di viveri e vestiario coi quali aiuta i gruppi partigiani che operano intorno a Lecco.

Con grande rischio personale ospita ricercati, tra i quali il parroco di Bellano, don Francesco Rovelli, reduce dalle carceri di Como in preoccupanti condizioni di salute, ed anche un giovane sacerdote tedesco, che a un certo punto aveva deciso di abbandonare l’esercito nel quale era stato forzatamente arruolato.

 

don Enrico Cazzaniga

Nato a Bareggia di Lissone il 20-5-1898, ordinato sacerdote a Milano l’11-6-1927, negli anni 1943-45 Parroco di Liscate (MI); morto a Bareggia di Lissone il 15-7-1984.

Dal 1940 è Parroco di Liscate, piccolo paese di milletrecento anime a est di Milano, e lo sarà fino al 1973, per trentatre anni.

Uomo di fede profonda, è per la sua gente una guida energica e sicura, una testimonianza continua di umana solidarietà e di cristiana carità.

Negli anni di guerra in paese sono rimasti i bambini, le donne, gli anziani. Don Enrico coinvolge tutti in una travolgente testimonianza di carità cristiana che dà aiuto agli sfollati della vicina Milano bombardata, ai ricercati politici, agli sbandati renitenti alla leva repubblichina, ai partigiani dei vari gruppi di ideologie diverse.

Dal liber chronicus della parrocchia si apprende l’episodio che fa di don Enrico il “salvatore” del suo paese.

Il 30 aprile 1945 entra in Liscate una colonna di seicentocinquanta tedeschi delle SS con mitragliatrici, cannoncini, mortai. Intendono fermarsi in paese ed organizzare la loro difesa, per poi proseguire la fuga.

Don Enrico fa presente al comandante che la cosa migliore è arrendersi, perché tutte le strade sono ormai bloccate dai partigiani ed è imminente l’arrivo degli Alleati.

Il comandante chiede tempo per riflettere, e nel frattempo don Enrico avverte i nuclei di partigiani dei dintorni, che convergono su Liscate.

Con i tedeschi ci sono anche alcune centinaia di soldati repubblichini e don Enrico intuisce che un’opera di persuasione con loro, assicurandone e proteggendone la fuga, avrebbe convinto anche i tedeschi ad arrendersi. D’accordo con i giovani del paese, rendendosi personalmente garante della salvezza dei repubblichini, procura a tutti abiti civili e favorisce il loro disperdersi nelle campagne adiacenti.

I tedeschi si dicono decisi a distruggere il paese alla minima provocazione partigiana, e per questo piazzano i loro cannoni. Da Melzo arriva una commissione di comandanti partigiani, e tra loro il coadiutore, don Franco Mapelli. Le trattative sono lunghe, laboriose, estenuanti, e solo l’ascendente e la forza morale di don Enrico ottiene che non ci sia nessun atto di provocazione da parte dei partigiani.

È solo il continuo peregrinare da un gruppo all’altro, in quelle ore di difficile attesa, che i gruppi partigiani non reagiscono. I tedeschi, nel pomeriggio, decidono di arrendersi, e il paese è salvo.

Nel 1970, in occasione del 30° di parrocchia, viene conferita a don Enrico l’onorificenza al merito di Cavaliere della Repubblica, onorificenza della quale don Enrico è molto fiero.

Il 26 ottobre 1984, nella seduta consigliare, don Enrico viene ufficialmente commemorato dal Sindaco che ne ricorda i meriti umani e sacerdotali; a lui viene dedicata una strada, «piccolo segno di riconoscenza e di gratitudine verso una persona che ha fatto e operato per il progresso e la crescita di Liscate».

 

Fossati padre Mario

Nato a Lissone il 9-10-1906, ordinato sacerdote per il P.I.M.E. il 22-9-1934, negli anni 1943-45 Parroco di Onno (CO), morto a Rancio di Lecco (CO) il 13-5-1979.

Sui monti sopra Bellagio si erano attendati alcuni gruppi di partigiani. Uno di loro, Giambattista Gradola detto Tino, viene arrestato durante un rastrellamento nel settembre 1944.

I suoi compagni decidono di tentare di liberarlo quando sarà trasportato a Lecco per l’interrogatorio. Organizzano un posto di blocco alle Fornaci vicino a Vassena. Arriva una vettura militare ma non si ferma all’alt; i partigiani sparano verso le ruote riuscendo a colpirle. La vettura sfugge ugualmente. Il giorno dopo si viene a sapere che la vettura militare era giunta a Limonta con un passeggero ferito a morte, il tenente Weber della guarnigione tedesca.

Il partigiano Giambattista Gandola viene giustiziato e i tedeschi minacciano una rappresaglia su tutto il comune di Oliveto Lario (Onno, Vassena, Limonta), rappresaglia che consiste nel bruciare i paesi e nel deportarne in Germania tutti gli uomini.

Padre Mario Fossati, Parroco di Onno, con il parroco di Vassena, cerca di parlamentare con le autorità per venire ad un compromesso.

Come avevano fatto in analoga occasione a Esino Lario, i tedeschi promettono di evitare la distruzione dei paesi se i parroci si impegnano a consegnare tutti i giovani che ancora non si erano presentati alle autorità della Repubblica di Salò. Assicurano contemporaneamente che ogni giovane munito di regolare certificato di esonero avrebbe potuto far ritorno a casa.

Al giorno fissato la comitiva di ventisei giovani guidati dai loro parroci, parte per Como.

Dopo una estenuante attesa ci si accorge che i tedeschi non volevano mantenere le promesse fatte.

Padre mario e il parroco di Vassena segretamente si impegnano a restare con i giovani, disposti a seguirli ovunque e rimandano a casa il parroco di Limonta.
Ventisei giovani con i loro parroci in uno stanzone, nella certezza di essere internati in Germania ... Lì passano la notte. Il mattino seguente, domenica, i sacerdoti celebrano la “Messa al campo” e i giovani ricevono l’Eucarestia. Padre mario annota nel liber chronicus della parrocchia di S. Pietro Martire in Onno: « ... Momenti veramente commoventi ...».

Dopo la Messa i due parroci continuano il loro pellegrinaggio da un’autorità all’altra per chiedere che vengano mantenute le promesse. Dopo un’attesa logorante, improvvisamente arriva la notizia: i tedeschi mantengono la parola data.

Annota ancora padre Mario nel liber chronicus: « ... La mano di Dio non è certamente assente ...».

 

 

Bibliografia:

Pietro Arienti – Dalla Brianza ai lager del III Reich – Bellavite Editore 2012

Giovanni Barbareschi – Ribelli per amore – Milano 1986

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