Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

ii guerra mondiale

1943-1945: la “campagna d’Italia”

11 Décembre 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

Quasi due anni è durata la “campagna d’Italia”, dallo sbarco degli Alleati in Sicilia alla liberazione di tutta la penisola dall’occupazione nazista e dal regime fascista: due anni che hanno causato al nostro Paese ancora lutti e rovine. Militarmente hanno dato il loro contributo gli Alleati, che ebbero un peso determinante nella vittoria finale della guerra, il Corpo Italiano di Liberazione, le Divisioni partigiane.

Nei seguenti articoli vengono descritti i momenti salienti di questa fase della seconda guerra mondiale:

 

La liberazione della Sicilia

 

Il convegno di Tarvisio: fine della collaborazione fra italiani e tedeschi

 

Dalla Sicilia, attraverso lo stretto, inizia l'attacco alla penisola

 

11 settembre 1943: la battaglia di Salerno

 

11 settembre 1943: il regno del Sud comincia a vivere

 

18 settembre 1943: Mussolini da radio Monaco

 

1° ottobre 1943: Napoli è libera

 

La difficile avanzata degli Alleati verso Roma e la nostra guerra a fianco degli Alleati

 

La repubblica di Mussolini

 

L’attacco alla linea Gustav

 

Il bombardamento di Montecassino

 

Cassino, la più terribile battaglia della “Campagna d'Italia”

 

Mussolini si incontra con Hitler

 

La liberazione di Roma

 

Firenze è libera

 

L’attacco alla linea Gotica

 

Dicembre 1944: il fronte si arresta

 

Il bando Alexander e l’accordo Wilson

 

Partigiani e Gruppi di combattimento in azione

 

La liberazione del Nord Italia

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Il proclama Alexander

17 Novembre 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

Il 13 novembre 1944 la radio «Italia combatte» trasmetteva il proclama del generale Alexander dedicato ai «patrioti al di là del Po»: «La campagna estiva, iniziata l'11 maggio e condotta senza interruzione fin dopo lo sfondamento della linea gotica, è finita. Inizia ora la campagna invernale». In conseguenza di questa nuova fase bellica i patrioti avrebbero dovuto «cessare la loro attività precedente per prepararsi alla nuova fase di lotta e fronteggiare un nuovo nemico, l'inverno» e avrebbero dovuto eseguire le seguenti istruzioni:

1) Cessare le operazioni organizzate su larga scala;

2) conservare le munizioni e i materiali e tenersi pronti a nuovi ordini;

3) attendere nuove istruzioni che verranno date o a mezzo radio «Italia combatte» o con mezzi speciali o con manifestini. Sarà cosa saggia non esporsi in azioni troppo arrischiate: la parola d'ordine è: stare in guardia, stare in difesa ...

Il proclama non diceva esplicitamente di «tornare a casa», è vero; anzi nella conclusione accennava all'«opportunità» di continuare nella guerriglia e nel sabotaggio «purché il rischio non fosse troppo grande». ... il modo era il più infelice: un proclama radio che annunciava non solo ai partigiani, ma anche al nemico l'intenzione di rinviare ogni azione offensiva a primavera e di lasciarlo indisturbato sul fronte. Riguardo al momento, non si poteva sceglierne uno meno adatto, poiché il proclama giungeva nel pieno della controffensiva tedesca. ...

il generale Alexander, non solo dava «mano libera» ai tedeschi verso la Resistenza italiana, ma suscitava nell'interno di questa i più gravi dubbi sulle prospettive future ...

Nel giro di una settimana non rimase più un angolo dell'Italia partigiana che non fosse sconvolto, messo a ferro e a fuoco dai rastrellamenti: almeno la metà delle forze tedesche e tutte le forze repubblichine, furono impegnate contemporaneamente e in tutti i settori per schiacciare la Resistenza.

Alla fine di novembre 1944 viene catturato l'intero Comando GL piemontese, ucciso Duccio Galimberti; la stessa sorte subiva il Comando regionale veneto, e poi quello ligure. In Lombardia cadeva il comandante della piazza di Milano Sergio Kasman, venivano arrestati quasi tutti i tecnici militari del CVL e infine gli stessi dirigenti: il rappresentante liberale (Argenton) quello dc (Mattei) e lo stesso Parri. In Emilia, l'intero CLN di Ferrara viene arrestato dai fascisti e consegnato alle SS tedesche. Solo nel '46 le sette salme dei suoi componenti verranno ritrovate in una fossa comune, in località Caffè del Doro.


Generali-britannici.jpg 

il Generale Harold Alexander (a destra) e il Generale  Oliver Leese (a sinistra) con  Winston Churchill (Italia Agosto 1944)

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20 ottobre 1944: Milano, quartiere di Gorla

20 Octobre 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

Presso il comando generale della 15a Air Force, dal febbraio 1944 era presente un rapporto della R.A.F. britannica dove si informava che gli stabilimenti milanesi operanti nel settore meccanico-siderurgico erano in piena attività, probabilmente al servizio dell'industria bellica; questo portò alla decisione di effettuare sopra la città di Milano una pesante incursione che distruggesse tutti gli impianti produttivi. La data decisa era quella venerdi 20 ottobre 1944.
Il 20 ottobre 1944, Milano subì un feroce bombardamento da parte degli Alleati. Una bomba cadde sulla scuola elementare di Gorla.

 

Il bombardamento aereo del 1944 distrusse la locale scuola elementare uccidendone tutti gli alunni e gli insegnanti.
 
20 ottobre 1944 20 ottobre 2024

Milano, fu sottoposta a circa 60 bombardamenti da parte degli Alleati.
Questa la cronologia delle incursioni e i danni dei bombardamenti:
Anno 1940
15-16 giugno; 16-17 giugno; 13-14 agosto; 18-19 agosto; 24-25 agosto; 18-19 dicembre. I danni furono limitati.
24 ottobre 1942
Aree colpite: Ticinese, Magenta, Piazza Tricolore, Sempione, Venezia e Corso Buenos Aires, Garibaldi, zona Duomo.
Tra gli edifici: Cimitero Monumentale, Pio Istituto dei Rachitici, Stazione di Porta Vittoria, Libreria Hoepli, Teatro Carcano.
24-25 ottobre 1942
Danni lievi alla periferia
14-15 febbraio 1943
S. Maria del Carmine; S. Lorenzo Maggiore, Palazzo Reale, Pinacoteca Ambrosiana, Permanente, Galleria d'Arte Moderna, Umanitaria, Conservatorio, Ospedale Maggiore, Scalo Farini, Porta Romana, Porta Genova, deposito tram Via Messina. Zone più colpite: Corso Roma (Porta Romana), Ticinese, Monforte, Porta Vittoria, Arena, Loreto; aree nei pressi della Università Cattolica, del Duomo, della Stazione Centrale.
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7-8 agosto 1943
S. Maria del Carmine, S. Carlo al Lazzaretto, Tempio lsraelitico, Teatro Filodrammatici, Teatro Garibaldi, Circolo Filologico, Accademia Belle Arti di Brera, Triennale, Museo Poldi Pezzoli, Acquario Municipale, Museo di Storia Naturale, Galleria d'Arte Moderna, Ospedale Fatebenefratelli, Ferrovie Nord, Stazione Centrale, Scalo Farini, Porta Nuova. Zone più colpite: Porta Venezia, Porta Garibaldi, Sempione, Corso Magenta. Porta Ticinese.
12-13 agosto 1943
S. Maria del Carmine, Duomo e Galleria, S. Maria alla Porta, S. Maria alla Scala in S. Fedele, S. Maria delle Grazie, Palazzo Marino, Castello Sforzesco, Accademia Belle Arti di Brera, Triennale, Galleria d'Arte Moderna, Fiera Campionaria, Teatro Lirico, Cinema Odeon, Teatro Manzoni, Zone più colpite: Duomo, Venezia, Vittoria, Sempione, Garibaldi, Ticinese.
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14-15 agosto 1943
Duomo, S. Carlo, S. Maria delle Grazie, S. Pietro in Gessate, Biblioteca Ambrosiana, Palazzo Reale, Cinema Teatro dal Verme, Cinema Teatro Verdi, Basilica S. Ambrogio, Università Cattolica, Monumento ai Caduti, Castello Sforzesco.
15-16 agosto 1943
Ca' Granda, S. Pietro in Gessate, S. Maria Assunta in Certosa, S. Bernardino alle Ossa, S. Nazaro, S. Babila, S. Lorenzo Maggiore; Pio Istituto dei Rachitici, Teatro alla Scala, Cinema Teatro Odeon, Teatro Nuovo, Conservatorio, Museo Poldi Pezzoli, Biblioteca Ambrosiana, Palazzo della Provincia, Archivio di Stato, La Rinascente.
28 marzo 1944- 13 aprile 1945
L'area di Milano subì 45 bombardamenti, molti dei quali diurni, volti principalmente a interrompere le vie di comunicazione. Il più grave fu quello del 20 ottobre 1944: furono colpiti i quartieri di Gorla, Precotto e Turro, i morti furono 614.
 

Se sono scarse, sui giornali, le notizie dei bombardamenti, mancano del tutto servizi che spieghino alla popolazione cosa fare in caso di bombardamenti pesanti. La stampa su indicazione dell'apposito ministero, preferisce non affrontare l'argomento. Bisogna, contro ogni evidenza, che la gente sia convinta che tutto va, ancora, per il meglio. La “Domenica del Corriere” come l' “Illustrazione Italiana” non ospitano mai fotografie di macerie né tantomeno di cadaveri, ma soltanto immagini rassicuranti, di monumenti protetti da impalcature, muretti di mattoni e sacchi di sabbia.

Il tentativo di «minimizzare» acquista toni di inaudito cinismo nelle parole di alcuni commentatori. Su “Critica Fascista” del dicembre del 1942 Emilio Canevari scrive: «Quale danno è stato poi prodotto dai famosi bombardamenti? Lo ha detto Mussolini: sono state buttate a terra alcune centinaia di case e ciò favorirà il rinnovamento edilizio contro il cattivo gusto antico e nuovo e sono state uccise meno di duemila persone. È doloroso perché si tratta in genere di donne, vecchi e bambini. Ma dobbiamo anche ricordare che queste cifre valgono sì e no alle perdite per incidenti automobilistici di un anno nelle metropoli moderne. Ma se il timore bombardamenti riuscisse a frenare l'urbanesimo con tutte le sue piaghe, ciò sarebbe certo un beneficio. Finalmente i borghesi se ne andranno nei loro poderi e li cureranno maggiormente».

    
   
1944 gennaio Milano tabellone dati bombardamenti
 il tabellone della Repubblica Sociale Italiana posto davanti alla Stazione Centrale
 
Bibliografia:
A. Rastelli Bombe sulle città Mursia, 2000 
Mafai Miriam, Pane nero, Mondadori, 1987
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6 giugno 1944: operazione Overlord, nome in codice dello sbarco in Normandia

5 Juin 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

Il luogo dello sbarco dell’operazione Overlord fu scelto durante la conferenza Trident nel maggio 1943 a Washington: venne preferita la Normandia piuttosto che il Pas-de-Calais, in quanto le divisioni tedesche presenti in questa zona erano più numerose e soprattutto perché non vi erano spiagge e porti che consentissero un rinforzo rapido della testa di ponte.

Alla fine del mese di gennaio 1944, Eisenhower stabilì i mezzi che dovevano essere impiegati nell’operazione: tre divisioni aviotrasportate e cinque divisioni trasportate via mare (due americane e tre inglesi). La zona di sbarco si doveva estendere per circa 60 chilometri, dall’estuario del fiume Orne alla costa orientale del Cotentin. Durante la notte precedente l’operazione anfibia, le divisioni aviotrasportate dovevano coprire tutto il settore di sbarco al fine di proteggerlo ai suoi fianchi.

La scelta della Normandia per l’operazione Overlord consentì di ingannare i tedeschi. Con l’operazione Fortitude, lanciata dagli Alleati, si fece credere ai tedeschi ad uno sbarco nel Pas-de-Calais, bloccando così alcune divisioni tedesche in quest’ultimo settore.

D-DAY Sbarco per la vittoria

La decisione di attaccare i nazisti in Normandia porta la data del 6 giugno 1944. Alle 9.33 del mattino le agenzie americane lanciano il primo flash sullo sbarco. Ma per mettere in ginocchio la Germania il prezzo è altissimo: diecimila morti nelle prime 24 ore.

 

sbarco-in-Normandia.jpg

 

Articolo di Silvio Bertoldi

«Overlord», il Signore: questo è il nome che americani e inglesi hanno scelto per indicare l'operazione di sbarco sul Continente. «Overlord» comincerà quando verrà il momento del D-Day, il Decision Day, o giorno della decisione. Il D-Day viene il 6 giugno 1944, alle 6.30 del mattino, tra nuvole basse e mare di onde lunghe e scure: 2727 navi mercantili, 700 da guerra, 2500 mezzi da sbarco, 1136 aerei inglesi (tra cui una formazione agli ordini del famigerato generale Harris che distruggerà Dresda senza un perché), 1083 aerei americani. Il fronte corre da Le Havre a Cherbourg in Normandia. Una sorpresa per i tedeschi che aspettavano l'attacco sulla Manica, al Pas de Calais, e non vogliono ammettere di essersi sbagliati. Cinque i punti di sbarco, classificati con nomi di fantasia: «Utah» o «Omaha» di pertinenza degli americani a occidente, «Gold», «Judno» e «Sword» per gli inglesi a oriente. Un giorno intero di battaglia sanguinosissima ed è inutile illudersi di salvare il soldato Ryan: di soldati Ryan ne moriranno circa diecimila nelle prime ventiquattr'ore, il prezzo tremendo (peraltro previsto) pagato per una testa di ponte in Europa dopo quattro anni di guerra. Il colpo decisivo per mettere in ginocchio la Germania e sollevare l'Urss dal sostenere da sola il peso del conflitto. Torna alla memoria la promessa di Churchill nella drammatica notte del 2 agosto 1940, quando tutto sembrava perduto: «Ricordate: non ci fermeremo, non ci stancheremo mai, non cederemo mai; l'intero nostro popolo e l'Impero si sono votati al compito di ripulire l'Europa dalla peste nazista e di salvare il mondo dal nuovo Medioevo... e il mattino verrà».

Quel mattino è venuto. È cominciato poco dopo la mezzanotte del 5 giugno, quando sono partiti 60 incursori con il compito di segnalare le zone di atterraggio ai 72 alianti lanciati su Caen, precedendo le divisioni di paracadutisti dei generali Taylor e Ridgway: gli stessi che l'8 settembre sarebbero dovuti scendere su Roma, se un terrorizzato Badoglio non li avesse scongiurati di soprassedere. Poi è toccato alle due Armate, la prima americana di Bradley e la seconda inglese di Dempsey, entrambe agli ordini di Montgomery, l'eroe partito da El Alamein, che ha giurato di concludere la sua corsa solamente a Berlino. Come sarebbe in effetti avvenuto, se ragioni politiche non avessero costretto Eisenhower a imporgli di lasciare la precedenza ai russi.

Alle 9.33 del mattino del 6 giugno le agenzie di stampa americane avevano lanciato il primo flash con l'annuncio dello sbarco, poi era stato letto il proclama di Eisenhower ai soldati. Il generale non aveva fatto economia di parole ed era ricorso a quello che riteneva il tono epico adatto alla circostanza. ...

A Londra, alla Camera dei Comuni, a mezzogiorno Churchill stava illustrando la presa di Roma, avvenuta due giorni avanti. Un segretario gli passò un biglietto, lui lo lesse e, senza alterare il tono della voce, annunciò che la battaglia per liberare l'Europa dal nazismo era cominciata e con l'aiuto di Dio sarebbe continuata fino alla vittoria. Quella sera stessa le truppe alleate erano saldamente attestate nell'entroterra della Normandia e prendeva il via la lunga cavalcata che le avrebbe condotte all'Elba, dopo che Patton ebbe distrutta a Bastogne l'estrema speranza di Hitler di rovesciare la situazione.

Come fu vissuta l'avventura dalle due parti? Il giorno dello sbarco Rommel, capo dell'armata tedesca stanziata in Normandia, non si trovava al suo comando di La Roche-Guyon. Fidando nell'inclemenza del tempo, che lasciava pensare a tutto tranne alla possibilità di uno sbarco, era partito in automobile per la Germania. Andava a festeggiare il compleanno della moglie e le portava in regalo un paio di scarpe francesi. Lo avvertì Speidel, il suo capo di Stato Maggiore e si precipitò verso Parigi a tappe forzate. Capì subito che per tamponare la falla si dovevano spostare le divisioni del Nord verso la zona di Cherbourg, ma per questo occorreva il consenso di Hitler. Il Führer stava dormendo e l’ordine categorico era di non svegliarlo prima di mezzogiorno. Così seppe dello sbarco con dieci ore di ritardo e anzi non volle credere che si trattasse dello sbarco vero, bensì di una manovra degli Alleati, un diversivo a scopo di disturbo. Negò a Rommel di disporre delle truppe richieste e in tal modo diede al nemico una chance di successo mai immaginata. Qualche tempo prima Rommel aveva detto che, quando fosse cominciata la battaglia di Normandia, quello sarebbe stato «il giorno più lungo». Non azzeccò la previsione. Il 6 giugno non fu il giorno più lungo, al cadere della sera era praticamente terminato, con gli Alleati vittoriosi sulla costa.

Per Eisenhower il problema era diverso, legato soprattutto alle condizioni meteorologiche. Dopo una preparazione durata mesi, aveva deciso di attaccare il 5 giugno, perché in quel giorno si presentavano le condizioni ideali di luna, di marea e di vento che, se lasciate passare, si sarebbero ripetute soltanto il mese successivo. Non si poteva restare tanto tempo in sospeso, dunque o subito o chissà quando. Ma una bufera implacabile cominciò a imperversare sulla Manica e rese impossibile la partenza delle navi. Già da venerdì 2 giugno si erano scatenati gli elementi e fu necessario rinviare. Dopo lunghe ore di attesa spasmodica il meteorologo inglese, colonnello Stagg, la sera del lunedì annunciò che il 6 mattina si sarebbe presentata la possibilità di uno spiraglio di qualche ora. Si trattava di cogliere quella problematica occasione, con il pericolo che tutto cambiasse di nuovo. Eisenhower decise di rischiare. Le truppe erano imbarcate da giorni, non era possibile tenerle ancora «prigioniere» nelle navi. Vi fu un'ulteriore consultazione e poi, sulla fede nelle previsioni di Stagg, l'annuncio: «OK si parte». Era il D-Day, il giorno della decisione.

Stagg, l'oscuro eroe della grande avventura, aveva lavorato senza un attimo di sosta per decifrare le sue carte del tempo e indovinare il momento magico per l'attacco. Così era avvenuto, la schiarita c'era stata. Quando le navi furono partite e i comandi svuotati diventarono silenziosi, Stagg si ritirò nel suo accantonamento, si gettò vestito su una branda e dormì dodici ore filate.



Corriere-della-Sera-7-giugno-1944.jpg Il-Secolo-7-giugno-1944.jpg Le-Matin-sbarco-Normandia.jpg

 

Sbarco in Normandia 1 Sbarco in Normandia 2 Sbarco in Normandia 3 Sbarco in Normandia 4 Sbarco in Normandia 5 Sbarco in Normandia 6 Sbarco in Normandia 7 Sbarco in Normandia 8 Sbarco in Normandia 9 Sbarco in Normandia 10 Sbarco in Normandia 11

 

 

Bibliografia:

supplemento del “Corriere della Sera” - dicembre 1999

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La liberazione di Roma, 4 giugno 1944

3 Juin 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

1944-Montecassino-bombardata.jpg 1943 dicembre CIL Montecassino

Due giorni dopo la conquista di Cassino e dell'Abbazia, nel settore meridionale del fronte, il II Corpo americano attaccava la linea «Hitler» presso Formia e in direzione di Fondi. Altrettanto facevano algerini e marocchini sui monti Aurunci, mentre nel settore settentrionale il Corpo britannico e quello polacco combattevano aspramente a Pontecorvo e Piedimonte.

Cinque giorni dopo anche la linea «Hitler» era infranta e le Armate alleate potevano avviarsi verso Roma: l'VIII per la via Casilina e la V per la via Appia. Una Divisione americana si dirigeva lungo la costa verso la testa di ponte di Anzio, dove il VI Corpo angloamericano forte come un'Armata, il 23 maggio aveva iniziato l'offensiva.

1944 alleati in Anzio 

L'attacco principale venne sferrato verso i Colli Albani e verso Velletri, occupata qualche giorno dopo, mentre Alexander aveva ordinato di tagliare la ritirata nemica sulla via Casilina puntando in forze su Valmontone. Clark invece preferì insistere in direzione di Roma, e Valmontone fu presa solo il 2 giugno, dopo che i tedeschi avevano completato il ripiegamento. La città di Littoria era stata liberata dall'unica colonna americana, appena un reggimento, che dalla testa di ponte di Anzio s'era diretta verso sud, incontro alla V Armata in arrivo dal fronte del Garigliano. Il ricongiungimento avvenne a Borgo Grappa il 25 maggio. Nella gioia dell'incontro si dimenticava ch'esso si era fatto attendere quattro mesi più del previsto.

Clark disponeva di una formidabile piattaforma per il lancio finale su Roma. È alla capitale ch'egli continuava a guardare, più che alla manovra di aggiramento chiesta da Alexander. Voleva arrivarci prima degli inglesi perché la nuova vittoria su Hitler portasse il suo nome. Per i tedeschi fu un colpo di fortuna. Essi non speravano che gli Alleati, per un motivo di prestigio personale, rinunciassero a cogliere, con un colossale accerchiamento, i frutti della vittoria. Scampati alla trappola di Valmontone, i tedeschi abbandonavano Roma con ogni mezzo, mantenendo sgombre le strade su cui si ritiravano le Divisioni di Cassino. Avevano perso molti uomini, ma avevano salvato l'esercito. Proprio l'ultimo giorno vollero lasciare un altro ricordo di sangue. Alle porte della città, in frazione La Storta sulla via Cassia, per alleggerire un automezzo, assassinarono 14 prigionieri politici fra cui il vecchio sindacalista Bruno Buozzi. Poi risalirono sui camion e ripresero più in fretta la ritirata verso nord.

Il generale Clark rievoca il giorno della presa di Roma:

1944 alleati Roma 1944 giugno Roma porta Maggiore 

«La maggior parte della gente non collega la data del 4 giugno (giorno in cui entrammo a Roma) con lo sbarco del generale Eisenhower in Normandia, ma le due operazioni erano coordinate, e mi era stato dato l'ordine di conquistare Roma, se fosse stato possibile, subito prima dello sbarco di Eisenhower. Sicché combattemmo con tutto l'impegno e ce la facemmo appena in tempo. Naturalmente, volevamo essere la prima Armata che liberava una delle capitali dell'«asse»; ciò avrebbe sollevato il morale degli Alleati e anche degli italiani. Sicché fu con profonda emozione che ci avvicinammo a Roma, e il giorno in cui vidi le mie truppe marciare verso la città, e fui testimone del modo cordiale con cui vennero accolte dalla popolazione, fu un giorno particolarmente felice. Il 5 giugno entrai anch'io in Roma con la mia "jeep" per la via Casilina. Non eravamo molto pratici della città; il generale Hume, che era con noi, aveva suggerito che il Campidoglio sarebbe stato il luogo adatto per incontrarmi con i miei comandanti di Corpo d'Armata.

Nelle vie erano gaie folle, molti cittadini agitavano bandiere. I romani sembravano impazziti d'entusiasmo per le truppe americane. Il nostro gruppetto di "jeep" errava per le vie, ma non riuscivamo a trovare il colle capitolino. Ci eravamo smarriti. A un tratto ci trovammo in piazza San Pietro e un prete si fermò accanto alla mia "jeep" e disse in inglese: "Benvenuto a Roma. Posso esservi utile in qualche modo?».

1944-4-giugno-Alleati-a-Roma.JPG

«Gli chiesi la strada per il Campidoglio. Là intendevo discutere i nostri piani immediati. Volevamo spingerci immediatamente oltre Roma per inseguire il nemico e prendere il porto di Civitavecchia. Quando fummo in piazza Venezia davanti al balcone dal quale Mussolini soleva fare i grandi discorsi, una folla plaudente ci bloccò. Finalmente ci aprimmo un varco e salimmo sul colle. Il portone del Campidoglio era chiuso; io bussai parecchie volte, non sentendomi molto conquistatore di Roma. Mentre si bussava, pensai che quella era per noi una giornata storica. Avevamo vinto la corsa di Roma per soli due giorni».

giugno-44-alleati-a-Roma.jpg romani con fanti americani 

Chi nella capitale ha dimenticato quel giorno? Era la libertà, dopo nove mesi di angoscia e di disperazione. S'affacciava un mondo nuovo, si ricominciava a vivere.

A Roma l'appuntamento col Papa è una tacita consuetudine, quando accade qualcosa d'importante. Ma il pomeriggio del 5 giugno i romani andarono da Pio XII anche per un atto di gratitudine. Tutto in quei giorni era all'insegna della fede nell'avvenire. Ogni occasione era buona per affollare le piazze con bandiere, applaudire, gridare e sfilare in corteo proclamando i propri ideali. Gli Alleati assistevano sbalorditi, ed erano come travolti dall'urto caotico delle passioni politiche che esplodevano dopo tanto tempo.

Nella confusione scoppiarono anche disordini. In Piazza Venezia, dove la gente si raccoglieva più folta che altrove, si sfondarono i cancelli del palazzo delle Assicurazioni Generali in cerca di franchi tiratori inesistenti. La polizia alleata fu costretta ad intervenire con bombe lacrimogene.

Il 6 giugno la notizia dello sbarco in Normandia. È finalmente il secondo fronte, che porterà al tracollo della Germania; e intanto in Russia le Armate sovietiche incalzano. Di fronte alla grandezza degli avvenimenti, l'episodio dei franchi tiratori che, da una casa di via Appia Nuova, hanno aperto il fuoco contro i patrioti e i soldati americani, appare un inutile atto di rabbia e di vendetta. Ogni giorno nuove prove della violenza subita vengono alla luce. Finora Roma non sapeva ancora chiaramente delle Fosse Ardeatine, dove in marzo i tedeschi avevano massacrato per rappresaglia 335 detenuti politici. Adesso era un accorrere di parenti, di amici, di compagni di lotta.

Unità clandestina 30 marzo 1944

L'orrore era pari alla disperazione delle madri.

Il Luogotenente, che intuiva la precarietà del momento, venne a Roma pochi giorni dopo la liberazione. Forse contava su qualche gesto di simpatia da parte dei romani. Ma la sua visita improvvisa passò quasi inosservata, e Umberto tornò a Napoli deluso. Come si era stabilito in aprile, il governo arrivava a Roma dimissionario, e a Badoglio subentrò Ivanhoe Bonomi che raccolse intorno a sé uomini designati dai sei partiti antifascisti. La lotta contro i tedeschi rimaneva il primo punto del programma di governo.

Oltre Roma la guerra continuava senza slancio. Ma Alexander e Clark, tornati amici dopo la contesa per Valmontone, erano ottimisti. Alexander rivolse un proclama alle truppe: «Questa battaglia, di cui è terminata la prima fase, è stata un successo magnifico. Come dicono i francesi: " Une belle victoire". La conquista di Roma è in se stessa naturalmente un grande avvenimento. Ha un grande valore morale, un grande valore politico. Ma come obiettivo militare non ha che scarsa importanza. Ciò che veramente importa è il fatto che noi stiamo compiendo quello che ci eravamo prefissi di fare, e cioè annientare sul campo le Armate tedesche. Il nemico è in uno stato di totale disorganizzazione, avendo subìto gravissime perdite, tanto che i prigionieri sono oltre 20.000 e ci sono 8.000 tedeschi feriti ricoverati a Roma, oggi, in questo momento. Molti di più giacciono morti sui campi di battaglia. Le perdite del nemico sono state dunque molto gravi, esso è disorganizzato. E noi lo stiamo inseguendo». 

Bibliografia:

Manlio Cancogni in AA.VV - Dal 25 luglio alla Repubblica - ERI 1966

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Cassino, la più terribile battaglia della “Campagna d'Italia”

19 Mai 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

La conquista del Monte Marrone da parte del battaglione alpini “dell’esercito del Sud” Il 18 aprile 1944, il Raggruppamento motorizzato italiano si trasforma in C.I.L. (Corpo italiano di liberazione).

1943 CIL Montelungo

S'avvicinava la primavera: il paese di Cassino e sul monte lo scheletro dell'Abbazia sbarravano ancora agli Alleati la strada di Roma. Il maresciallo Kesselring si sentiva padrone della situazione. Aveva schierato sulla «Gustav» i paracadutisti del generale Heidrich, i terribili «diavoli verdi» che gli inglesi avevano già conosciuto in Sicilia e ad Ortona. A Cassino avrebbero confermato la loro fama.

Alla vigilia del nuovo attacco, la V Armata ebbe un ospite di riguardo: il generale De Gaulle, capo della Francia libera, che teneva moltissimo alla presenza in prima linea delle truppe francesi. Un loro successo in battaglia avrebbe rinforzato la posizione del generale nei confronti degli Alleati e il suo prestigio agli occhi dei francesi.

Nelle retrovie del fronte i primi ad accorgersi dell'offensiva imminente furono gli abitanti rimasti nei paesi da evacuare. Non c'è requie per chi viene a trovarsi sulla strada della guerra. E sul fronte di Cassino la guerra camminava molto piano.

Si sgombera, si va più a sud e chissà quando si potrà tornare. I paesi che si vuotano sono condannati. Il 15 marzo i comandi alleati decisero di distruggere Cassino per poi conquistare di slancio la città diventata la tomba dei suoi difensori. Nelle immediate retrovie i comandi alleati presero gli ultimi accordi in vista dell'operazione. Sotto la tenda, attorno ad una carta topografica furono scambiate queste parole:

Generale americano: «Signori, sappiamo tutti lo scopo di questa operazione contro Cassino». 

Ufficiale americano: «Le cose andranno così, signore. L'attacco sarà iniziato dai bombardieri medi, cominciando con "B 25" dell'aviazione tattica. Seguiranno, a ondate successive, i bombardieri pesanti con intervalli di 15 minuti. Dopo i bombardieri, i "B 26" completeranno l'attacco ». 

Ufficiale inglese: «C'è solo un altro punto che vorrei mi fosse chiarito, signore, e cioè: l'esercito sa con precisione quando si deve ritirare da Cassino prima dell'attacco?».

Altro ufficiale americano: «Sì, intendiamo ritirarci dalla periferia della città questa sera. La linea del bombardamento sarà press'a poco qui e noi saremo bene al di qua di essa prima che faccia buio». 

In prima linea c'era ancora il Corpo neozelandese il cui comandante, generale Freyberg, aveva chiesto il bombardamento giudicandolo indispensabile per la conquista di Cassino. Un mese prima egli aveva detto la stessa cosa per giustificare la richiesta di distruggere l'Abbazia.

Dall'osservatorio di Cervaro, distante quattro chilometri, Alexander, Clark e Freyberg assistevano al terrificante bombardamento.

L'attacco aereo finì a mezzogiorno, e in quello stesso momento cominciarono le artiglierie.

Mai dall'inizio della guerra in Italia c'era stata una così massiccia preparazione di fuoco. 1.300 tonnellate di bombe, 200.000 colpi d'artiglieria caddero in sette ore su Cassino. I crateri delle esplosioni erano tanto profondi che i carri «Sherman», mandati ad aprire la strada alle fanterie, dovettero arrestarsi in periferia.

Un profondo silenzio avvolgeva Cassino quando le avanguardie neozelandesi giunsero alle prime case della città. I tedeschi erano stati decimati dal bombardamento, ma alcuni reparti si erano salvati. Nelle cantine più resistenti e nei «Bunker» d'acciaio e di cemento molti veterani della Divisione paracadutisti erano ancora ai loro posti e aspettavano l'assalto.

In tre giorni i neozelandesi occuparono quasi due terzi dell'abitato. Ma non avevano più la forza per il balzo conclusivo. I bombardamenti, se ne aveva la conferma, non bastavano per espugnare una città difesa da gente risoluta.

Il 23 marzo, con i reparti ormai stremati, Freyberg fece un ultimo tentativo contro i caposaldi ancora occupati dai tedeschi. Il generale Heidrich ordinò un'altra volta il contrattacco, anche con carri armati.

Come a Stalingrado ci si batté di strada in strada, di casa in casa.

I paracadutisti rioccuparono alcuni caposaldi e i neozelandesi non insistettero.

Al tramonto la terza battaglia di Cassino era finita.

Heidrich poteva dirsi soddisfatto: le sue truppe erano riuscite a tenere il margine della città a ridosso del monte.

Era il momento di andare a raccogliere i morti e i feriti.

Freyberg aveva fidato troppo sulla potenza dei bombardamenti: poi aveva mandato avanti un reparto dietro l'altro, invece di sviluppare l'azione simultaneamente in più punti. In otto giorni le sue Divisioni avevano perduto 1.600 uomini. I tedeschi molti di più, ma continuavano a tenere il terribile monte e a sbarrare la strada di Roma.

Dal 15 al 23 marzo gli attacchi delle Divisioni neozelandese e indiana si erano sanguinosamente infranti di fronte alla disperata resistenza tedesca. Una settimana più tardi, nel gruppo delle Mainarde a nord di Cassino, entrava nuovamente in azione il Raggruppamento motorizzato italiano, tornato in linea ai primi di febbraio nel settore di contatto tra V e VIII Armata, alle dipendenze del Corpo di spedizione francese e poi del II Corpo polacco. Obiettivo assegnato ai soldati del Raggruppamento era la conquista di Monte Marrone.

Alto quasi 2.000 metri e coperto di neve, il monte ha l'aspetto di un massiccio alpino, roccioso e tormentato. La sua conquista avrebbe assicurato il controllo di una strada di rifornimento per Cassino.

All'alba del 31 marzo gli alpini del Raggruppamento mossero all'attacco scalando la montagna come i loro padri nel Trentino durante la prima guerra mondiale.

I tedeschi non si aspettavano un attacco da quella parte; così gli alpini, conquistata la cima, ebbero tutto il tempo di organizzarvi un caposaldo.

Qualche giorno dopo un contrattacco nemico venne respinto con molte perdite. La battaglia di Monte Marrone fu breve, ma non inutile. Gli italiani impararono ad avere maggior fiducia in se stessi.

Il generale Boschetti, riassume così la situazione del nostro esercito di quell'epoca: 

«Dopo la conquista del Monte Marrone da parte del battaglione alpini, gli Alleati si decisero finalmente ad autorizzare la nuova denominazione del Raggruppamento motorizzato che si trasformò, il 18 aprile, in Corpo italiano di liberazione.

Non era semplicemente un cambio di nome, perché questa trasformazione aveva un duplice significato: da una parte era il riconoscimento ufficiale dello sforzo militare fatto dall'esercito italiano per la guerra di liberazione, dall'altra questa nuova denominazione permise il rafforzamento del CIL che passò da circa 8.000 uomini a 16.000 uomini. Il generale Utili, che già comandava il Raggruppamento motorizzato, assunse anche il comando del Corpo italiano di liberazione». 

La partecipazione italiana alla guerra cominciava ad avere una sua consistenza. Nella seconda metà di aprile il CIL passò definitivamente all'VIII Armata, inquadrato nel Corpo britannico del generale Mac Creery. Il comando era a Colli nell'alta valle del Volturno, dove il generale Utili ebbe, pochi giorni dopo, la visita del comandante d'Armata generale Leese. Ora il settore affidato agli italiani andava dalle Mainarde a Castel San Vincenzo.

Qualche settimana più tardi il principe Umberto andò a ispezionare il fronte italiano e le truppe del Corpo di liberazione.

Era un segno di grandi mutamenti nel governo e in Casa Savoia.

Il re aveva finalmente deciso di rinunciare al trono e Umberto si preparava ad assumere il titolo di Luogotenente. Visitava il fronte nella sua veste di comandante del nuovo esercito regio.

Per la battaglia decisiva i capi alleati raccolsero a Cassino ed a Anzio un impressionante concentramento di forze.

Ai primi di maggio la V Armata e quasi tutta l'VIII erano pronte per l'offensiva: oltre 28 Divisioni alleate contro 23 tedesche. Soltanto davanti alla linea «Gustav» erano allineate 2.000 bocche da fuoco, una ogni 20 metri. Fino a quel giorno, il più grande spiegamento d'artiglieria della guerra in Italia.

Nel settore dell'VIII Armata due Corpi britannici e il Corpo polacco avevano il compito di attaccare sull'alto Rapido, verso il colle dell'Abbazia e nella valle del Liri e di sfondare la «Gustav» e la retrostante linea «Hitler» puntando quindi su Roma lungo la via Casilina.

Nella parte meridionale del fronte, verso il Tirreno, la V Armata doveva attaccare con il Corpo di spedizione francese e il II Corpo americano sui Monti Aurunci e sul basso Garigliano, per avanzare poi sulla via Appia verso Roma e lungo la costa in direzione di Anzio.

Il piano operativo generale prevedeva inoltre, a distanza di pochi giorni, un'offensiva in forze sulla testa di ponte di Anzio. Obiettivo principale di questo attacco combinato era la conquista di Velletri sulla via Appia e di Valmontone sulla Casilina, per tagliare al nemico le vie di rifornimento e di ritirata, e impedirgli di attestarsi sulla linea «C» ultimo sbarramento davanti a Roma.

Alle ore 23 dell'11 maggio Radio Londra diede il segnale dell'attacco.

Il compito di conquistare l'Abbazia di Montecassino spettava ora ai polacchi del generale Anders.

Avevano chiesto di battersi nel tratto più infuocato del fronte perché tutto il mondo sapesse della loro presenza e del loro coraggio.

All'alba del 12 maggio essi andarono all'assalto.

I paracadutisti di Heidrich erano ancora alloro posto, fra le macerie del Monastero, con le armi puntate. La famosa quota 593, il monte Calvario, fu ancora una volta teatro di terribili combattimenti. Polacchi e tedeschi se la contesero fino all'estremo, poi Anders fu costretto a ritirare i suoi soldati.

Nella valle del Liri l'artiglieria tedesca tentava di reagire.

Tutto il fronte era in fiamme, da Cassino al mare.

Al centro, lungo il basso Rapido, inglesi, canadesi e indiani attaccarono contemporaneamente ai polacchi, entrando, due giorni dopo, a Sant'Angelo.

Davanti a questo villaggio in gennaio gli americani del Texas avevano avuto tante perdite. Adesso erano vendicati.

Oltre Sant'Angelo, nella valle, la resistenza continuava accanita. La linea «Gustav» non era ancora infranta.

Lo sfondamento avvenne in un punto che sorprese i tedeschi: a sud del fiume Liri, sui dossi brulli degli Aurunci, dove i marocchini avevano attaccato con furia selvaggia.

A quaranta ore dall'inizio della battaglia il cardine meridionale della porta di Cassino, che a nord i polacchi si preparavano ad attaccare di nuovo, stava già saltando. La breccia era aperta.

La sera del 13 maggio Castelforte e Santi Cosma e Damiano caddero nelle mani dei francesi del generale Juin, che poi si lanciarono avanti per prendere alle spalle il nemico che fronteggiava gli inglesi nella valle del Liri.

La manovra ebbe successo.

Nel fondovalle i tedeschi dovettero arretrare per non essere tagliati fuori, e i soldati del XIII Corpo britannico poterono avanzare sulla via Casilina, minacciando sul fianco i difensori dell'Abbazia.

Colti di sorpresa dalla violenza dell'attacco, i tedeschi cedevano.

Proprio in quei giorni i loro comandanti, generali Vietinghoff e Von Senger, erano in licenza in Germania. Questo accrebbe la confusione.

Quando tornarono, la battaglia era ormai perduta. L'ultimo assalto al Monastero fu sferrato dai polacchi il 17 maggio. Ci si batté ancora disperatamente sul Monte Calvario e sulla Cresta del Fantasma.

I paracadutisti tennero tutta la giornata. Ma la notte seguente dovettero ritirarsi.

Quando la mattina del 18 i polacchi del reggimento Podolski entrarono nell'Abbazia, vi trovarono solo dei morti e dei feriti. La lotta per Montecassino era durata quasi cinque mesi ed era costata alle due parti decine di migliaia di vite. Sulle rovine silenziose sventolava la bandiera bianca e rossa dei polacchi, ma senza allegria.

La stessa mattina anche Cassino cadeva in mano agli Alleati. Vi entrarono gli inglesi del XIII Corpo.

In quel mare di rovine c'erano ben pochi superstiti, ormai.

Per ritardare fino all'ultimo la marcia dei vincitori, i tedeschi avevano lasciato indietro alcuni uomini. Affranti, inebetiti, che cosa sapevano ormai della guerra, e del perché si trovavano fra quelle rovine?

Proprio davanti all'Abbazia ricostruita, nel luogo dei combattimenti più sanguinosi, si trova il cimitero militare polacco.

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A Montecassino, sulla collina del Calvario detta anche Quota 593, due grandi aquile di marmo dominano l'ingresso del cimitero polacco di guerra e sulla stele di travertino, che ricorda i mille e più morti, c'è scritto: «Noi, soldati polacchi / per la nostra libertà e la vostra / abbiamo dato le anime a Dio / i corpi all'Italia / i cuori alla Polonia».

Il generale Anders, morto a Londra il 12 maggio 1970, è seppellito, secondo la sua volontà, nel cimitero militare polacco di Montecassino, a fianco dei suoi compagni caduti in battaglia.

generale Wladyslaw Anders

Nel '44 era un generale giovane, animoso e brillante.

Per i polacchi sfuggiti al giogo tedesco, era un eroe, rappresentava le speranze della patria. Come i suoi soldati qui raccolti, aveva fatto un lungo cammino per venire a combattere in Italia. Da Varsavia, attraverso i campi di prigionia della Russia, fino a Montecassino. Dice la leggenda dei soldati polacchi di Anders: «Abbiamo dato la nostra fede a Dio, il nostro cuore alla Polonia, il nostro sangue all'Italia».

Il generale così rievocava, vent’anni dopo, i giorni della battaglia, in visita al cimitero polacco: 

«È molto difficile, oggi, immaginare quel che succedeva qui attorno, in questo posto. È rimasto soltanto un cimitero. Non c'erano alberi, c'era l'inferno, c'era il fuoco.

La sera del 17 maggio del '44, i tedeschi furono sconfitti. Abbiamo avuto perdite enormi e queste vite perdute sono sepolte qui. Abbiamo sotterrato anche 900 tedeschi che giacevano sul campo, morti gli ultimi due giorni.

Vi erano state prima tre grandi battaglie vinte dai tedeschi. Alla quarta battaglia, cui partecipò anche il II Corpo polacco (quando già l’Abbazia era stata distrutta), noi dovevamo aprire le porte della strada per Roma. I combattimenti furono eccezionalmente aspri, ma non poteva essere diversamente perché avevamo di fronte soldati molto bravi.

Soltanto il 17 maggio i tedeschi furono sconfitti e si ritirarono sulla seconda posizione in direzione di Roma». 

Ora Cassino non era altro che un nodo stradale sulla contesa via Casilina, dove s'incrociavano le autocolonne alleate che portavano uomini e rifornimenti sulle nuove linee di combattimento.

Passando fra quelle rovine, i soldati non riuscivano a capacitarsi come in quel breve spazio bianco di polvere si fosse svolta la più terribile battaglia della Campagna d'Italia.

Bibliografia:

Manlio Cancogni in AA.VV - Dal 25 luglio alla Repubblica - ERI 1966

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Il bombardamento di Cassino

19 Mai 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

Per il governo di Salò, lo sbarco di Anzio (con la minaccia che gravava su Roma) fu un'ottima occasione per rilanciare l'esercito fascista. Tra febbraio e marzo uscirono i bandi per l'arruolamento. Non ebbero maggior successo di quelli di novembre, eppure Graziani si era impegnato a fondo.

Il ministro fascista della Guerra cercò di supplire con la solennità delle cerimonie alla deficienza delle convinzioni e delle capacità.

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Pochi generali giurarono fedeltà alla repubblica di Mussolini. I tentativi di rimettere in piedi al Nord le forze armate fallivano per la concorrenza dei tedeschi che arruolavano nei servizi del lavoro quanti più uomini potevano, e del partito fascista che preferiva ingrossare le file della milizia e delle brigate nere.

Quanto alle reclute, erano in gran parte meridionali sorpresi al Nord dall'armistizio per i quali l'arruolamento era una risorsa, e che speravano, andando al Sud, di passare le linee per tornarsene a casa. Con simili truppe non c'era da farsi molte illusioni. Mussolini ricorse alle misure estreme. I nuovi bandi, a fine febbraio, non contenevano più inviti. Parlavano di fucilazione per i disertori e i renitenti, cioè per la maggioranza dei giovani atti alle armi, molti dei quali avevano già preso la via della montagna.

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Riguardo al movimento partigiano, così Parri espone la situazione in quel periodo: 

«L'inverno fu rigidissimo, tuttavia la primavera ritrovò aumentata, allargata, questa piccola, minuscola armata partigiana che io credo si potesse calcolare alla fine del '43, nel dicembre '43, in circa una decina di migliaia di armati regolari, e che aumentò rapidamente a seguito degli stessi bandi di Graziani e degli arruolamenti che i giovani di leva tendevano a sfuggire. Come si fa? Questi gruppi di ragazzi di leva che devono essere ricoverati, istruiti, protetti, armati. Questo complicò terribilmente i problemi militari. Avevamo superato difficili contese interne, avevamo accantonato, tra noi, tra militari, la questione istituzionale, per non portare una divisione nelle nostre file; ci trovavamo ora di fronte a problemi vorrei dire normali di un esercito in formazione, di un esercito che non viene formato dall'alto, che si deve formare dal basso, che deve esso trovare le sue leggi, esso trovare i suoi modi di organizzazione militare, esso trovare il suo inquadramento politico. È allora forse che si stabilisce più chiaramente la divergenza fra la Resistenza e gli Alleati: per gli Alleati essa è un movimento che deve accompagnare, deve precedere, deve facilitare coi sabotaggi l'avanzata degli Alleati, deve permettere la difesa degli impianti, la difesa delle centrali elettriche. Per i partigiani, vi è un impegno; ed è l'impegno che, nonostante le loro divergenze, nonostante le loro lotte, finisce per unificarli. È impegno di una lotta di liberazione». 

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La stampa clandestina d'ogni tendenza rifletteva questo spirito unitario chiamando gli italiani alle battaglie ormai prossime.

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A metà febbraio, intanto, sulla testa di ponte di Anzio la stasi era stata interrotta da un forte contrattacco tedesco che il VI Corpo angloamericano, ora comandato dal generale Truscott, era riuscito a contenere con gravi perdite. Nel frattempo lo schieramento della V Armata sulla linea «Gustav» aveva subìto una variazione nel settore centrale davanti a Cassino. Il II Corpo statunitense, esausto dopo una serie di sanguinosi attacchi, era stato sostituito dal Corpo d'Armata neozelandese, al comando del generale Freyberg, che aveva il compito di conquistare il colle dell'Abbazia.

La sua mole bianca e immutabile nel mezzo della battaglia era diventata un'ossessione per gli Alleati. Un giorno il pilota di un ricognitore tornò assicurando di aver visto soldati tedeschi nel recinto del Monastero. L'unico ad esserne veramente convinto fu il generale Freyberg il quale, in vista dell'imminente attacco, ne chiese il bombardamento. Clark era persuaso del contrario; secondo lui la distruzione dell'Abbazia avrebbe favorito i tedeschi. Il generale Alexander, che aveva trasferito i neozelandesi dall'VIII alla V Armata per l'attacco a Montecassino, non poté opporsi a lungo alla richiesta di Freyberg.

Più di mille civili avevano trovato rifugio tra quelle mura secolari. Il 14 febbraio gli Alleati fecero pervenire loro un invito a lasciare subito il Monastero. Pochi vi credettero. Gli altri pensavano che forse la minaccia sarebbe bastata e nell'ipotesi peggiore contavano sulla robustezza dei muri e sulla protezione di San Benedetto.

Centoquaranta fortezze volanti, con un carico di 350 tonnellate di bombe, giunsero alle 9,45 sul Monastero.

Trecento sfollati rimasero sepolti sotto le macerie. I superstiti si abbandonarono al panico. Terminata la prima ondata, mentre alcuni cercavano scampo in rifugi più riparati, altri come impazziti correvano all'aperto.

Era cominciato, dopo, il fuoco dell'artiglieria. Centinaia di pezzi erano concentrati sull'Abbazia e sparavano sulle sue rovine e sulle pendici del monte. Molti profughi furono uccisi mentre fuggendo credevano di salvarsi.

La seconda ondata giunse verso mezzogiorno. Questa volta anche le poderose mura esterne cedettero aprendosi in larghe brecce. Alle due e un quarto era finito, poi il fumo si dissolse e si vide tutto.

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Il bombardamento di Cassino ha provocato aspre polemiche. Questo è il giudizio del generale Clark: 

«lo fui sempre dell'avviso che dovevamo prendere Cassino senza distruggere il prezioso edificio dell'Abbazia. Quando arrivammo in Italia, ci si pose subito l'alternativa di rispettare i monumenti storici e le opere d'arte o di bombardarli. Se i tedeschi se ne servivano provocando la morte di americani o di inglesi, noi li distruggevamo. Ma nel caso dell'Abbazia, davanti alla quale, a pochi chilometri, le truppe americane avevano passato alcuni mesi, io ero dell'avviso che la sua distruzione non avrebbe arrecato nessun vantaggio dal punto di vista militare, dato che l'esperienza ci aveva insegnato che ogni qualvolta avevamo distrutto un grosso edificio, le macerie erano servite ancor meglio al nemico come riparo e difesa. Feci un'inchiesta dopo la distruzione dell'Abbazia, e nel corso dei colloqui che ebbi con il Santo Padre, con Pio XII, e con i miei uomini dello spionaggio, potei appurare che i tedeschi non si erano serviti dell'Abbazia, ma che dopo che noi l'avevamo distrutta essi ci si installarono ». 

Il bombardamento dell'Abbazia fu un inutile errore psicologico e un atto di stupidità tattica, come disse un generale alleato. Freyberg non seppe neppure approfittarne. Invece di mandare i suoi uomini all'attacco delle rovine prima che i tedeschi vi mettessero piede, perse tempo in azioni marginali. Così il Monastero divenne una fortezza praticamente imprendibile.

Bibliografia:

Manlio Cancogni in AA.VV - Dal 25 luglio alla Repubblica - ERI 1966

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8 maggio 1945: in Europa la guerra è finita

3 Mai 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

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 C'è una fotografia che ritrae dei bambini intenti a giocare con armi e proiettili sparsi sul terreno, nel cortile di un grande caseggiato. E' finita.

Nel bunker della Cancelleria, a Berlino, Hitler ha ucciso Eva Braun, poi si è sparato. Ha voluto che anche il suo cane prediletto, Blondi, venisse abbattuto. Poi, i camerati hanno bruciato i corpi di Adolf e della moglie.

 

La Repubblica di Salò non ha vissuto che diciotto mesi.

Mussolini non ha molte illusioni; confida al prefetto Nicoletti: «I tedeschi perdono sempre un'ora, una battaglia, un'idea». Il cardinale Schuster, che riceve Mussolini in Arcivescovado, lo descrive come «un uomo senza forza di volontà che muove incontro al suo fato senza reazione».

Alle 16.20 del 28 aprile, a Giulino di Mezzegra, davanti al cancello arrugginito di una villa, cadono fucilati Benito Mussolini e la sua amante Clara Petacci, che ne ha voluto condividere il destino.

Il 7 maggio il Grande Reich firma l'atto di resa senza condizioni: al posto del Führer comanda l'ammiraglio Donitz, eletto suo successore.

A Berlino si contano cinquemila suicidi. Sono arrivati quelli dell'Armata Rossa e non guardano tanto per il sottile, ma dicono le donne che ricordano i terribili bombardamenti: «Meglio un russo sulla pancia che un americano sulla testa».

Il 6 agosto, gli americani sganciano la prima atomica su Hiroshima, tre giorni dopo tocca a Nagasaki: due lampi accecanti, che sviluppano una temperatura di milioni di gradi, diecimila volte più del sole.

Si contano le perdite: l'URSS raggiunge la cifra enorme di 37 milioni, di cui 12 sono i caduti. Più di settantamila città e villaggi risultano distrutti, 30 mila fabbriche sono in rovina, 25 milioni di persone sono senza casa.

Gli americani non arrivano, tra morti e dispersi, a 400 mila; i francesi, tra prima e dopo l'armistizio, 275 mila; gli inglesi 330 mila; l'Italia ha avuto, tra militari e civili, 309.453 morti e 135.070 dispersi. Le perdite tedesche sarebbero state di 2.250.000 caduti e di un milione e mezzo di dispersi. Il Giappone, tra feriti, dispersi e deceduti, circa 1.500.000 uomini; la Polonia oltre un milione di soldati uccisi, e cinque milioni di cittadini, dei quali tre sono ebrei.

L'Italia ha avuto tra militari e civili trecentocinquantamila morti e centotrentamila dispersi, settecento chilometri di ferrovia sono distrutti o danneggiati, ha perso un milione e novecentomila vani e più di diecimila tra ospedali, cinema, alberghi e teatri, più di quarantaduemila chilometri di strade sono impraticabili, 19 mila ponti risultano abbattuti, novecento dieci acquedotti non funzionano più. Mancano 28 mila chilometri di linee elettriche. 
Secondo una stima americana, il costo totale della seconda guerra mondiale sarebbe stato di 1.154.000.000.000 di dollari, di cui 94.000.000.000 pagati da noi. Sono pochi i mutamenti territoriali: la Cecoslovacchia cede all'Unione Sovietica l’Ucraina Sub-carpatica, la Polonia raggiunge l’Oder Neisse, e divide la Prussia orientale con Mosca, alla quale cede una zona di confine, compresa Brest-Litovsk.

Un orologio di Hiroshima,

 

coi numeri quasi cancellati, fuso dal calore, e le lancette che segnano le 8.16.

Un marinaio a Manhattan, sulla Times Square, si butta su un'infermiera della Croce Rossa per baciarla, e celebrare così la sconfitta del Giappone.

Poi, una frase di Georges Bernanos, che vale per tutti i superstiti: «Ci sono tanti morti nella mia vita, ma più morto di tutti è il ragazzo che fui io». 

Finita la guerra: i bambini giocano con i residuati bellici. Il progresso tecnologico non ha reso il conflitto meno feroce. E sembrato anzi che, insieme agli aerei velocissimi, all'atomica, ai missili, al radar sia stata la barbarie la protagonista su tutti i fronti.

Da “la Seconda guerra mondiale – Parlano i protagonisti” di Enzo Biagi – Corriere della Sera 1980

cimitero americano a Omaha Beach (Normandia)


 

cimitero polacco a Montecassino

ATTO DI RESA MILITARE TEDESCA

Firmato a Reims alle ore 2:41 del 7 Maggio 1945

Noi sottoscritti, in virtù dell'autorità conferitaci dall'Alto Comando Tedesco, dichiariamo al Supremo Comando delle Forze di Spedizione Alleate e contemporaneamente all'Alto Comando Sovietico, la resa incondizionata di tutte le forze armate di terra, di mare e dell'aria che a questa data sono sotto il controllo Tedesco.

L'Alto Comando Tedesco invierà immediatamente a tutte le proprie autorità militari terrestri, navali ed aeree e a tutte le forze sotto il suo controllo, l'ordine di cessare ogni operazione militare attualmente in atto a partire dalle 23:01, ora dell'Europa Centrale, dell' 8 Maggio e di rimanere nelle posizioni in cui si trovano in quel momento. Nessuna nave dovrà essere deliberatamente affondata, né dovranno essere arrecati danni agli scafi, alle macchine o alle attrezzature di bordo e nessun aereo dovrà essere volontariamente distrutto o danneggiato.

L'Alto Comando Tedesco provvederà attraverso i propri Comandanti, ad assicurare che venga prontamente eseguito ogni ulteriore ordine impartito dal Comando Supremo delle Forze di Spedizione Alleate e dall'Alto Comando Sovietico.

Questo atto di resa militare potrà essere integrato da successive condizioni di resa globale da imporre alla Germania per conto delle Nazioni Unite.

Nel caso in cui l'Alto Comando Tedesco od ogni altra forza militare sotto il suo controllo non ottemperi a quanto stabilito da questo Atto di Resa, il Comando Supremo delle Forze di Spedizione Alleate e l'Alto Comando Sovietico adotteranno i provvedimenti che riterranno più opportuni.

Firmato a REIMS, in Francia, alle ore 02:41 del 7 Maggio 1945

In rappresentanza dell'Alto Comando Tedesco: Alfred JODL

ALLA PRESENZA DI:

In rappresentanza del Comando Supremo Alleato: Walter Bedell SMITH

In rappresentanza dell'Alto Comando Sovietico: Ivan SOUSLOPAROV

In qualità di Testimone: François SEVEZ (Generale dell'Esercito Francese)
 

 



 
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Roma 24 marzo 1944, l’eccidio delle Fosse Ardeatine

22 Mars 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

È il massacro compiuto dalle truppe di occupazione della Germania nazista, ai danni di 335 civili e militari italiani, come atto di rappresaglia in seguito all'attentato, avvenuto il giorno precedente, contro le truppe germaniche in via Rasella, che aveva provocato la morte di trentatré riservisti inquadrati nella Wehrmacht.

Scrive Carla Capponi, che aveva partecipato a quell'azione in via Rasella, nel suo libro Con cuore di donna- Il Ventennio, la Resistenza a Roma, via Rasella: i ricordi di una protagonista”:

 Cuore-di-donna.jpg«Per noi quell'ordine assassino era un crimine contro il quale occorreva mobilitarsi, attaccare con maggiore durezza e determinazione. L'annuncio "questo ordine è già stato eseguito" con cui terminava il breve comunicato, suonava come una sfida: non avevano scritto "La sentenza è già stata eseguita", perché nessun tribunale avrebbe sancito una condanna così efferata, contro ogni legge, contro ogni morale, contro ogni diritto umano.

Dopo la liberazione di Roma, quando si indagò su quella strage si scoprì che solo tre delle vittime erano state condannate a morte con sentenza; neppure il tribunale tedesco installato a via Lucullo aveva avuto il coraggio o la possibilità di emettere una sentenza che desse appoggio legale a quel massacro. Volevano fare intendere che al di sopra di tutte le leggi del diritto e della morale, c'erano gli "ordini" del comando nazista, il "Deutschland über alles", della razza ariana, destinata a dominare tutte le altre considerate inferiori e per le quali non c'era bisogno né di tribunale né di sentenze.

Avevano assassinato in fretta gli ostaggi, occultato i cadaveri e lasciato le famiglie senza notizie, così che ciascuna potesse sperare che i propri cari non fossero nel numero dei destinati alla morte e aspettassero fiduciose. Per questo non fecero indagini, non cercarono i partigiani, non usarono il mezzo del ricatto chiedendo la resa dei GAP. L'eccidio doveva consumarsi per vendetta, non per cercare giustizia.

Volevano nascondere un altro crimine, l'avere ucciso quindici persone oltre i trecentoventi dichiarati, come scoprimmo quando, liberata Roma, furono riesumate le salme: trecentotrentacinque. I tedeschi uccisi erano stati trentadue, uno dei settanta feriti era morto durante la notte a seguito delle ferite: Kappler decise di sua iniziativa di aggiungere dieci vittime a quelle già predestinate e, nella fretta di dare immediata esecuzione all'eccidio, ne prelevarono dal carcere quindici, cinque in più della vile proporzione tra caduti tedeschi e prigionieri da assassinare, quindici in più di quelli autorizzati dal comando di Kesserling. Dell'" errore" si rese conto Priebke mentre svolgeva l'incarico di "spuntare" le vittime prima dell'esecuzione, rilevandole da un elenco all'ingresso delle cave Ardeatine, luogo prescelto per l'esecuzione e l'occultamento dei cadaveri. Lui stesso e Kappler decisero di assassinare anche quei cinque, rei di essere testimoni scomodi della strage».

1944-fosse-ardeatine-ingresso.JPG l'ingresso della cava dove avvenne l'esecuzione  

Alle undici e trenta del venticinque marzo, l'Agenzia Stefani emise un comunicato del Comando tedesco di Roma: "Nel pomeriggio del 23 marzo 1944, elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bombe contro una colonna tedesca di Polizia in transito per via Rasella. In seguito a questa imboscata, trentadue uomini della Polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da comunisti badogliani. Sono ancora in atto le indagini per chiarire fino a che punto questo criminoso fatto è da attribuirsi ad incitamento angloamericano. Il Comando tedesco è deciso a stroncare l'attività di questi banditi scellerati. Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato siano fucilati dieci criminali comunisti badogliani. Quest'ordine è già stato eseguito".

1944-Unita-clandestina-30-marzo.jpg L'Unità clandestina del 30 marzo 1944 (in realtà gli ostaggi trucidati furono 15 in più) 

 

Giulia-Spizzichino.jpgNel libro La farfalla impazzita Giulia Spizzichino, scrive:

«Non ricordo come, ma a un certo punto si venne a sapere che alle Fosse Ardeatine c'era un numero impressionante di cadaveri. Non si sapeva esattamente chi vi fosse sepolto, ma era chiaro che si trattava di prigionieri prelevati dalle carceri dopo l'attacco di via Rasella. Erano loro gli scomparsi, e poi c'era stato l’annuncio sul giornale della rappresaglia eseguita. Il comando tedesco non aveva mai comunicato i nomi delle persone trucidate, ma le famiglie che non avevano notizie dei propri cari non si facevano illusioni circa loro sorte.

Chi andò alle cave a vedere riferì che era impossibile solo pensare di dare un nome alle vittime. Quei corpi erano rimasti là sotto per quasi tre mesi ed erano tutti ammassati, a formare un unico groviglio. Qualcuno propose di chiudere l'entrata, rendendo il luogo una grande tomba comune. Le famiglie degli scomparsi però non lo accettavano. Le figlie del generale Simoni, per esempio, si opposero violentemente, obiettando che in quel modo non avrebbero mai saputo se il loro padre fosse lì dentro.

Quando l'odio produce effetti tanto devastanti, per averne ragione non c'è che l'opera dell'amore. Chi si offrì di compierla fu un medico ebreo, il dottor Attilio Ascarelli. Un uomo stupendo, non ho altri modi per definirlo, che impegnò nella difficile impresa tutta la sua passione, la sua professionalità. Voleva attribuire un volto a ciascuno di quei miseri resti. Iniziò a separare i corpi uno per uno, dato che si erano attaccati. Attraverso i ritagli degli abiti e gli oggetti che avevano addosso - i documenti erano stati loro sottratti - riuscì un po’ alla volta a ottenere il riconoscimento di quasi tutti.

Naturalmente anche la mia famiglia fu coinvolta, tanti dei nostri cari mancavano all'appello, ma io andai sul posto poche volte, mia madre non voleva condurmi con sé. Ero sempre triste ogni volta che tornavo alle Fosse Ardeatine!

Ricordo che c'erano tanti pezzetti di stoffa lavati e sterilizzati, appesi a dei fili con le mollette. Erano numerati, per effettuare un riconoscimento bisognava annotarsi quei numeri. All’epoca i vestiti venivano fatti su misura dal sarto, non c'erano abiti confezionati come adesso, quindi le donne di casa tenevano da parte degli avanzi della stoffa per poterla utilizzare per le riparazioni. Per noi, come per tanti, è stata una fortuna. Solo così abbiamo potuto ritrovare i nostri familiari, li abbiamo riconosciuti attraverso la comparazione dei tessuti. Un pezzetto di stoffa per il nonno Mosè, un altro per lo zio Cesare. Mio cugino Franco, i suoi sogni e i suoi presentimenti: tutto in qualche lembo di tessuto! E ogni volta quanto dolore, quanto quanto dolore ... ».

Tra le vittime delle Fosse Ardeatine cinque insegnanti romani: Gioacchino Gesmundo, Pilo Albertelli, Salvatore Canalis, Paolo Petrucci e Fiorino Fiorini.

Vennero uccisi anche gli studenti Ferdinando Agnini (vent’anni), Ferruccio Caputo (ventidue anni), Romualdo Chiesa, (vent’anni), Pasquale Cocco (ventidue anni), Gastone De Nicolò (diciannove anni), Unico Guidoni (ventuno anni), Orlando Orlandi Posti (diciotto anni), Renzo Pensuti (ventiquattro anni) e Bruno Rodella (ventisei anni).

E anche dodici carabinieri:

Carabinieri uccisi alle Fosse Ardeatine 

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da "Lettere a Milano. 1939-1945" di Giorgio Amendola - Editori Riuniti 1981

La polemica sulle responsabilità dell'azione di via Rasella dell'eccidio delle Fosse Ardeatine continuò a lungo anche nel dopoguerra. Fummo accusati di essere stati noi comunisti i responsabili dell'eccidio perché dovevamo presentarci alle autorità naziste e dichiararci gli autori dell'attentato. In realtà non ci fu alcun invito rivolto dalle autorità tedesche agli organizzatori dell'attentati a presentarsi per essere fucilati al posto degli ostaggi. Il comando tedesco diede l'annuncio della rappresaglia ad esecuzione avvenuta. Ma, a parte questa circostanza di tempo, noi partigiani combattenti avevamo il dovere di non presentarci, anche se il nostro sacrificio avesse potuto impedire la morte di tanti innocenti. Noi costituivamo un reparto dell'esercito combattente, anzi facevamo parte del comando di questo esercito, e non potevamo abbandonare la lotta e passare al nemico con tutte le nostre conoscenze della rete organizzativa. Avevamo solo un dovere: continuare la lotta.

Quando fu celebrato, molti anni dopo, il processo contro il maggiore Kappler io, come teste di accusa, assunsi le mie responsabità di comandante delle brigate Garibaldi, per avere dato l’ordine dell'azione di guerra compiuta dai GAP contro il reparto tedesco a via Rasella. Sulla base di questa assunzione di responsabilità, un piccolo gruppo di famiglie di fucilati alle Fosse Ardeatine (soltanto cinque famiglie su 335) intentò un processo contro di me e contro gli esecutori dell'azione per essere dichiarati responsabili civili (visto che l'azione penale era estinta per amnistia) della strage delle Fosse Ardeatine. Soltanto molto tempo dopo fummo assolti dall'imputazione perché il Tribunale riconobbe che l’azione di via Rasella doveva essere considerata un'azione di guerra.

Sull'Unità clandestina fu pubblicato il seguente comunicato, redatto personalmente da Mario Alicata:

« 1. Contro il nemico che occupa il nostro suolo, saccheggia i nostri beni, provoca la distruzione delle nostre città e delle nostre contrade, affama i nostri bambini, razzia i nostri lavoratori, tortura, uccide, massacra, uno solo è il dovere di tutti gli italiani: colpirlo, senza esitazione, in ogni momento, dove si trovi, negli uomini e nelle cose. A questo dovere si sono consacrati i Gruppi di azione patriottica.

« 2. Tutte le azioni dei GAP sono dei veri e propri atti di guerra, che colpiscono esclusivamente obiettivi militari tedeschi e fascisti, contribuendo a risparmiare così altri bombardamenti aerei sulla capitale, distruzioni e vittime.

« 3. L'attacco del 23 marzo contro la colonna della polizia tedesca, che sfilava in pieno assetto di guerra per le strade di Roma, è stato compiuto da due gruppi di GAP, usando la tattica della guerriglia partigiana: sorpresa, rapidità, audacia.

« 4. I tedeschi, sconfitti nel combattimento di via Rasella hanno sfogato il loro odio per gli italiani e la loro ira impotente uccidendo donne e bambini e fucilando 320 innocenti. Nessun componente dei GAP è caduto nelle loro mani, né in quelle della polizia italiana. I 320 italiani, massacrati dalle mitragliatrici tedesche, sfigurati e gettati nella fossa comune, gridano vendetta. E sarà spietata e terribile! Lo giuriamo!

« 5. In risposta all'odierno comunicato bugiardo ed intimidatorio del comando tedesco, il comando dei GAP dichiara che le azioni di guerra partigiana e patriottica in Roma non cesseranno fino alla totale evacuazione della capitale da parte dei tedeschi.

« 6. Le azioni dei GAP saranno sviluppate sino all'insurrezione armata nazionale per la cacciata dei tedeschi dall'Italia, la distruzione del fascismo, la conquista dell'indipendenza e della libertà» (L’Unità, n. 6, 30 marzo 1944).

Il comunicato dei GAP fece una grande impressione. I comunisti sono i soli ad agire, ed anche a sapersi assumere in ogni circostanza le responsabilità delle loro azioni. In un momento difficile della guerra, quando le forze alleate non riuscivano né a superare lo scoglio di Cassino, né a spezzare la rete entro cui era costretto il corpo di spedizione sbarcato ad Anzio; in un momento di crisi del CLN, quando dal sud arrivavano notizie di una crescente impotenza del movimento antifascista di uscire dal vicolo cieco in cui si era cacciato con il congresso di Bari; mentre la popolazione romana era alle prese, in una città assediata, con la fame e con le razzie, l'azione dei GAP di via Rasella aveva dimostrato che il tedesco non era, malgrado la sua tracotanza, invincibile, e che lo si poteva colpire duramente. Il sangue delle vittime innocenti fucilate ·alle Fosse Ardeatine sarebbe ricaduto sui responsabili della strage, sui nazisti e sui loro servi repubblichini. La popolazione romana comprese questo nostro atteggiamento non ci fece mancare la protezione della sua solidarietà. Cominciò, contro il comando delle brigate Garibaldi e dei GAP, una vera caccia all'uomo da parte dei nazisti. Sapevamo che erano intensificate le ricerche per giungere alla nostra cattura, ma potemmo continuare a muoverci e ad agire perché coperti sempre, come prima e più di prima, dall'appoggio popolare. 

 

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Dicembre 1944: il fronte si arresta

25 Novembre 2023 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

La stagione era ancora propizia quando le vittoriose truppe della V e dell'VIII Armata mossero all'attacco della linea «Gotica». Il nuovo e poderoso ostacolo che sbarrava l'avanzata verso la valle del Po era forte almeno quanto la «Gustav» che per sei mesi aveva fermato gli Alleati davanti a Cassino.

Gemmano, un paesino alto sulla valle del fiume Conca, a pochi chilometri da Rimini, fu uno dei tanti caposaldi che gli attaccanti trovarono sulla loro strada. In questo caso gli attaccanti erano gli indiani del V Corpo britannico che nell'assalto si fidavano della loro arma tradizionale, il coltello, più che delle mitragliatrici e delle bombe a mano. Il 14 settembre, dopo combattimenti durissimi, essi conquistarono il paese all'arma bianca.

E ancora una volta gli Alleati dovevano provare la inadeguatezza dei loro grandi mezzi al terreno di battaglia.

Nel nostro paesaggio rotto e sconvolto certi mastodontici mezzi corazzati sembravano più un ingombro che altro. Eppure si andava avanti abbastanza speditamente. E i soldati avevano fiducia di arrivare nella pianura padana prima dell'inverno.

In pochi giorni di battaglia Gemmano fu completamente distrutta. La chiamarono la «piccola Cassino». Le città e i paesi dell'appennino tosco-emiliano, anche i più sperduti, dividevano la sorte di tanti altri luoghi dell'Italia Centrale e Meridionale che la guerra s'era lasciati indietro.

L'azione del V Corpo britannico su Gemmano faceva parte dell'offensiva generale contro la linea «Gotica », che lungo il litorale adriatico veniva condotta in forze dai polacchi e dai canadesi. A sinistra, il X Corpo attaccava sulle montagne incontrando accanita resistenza.

Contemporaneamente all'VIII Armata anche la V aveva iniziato l'offensiva concentrando i propri sforzi nel settore centrale, oltre Pistoia e lungo la direttrice Firenze-Bologna.

I tedeschi sfruttavano le difficoltà del terreno seminando di ostacoli la strada degli Alleati. Resistere o ritardare: in questa strategia, che durava ormai da due anni, erano diventati maestri.

Per il momento i tedeschi non avevano alternative.

Hitler aveva promesso nuove e più clamorose offensive con armi che avrebbero sbalordito il mondo. Ma quanti ci credevano? Le truppe che nell'autunno del '44 combattevano sugli Appennini, non avevano prospettive di vittoria.

L'attacco più violento della V Armata fu sferrato contro il paese di Giogo, sulla strada per Imola. In tre giorni di combattimenti la resistenza tedesca era infranta e davanti agli americani si apriva la testata delle valli. La «Gotica», su cui Kesselring e Hitler facevano tanto affidamento, non aveva retto al primo attacco. Tutto lasciava credere che al nuovo urto sarebbe crollata.

Anche sul fronte adriatico l'offensiva non dava tregua ai tedeschi. La strategia degli Alleati era mutata: non più un solo attacco massiccio, come a Cassino, ma una serie di attacchi, in settori diversi, per logorare la resistenza del nemico tenendolo sempre nell'incertezza.

San Marino era sulla strada dell'VIII Armata; per entrarvi, il 20 settembre, gli inglesi dovettero combattere. Kesselring aveva garantito ai sanmarinesi che avrebbe rispettato la loro neutralità. Ma nella notte fra il 2 e 3 settembre i tedeschi in ritirata ne avevano invaso il territorio. Di colpo la minuscola repubblica era stata sommersa dalla guerra: i suoi abitanti e i centomila sfollati che vi si erano rifugiati, vissero giornate di indescrivibile disagio. Poi finalmente, la liberazione. I profughi potevano ritornare alle proprie case, sperando di ritrovarle intatte: anche per loro la guerra era passata.

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La grande espansione partigiana dei mesi estivi, che aveva portato alla costituzione di numerose zone libere in tutta l'Italia settentrionale, rappresentava una grave minaccia per i tedeschi. Lo stesso Kesselring scrisse che la eliminazione di quel pericolo «era un obiettivo di capitale importanza ». Così, mentre giungevano rinforzi per la linea «Gotica», i nazifascisti poterono dedicarsi a una dura repressione contro le formazioni della Resistenza.

Parri fece il quadro della guerra partigiana nell'autunno 1944:

1945-Parri-Milano.jpg 

« La repressione nazista e fascista si è sviluppata, naturalmente, lungo i settori e i punti che essa riteneva più vulnerabili e più pericolosi. In Piemonte e lungo l'arco alpino con le comunicazioni con la Francia, diventate importanti dopo l'offensiva della Provenza, offensiva massiccia nelle valli del basso Cuneense per liberare i valichi alpini; poi si sviluppò fortemente nell'Appennino ligure e emiliano (anche quella fu la zona di aspri combattimenti) e poi, soprattutto, si intensificò nel Veneto; quindi forti offensive e feroci repressioni sugli altipiani di Asiago, del Grappa, del Cansiglio. Basta ricordare il "viale degli impiccati" di Bassano del Grappa. E poi nel Friuli contro la Carnia; tremende quelle del Friuli: paesi interi come Nimis, Attimis, Velis, bruciati. E questi facevano, come dire?, "pendant" al primo sviluppo delle repressioni naziste con le quali i nazisti avevano cercato di liberare dalla minaccia partigiana insurrezionale tutto l'Appennino, quello nel quale si andava assestando la loro linea "Gotica"». 

L'azione fu affidata alle colonne della Divisione «Goering» che iniziarono il tragico percorso sulle Apuane, a Vinca, passando per Valla, San Terenzio, Sant'Anna di Stazzema e in altri paesi, lasciando dietro di sé le impressionanti tracce della rappresaglia: centinaia di civili uccisi, case distrutte, chiese bruciate. Dopo un nuovo eccidio presso Fucecchio, in Toscana, le colonne naziste risalirono la valle del Mugello e conclusero il loro itinerario a Marzabotto.

Non v'è nulla che dica più di Marzabotto cos'è stata questa tragedia ed esprima meglio la protesta che da quei morti s'alza contro la barbarie della guerra.

i-martiri-di-Marzabotto-foto.jpg 

Mentre la «Goering» a Marzabotto completava la sua opera, a pochi chilometri di distanza tuonava il cannone. Il II Corpo americano, sfondate le difese della linea «Gotica », aveva raggiunto Castel del Rio, sulla nazionale per Imola e superato sulla Firenze-Bologna il passo della Futa e la Raticosa. Il 30 settembre larghe brecce erano ormai aperte nella «Gotica», specie nel settore centrale del fronte e lungo il litorale adriatico, dov'era proseguita l'offensiva dell'VIII Armata.

Sui monti intorno al passo della Futa gli Alleati potevano misurare da vicino tutta l'importanza del successo. Lungo il crinale appenninico i tedeschi avevano costruito alcune difese poderose. C'erano «Bunker» e postazioni di artiglieria in cemento armato; vi era un fosso anticarro lungo quasi cinque chilometri; vi erano reticolati, trincee e una grande quantità di campi minati. Da quelle posizioni formidabili i tedeschi controllavano tutte le vie d'accesso ai valichi. Adesso quel sistema era infranto. Minacciato d'aggiramento, il nemico si era dovuto ritirare con gravi perdite.

Ma l'avanzata a questo punto rallentò. I tedeschi continuavano a far affluire rinforzi e gli Alleati erano stanchi. Tutto andava piano, ora, mentre si cominciava a scendere verso la pianura.

Una serie di cartelli piantati a lato di una strada e diretti ai soldati, riassumeva umoristicamente le difficoltà dell'avanzata. Dicevano:

«Se ti fermi su questa strada, il traffico si ferma, i rifornimenti si fermano, la guerra si ferma, tu resti sotto le armi fino al 1950». «Va avanti» diceva l'ultimo cartello.

Invece su tutto il fronte l'offensiva stava morendo.

1943 44 carta geo avanzata alleati Italia

Finiva a poco a poco, per mancanza di fiato; moriva penosamente nel fango, sotto le piogge autunnali, quando era giunta ormai a un passo dal successo finale. Forse si sarebbe potuto fare un ultimo sforzo: oltre quelle colline una luce più chiara indicava già la pianura; Bologna non era lontana. Ma a fine ottobre Alexander sospese le operazioni.

Il generale Leese, comandante l'VIII Armata, giudicò quella decisione: 

«Posso assicurare che la decisione di sospendere l'offensiva fu presa nonostante il nostro parere assolutamente contrario. Era l'ultima cosa al mondo che avremmo voluto fare. Io ero sicurissimo, come lo erano del resto Alexander, Churchill e anche Clark, che avremmo potuto valicare l'Appennino e raggiungere la pianura veneta e di lì proseguire per l'Austria. E sono persuaso che sarebbe stato molto meglio per il mondo, oggi, se in Austria ci fossimo arrivati prima noi, e non i russi. Personalmente sono convinto che fu una decisione che ebbe conseguenze catastrofiche. Noi fummo tutti amaramente delusi, e siamo assolutamente sicuri che ce l'avremmo fatta».

Soltanto nel settore adriatico l'avanzata non era finita del tutto. Oltre il fiume Marecchia comincia la via Emilia. Lasciata Rimini alle spalle, i soldati dell'VIII Armata entrarono a Cesena il 20 ottobre iniziando un vasto movimento avvolgente allo scopo di raggiungere Bologna da Est. Presto anche da questa parte l'impeto degli inglesi si affievolì. I fiumi erano in piena, i ponti distrutti, il maltempo non cessava, e la marcia alleata si faceva sempre più lenta. Si dovette aspettare il 9 novembre per liberare Forlì. Sarebbero occorse nuove truppe, persino le munizioni scarseggiavano. Soprattutto mancava la volontà di concludere la campagna. Dopo Roma il fronte italiano aveva perso importanza e i tedeschi se ne avvantaggiavano.

Davanti a Faenza il nemico contrattaccò decisamente.

Ormai la situazione stava diventando quasi paradossale. Non volendo condurre un'offensiva a fondo, gli Alleati subivano a tratti l'iniziativa germanica trovandosi impegnati in battaglie logoranti. E purtroppo si combatteva in una regione fittamente abitata, fra i campi coltivati, da una cascina all'altra. Per alcuni giorni Faenza rimase per gli Alleati una fila di case lontane dietro gli alberi.

Sulla costa, intanto, Ravenna era liberata dai canadesi il 5 dicembre. Finalmente anche Faenza cadeva. I neozelandesi vi entrarono il 16 dicembre e fu l'ultima città occupata nel '44. Giungeva l'inverno: anche quella guerra fatta col contagocce si esaurì.

S'arrivò di nuovo a Natale. La neve cadde precocemente a seppellire le ultime speranze degli italiani, rimasti nella zona ancora occupata dai tedeschi. Gli Alleati si erano lasciati sfuggire la grande occasione di liberare entro l'anno tutta l'Italia e di spostare il fronte verso l'Austria e i Balcani.

I cannoni non sparavano più. Anche i piccoli scontri di pattuglia cessarono, tutto il fronte s'immobilizzò. Furono i tedeschi a rompere la tregua. All'improvviso, il giorno dopo Natale, sferrando un attacco in Garfagnana, giù per la valle del Serchio, in direzione di Lucca, giungendo fino a Barga. Tutto si risolse con un po' di paura. Una settimana dopo le linee erano ripristinate: l'azione dimostrativa dei tedeschi era fallita.

Dalla fine di settembre il fronte aveva compiuto un curioso movimento di rotazione. Sostanzialmente fermo nel settore tirrenico, sulla destra invece, per effetto della maggiore pressione dell'VIII Armata, si era spostato sempre più a nord, come una porta che poco a poco si apre girando sui cardini. A fine d'anno si era stabilizzato su una linea che andava dalla Garfagnana alla confluenza fra i fiumi Senio e Reno. Su questa linea le operazioni stagneranno fino ad aprile.

Bibliografia:

Manlio Cancogni in AA.VV - Dal 25 luglio alla Repubblica - ERI 1966

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