4.000 caduti tra le forze partigiane nella sola fase insurrezionale del 25 aprile 1945
L'ultimo attacco per la liberazione mette in moto le ingrossate formazioni partigiane, gli operai in armi delle fabbriche e altri cittadini. Alla vigilia dell'insurrezione nelle città del Nord, il vicecomandante del Corpo Volontari della Libertà , Ferruccio Parri «Maurizio», stima di potere contare su 70.000 effettivi che sono dislocati in varie e distanti località. Nell'operazione di liberazione delle città partecipa un numero decisamente più alto di uomini e donne che viene stimato tra le 250.000 e le 300.000 unità. Oltre la metà di queste forze sono pervenute nell'ultimissima ora, tenendo presente che, soltanto a metà aprile, il comando del CVL indicava in 130.000 gli arruolati, cifra che aveva già subito la prima impennata con gli arrivi del mese di marzo. Gli ultimi reclutati si aggiungono a ridosso o durante l'insurrezione. Si tratta in larga parte di civili, soprattutto operai, che sono inquadrati in modo del tutto approssimativo. La stima, per difetto, di 70.000 effettivi sui quali conta Parri nel momento dell'insurrezione, si riferisce invece agli uomini che sono stati più attivi nella lotta clandestina e che possono offrire maggiori garanzie di esperienza e affidabilità. L'insurrezione, sebbene già segnata nel suo esito finale, resta un'operazione rischiosa dai costi umani difficili da prevedere perché deve comunque scontrarsi con i militari nazifascisti, che al 9 aprile, si aggirano sulle 220.000 unità, mediamente meglio armate del fronte partigiano.
Forze militari della.Repubblica Sociale italiana al 9 aprile 1945
Guardia nazionale repubblicana 72.000
Brigate nere 22.000
Decima Mas 4.800
Muti 1.050
Esercito regolare 30.000-35.000
Divisioni tedesche in Val Padana 90.000 al 9 aprile 1945
Dal 9 aprile ogni giorno che passa crescono le diserzioni fra le forze nazifasciste con la Gnr, l'esercito regolare e la Muti che a questa data hanno già perso la metà dei loro effettivi.
Lo scontro avviene con uomini demotivati e in fuga, ma non tutti, benché disperati e consci della sconfitta, sono arrendevoli. Nella sola fase insurrezionale le perdite partigiane sono stimate in circa 4.000 caduti.
Dal punto di vista militare, l'insurrezione autonoma partigiana può essere risparmiata, nell'attesa dell'inesorabile avanzata alleata, ma gli effetti della massiccia mobilitazione popolare e partigiana hanno permesso, dal punto di vista strategico, il salvataggio dalla distruzione tedesca di molte centrali elettriche e degli impianti industriali. In altri importanti centri di produzione si è evitato, almeno, il completo disfacimento dell'impianto, come avvenuto per il pur danneggiato porto di Genova.
Accanto alla liberazione e alla protezione degli impianti, il Corpo Volontari della Libertà si pone un'altro obiettivo con l'insurrezione: la tutela dell'ordine pubblico, tracciando una linea di continuità con le mansioni già esercitate durante la clandestinità da diverse formazioni montane. È il riflesso dell'ambizione al pieno esercizio del potere, ma soprattutto in questa fase la gestione dell'ordine pubblico è posta a garanzia dei cittadini.
...
Nella decisione dell'antifascismo di attaccare, per liberare paesi e città, si rivede la matrice autonoma della scelta di lotta che sta alla base della Resistenza armata. L'attacco insurrezionale porta a compimento l'autoriscatto dalla guerra fascista e si propone di legittimare con forza la proposta di un nuovo ordine politico.
da “La lunga liberazione” di Mirco Dondi Editori Riuniti
Il ministro degli Esteri Frattini e la vicenda dei deportati italiani
Preoccupanti ed inaccettabili le dichiarazioni del ministro degli Esteri Frattini sugli Italiani deportati in Germania durante il regime nazista.
Riportiamo la ferma presa di posizione del Prof. Valter Merazzi, direttore Istituto di Storia Contemporanea di Como, responsabile del Centro di Ricerca Schiavi di Hitler/Fondo Imi Claudio Sommaruga, delegato del Coordinamento degli enti e associazioni per il risarcimento del lavoro coatto presso l’Oim di Ginevra:
CENTRO DI RICERCA “SCHIAVI DI HITLER”
FONDO I.M.I. CLAUDIO SOMMARUGA
22012 Cernobbio (CO) - via Regina, 5
Sezione dell'Istituto di Storia Contemporanea "P.A. Perretta"
tel: 031/306970 - e.mail: info@schiavidihitler.it - www.schiavidihitler.it
21 giugno 2008. Comunicato del centro di ricerca Schiavi di Hitler sulle dichiarazioni del ministro Frattini alla stampa tedesca.
Le dichiarazioni sugli schiavi di Hitler, rilasciate alla stampa tedesca il 20 giugno dal Ministro degli esteri Frattini nel corso della sua visita a Berlino, sono particolarmente gravi e richiedono una presa di posizione immediata.
Di fronte alle sentenze della Cassazione del 2004 e del 29 maggio 2008, risultato dell’ostinata volontà delle vittime di perseguire la certezza del diritto e il riconoscimento della scelta di una Resistenza pagata col lager, le dichiarazioni di Frattini mostrano un’allarmante continuità con la politica di rimozione operata da tutti i governi del dopoguerra.
Come avviene da oltre sessant’anni la vicenda è ostaggio della Real Politik, è merce di scambio negli accordi diplomatici fra stati, è condotta a spese dello spirito e della dignità di oltre 800 mila italiani deportati e costretti a lavorare senza contratto, senza salario, senza tutele, a prezzo della salute se non della vita per Aeg, Siemens, Krupp, Daimler Benz, Auto Union, Claas e mille altre imprese impegnate a produrre armamenti ed a sostenere la guerra nazista.
Nel corso dell’intervista Frattini sostiene che il governo intende “riunire un gruppo di esperti italo-tedesco” “che dovrà valutare un gesto nei confronti degli ex deportati costretti al lavoro”, aggiungendo: “Queste persone hanno sofferto. Dargli ora 3.000 euro non è quello di cui hanno bisogno”.
Quanto afferma il nostro ministro degli esteri è inaccettabile perché asseconda pienamente la posizione della Germania e delle sue imprese nei confronti degli oltre 130 mila deportati che hanno presentato nel 2001 esplicita domanda di indennizzo alla fondazione “Memoria, responsabilità futuro”, ne banalizza le richieste, e risulta inopportuna nel linguaggio, evocando una logica liquidatoria.
Egualmente preoccupante appaiono le affermazioni del ministro relativamente all’ordinanza della Cassazione del 29 maggio definita “pericolosa” per l’immunità degli Stati. La dichiarazione costituisce un inequivocabile appoggio alla posizione tedesca, sia nelle cause giudiziarie sollecitate da ex deportati in varie parti d’Italia, sia in quelle nascoste nell’armadio della vergogna inerenti le stragi naziste, cause che trovano mille impedimenti nel concludere il loro iter giudiziario.
La ridefinizione del diritto internazionale e la sua ulteriore stretta nel senso di un’accresciuta immunità concessa agli stati è questione delicata e riguarda tutti i cittadini. Si tratta di un orizzonte complesso e in divenire, una costruzione imperfetta e sottoposta a spinte opposte che da una parte guardano al diritto umanitario e delle genti e dall’altra all’interesse delle nazioni e dei più forti.
La preoccupazione che un vulnus all’immunità degli stati possa provocare richieste da parte di cittadini libici, etiopici, balcanici verso l’Italia per le nostre responsabilità nelle guerre d’aggressione e di dominio mostra la debolezza del nostro senso storico, la difficoltà del Paese a fare i conti con la sua storia, con quell’immagine degli “italiani brava gente”che le diverse culture del dopoguerra, attraverso la scuola e i mass media hanno assecondato in vario modo.
Tutto questo mostra la fragilità del diritto internazionale e la necessità di promuoverne e difenderne quanto di denunciarne le contraddizioni, operazione che sollecita i cittadini ad un esercizio di democrazia e costituisce una bussola preziosa in questi tempi di tesa e pesante definizione di un’identità nazionale.
Le vittime sopravvissute all’abuso e al tempo, i loro familiari, le associazioni, chiunque abbia compreso il senso profondo della storia degli schiavi di Hitler deve prendere atto del paradosso di una situazione che scarica sulla generazione, che ha pagato col lager e con l’isolamento in Patria il suo NO alla guerra totalitaria, i costi e le responsabilità mai risolte del fascismo, delle classi dirigenti, degli apparati militari e burocratici nella storia italiana.
Una situazione di questo genere non mina solo la dignità degli individui, offende le vittime e la storia, ne occulta le verità profonde, ma costituisce un insormontabile ostacolo sul terreno di una politica della memoria che voglia essere strumento di crescita civile quanto di monito, che sia in grado di riconoscere l’orrore e la drammaticità di Kahla, del lavoro in miniera e nelle fabbriche d’armi, lo squallore e la violenza del lager.
La frequentazione personale per quasi dieci anni delle vittime ci autorizza, senza tema di smentite, a riportare il desiderio comune di una soluzione che comprenda delle scuse formali, il riconoscimento degli abusi e una quota simbolica di indennizzo economico che alla retorica sostituisca fatti.
Le ditte tedesche dovrebbero essere portate a partecipare al rifinanziamento, come previsto dalla stessa legge tedesca, alla raccolta dei fondi per le oggettive responsabilità e in considerazione dei costi ben maggiori legati all’immagine che questa vicenda proietta sui loro brand.
E’ da ricordare, per chi vorrà fare la ricostruzione della vicenda del risarcimento che solo le cause intentate dagli ebrei americani alla fine degli anni Novanta hanno costretto la repubblica Federale ad una legge per l’indennizzo del lavoro forzato.
Non va anche dimenticato che per escludere gli italiani dall’indennizzo è stata commissionata al professor Tomuschat, consulente di diritto internazionale, una perizia (senza possibilità di contradditorio), che ha indignato gli stessi storici tedeschi.
Questa è anche l’occasione per l’Italia di riconoscere le sue responsabilità in questa vicenda. Quelle di carattere di storico connesse agli eventi e quelle successive relative all’isolamento dei reduci, ai ritardi, alle omissioni, alla mancata ricerca storiografica e statistica. Al di là della concessione di medaglie, a seguito di una legge che non ha fornito strumenti adeguati e che dopo un anno è in grado di consegnarne solo 800 – si potrebbe concludere l’iter di un disegno di legge che la scorsa legislatura ha approvato in un solo ramo del Parlamento e che destina una cifra simbolica agli schiavi di Hitler.
La soluzione per gli schiavi di Hitler è a portata di mano.
Richiede gesti di coraggio e volontà di chiudere una vicenda senza abbandonarla alla retorica delle celebrazioni. Crediamo che solo trovando un punto di equilibrio su questa richiesta sia possibile iniziare a lavorare su progetti comuni di carattere istituzionale relativi alla memoria ed alla costruzione di un comune senso europeo. Anche da questo punto di vista la vicenda si offre ad essere strumento per un dibattito importante.
Da parte nostra, come per tutto il corso di questi anni, siamo pronti a portare il nostro contributo diretto in tutte le sedi istituzionali a cui saremo chiamati a partecipare ad un confronto rispettoso della storia e degli individui.
Prof. Valter Merazzi, direttore Istituto di storia Contemporanea di Como, responsabile centro di ricerca Schiavi di Hitler/Fondo Imi Claudio Sommaruga, delegato del Coordinamento degli enti e associazioni per il risarcimento del lavoro coatto presso l’Oim di Ginevra.
Sono grato al Prof. Valter Merazzi per la sua autorevole presa di posizione sulle preoccupanti ed inaccettabili dichiarazioni del ministro degli Esteri italiano.
Penso anche di interpretare la volontà di diversi deportati italiani in Germania, civili e militari, che ho personalmente incontrato o che ho “conosciuto” tramite il racconto dei loro familiari.
Auguro al Prof. Valter Merazzi di poter raggiungere, anche per il suo impegno ormai decennale, l’obiettivo che il Centro di Ricerca Schiavi di Hitler, di cui è responsabile, si è prefisso: un giusto riconoscimento a quella generazione che ha pagato col lager e con l’isolamento in Patria il suo NO alla guerra totalitaria nella quale il regime fascista l’aveva trascinata.
Renato Pellizzoni
Figlio di uno “schiavo di Hitler”
Presidente dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia - Sezione di Lissone
La straordinaria iniziativa di un gruppo di giovani
Si è svolta dal 20 al 22 giugno, presso il Museo Casa Cervi , la prima Festa Nazionale dell’ANPI, intitolata “Resistenze ANPI:DEMOCRAZIA e/è ANTIFASCISMO.
Un momento d’incontro per riflettere su “Democrazia e Antifascismo”.
La violenza dei corpi militari della Repubblica Sociale Italiana
Dopo l'8 settembre 1943 le forze occupanti lo Stato italiano sono due, quelle angloamericane e quelle tedesche, le prime operano con ciò che resta dello Stato legittimo, le seconde si adoperano per creare un'altra unità statale sul territorio italiano: la Repubblica Sociale Italiana. Questa istituzione non viene mai riconosciuta dagli Stati neutrali e si profila come un governo di fatto che interrompe temporaneamente la potestà dello Stato legittimo la cui sovranità è impedita ma non soppressa.
Le condizioni strutturali proprie della Repubblica Sociale Italiana permettono e favoriscono l'incontrollabilità della violenza. Tale istituzione è caratterizzata da un centro debole, incapace di esercitare una piena autorità sui vari corpi come di sorvegliare sulle azioni di questi. Manca di conseguenza un coordinamento tra i corpi militari.
Di fatto ogni corpo militare della Rsi risulta a se stante, con comandanti ambiziosi in aperto conflitto fra loro ed ostili ad ogni limitazione dei propri poteri; anche le divise sono diverse, tanto da accentuare la perdita di identità del fronte fascista repubblicano, identità smarrita, resa in altro modo evidente dalle differenze di comportamento dei vari corpi. Sono quattro i corpi militari dellà Repubblica di Salò: le quattro divisioni (Italia, Littorio, Monterosa, San Marco) dell'esercito di Graziani, la Guardia Nazionale Repubblicana di Renato Ricci, le Brigate nere di Alessandro Pavolini, la Decima Mas del principe Junio Valerio Borghese; quest'ultima si pone inizialmente alle dirette dipendenze operative del comando militare tedesco, ma finisce per assumere le caratteristiche di esercito personale del suo comandante, il quale, secondo rapporti confidenziali inviati a Mussolini, si sarebbe rifiutato di prendere ordini dal Centro arrivando a manifestare, anche apertamente, il proprio disprezzo per i fascisti considerati troppo supini verso i tedeschi. Accanto a questi quattro corpi ve ne sono altri, di dimensioni decisamente minori, noti come squadre autonome; fra queste la più numerosa è la compagnia intitolata a Ettore Muti che, nel momento di maggiore espansione, arriva a contare 2.300 uomini. Le squadre autonome si inseriscono in un processo centrifugo di caotica dispersione delle forze del fascismo repubblicano. Queste squadre finiscono spesso per trovare gerarchi compiacenti che, per accrescere la loro influenza, ne coprono le malefatte garantendo una totale impunità che parte dai furti e arriva alla tortura. Sia le autorità tedesche che quelle della Rsi gradiscono la tortura sistematica svolta da queste squadre. Il ministro degli Interni della Rsi, Guido Buffarini Guidi, oltre a gestire ciò che resta delle forze dell' ordine, è diretto responsabile e protettore di varie squadre autonome, autentiche compagnie di tortura come la banda Koch e la Muti. Il ministro è ben cosciente dei metodi di questi corpi che sono un'occasione di potere per delinquenti e aguzzini, e l'ultimo approdo per i reietti già cacciati da altre formazioni. Queste compagnie sono quasi sempre stanzlali (soltanto la Muti ha un battaglione mobile), le loro sedi, spesso chiamate nelle varie città, «ville tristi» sono autentiche officine di tortura dove con sadico divertimento si sperimentano su uomini e donne, i limiti umani alla sopportazione del dolore. La pratica della tortura diviene diffusa e nota al punto che a Milano è il cardinale Schuster ad agire, in diversi momenti, nei confronti di Mussolini e di don Luigi Corbella, uomo molto vicino alle gerarchie di Salò invitando entrambi a 'muoversi per porre fine all' azione di queste polizie speciali.
L'attività di questi corpi ha inizio tra il settembre 1943 e il gennaio 1944, ma anche le Brigate Nere e la Decima Mas attuano metodicamente le pratiche della tortura. Questo modo di condurre il conflitto è l'esplicito riconoscimento della propria impotenza a combattere in modo diverso il nemico. Le Brigate Nere, che dovevano essere sotto il profilo della struttura organizzativa l’equivalente fascista. del movimento partigiano, non sono quasi mai in grado, al pari degli altri reparti armati di Salò, di sostenere combattimenti con le formazioni della Resistenza. Dalle stesse fonti tedesche affiora il biasimo per l'arrendevolezza dei corpi fascisti quando si trovano attaccati dai partigiani.
da “La lunga liberazione” di Mirco Dondi - Editori Riuniti/l’Unità - aprile 2008
Rodolfo Graziani: il “più sanguinario assassino del colonialismo italiano”
Nel 1930, Rodolfo Graziani aveva coordinato la deportazione dalla Cirenaica di centomila uomini, donne, vecchi, bambini costretti a marciare per centinaia di chilometri in mezzo al deserto libico fino ai campi di concentramento allestiti nelle aree più inabitabili della Sirte. Diecimila di questi poveretti morirono in quel viaggio infernale. Altre decine di migliaia nei lager fascisti.
E fu ancora lui, il viceré d’Etiopia mussoliniano, a scatenare, in quei giorni di febbraio del 1937, la rappresaglia in Etiopia per vendicare l’attentato che gli avevano fatto i patrioti. Trentamila morti, secondo gli etiopi. L’inviato del Corriere, Ciro Poggiali, restò inorridito e scrisse nel diario: «Tutti i civili che si trovano in Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente con i sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada... Inutile dire che lo scempio s’abbatte contro gente ignara e innocente».
I reparti militari e le squadracce fasciste non ebbero pietà neppure per gli infanti. C’era sul posto anche un attore, Dante Galeazzi: «Per tre giorni durò il caos. Per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni in Addis Abeba, città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano».
Negli stessi giorni, accusando il clero etiope di essere dalla parte dei patrioti che si ribellavano alla conquista, Graziani ordinò al generale Pietro Maletti di decimare tutti, ma proprio tutti i preti e i diaconi di Debrà Libanòs, quello che era il cuore della chiesa etiope. Una strage orrenda: la repressione fascista in Etiopia vide il martirio di almeno 1.400 religiosi vittime d’un eccidio affidato, per evitare problemi di coscienza, ai reparti musulmani inquadrati nel nostro esercito.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, Graziani si schierò con la Repubblica sociale e divenne ministro della difesa. In questa veste tentò di creare, con l’aiuto dei tedeschi, un esercito fascista regolare, che però, invece di essere schierato al fronte contro gli Anglo-americani, ebbe praticamente compiti di polizia interna e di repressione antipartigiana.
In seguito all’ordine di disarmo, firmato da Graziani, 2.500 carabinieri di Roma furono deportati in Germania, il 7 ottobre 1943.
Catturato nell’aprile del 1945, Graziani sfuggì alla fucilazione: processato, nel 1948, dalla corte di assise straordinaria di Roma, poi dal tribunale militare, fu condannato a diciannove anni di reclusione per «collaborazionismo col tedesco invasore». Ne scontò solo cinque e, nel 1950, venne liberato. Divenne presidente onorario del Movimento sociale.
È una vergogna che nel 2012, il comune di Affile, in provincia di Roma abbia costruito un mausoleo per celebrare la memoria di quello che, secondo lo storico Angelo Del Boca, massimo studioso di quel periodo, fu «il più sanguinario assassino del colonialismo italiano».
No a una "Via Giorgio Almirante" a Roma
Una netta presa di posizione contraria all'idea di intitolare una via della Capitale a Giorgio Almirante è stata sottoscritta unitariamente a Roma il 27 maggio 2008 dalle organizzazioni che si rifanno alla Resistenza. Analoga presa di posizione è stata espressa lo stesso giorno dal rappresentante della Comunità ebraica romana. Pubblichiamo il testo della lettera aperta inviata al Sindaco Gianni Alemanno.
Al Sindaco di Roma On. Gianni Alemanno
L’intitolazione di una strada o di una piazza è un momento importante, indica anche alle future generazioni un esempio, un modello di vita e di cittadinanza. La scelta dei nomi da dare ai luoghi pubblici è dunque occasione per una riflessione sulla storia e sulla identità di una nazione, sul suo passato e sul suo futuro. Non ci appassiona un confronto toponomastico sulla storia del paese e su possibili equiparazioni o giudizi tra protagonisti di vicende del passato.
Per queste ragioni, ci sembra del tutto improponibile intitolare una via della capitale a un uomo politico come Giorgio Almirante che ha partecipato come protagonista alla rivista del nascente razzismo fascista (La difesa della razza, di cui è stato segretario di redazione). Ha quindi contribuito in prima persona a quella persecuzione antiebraica che è stato “il male assoluto”, come ha riconosciuto anche il Presidente della Camera Gianfranco Fini.
Ha poi svolto un ruolo importante nella Repubblica di Salò, in cui è stato capo di gabinetto del Ministro Mezzasoma. Firmò allora anche il bando di fucilazione dei giovani italiani che rifiutavano di arruolarsi nell’esercito della Rsi per combattere assieme ai nazisti. Nel dopoguerra ha fondato il Movimento sociale italiano - che si richiamava sin dal nome alla Repubblica sociale. Non sono questi gli esempi, ci sembra, da dare ai giovani e ai futuri cittadini, invitiamo quindi il sindaco Alemanno a mantenere il suo impegno a essere sindaco di tutti, attento garante del tessuto democratico della città.
ANED (Associazione nazionale ex deportati) sede provinciale di Roma
ANEI (Associazione nazionale ex internati)
ANPI (Associazione nazionale partigiani d’Italia) sede provinciale di Roma
ANPPIA (Associazione nazionale perseguitati politici antifascisti) sede provinciale di Roma
FIAP (Federazione italiana associazioni partigiane)IRSIFAR (Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza)
Circolo “Gianni Bosio”
Roma. 27 maggio 2008 ma