Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

resistenza italiana

La battaglia del San Martino

3 Décembre 2024 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

La battaglia del San Martino è una delle prime combattute in Italia nel novembre del 1943, quando una formazione al comando del ten. col. Carlo Croce si difese dall’attacco in forze dell’esercito tedesco.

san-Martino.jpgQuesto è il racconto di un protagonista, Giovanni Emilio Diligenti:

«Mio fratello ed io partecipammo alla battaglia di S. Martino, dove ci aveva inviati l'organizzazione clandestina comunista. Nella fortezza di S. Martino, sopra Varese, si era stanziato il gruppo Cinque Giornate, costituito poco dopo l'armistizio dal colonnello Carlo Croce. La formazione era composta per lo più da ex-avieri ed ex-ufficiali, ma in seguito vi affluirono molti operai di Cinisello Balsamo e di Brugherio, inviati dall'organizzazione clandestina di Sesto San Giovanni. Il colonnello Croce e gli ufficiali che guidavano la formazione si dichiaravano genericamente «badogliani» e seguivano una linea «attesista». Il reparto si era impossessato di una notevole quantità d'armi e di viveri con una serie di riuscite operazioni, come quella alla caserma della guardia di Finanza a Luino. Tutto era stato raccolto nella fortezza, che avrebbe dovuto diventare una base inespugnabile da cui sarebbe partita, in concomitanza con l'arrivo delle truppe alleate, la decisiva offensiva contro i nazi -fascisti. Inutilmente Gianni Citterio, inviato dal Clnai, cercò di convincere il colonnello Croce della necessità di dislocare le forze partigiane - circa centocinquanta uomini - in gruppi meno numerosi e più mobili, localizzati in diversi punti strategici. Prevalse purtroppo la mentalità degli ufficiali, illusi di aver creato una base inattaccabile.

Lo sbaglio fu pagato a caro prezzo: il 14 novembre più di duemila tedeschi mossero all'attacco, appoggiati da cannoni, mortai e anche da tre Stukas. La resistenza durò quarantotto ore, al termine delle quali il gruppo Cinque Giornate si disperse; la maggior parte dei suoi componenti si rifugiò in Svizzera. I partigiani morti in combattimento furono appena due, mentre trentasei furono fucilati dopo la cattura. Ben più pesanti le perdite nemiche: duecentoquaranta morti e un apparecchio (fui testimone oculare dell'abbattimento dello Stukas: un partigiano robustissimo, un vero gigante, prese sulle spalle una delle dieci mitragliatrici Breda pesanti di cui era fornito il reparto, fungendo da piazzola semovente; due altri sostenevano i piedi della mitragliatrice e un quarto sparava, finché riuscì a colpire l'aereo).

La difesa ad oltranza della posizione, concezione che esulava da una corretta conduzione della guerriglia, aveva sì provocato gravissime perdite tra le truppe attaccanti, ma aveva anche causato la fine di una formazione che, per la qualità e la quantità di mezzi e di uomini, avrebbe potuto rappresentare una grossa spina nel fianco dei nazi-fascisti per ancora molto tempo.

Durante la battaglia fui ferito alla gamba destra: la pallottola mi fu estratta con un paio di forbici da don Mario Limonta, un sacerdote di Concorezzo che fungeva da cappellano e da medico del gruppo. Di notte, don Limonta cercò di guidare me ed altri sei partigiani feriti nella discesa verso la pianura. L'impresa mi riuscì difficile, perché la ferita mi impediva di camminare, cosicché mio fratello Aldo dovette caricarmi sulle sue spalle. Dopo un po' perdemmo i contatti con gli altri feriti ma, sia pure a fatica, raggiungemmo la provinciale.

Attraversata la strada a una curva, procedendo un po' carponi e un po' sulle spalle di Aldo, arrivammo in un paese dove, all'alba, salimmo su un trenino che ci portò a Varese. Da qui in ferrovia a Saronno, poi in corriera a Monza e infine di nuovo a Cavenago. Nascosto in casa di Fumagalli, fui curato da Innocente e Mario, rispet­tivamente cucino e fratello di Raineri. In seguito, per ragioni di scurezza e per curare meglio la ferita, fui trasferito a Milano dal compagno Giacinto Parodi. In via Padova al 26, Parodi aveva un laboratorio artigiano di guarnizioni, mentre la sua abitazione era al n. 40 della stessa via. In casa di parodi fui curato da un medico che mi guarì completamente».

 

da “Partigiano in Brianza” di Giovanni Emilio Diligenti” Edito dall’ANPI di Monza

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il proclama del generale Alexander

17 Novembre 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

Testo del proclama che il generale Alexander indirizzò ai partigiani italiani il 13 novembre 1944.

Il proclama venne trasmesso da «Italia combatte», la trasmissione più prestigiosa di Radio Bari.

«Nuove istruzioni impartite dal generale Alexander ai patrioti italiani. La campagna estiva, iniziata l’11 maggio, e condotta senza interruzione fin dopo lo sfondamento della linea gotica, è finita; inizia ora la campagna invernale.

In relazione alla avanzata alleata, nel periodo trascorso, era richiesta una concomitante azione dei patrioti: ora le piogge e il fango non possono non rallentare l’avanzata alleata, e i patrioti devono cessare la loro attività precedente per prepararsi alla nuova fase di lotta e fronteggiare un nuovo nemico, l'inverno. Questo sarà duro, molto duro per i patrioti, a causa della difficoltà di rifornimenti di viveri e di indumenti: le notti in cui si potrà volare saranno poche nel prossimo periodo, e ciò limiterà pure la possibilità dei lanci; gli Alleati però faranno il possibile per effettuare i rifornimenti.

In considerazione di quanto sopra esposto il gen. Alexander ordina le istruzioni ai patrioti come segue:

  1. cessare le operazioni organizzate su larga scala;
  2. conservare le munizioni ed i materiali e tenersi pronti a nuovi ordini;
  3. attendere nuove istruzioni che verranno date o a mezzo radio “Italia combatte” o con mezzi speciali o con manifestini. Sarà cosa saggia non esporsi in azioni troppo arrischiate: la parola d'ordine è: stare in guardia, stare in difesa;
  4. approfittare però ugualmente delle occasioni favorevoli per attaccare tedeschi e fascisti;
  5. continuare nella raccolta delle notizie di carattere militare concernenti il nemico, studiarne le intenzioni, gli spostamenti, e comunicare tutto a chi di dovere;
  6. le predette disposizioni possono venire annullate da ordini di azioni particolari;
  7. poiché nuovi fattori potrebbero intervenire a mutare il corso della campagna invernale (spontanea ritirata tedesca per influenza di altri fronti), i patrioti siano preparati e pronti per la prossima avanzata;
  8. il gen. Alexander prega i capi delle formazioni di portare ai propri uomini le sue congratulazioni e l'espressione della sua profonda stima per la collaborazione offerta alle truppe da lui comandate la scorsa campagna estiva».
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Quei duemila carabinieri deportati dalla Capitale

7 Octobre 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

Sono migliaia i carabinieri che hanno combattuto nelle file della Resistenza o sono morti nei campi di prigionia,dopo aver rifiutato l’adesione alla repubblica di Mussolini. Di loro si è sempre parlato troppo poco, anche se si trovano carabinieri in tutte le grandi formazioni partigiane in Italia e all’estero. Come non si ricordano mai abbastanza i carabinieri che presero parte alle Quattro giornate di Napoli o i giovani “allievi” che a Porta San Paolo, a Roma, con i soldati e la popolazione, opposero una eroica resistenza armata all’invasione nazista della Capitale. E come non ricordare Salvo D’Acquisto, gli eroici carabinieri di Fiesole (Firenze) massacrati dai fascisti e dai nazisti, o gli ufficiali e militari uccisi alle Ardeatine?

C’è un episodio poco noto, ma dolorosissimo, che si svolse a Roma, durante l’occupazione nazista: la deportazione di oltre duemila carabinieri poi trasferiti nei lager e sottoposti, come al solito, ad ogni tipo di tortura, alla fame, al freddo per poi finire nelle camere a gas.

La studiosa e storica Anna Maria Casavola ha condotto una straordinaria inchiesta su quella deportazione dei carabinieri e ne ha ricavato un bel libro dal titolo: 7 ottobre 1943 - La deportazione dei carabinieri romani nei lager nazisti (Edizioni Studium, Roma).

Abbiamo ripreso dal volume, autorizzati gentilmente da Anna Maria Casavola, che ringraziamo, il racconto del viaggio dei carabinieri verso la prigionia e alcune terribili testimonianze.

LA DEPORTAZIONE RIMOSSA

copertina libro 7 ottobre 1943Il libro di Anna Maria Casavola fa finalmente luce sull'internamento da Roma dei Carabinieri catturati dai nazisti con l'acquiescenza delle autorità fasciste

Per 60 anni gli archivi storici dell'Arma dei Carabinieri hanno gelosamente custodito in silenzio la memoria del concentramento e della cattura di circa 2.500 Carabinieri presenti a Roma e della loro deportazione nei campi di internamento militare il 7 ottobre 1943, nove giorni prima della razzia nel Ghetto di Roma e della deportazione di 1.024 ebrei. Essi costituivano un patrimonio di forza addestrata, di conoscenza investigativa e di capacità organizzativa di uomini che, per la loro lealtà istituzionale, non apparivano affidabili agli occupanti nazisti e ai loro collaborazionisti della RSI. Un potenziale che, affiancato alla Resistenza - armata e non - del Fronte militare clandestino e dei partiti interni ed esterni al Comitato di Liberazione Nazionale, avrebbe reso difficilmente controllabile la Capitale.

Grazie all'accesso a documenti non più secretati di archivi militari italiani, tedeschi ed alleati e, soprattutto, a diari e testimonianze dirette di giovani allievi e maturi sottufficiali, ufficiali di carriera e militari volontari, il volume segue la vicenda da prima della cattura all'estenuante viaggio su carri ferroviari, all'internamento nei Lagere indaga sulle ragioni del rifiuto che - al pari degli altri 600.000 militari italiani - anche i Carabinieri provenienti da Roma (ma originari di ogni parte d'Italia) opposero alle lusinghe di chi li allettava ad arruolarsi nella RSI e ad entrare a far parte della Guardia Nazionale Repubblicana, di fatto sottoponendosi all'inquadramento e agli ordini della Milizia fascista e scegliendo di reprimere la rivolta di altri italiani contro l'occupante nazista.

L'occasione e la ricchezza documentaria delle testimonianze raccolte ha offerto all’Autrice la possibilità di affrontare anche altri aspetti della partecipazione dei Carabinieri alla Resistenza, fatto corale e non di singoli. Nuova e sorprendente luce, infine, viene fatta anche sulla liberazione di Mussolini dalla custodia di Campo Imperatore.

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Marzabotto

26 Septembre 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

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La “cavalcata” del terrore iniziò all’alba del 29 settembre 1944, quando la 16a SS-Panzergrenadier-Division, agli ordini del maggiore Walter Reder, detto “il monco”, partì squarciando con il ferro e con il fuoco le valli attorno al Monte Sole. A far da cani-guida, un pugno di militi delle Brigate nere, per l’occasione in divisa SS col distintivo simile a un “44” sulle mostrine, che sapevano i sentieri, le case, i rifugi e additavano mogli, figli e padri dei partigiani della Brigata “Stella Rossa”.

Dall’eccidio non fu risparmiato nessun paese, villaggio o fattoria della zona che, a una ventina di chilometri da Bologna, è delimitata dal corso dei fiumi Reno e Setta: Marzabotto (il Comune più grande), Grizzana, Vado di Monzuno e tutte le altre località che punteggiano le vallate declinanti dall’acrocoro dominato dalla cima del Monte Sole.

Il 13 gennaio 2007, il tribunale militare di La Spezia ha condannato all’ergastolo in contumacia 10 dei 17 imputati ex nazisti ancora in vita. Sono tutti ultraottantenni e non conosceranno mai il carcere, la legge italiana non lo permette.

Il processo, infatti, non si è potuto celebrare prima perché i documenti in grado di inchiodare i responsabili del massacro sono rimasti chiusi per cinquant’anni nell’armadio della vergogna e nei sotterranei delle procure italiane. Ritrovate a metà degli Anni 90, quelle carte, con nomi e fatti, hanno potuto dare finalmente il via ai procedimenti penali.

Finora per la strage di Marzabotto esisteva un solo colpevole: il maggiore Walter Reder. Nel 1951 il tribunale militare di Bologna sentenziò per lui una condanna a vita, da scontare nel carcere militare di Gaeta. Ci passerà trentaquattro anni, malgrado un’ipocrita richiesta di perdono giunta nel 1967 agli abitanti di Marzabotto che, riuniti in Consiglio comunale, respinsero al mittente con 356 voti su 360 la petizione di clemenza sostenuta anche dalla Chiesa. Poi, nel 1980, arrivò la sentenza del Tribunale di Bari che disponeva un periodo di “prova” di cinque anni per il condannato, in attesa della scarcerazione. Fu l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, nel gennaio 1985, a concedere la grazia e a spalancare le porte della galera a Walter Reder, morto nel 1991 nella sua residenza austriaca.

La testimonianza è tratta dal volume “Marzabotto parla” di Renato Giorgi, edito per la prima volta nel 1955, ristampato a cura dell’ANPI di Bologna nel 1991. 

Località Casaglia, testimonianza di Lidia Pirini

«Era il 29 settembre, alle nove del mattino. (…) Quando a Casaglia fummo convinti che i nazisti stavano per arrivare perché si sentivano gli spari e si vedeva il fumo degli incendi, nessuno sapeva dove correre e cosa fare. Alla fine ci rifugiammo in chiesa, una chiesa abbastanza grande, piena per metà, e don Marchioni cominciò a recitare il rosario. Ho saputo in seguito che lo trovarono ucciso ai piedi dell’altare: allora non me ne accorsi e adesso riferisco solo quanto ricordo. Quando arrivarono i nazisti io non li vidi, avevo paura a guardarli in faccia. Chiusero la porta della chiesa e dentro tutti urlavano di terrore, specialmente i bambini. Dopo un poco tornarono ad aprire (…) e ci condussero al cimitero: dovettero scardinare il cancello con i fucili perché non riuscivano ad aprirlo. Ci ammucchiarono contro la cappella, tra le lapidi e le croci di legno; loro si erano messi negli angoli e si erano inginocchiati per prendere bene la mira. Avevano mitra e fucili e cominciarono a sparare. Fui colpita da una pallottola di mitra alla coscia destra e caddi svenuta. Quando tornai ad aprire gli occhi, la prima cosa che vidi furono i nazisti che giravano ancora per il cimitero, poi mi accorsi che addosso a me c’erano degli altri, erano morti e non mi potevo muovere; avevo proprio sopra un ragazzo che conoscevo, era rigido e freddo, per fortuna potevo respirare perché la testa restava fuori. Mi accorsi anche del dolore alla coscia, che aumentava sempre di più. Mi avevano scheggiato l’osso e non sono mai più riuscita a guarire bene, anche dopo mesi e anni di cura. (…) Intorno a me sentivo i lamenti di alcuni feriti. Così passò la notte e quasi tutto il giorno 30. (…) Verso sera, ci si vedeva ancora, trovai finalmente la forza di decidermi, riuscii a scostarmi i cadaveri di dosso e pian piano mi allontanai dal cimitero».

 

Marzabotto: è stato un inenarrabile martirio.

Non fu reazione senza limiti e controlli ad un episodio, non fu gesto sconsiderato di un singolo o di pochi, nel fuoco della guerra; fu il netto disegno, il proposito calcolato e deliberato di distruggere tutta una popolazione persino nelle nuove vite che sorgevano nel grembo delle madri.

Non fu gesto isolato per il numero delle formazioni militari germaniche che vi parteciparono e per la sua esecuzione condotta con metodo di guerra; guerra che si faceva sterminatrice contro una popolazione civile, dopo (ed era ben noto a chi lo comandava) che la eroica resistenza partigiana, costellata di sublimi sacrifici, era stata purtroppo in quel punto spezzata dalla forza schiacciante del numero e delle armi.

Non fu gesto isolato perché la ferocia brutale ed anche inutile agli stessi fini dell'invasore tedesco si abbatté su tante altre contrade del nostro Paese. Innumerevoli i delitti e gli orrori, terribili e gravissimi, ma nessuno che noi sappiamo di proporzioni così vaste come quello perpetrato dalla Wehrmacht e dalle SS a Marzabotto. Le vittime furono 1830 ed ebbero pace soltanto dopo la Liberazione; anzi, in certi casi nemmeno allora poiché le mine cosparse a perpetuare il delitto si accanirono contro le povere ossa senza riposo e contro i superstiti ritornati a compiere opera straziante e pietosa, a far rivivere la loro terra che quelli avrebbero voluta morta come le donne, i bambini, i vegliardi, i sacerdoti che avevano assassinato.

Non fu gesto isolato perché continuò nel tempo giorni e giorni: alla villa Colle Ameno, reso fosco dagli occupanti tedeschi, il 18 ottobre 1944 alcuni cittadini di Marzabotto venivano trucidati; lì era stato freddamente ucciso don Fornasini; e l'azione della Wehrmacht era incominciata il 28 settembre! 
Siamo stati a Marzabotto. Siamo andati per "dare un futuro alla memoria, nella consapevolezza che la memoria è conoscenza e che la conoscenza è libertà e che solo nella conoscenza l'uomo può trovare le ragioni e le condizioni per qualsiasi scelta della sua vita, se vuole che possa essere veramente libera, senza condizionamenti".


Per i caduti di Marzabotto

Questa è memoria di sangue

di fuoco, di martirio,

del più vile sterminio di popolo

voluto dai nazisti di Von Kesselring

e dai loro soldati di ventura

dell’ultima servitù di Salò

per ritorcere azioni di guerra partigiana.

I milleottocentotrenta dell’altipiano

fucilati e arsi

da oscura cronaca contadina e operaia

entrano nella storia del mondo

col nome di Marzabotto.

Terribile e giusta la loro gloria:

indica ai potenti le leggi del diritto

il civile consenso

per governare anche il cuore dell’uomo,

non chiede compianto o ira

onore invece di libere armi

davanti alle montagne e alle selve

dove il “Lupo” e la sua brigata

piegarono più volte

i nemici della libertà.

La loro morte copre uno spazio immenso,

in esso uomini d’ogni terra

non dimenticano Marzabotto

il suo feroce evo

di barbarie contemporanea.

                                               Salvatore Quasimodo

 

MARZABOTTO MEDAGLIA D'ORO

Incassata tra le scoscese rupi e le verdi boscaglie dell'antica terra etrusca, Marzabotto preferì ferro, fuoco e distruzioni piuttosto che cedere all'oppressore. Per quattordici mesi sopportò la dura prepotenza delle orde teutoniche che non riuscirono a debellare la fierezza dei suoi figli arroccati sulle aspre vette di monte Venere e di monte Sole sorretti dall'amore e dall'incitamento dei vecchi, delle donne e dei fanciulli. Gli spietati massacri degli inermi giovinetti, delle fiorenti spose, e dei genitori cadenti non la domarono ed i suoi 1830 morti riposano sui monti e nelle valli a perenne monito alle future generazioni di quanto possa l'amore per la patria.

Marzabotto, 8 settembre 1943 – 1° novembre 1944 


Per quella “operazione” il feldmaresciallo Kesserling si complimentò con gli uomini della sedicesima divisione, in particolare con il maggiore Walter Reder.

Processato nel 1947 per crimini di Guerra (Fosse Ardeatine, Marzabotto e altre orrende stragi di innocenti), Albert Kesselring, comandante in capo delle forze armate di occupazione tedesche in Italia, fu condannato a morte. La condanna fu commutata nel carcere a vita. Ma già nel 1952, in considerazione delle sue "gravissime" condizioni di salute, egli fu messo in libertà. Tornato in patria fu accolto come un eroe e un trionfatore dai circoli neonazisti bavaresi, di cui per altri 8 anni fu attivo sostenitore. Pochi giorni dopo il suo rientro a casa Kesselring ebbe l'impudenza di dichiarare pubblicamente che non aveva proprio nulla da rimproverarsi, ma che - anzi - gli italiani dovevano essergli grati per il suo comportamento durante i 18 mesi di occupazione, tanto che avrebbero fatto bene a erigergli... un monumento. A tale affermazione rispose Piero Calamandrei, con una famosa epigrafe:

Lo avrai

camerata Kesselring

il monumento che pretendi da noi italiani

ma con che pietra si costruirà

a deciderlo tocca a noi

non coi sassi affumicati

dei borghi inermi straziati  dal tuo sterminio

non colla terra dei cimiteri

dove i nostri compagni giovinetti

riposano in serenità

non colla neve inviolata delle montagne

che per due inverni ti sfidarono

non colla primavera di queste valli

che ti vide fuggire

ma soltanto col silenzio dei torturati

piú duro d'ogni  macigno

soltanto con la roccia di questo patto

giurato fra uomini liberi

che volontari s'adunarono

per dignità non per odio

decisi a riscattare

la vergogna e il terrore del mondo

su queste strade se vorrai tornare

ai nostri posti ci troverai

morti e vivi collo stesso impegno

popolo serrato intorno al monumento

che si chiama

ora e sempre

resistenza.

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Le Quattro Giornate di Napoli (27 – 28 – 29- 30 settembre 1943)

26 Septembre 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

Un’insurrezione “spontanea”

La situazione del Mezzogiorno nelle tragiche giornate dell'autunno è la situazione della parte d'Italia su cui la guerra, l'urto fra i due opposti eserciti grava con tutto il suo peso aggiungendo lutti a lutti, rovina a rovina.

Tutto il peso della lotta si concentra nella Campania, e Napoli si trova al centro della formidabile pressione.

Il 12 settembre il colonnello tedesco Scholl assume il« comando assoluto» con un proclama in cui impone lo stato d'assedio, il coprifuoco e la consegna delle armi.

I nazisti a Napoli saccheggiano, distruggono: la loro furia, che travolge soldati sbandati, e cittadini inermi, raggiunge il culmine nell'incendio della Università. Gli edifici vengono invasi e dati alle fiamme, la popolazione rastrellata per le vie è costretta ad assistete in ginocchio all'esecuzione di un marinaio sulla soglia dell'Università; una lunga colonna di deportati viene avviata verso Aversa, quattordici carabinieri, rei d'aver resistito al palazzo delle Poste, vengono fucilati nel corso della tragica marcia. È dall'Università che s'inizia la distruzione metodica della città che secondo gli ordini di Hitler avrebbe dovuto essere ridotta « in fango e cenere»; e la scelta del punto di partenza del piano terroristico non è, probabilmente, casuale: era infatti nello stesso Ateneo che dopo il 2 luglio avevano risuonato più alte le parole della libertà, come nel proclama del l° settembre con cui il rettore magnifico Adolfo Omodeo ricordava ai giovani che i loro maestri erano della generazione del Carso e del Piave e comprendevano il loro affanno». S'inizia poi la sistematica distruzione delle zone industriali, del grande stabilimento ILVA di Bagnoli, mentre tutta la città è messa a sacco.

Napoli è ridotta alla disperazione per le condizioni selvagge in cui è stata ridotta Napoli, priva di cibo e d'acqua, sgombrata a viva forza e distrutta nei quartieri verso il porto (nello spazio di ventiquattro ore, dal 23 al 24 settembre, oltre 200000 persone restarono senza tetto).

Un antefatto delle Quattro Giornate di Napoli: l'abbandono da parte dei nazisti delle caserme e dei depositi militari contenenti ancora piccole quantità di armi e munizioni. Probabilmente i tedeschi ritennero che il suddetto materiale bellico non avesse importanza, né sarebbe stato utilizzato dalla popolazione contro di loro dopo gli infiniti esempi di terrore, dopo la deportazione di ottomila giovani come misura di rappresaglia per il mancato rispetto del bando Scholl.

Nella notte tra il 27 e il 28 settembre la popolazione si alternò in un incessante via vai fra le caserme e le abitazioni, le donne in cerca di viveri e d'indumenti, gli uomini in cerca d'armi e munizioni.

Molte armi erano state già nascoste e conservate gelosamente nei giorni dell'armistizio: ora la determinazione di usarle, di cercare dovunque nuove scorte di esse, di scendere finalmente ,«in istrada» era sbocciata improvvisa come l'unica possibile. Il popolo aveva« fatto la sua scelta», ma in senso opposto a quello richiesto dal proclama fascista. Già nel pomeriggio e nella sera del 27, sollecitati, sembra, dalla falsa notizia dell'arrivo degli Inglesi a Pozzuoli e a Bagnoli, si erano avuti i primi rapidi scontri, le prime scaramucce in più punti della città, episodi in apparenza casuali, certamente non collegati l'uno con l'altro (un gruppo di cittadini che reagisce al saccheggio della Rinascente, un altro gruppo che liberò a piazza Dante dei giovani razziati, due guastatori tedeschi inseguiti a furia di popolo al Vomero), ma altrettanto certamente rivelatori d'uno stato d'animo ormai comune.

All'alba del 28 settembre la rivolta esplose fulminea al Vomero e da Chiaia a piazza Nazionale. Non vi furono collegamenti fra un centro e l'altro dell'incendio, ma l'insurrezione cominciò ad ardere in decine di punti diversi.

Il 28 settembre è la giornata dell'ardimento popolare sfrenato e travolgente: Tra le decine e decine di combattimenti, tanti giovinetti.

Il dodicenne Gennaro Capuozzo funziona da servente a una mitragliatrice in via Santa Teresa presa sotto il fuoco di carri armati tedeschi, finché cade sfracellato, colpito in pieno da una granata sul posto di combattimento.

Filippo Illuminato e Pasquale Formisano, l'uno di tredici, l'altro di diciassette anni corrono incontro a due autoblinde che da via Chiaia cercano d'imboccare via Roma.« Lo scontro fu assai breve, ma impressionante; vi fu chi vide i due intrepidi giovanetti avanzare decisamente sotto le impetuose raffiche di mitragliatrice fino a quando caddero esanimi a pochi passi dalle autoblinde, nell'atto di scagliare ancora una bomba ».

Tutto si è svolto senza un piano, senza collegamenti fra i vari quartieri o gruppi d'insorti anche se talvolta l'azione degli uni ha contribuito al successo di quella degli altri. Esempio maggiore di questa naturale confluenza degli sforzi insurrezionali l'azione svolta da un gruppo di patrioti che a Moiarello di Capodimonte s'impossessano di una batteria da 37/54 e riescono a bloccare per tutta la giornata il tentativo di una colonna di carri Tigre e di autoblinde tedesche di scendere da Capodichino sulla città; probabilmente, se quel tentativo fosse riuscito, la lotta popolare avrebbe avuto un corso diverso o comunque più sfavorevole e cruento.

La rivolta popolare comincia ad organizzarsi, a individuare alcuni obiettivi da conseguire nella ininterrotta ondata del combattimento a viso aperto. Sorge la prima barricata a piazza Nazionale, vengono costituite postazioni d'arme presso il Museo, si chiarisce l'indirizzo principale sorto spontaneamente: impedire che il tedesco attraversi la città verso nord nel corso del ripiegamento e gettare cosi il disordine e il panico nelle sue truppe incalzate da vicino dagli alleati.

Nel corso della battaglia si determina un obiettivo principale: la conquista del « centro» del quartiere costringendo i tedeschi a ripiegare da via Luca Giordano che lo attraversa diagonalmente. L'attacco viene eseguito a squadre e a balzi successivi come in una manovra di guerra regolare. Poi, dopo la furia popolare, anche la furia degli elementi si abbatte sul Vomero: un violento uragano fa sospendere le operazioni e nella notte il nemico perlustra le strade alla caccia degli insorti dileguatisi con le prime ombre.

Il 29 segna il culmine dell'insurrezione napoletana e, mentre prosegue il generoso afflusso dei giovani e degli adolescenti fra le file degli insorti (muore sotto il fuoco d'un'autoblinda il non ancora ventenne Mario Menichini), affiorano i primi elementi organizzativi. Al Vomero si costituisce il Comando partigiano per iniziativa di Antonino Tarsia. In ogni rione emerge nel corso della lotta una figura di «capo-popolo» intorno a cui gravitano i gruppi degli insorti: a Chiaia si fa luce Stefano Fadda, Ezio Murolo in piazza Dante, Aurelio Spoto a Capodimonte. Ovunque gli scontri diventano più intensi e persistenti: nel solo settore Vincenzo Cuoco i patrioti perdono 12 morti e 32 feriti.

A Capodimonte è strenuamente difeso dai partigiani del rione l'unico serbatoio rimasto intatto dall'immane distruzione ed assicurato, in seguito al successo dell'azione, il rifornimento dell'acqua potabile ad alcuni rioni anco­ra per due o tre giorni.

L'episodio risolutivo si verifica infine al Vomero: il comandante del presidio maggiore Sakau chiede di trattare la resa. Accompagnato con bandiera bianca presso il Comando superiore germanico al Corso, lo Scholl, edotto della situazione, è costretto ad ordinare l'evacuazione del campo sportivo e la restituzione dei 47 ostaggi detenutivi, purché i partigiani garantiscano l'immunità al presidio tedesco. È, in sostanza, una capitolazione, la più grave umiliazione per lo Scholl che aveva creduto d'imporre il suo dominio alla città e che ora chiede salva la vita per i suoi soldati a un gruppo di « straccioni» ribelli.

Il 30, pur essendo stata evacuata in massima parte la città dai tedeschi, continuano i combattimenti. Il nemico si lascia dietro la lugubre scia delle rappresaglie: gruppi di guastatori tedeschi, attardatisi nella ritirata, massacrano alcuni giovani in località Trombino. Alla Pigna, nella masseria Pezzalunga, s'ingaggia l'ultimo combattimento delle Quattro Giornate, con violenti corpo a corpo fra i patrioti e i tedeschi, mentre nella città risuonano ancora le fucilate in via Duomo, via Settembrini, piazza San Francesco. Ancora il l° ottobre i tedeschi attuano l'ultima rappresaglia e aprono un violento fuoco sulla città con un gruppo di bombarde piazzate nel bosco di Capodimonte, portando lo sterminio fra la popolazione sino quasi a mezzogiorno: un'ora prima dell'entrata dei primi carri armati angloamericani nella città liberata.

Costretti alla fuga i nazisti sfogano la rabbia per il colpo ricevuto: distruggono le più preziose memorie di quel popolo che non ha piegato la testa sotto i suoi ordini, consumando un’atroce vendetta. A San Paolo Belsito, presso Nola, i tedeschi danno fuoco all' Archivio Storico di Napoli, cioè alla maggior fonte per la storia del Mezzogiorno dal Medioevo in poi.
                                                             
Il bilancio dell'insurrezione napoletana: 152 combattenti caduti; 140 caduti civili, 162 feriti, 19 caduti ignoti (l'elenco delle perdlte continua ad accrescersi anche dopo la liberazione della città: nel pomeriggio del 7 ottobre il palazzo delle Poste, appena riattivato, saltò in aria a causa delle mine lasciatevi dai tedeschi, provocando la morte di molti cittadini.

Sulle barricate s'incontrarono i popolani generosi, le umili donne che offrivano cestini di bombe, come la« Lenuccia» (Maddalena Cerasuolo) e gli esponenti della piccola borghesia meridionale: un Tarsia insegnante a riposo, un Fadda medicochirurgo, un Murolo impiegato.

Parteciparono alla lotta gli studenti del liceo Sannazzaro al Vomero, gli scugnizzi dei quartieri popolari, gli intellettuali come Alfredo Paruta che iniziò il l° ottobre la pubblicazione del giornale « Le barricate»; come gli operai delle fabbriche napoletane. E certo nell'ondata della collera popolare si erano inseriti - qua e là - gli elementi antifascisti consapevoli. Ma l'insurrezione rimase fino all'ultimo un fatto« spontaneo », senza cioè che potessero prevalere in essa gli elementi d'una guida unitaria e anche una chiara coscienza politica dell'accaduto.

Le Quattro Giornate di Napoli saranno sempre presenti nel ricordo di coloro che militeranno nelle file della Resistenza poiché avevano dimostrato la« possibilità» dell'insurrezione cittadina.

«Dopo Napoli la parola d'ordine dell'insurrezione finale acquistò un senso e un valore e fu d'allora la direttiva di marcia per la parte più audace della· Resistenza italiana» (Luigi Longo: dopo l'8 settembre del '43, diede vita alle Brigate Garibaldi. Vicecomandante del Corpo Volontari della Libertà, stretto collaboratore di Parri, fu tra i principali organizzatori dell'insurrezione nel Nord Italia dell'aprile del '45)

 

Liberamente tratto dalle pagine di  “Storia della Resistenza italiana – 8 settembre 1943 – 25 aprile 1945” di  Roberto Battaglia - Einaudi 1964



Le Quattro Giornate di Napoli in letteratura
da “Il giorno prima della felicità” di Erri De Luca

“Ci eravamo abituati a sentire le frottole della radio, dei giornali: la patria, l'eroica difesa dei confini, l'impero. Tenevamo l'impero, mancava il pane, il caffè ma tenevamo l'impero. Il comandante tedesco Scholl ha fatto uscire un bando, gli uomini tra i 18 e i 33 anni devono consegnarsi in caserma o saranno fucilati. Su trentamila che se ne aspettavano si sono presentati in 120.... I tedeschi e i fascisti erano più incanagliti perché la guerra si metteva male. Lo sbarco di Salerno era riuscito. Facevano saltare le fabbriche, saccheggiavano i magazzini per lasciare vuoto. La città negli ultimi giorni di settembre faceva paura per la fame e il sonno in faccia alle persone.... Bombardavano tutte le notti ...Gli scoppi delle bombe tedesche si confondevano con i bombardamenti americani, la sirena di allarme arrivava dopo che la contraerea si era messa a sparare. Le persone uscivano dai ricoveri dopo l'attacco aereo e non trovavano più la casa. Come venne a piovere cominciò la rivolta. Pare che la città aspettava un segno convenuto, che si chiudeva il cielo. E gli americani smisero di bombardare. Una domenica di fine settembre, sento in bocca a tutti la stessa parola, sputata dallo stesso pensiero: mo' basta. Era un vento, non veniva dal mare ma da dentro la città: mo' basta, mo' basta.. La città cacciava la testa fuori dal sacco. Mo' basta, mo' basta, un tamburo chiamava e uscivano i guaglioni con le armi. Fuori i giovani prendevano le armi dalle caserme e le nascondevano. Un gruppo con uno vestito da carabiniere aveva svuotato l' armeria del forte di Sant'Elmo. I napoletani avevano preso le armi dalle caserme. A volte con le buone, i carabinieri avevano distribuito la loro dotazione per sentimento di fedeltà al re. In altre caserme la paura di una rappresaglia tedesca faceva respingere la richiesta di armi. Allora tornavano con le maniere spicce a requisirle. L'assalto del primo giorno fu contro un camion tedesco che era andato a saccheggiare una fabbrica di scarpe. Negli ultimi giorni di settembre i tedeschi si erano messi a razziare quello che potevano dentro i negozi e pure nelle chiese. Cominciò con un assalto improvvisato a un loro camion carico di scarpe, la prima battaglia. Intanto i tedeschi svaligiavano le chiese, facevano saltare il ponte di San Rocco a Capodimonte, quello della Sanità lo salvammo staccando le cariche esplosive, lo stesso facemmo per l'acquedotto. Volevano lasciare la città distrutta. La rivolta è stata una salvezza. Il centro della rivolta si era piazzato nel liceo Sannazzaro, gli studenti erano stati i primi. Poi uscivano gli uomini nascosti sotto la città. Salivano da sottoterra come una resurrezione. 'Dalle 'ncuollo,' dagli addosso, le strade erano bloccate dalle barricate. Al Vomero tagliavano i platani e li mettevano a fermare il passaggio dei carri armati. Facemmo una barricata a via Foria incastrando una trentina di tram. La città scattava a trappola. Quattro giornate e tre nottate. I carri armati tedeschi riuscirono a passare lo sbarramento di via Foria, scesero a piazza Dante e si avviarono per via Roma. Là sono stati fermati. Giuseppe Capano, di anni 15, si è infilato sotto i cingoli di un carro armato, ha disinnescato una bomba a mano ed è riuscito da dietro prima dell'esplosione. Assunta Arnitrano, anni 47, dal quarto piano ha tirato una lastra di marmo presa da un comò e ha scassato la mitragliatrice del carro armato. Luigi Mottola, 51 anni, operaio delle fogne, ha fatto saltare una bombola di gas spuntando da un tombino sotto la pancia di un carro armato. Uno studente di conservatorio, Ruggero Semeraro, anni 17, aprì il balcone e attaccò a suonare al pianoforte La Marsigliese, quella musica che fa venire ancora più coraggio. Il prete Antonio La Spina, anni 67, sulla barricata davanti al banco di Napoli gridava il salmo 94, quello delle vendette. Il barbiere Santo Scapece, anni 37, tirò un catino di schiuma di sapone sul finestrino di guida di un carro armato che andò a sbattere contro la saracinesca di un fioraio. La mira dei nostri cittadini era diventata infallibile nel giro di tre giorni. Le bottiglie incendiarie facevano il guasto ai carri armati, li accecavano di fiamme. Ero diventato esperto nel farle, ci mettevo dentro qualche scaglia di sapone per fare attaccare meglio il fuoco. Il diesel ce lo avevano dato i pescatori di Mergellina, che non potevano uscire per mare a causa del blocco del golfo e delle mine. Sei persone in mezzo a una folla pronta inventavano la mossa giusta per inguaiare un reparto corazzato del più potente esercito che da solo aveva conquistato mezza Europa. Prima di andarsene i tedeschi avevano lasciato in città bombe a tempo ritardato, una esplose alla posta centrale giorni dopo facendo una strage. Era una loro tecnica, ho saputo che l'hanno fatto anche altrove. Non sapevano perdere. A via Foria le barricate con i tram fermarono per ore i carri armati Tigre. Alla fine riuscirono a passare ma non a via Roma. Dai vicoli a monte scendevano all' assalto uomini e ragazzi a buttare bombe e fuoco in mezzo ai cingoli. Contro quei mucchi di spiritati, i corazzati non potevano niente, si ritirarono. C'era un secondo fronte, i fascisti sparavano dalle case sulla folla insorta. Ci furono battaglie per le scale dei palazzi, sui tetti, fucilazioni sul posto.”

 

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Agosto 1943: Milano prese fuoco

6 Août 2024 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

«Italiani! Per ordine di Sua Maestà il Re e Imperatore assumo il Governo militare del Paese, con pieni poteri. La guerra continua. L'Italia, duramente colpita nelle sue provincie invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni. Si serrino le file attorno a Sua Maestà il Re e Imperatore, immagine vivente della Patria, esempio per tutti. La consegna ricevuta è chiara e precisa: sarà scrupolosamente eseguita, e chiunque si illuda di poterne intralciare il normale svolgimento, o tenti turbare l’ordine pubblico, sarà inesorabilmente colpito. Viva l'Italia. Viva il Re. Firmato: Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio, 25 luglio 1943».

Come ripeteva ossessivamente l'eco di questa frase badogliana, la guerra continuava. E con l'agosto le principali città italiane e soprattutto Milano entrarono in un girone infernale di fuoco e distruzione per lo scatenarsi dell'offensiva aerea alleata.

Dal 9 al 16 agosto, ogni notte Milano fu attaccata. E ogni volta non era possibile fare confronti con la furia devastatrice della notte precedente. Furono colpite tutte le zone della città. Il Duomo danneggiato, la Scala diventata un rogo, la Galleria sventrata, Palazzo Reale, Brera, l’Ospedale Maggiore, chiese, musei, fabbriche, case, monumenti distrutti. I binari del tram sradicatii.

Milano-galleria-.gif Milano-1943.jpg Milano-Piazza-Fontana-bombardamento.jpg Milano-dopo-un-bombardamento.jpg

Macerie su macerie. Al mattino, le strade erano percorse da lunghe file di cittadini che arrivavano dalle località di sfollamento, spesso a piedi o in bicicletta, per vedere che cosa era rimasto della propria casa. Sostavano da lontano a osservare le macerie, i falò degli incendi che ardevano ancora qua e là durante la giornata. Dovunque c'era desolazione: crolli e rovine, cumuli di mobili accatastati sui marciapiedi, gruppi di donne e di uomini come inebetiti dall’enormità della tragedia. C'era chi si metteva a scavare tra le macerie sperando di salvare qualcosa. La Città era morta.

Le prime ombre rendevano ancora più atroce lo spettacolo. Le mura smozzicate delle case le occhiaie vuote degli edifici devastati, apparivano come fondali sinistri. A sera riprendeva l'esodo dei cittadini, con ogni mezzo di trasporto. Le vie si ripopolavano di cortei interminabili di ciclisti e di pedoni che recavano seco le massenzie per il pernottamento di fortuna. Poi la città diventava deserta, per un'altra notte.

«L'esodo delle moltitudini migranti sotto un cielo sempre pieno di minaccia» scriveva la cronaca del “Corriere” «è uno spettacolo d'indicibile commozione [...]. E una folla che, solo dopo una lunga resistenza, dopo un fatalismo ostinato, si è decisa a sottrarsi in tutta fretta alla selvaggia furia dei bombardamenti [...]. Nei borghi e nei villaggi ci sono generosi che un po' di posto lo offrono, restringendosi pieni di buona volontà e di fraterna sollecitudine. Ma gli esempi di gretto egoismo non mancano. Vi sono ancora case dalle porte indebitamente chiuse [...]».

Però era anche l'ora della bontà, della solidarietà cristiana. Ricordo solo un piccolo fatto: il parroco della Incoronata a Milano ospitò nella chiesa un buon numero di famiglie con le loro masserizie, trasformando il tempio in albergo, cucina, luogo di soggiorno, riparo. Mai l'Incoronata, come allora, fu la casa del Signore.

Nella confusione generale, il “Corriere” si era a sua volta trasformato in un centro di soccorso, almeno informativo, psicologico. I telefoni squillavano in continuazione, i rimasti in città chiedevano, volevano sapere. Il centralino passava le comunicazioni nel rifugio dove, a turno, eravamo accampati. Mottola e io restavamo di guardia insieme con due tipografi, sperando che arrivasse da un momento all'altro la notizia dell armistizio, pronti a mettere insieme un'edizione straordinaria. Dall'altro capo del filo, il più delle volte, c'era una voce di donna, e dal timbro si capiva che era una donna anziana che voleva sapere, ma soprattutto essere rassicurata, confortata. Ma che cosa potevamo risponderle?

Milano si sgretolava sotto i colpi dei bombardieri, andava in fiamme. Anche il teatro alla Scala fu colpito nella notte del 15 agosto. Era una notte di luna piena. Dal cielo certo si vedevano i tetti delle case, i selciati delle vie. La Scala venne presa in pieno: sembrava una Pompei.

 

Bibliografia:

Gaetano Afeltra – I 45 giorni che sconvolsero l’Italia. 25 luglio – 8 settembre 1943. Dall’osservatorio di un grande giornale –  Rizzoli Ed. 1993

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In ricordo di Eugenio Colorni, sognando una nuova Europa

7 Juin 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

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Chi era?

Eugenio Colorni (Milano, 22 aprile 1909 – Roma, 30 maggio 1944) è stato un filosofo, politico e socialista italiano.

Oltre che per le sue opere filosofiche, Colorni è noto come uno dei massimi promotori del federalismo europeo: mentre era confinato, in quanto socialista e antifascista, nell'isola di Ventotene, partecipò con Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, anch'essi lì confinati, alla scrittura del Manifesto per un’Europa libera e unita, che poi da quel luogo prese il nome. In seguito, nella Roma occupata dai nazisti, curò l'introduzione e la pubblicazione clandestina di questo documento fondamentale per lo sviluppo dell'idea federalista europea.

Fatti salienti della sua breve vita

Dopo due anni trascorsi in Germania - come lettore di italiano all'Università di Marburg, dove aveva approfondito i suoi studi su Gottfried Wilhelm Leibniz - nel 1933 era tornato a Milano. Abbandonato l'impegno sionistico degli anni dell'Università, aveva cercato collegamenti con l'antifascismo militante, impegnandosi per far rivivere nell'Italia settentrionale il "Centro interno" del Partito socialista.

L'8 settembre del 1938, all'inizio della campagna razziale promossa dal regime, fu arrestato dall'OVRA a Trieste, in quanto ebreo ed antifascista militante, venendo pertanto rinchiuso nel carcere di Varese. I giornali pubblicarono la notizia con gran risalto, sottolineando che egli «di razza ebraica, manteneva rapporti di natura politica con altri ebrei residenti in Italia e all'estero».

Dal gennaio del 1939 all'ottobre del 1941, Colorni fu confinato nell'isola di Ventotene, dove proseguì i suoi studi filosofico-scientifici e discusse intensamente con gli altri compagni confinati, Ernesto Rossi, Manlio Rossi Doria e Altiero Spinelli.

 

Nel 1941, partecipò alla stesura del Manifesto per un’Europa libera e unita, meglio noto come Manifesto di Ventotene.

Nella sua "Prefazione" al Manifesto, auspicò la nascita di una politica federalista europea di respiro universalista, come scenario democraticamente praticabile dopo la catastrofe della guerra.

Nell'ottobre del 1941, riuscì ad essere trasferito a Melfi, in provincia di Potenza, dove, nonostante lo stretto controllo della polizia, riuscì ad avere contatti con alcuni degli anti-fascisti locali.

Il 6 maggio del 1943 riuscì a fuggire da Melfi, rifugiandosi a Roma, dove visse in clandestinità.

Dopo l’arresto di Mussolini, il 25 luglio del 1943, si dedicò all'organizzazione del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, nato nell'agosto dalla fusione del PSI col giovane gruppo del Movimento di Unità Proletaria.

A seguito dell'8 settembre, svolse nella capitale un'intensissima attività nelle fila della Resistenza: prese parte alla direzione del PSIUP e s'impegnò a fondo nella ricostruzione della Federazione Giovanile Socialista Italiana e nella formazione partigiana della prima brigata Matteotti.

Fu redattore capo dell'Avanti! Clandestino.

Il 28 maggio del 1944, una settimana prima della liberazione della capitale, venne fermato da una pattuglia di militi fascisti della famigerata banda Koch: tentò di fuggire, ma fu raggiunto e ferito gravemente da tre colpi di pistola. Trasportato all'Ospedale San Giovanni, morì il 30 maggio, a soli 35 anni.

 

pagina dell'Avanti con l'articolo alla memoria di Eugenio Colorni
pagina dell'Avanti con l'articolo alla memoria di Eugenio Colorni
pagina dell'Avanti con l'articolo alla memoria di Eugenio Colorni

pagina dell'Avanti con l'articolo alla memoria di Eugenio Colorni

Trascrizione dell’articolo dell’Avanti! Del 18 luglio 1944 a lui dedicato.

Noi lo pensavamo nella schiera dei migliori, dedito ai nuovi compiti costruttivi del socialismo; con la sua forte intelligenza, con la passione e l’ardore che recava per la sua multiforme autorità. Ma egli non è più coi nostri compagni. È stato trucidato in Roma dai nazi, nei giorni stessi che sgombravano la città.

Dopo nove mesi di una lotta in cui s’era buttato tutto, come il suo ardente temperamento lo portava, mutatosi egli filosofo in uomo di guerra; quando in vista della liberazione agognata, non tanto per uscire da un pericolo che impavido aveva quotidianamente sfidato, quanto per potersi misurare nelle opere di pace, per recare ad attuazione un vasto programma di lavoro e di studi, è stato abbattuto come un cane per la via.

Eugenio Colorni era entrato giovanissimi nell’antifascismo militante e come socialista aveva lavorato per anni nella illegalità cospirativa.

Uomo di vastissima cultura, si era segnalato a Trieste dove insegnava storia e filosofia, esercitando grande fascino sui giovanissimi, assetati di qualche luce nelle tenebre della scuola fascista. Nel 1938 era stato arrestato, con una grande inscenatura antisemita, e poi assegnato al confino. Era riuscito a fuggire e da Roma aiutò in quegli anni i compagni dell’isola a gettare le basi del Movimento Federalista, di cui anche nella Roma arroventata degli ultimi mesi, continuò ad essere attivissimo assertore:

Egli faceva parte della redazione dell’Avanti! Clandestino e a lui si debbono iniziative culturali di partito che ebbero vivo successo e che egli si proponeva di sviluppare con idee originali come scuola di cultura socialista non appena la libertà fosse stata recuperata. Ma questa libertà che egli dimostrò d’amare più che la vita ha voluto anche il suo olocausto.

primo numero de L'UNITA' EUROPEA, voce del Movimento Federalista Europeo

primo numero de L'UNITA' EUROPEA, voce del Movimento Federalista Europeo

In ricordo di Eugenio Colorni, sognando una nuova Europa
In ricordo di Eugenio Colorni, sognando una nuova Europa
In ricordo di Eugenio Colorni, sognando una nuova Europa
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primavera del 1943: gli antifascisti italiani confinati a Ventotene

24 Mai 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

Ventotene è un'isola del Mar Tirreno, situata al largo della costa al confine tra Lazio e Campania, in provincia di Latina.

Isole Pontine

Durante il periodo fascista, sull'isola furono confinati numerosi antifascisti, nonché persone considerate non gradite dal regime.

Antifascisti-verso-il-confino.jpg

Tra gli altri Sandro Pertini, Luigi Longo, Umberto Terracini, Giorgio Amendola, Lelio Basso, Mauro Scoccimarro, Giuseppe Romita, Pietro Secchia, Eugenio Colorni, Giovanni Roveda, Walter Audisio, Camilla Ravera, Giuseppe Di Vittorio, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi. Furono proprio questi ultimi due antifascisti a scrivere sull'isola, nella primavera del 1941, l'importante documento Per un'Europa libera e unita. Progetto di Manifesto diventato noto come Manifesto di Ventotene. Nel documento la federazione degli Stati d'Europa, sul modello statunitense, viene indicata come l'unica soluzione per la salvezza della civiltà europea.

Luigi Longo, confinato politico a Ventotene, ha scritto nel suo libro “Un popolo alla macchia”:

«Mentre tutto intorno crescevano e s'avvicinavano le fiamme della guerra, mentre nelle città e nelle campagne lavoratori, impiegati, professionisti e intellettuali si agitavano, si muovevano, premevano per avere pace e libertà, nelle carceri e nelle isole di confino italiane centinaia e migliaia di antifascisti si struggevano nella loro forzata inattività, tendevano ansiosamente l'orecchio a tutti i suoni, a tutte le briciole di notizia che giungevano dall'esterno, soffrivano crudelmente per le pene della patria e sentivano che presto, forse prestissimo, sarebbero stati chiamati a prendere in mano le sorti del paese e a tentarne l'estrema salvazione.

L'isola di Ventotene era come la capitale di questo mondo di captivi. Nella primavera del '43 essa raccoglieva un migliaio circa di dirigenti e di umili militanti di tutte le correnti dell'antifascismo italiano. Eravamo finiti là provenienti da tutte le parti - molti dopo cinque, dieci e anche quindici e più anni di reclusione sofferta - prelevati dalle città e dalle campagne d'Italia perché sorpresi a parlare contro il fascismo e la guerra; reduci, noi garibaldini di Spagna e gli emigrati, dai campi francesi di internamento, dove eravamo stati rinchiusi allo scoppio della guerra. Ci affratellavano le comuni sofferenze, le stesse speranze e un uguale amore di libertà.

Due volte la settimana un battello congiungeva l'isola al continente: portava le provviste, qualche familiare e sempre nuovi confinati. Ma portava anche i giornali e le notizie dall'Italia. Scorrevamo avidamente i comunicati ufficiali, che cercavamo di completare e di arricchire leggendo tra le righe, ma; soprattutto, correvamo a scoprire le comunicazioni confidenziali, “illegali”, che ci arrivavano nascoste nelle pieghe di un vestito, nella copertina di un libro, nei “doppi” più impensati.

Con emozione indicibile seguivamo in quei giorni il corso della guerra, apprendevamo le rovine che si accumulavano nelle nostre città bombardate, salutavamo le prime manifestazioni di resistenza popolare alla folle politica fascista. Il sentire - come sempre di più sentivamo - la grande anima dell'Italia vicina a noi ci risollevava, ci riempiva di fierezza e di speranza. Erano lunghe serate di attesa, nelle tristi camerate della nostra deportazione: lunghi giorni di meditazione, dinanzi al mare d'Italia; un'impaziente preparazione alla lotta aperta, tempestata di presentimenti amari, di preoccupazioni non mai sopite per la sorte del nostro. popolo. Era la nostra vigilia immediata? Si giungerà in tempo? Si potrà evitare che il popolo venga defraudato dei suoi sacrifici e della sua riscossa? Si salverà l'Italia dal tedesco e da nuovi tradimenti?

Intanto non si perdeva il tempo. Ventotene non era soltanto l'isola di confino voluta dal fascismo, ma era anche, come ogni carcere e ogni altra isola di deportazione, un centro di formazione politica dei confinati e di direzione del movimento per la pace e la libertà all'interno del paese. Molti, tra coloro che salparono da Ventotene dopo la caduta del fascismo, lasciarono la vita sulle montagne o nelle segrete nazifasciste. Non per nulla gli antifascisti definivano, con una punta di scherzo e una di profonda serietà, “governo di Ventotene” il gruppo dei confinati. Tra Ventotene e il paese si svolgeva, soprattutto a mano a mano che la lotta si acuiva, un ricambio continuo e proficuo: il lavoro unitario dell'isola si rifletteva sui «fronti nazionali» dell'interno, e viceversa; avveniva uno scambio, un'osmosi incessante fra le esperienze di Ventotene - che non erano meramente teoriche, proprio perché operavano sulla realtà dei rapporti politici e umani tra i suoi “ospiti”, e influivano sulla ben più complessa realtà del paese - e quelle del continente.

Nonostante la sorveglianza, nessuno dei confinati rimaneva all'oscuro degli avvenimenti, e soprattutto delle considerazioni politiche che se ne potevano trarre. Per i comunisti ad esempio, Scoccimarro, Secchia, Li Causi, Roveda, Di Vittorio, io, elaboravamo ogni settimana un rapporto di informazione sulla situazione italiana e lo diffondevamo “a catena”, fino a toccare tutti i compagni dell'isola nel giro di cinque o sei giorni. Ognuno di noi si dava a passeggiare con due compagni, tirandosi appresso le guardie incaricate di pedinarci, le quali però si stancavano presto e finivano per mettersi a passeggiare e a chiacchierare tra di loro. Ciascuno dei due compagni, a sua volta, ripeteva la relazione che aveva udita ad altri due. Non si poteva certo giurare che il primo e l'ultimo contesto dicessero esattamente la stessa cosa; ma un orientamento, una qualche indicazione arrivava in questo modo, di certo, su tutte le questioni più importanti a tutti i compagni del confino».

Bibliografia:

Luigi Longo “Un popolo alla macchia” Editori Riuniti 1965

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Un intellettuale perseguitato dal fascismo: Antonio Gramsci

30 Avril 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

Dalla Sardegna a Torino   

 

La formazione politica e culturale

    

Dall’«Ordine Nuovo» alla fondazione dell’ ”Unità”

     

Deputato, l’arresto, il processo e il carcere

   

Le “Lettere dal carcere"

 

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Bibliografia:

 

- Antonio Gramsci Lettere dal carcere” Volume primo Edizioni L’Unità 1988

 

- Armando Saitta “Dal fascismo alla resistenza La Nuova Italia Firenze 1965

 

- Antonio Gramsci “Lettere dal carcere Giulio Einaudi Torino 1971

 

- Giuseppe Fiori “Processo Gramsci” Edizioni L’Unità 1994

 

- Antonio Gramsci “Socialismo e Fascismo” Giulio Einaudi Torino 1978

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Dalla Sardegna a Torino

Antonio-Gramsci.jpgQuarto dei sette figli di Francesco Gramsci e Giuseppina Marcias, Antonio - Nino, come è chiamato in famiglia - nasce nel paese di Ales, in provincia di Cagliari, il 22 gennaio del 1891. Il padre, che è figlio di un colonnello della gendarmeria borbonica, di origine albanese, fa il procuratore distrettuale a Ghilarza. In questo centro, situato su un altipiano tra il Gennargentu, i monti del Marghine e la catena di Montiferru, Antonio vivrà la sua fanciullezza. Anche la madre è della stessa condizione sociale del padre, borghesia di provincia non agiata ma neppure misera. È una donna colta, sensibilissima, che vive per i figli. Lo sviluppo del bambino è gravemente compromesso da una caduta a quattro anni: la schiena andrà lentamente incurvandosi e invano le cure sanitarie cercano di arrestare la deformazione. Non per questo, però, Antonio cresce gracile o malaticcio: si mischia impetuosamente ai giochi dei coetanei, figli di contadini e pastori, ha un amore per la natura di cui troviamo gli echi più delicati e tenaci nella cattività; nelle sue lettere egli ricorderà anche una sorta di ossessione di schiettezza nei rapporti umani che non escludeva il riserbo («orso» si definirà). Ha una passione inesauribile per i libri. A sette anni si entusiasma di Robinson Crusoé: «Non uscivo di casa mia senza avere in tasca dei chicchi di grano e dei fiammiferi avvolti in pezzettini di tela cerata, per il caso che potessi essere sbattuto in un'isola deserta e abbandonato ai miei soli mezzi».

Nel 1897 il padre, in seguito a una triste vicenda giudiziaria che lo travolge, è sospeso dall'impiego e Antonio, come i fratelli, dovrà presto cercare un lavoro qualsiasi. Poco più che undicenne sbriga faccende («me la passavo a spostare registri che pesavano più di me ... ») in un ufficio, e deve interrompere gli studi appena conseguita la licenza elementare, per due anni, anni inquieti. «Che cosa mi ha salvato - rammenterà - dal diventare completamente un cencio inamidato? L'istinto della ribellione che da bambino era contro i ricchi, perché non potevo andare a studiare, io che avevo preso dieci in tutte le materie alla scuola elementare, mentre andavano il figlio del macellaio, del farmacista, del negoziante in tessuti ... » Poi, grazie all'aiuto della madre e delle sorelle, frequenta il ginnasio a Santu Lussurgiu, vivendo in casa di una contadina. Nel 1908 si iscrive al Liceo classico di Cagliari, alloggiato col fratello più grande, Gennaro, che è impiegato in una fabbrica di ghiaccio e funge da cassiere della locale Camera del Lavoro. Antonio fa il suo garzonato studentesco senza brillare particolarmente; rivela una propensione per le scienze esatte, legge di tutto con accresciuta avidità. Anche se da «triplice e quadruplice provinciale», il movimento culturale a cui s'accosta è quello vociano e salveminiano; segue la «Critica» di Croce e qualche giornale socialista che in casa porta il fratello. Antonio è autonomista, la sua prima ribellione si esprime nel grido: «Al mare i continentali!» Sarà lui invece a traversare il mare, nell'autunno del 1911: ha conseguito la maturità liceale alla fine di un anno di difficoltà e di stenti ed è riuscito a superare un esame supplementare per il conferimento di una borsa di studio di 70 lire mensili che gli apre le porte dell'Università torinese. Si iscrive alla facoltà di lettere, vive in una stanzetta sulle rive della Dora, dove «la nebbia gelata mi distruggeva».

 

La formazione politica e culturale

Torino, dal 1912 al 1922: è il decennio decisivo nella formazione politica e culturale di Antonio Gramsci. La città più industriale e più operaia d'Italia, la città dell'automobile, determina largamente quella formazione facendo del ventenne studente sardo un militante e poi un dirigente socialista. Egli vede nell'anteguerra i primi grandi scioperi dei metallurgici, entra nelle file della gioventù socialista nel 1913, collabora al foglio della sezione locale, «Il grido del popolo», nel 1916 è assunto alla redazione torinese dell'«Avanti!», come cronista e critico teatrale. Le sue note di costume (Sotto la Mole) e le sue cronache teatrali, lo segnalano come una personalità nuova in un ambito che va al di là dei lettori abituali del quotidiano socialista. Ma è il numero unico redatto per conto della federazione giovanile piemontese, dal titolo significativo de “La città futura”, nel febbraio del 1917, a darci il primo segno morale e culturale di questa personalità, espressione della nuova generazione socialista intellettuale.

Fervore idealistico, crocianesimo per ribellione al positivismo della generazione socialista precedente e come modello del saper vivere senza religione rivelata ma con la stessa tensione etica; passione di giustizia sociale unita a un rinnovamento del costume: questi i valori che Gramsci introduce nel suo modo nuovo di fare propaganda tra gli operai non appena, nello stesso anno, passa a dirigere il «Grido del popolo». Il suo primo accostarsi a Marx passa per una riscoperta di Hegel e della filosofia classica tedesca. Essere volontari significa intanto per lui avere fede nella spontaneità che alimenterà l'organizzazione, intrattenere un rapporto con la classe operaia che non sia più di tutela paternalistica ma di diretta solidarietà. «Il proletariato non vuole predicatori di esteriorità, freddi alchimisti di parolette; vuole comprensione, intelligenza e simpatia piena d'amore», scrive in polemica con il riformista Claudio Treves dopo la sommossa operaia che sconvolge la città nell'agosto del 1917, appena divelte le barricate sulle quali sono caduti, invocando la pace e la rivoluzione, cinquanta proletari torinesi.

La rivoluzione è scoppiata ad Oriente e Gramsci saluta l'Ottobre appunto come la vittoria della volontà degli uomini sulle forze meccaniche della storia, come unità di economia e politica, come atto di libertà e di creazione. Di qui l'esaltazione delle masse e dei loro dirigenti «consapevoli» come Lenin, di qui il suo interesse alla forma del «soviet», l'istituto di democrazia che la rivoluzione ha espresso e che Gramsci studia nella sua dimensione «universale». Finita la guerra, il giovane, che non si è laureato, abbandona l'Università per scegliere definitivamente la strada della milizia rivoluzionaria.

Il l° maggio del 1919 fonda con altri tre coetanei, Angelo Tasca, Umberto Terracini e Palmiro Togliatti, a cui si è legato di amicizia negli anni precedenti, una rivista settimanale, l'«Ordine Nuovo», rassegna di cultura socialista. Nel clima incandescente del primo dopoguerra, questa rivista di giovani (Gramsci ha ventotto anni, come Tasca, Togliatti ventisei, Terracini ventiquattro) è, in un primo tempo, soltanto una delle tante in cui si esprime l'ansia di rinnovamento sociale e culturale che accompagna la crisi della società italiana uscita dalla guerra, in un'Europa in cui il mito del bolscevismo è operante sia per le masse operaie che per le fresche coscienze della nuova intellighenzia.

Dopo qualche mese, però, per impulso diretto di Gramsci, l'«Ordine Nuovo» passa dallo stadio di rassegna culturale a quello di palestra, di strumento di discussione e di ricerca per una grande idea-forza, quella dei Consigli di fabbrica. È l'idea che gli «ordinovisti» ricavano da tutta l'esperienza russa ed europea dei Consigli, e di consimilari organismi operai autonomi, e trasferiscono nel vivo del «laboratorio sociale» dei grandi stabilimenti metallurgici torinesi. Si tengono riunioni con i lavoratori nella stanza in cui ha sede la rivista: Gramsci discute con loro sulla possibile trasformazione della Commissione interna in un sistema di commissari di reparto, eletti da tutta la maestranza che costituiranno il Consiglio di fabbrica. «L'orso» non è diventato un tribuno, non lo diventerà mai, non ha nulla del cliché tradizionale del capo socialista: preferisce alle grandi assemblee e ai comizi questi contatti personali e in essi è meticoloso, curioso di ogni particolare, tanto generoso quanto è ironico, addirittura sarcastico, con i suoi collaboratori da cui esige sempre la massima modestia e precisione.

Il movimento dei Consigli di fabbrica attecchisce a Torino, si realizza in decine di stabilimenti, dalla Fiat alla Lancia. Nel giro di pochi mesi, verso l'autunno del 1919, più di centocinquantamila operai sono organizzati nel Consigli, nonostante lo scetticismo della federazione sindacale metallurgica di orientamento riformista. Allo sviluppo pratico corrisponde un'elaborazione teorica di Gramsci, accentrata su una particolare sottolineatura della lezione leninista. Egli opera intensamente perché sorgano «nuove creazioni rivoluzionarie», che affondino le loro radici nel momento della produzione, che partano dal luogo di lavoro e formino istituti proletari, primi pilastri di una macchina statale nuova, dello Stato operaio. Il lavoratore è da lui considerato prima come produttore che come salariato.  

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"VENTO DEL NORD"

30 Avril 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

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Di seguito un articolo, firmato da Pietro Nenni, sull’AVANTI! - Quotidiano del Partito Socialista, di venerdì 27 aprile 1945.

“Vento del Nord.

Vento di liberazione contro il nemico di fuori e contro quelli di dentro”.

 

VENTO DEL NORD

Quando parlammo per la prima volta del vento del Nord, i pavidi, che si trovano sempre al di qua del loro tempo, alzarono la testa un poco sgomenti. Che voleva dire? Era un annuncio di guerra civile? Era un incitamento per una notte di San Bartolomeo? Era un appello al bolscevismo?

Era semplicemente un atto di fiducia nelle popolazioni che per essere state più lungamente sotto la dominazione nazifascista, dovevano essere all’avanguardia nella riscossa. Era il riconoscimento delle virtù civiche del nostro popolo, tanto più pronte ad esplodere quanto più lunga ed ermetica sia stata la compressione. Era anche un implicito omaggio alle forze organizzate del lavoro ed alla loro disciplina rivoluzionaria.

Ed ecco il vento del Nord soffia sulla penisola, solleva i cuori, colloca l’Italia in una posizione di avanguardia.

Nelle ultime 48 ore le notizie dell’insurrezione e quelle della guerra si sono succedute con un ritmo vertiginoso. La guerra da Mantova dilagava verso Brescia e Verona, raggiunte e superate nel pomeriggio di ieri. L’insurrezione guadagnava Milano e da Torino si propagava a Genova.

Nell’ora in cui scriviamo tutta l’Alta Italia al di qua dell’Adige, è insorta dietro la guida dei partigiani. A Milano a Torino a Genova i Comitati di Liberazione hanno assunto il potere imponendo la resa dei tedeschi e incalzando le brigate nere fasciste in vittoriosi combattimenti di strada.

Sappiamo il prezzo della riscossa. A Bologna ha nome Giuseppe Bentivogli. Quali nomi porterà la testimonianza del sangue a Torino e Milano? La mano ci trema nel dare un dettaglio dell’insurrezione milanese. Ieri mattina alle cinque, secondo una segnalazione radiotelegrafica, il posto di lotta e di comando di Alessandro Pertini e dell’Esecutivo del nostro partito era circondato dai tedeschi e in grave pericolo. Nessuna notizia è più giunta in serata per dissipare la nostra inquietudine o per confermarla. Ma sappiamo, ahimè!, che ogni battaglia ha le sue vittime e verso di esse, oscure od illustri, sale la nostra riconoscenza.

Perché gli insorti del Nord hanno veramente, nelle ultime quarantotto ore, salvato l’Italia. Mentre a San Francisco, assente il nostro paese, si affrontano i problemi della pace, essi hanno fatto dell’ottima politica estera, facendo della buona politica interna, mostrando cioè che l’Italia antifascista e democratica non è il vaniloquio di pochi illusi o di pochi credenti, ma una forza reale con alla sua base la volontà l’energia il coraggio del popolo.

In verità il vento del Nord annuncia altre mete ancora oltre l’insurrezione nazionale contro i nazifascisti. Gli uomini che per diciotto mesi hanno cospirato nelle città, che per due lunghi inverni hanno dormito sulle montagne stringendo fra le mani un fucile, che escono dalle prigioni o tornano dai campi di concentramento, questi uomini reclamano, e all’occorrenza sono pronti ad imporre, non una rivoluzione di parole ma di cose. Per essi il culto della libertà non è una dilettantesca esasperazione dell’«io» demiurgico, ma sentimento di giustizia e di eguaglianza per sé e per tutti. Alla democrazia essi tendono non attraverso il diritto formale di vita, ma attraverso il diritto sostanziale dell’autogoverno e del controllo popolare. Non si appagheranno quindi di promesse, né di mezze misure. La rapidità stessa e l’implacabile rigore delle loro rappresaglie sono di per sé sole un indice della loro maturità, perché se la salvezza nel paese è nella riconciliazione dei suoi figli, alla riconciliazione si va non attraverso l’indulgenza e la clemenza, ma l’implacabile severità contro i responsabili della dittatura fascista e della guerra.

In codesta primavera della patria che consente tutte le speranze, c’è per noi un solo punto oscuro; si tratta di sapere se gli uomini che qui a Roma scotevano sgomenti il capo all’annuncio del vento del Nord, che vedevano sorgere dal passato l’ombra di Marat o quella di Lenin se qualcuno osava parlare di comitato di salute pubblica, che trovavano empio e demagogico il nostro grido: «tutto il potere ai Comitati di Liberazione», si tratta di sapere se questi uomini intenderanno o no la voce del Nord e sapranno adeguarsi ai tempi. Ad essi noi ripetiamo quello che ieri, da queste stesse colonne, dicevamo agli Alleati – Abbiate fiducia nel popolo, secondatene le aspirazioni, scuotete dalle ossa il torpore che vi stagna, rompete col passato, non fatevi trascinare, dirigete.

A queste condizioni oggi è finalmente possibile risollevare la nazione a dignità di vita nuova, nella concordia del più gran numero di cittadini.

Vento del Nord.

Vento di liberazione contro il nemico di fuori e contro quelli di dentro.

                                                                                    Pietro Nenni

1945 27 aprile Avanti Vento del Nord p


 


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