Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

la resistenza delle donne

Le donne e le conquiste dal dopoguerra ad oggi

4 Mars 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #La Resistenza delle donne

La Costituzione repubblicana aveva stabilito l’uguaglianza formale fra i sessi, ma la conquista dei diritti civili si intrecciava da parte delle donne con la percezione, che divenne via via più nitida negli anni Sessanta e Settanta, di aver raggiunto diritti non completi, di avere di fronte consuetudini sociali e culturali che ancora non riconoscevano loro una reale parità.

Dal dopoguerra ad oggi, la condizione sociale e giuridica delle donne si è lentamente ma radicalmente modificata.

Ecco alcune tappe fondamentali di tale cammino:

1948

Entra in vigore la Costituzione. Gli articoli 3, 29, 31,37,48 e 51 sanciscono la parità tra uomini e donne.

Angela Maria Cingolani Guidi è la prima donna sottosegretario (Industria e commercio con delega all'artigianato).

1950

Varata la legge 26 agosto 1950, n. 860, «Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri».

1956

Le donne possono accedere alle giurie popolari col limite massimo di tre su sei (la norma rimarrà in vigore fino al 1978) e ai tribunali minorili.

Le funzioni riconosciute alle donne sono ancora quelle legate alla figura materna. Il loro intervento viene giudicato opportuno in quei casi in cui i problemi vadano risolti, «più che con l'applicazione di fredde formule giuridiche con il sentimento e la conoscenza del fanciullo che è proprio della donna».

1958

La legge Merlin chiude definitivamente le case di tolleranza: legge 20 febbraio 1958, n. 75, «Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui».

1959

Viene istituito il Corpo di polizia femminile.

1963

Il matrimonio non è più ammesso come causa di licenziamento: legge 9 gennaio 1963, n. 7, «Divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio e modifiche della legge 26 agosto 1950, n. 860».

Marisa Cinciari Rodano è eletta vicepresidente della Camera. Le donne sono ammesse alla magistratura: legge 9 febbraio 1963, n. 66, «Ammissione della donna ai pubblici uffici ed alle professioni».

Un ulteriore passo avanti nell'effettiva attuazione dell'art.51 della Costituzione: le donne possono accedere a tutti i pubblici uffici senza distinzione di carriere né limitazioni di grado.

1968

L'adulterio femminile non è più considerato reato.

L'art. 559 del Codice penale recitava: «La moglie adultera è punita con la reclusione fino ad un anno. Con la stessa pena è punito il correo». Per il marito non esisteva nulla del genere: la disparità di trattamento non rispettava le norme fondamentali della Costituzione. Con due senten­ze del 19 dicembre 1968, la Corte costituzionale abroga l'articolo sul diverso trattamento dell'adulterio maschile e femminile e quello analogo del Codice penale.

1970

Viene approvata la legge sul divorzio: legge  dicembre 1970, n. 898, «Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio».

L'introduzione del divorzio in Italia era stata collegata alla questione del voto alle donne. In sede costituente, il PCI, per una scelta di fondo sfociata nell'approvazione dell'art. 7, non aveva sollevato la questione. La Commissione dei 75 avrebbe voluto includere l'indissolubilità del matrimonio nel testo della carta costituzionale, ma, dopo un'aspra battaglia in aula, la parola «indissolubile» non era stata inserita, bocciata con un esiguo margine di voti.

Nel 1965, il socialista Loris Fortuna avanzò la prima proposta di legge, sulle orme del collega Renato Sansone, che negli anni Cinquanta aveva proposto a più riprese e senza successo una legge di «piccolo divorzio», per i casi estremi di ergastolani, malati di mente, scomparsi, divorziati all'estero.

Dopo l'approvazione della nuova normativa, nel 1974 sarebbe stato indetto un referendum abrogativo, ma in seguito alla vittoria del fronte del NO col 59% dei voti la legge sarebbe rimasta in vigore.

1971

La Corte costituzionale cancella l'articolo del Codice civile che punisce la propaganda di anticoncezionali.

Dall'inizio degli anni Sessanta la pillola contraccettiva era in commercio in molti Paesi europei, ma nel 1968 la Chiesa condannò aspramente la contraccezione. Nel 1969 la pillola cominciò, tuttavia, a essere venduta anche in Italia, come farmaco per le disfunzioni del ciclo mestruale. Nel 1971 la Corte costituzionale, dopo un'aspra battaglia, abrogò l'art. 535 del Codice penale che vietava la propaganda di qualsiasi mezzo contraccettivo e puniva i trasgressori col carcere.

Viene approvata la legge sulle lavoratrici madri: legge 30 dicembre 1971, n. 1204, «Tutela delle lavoratrici madri».

Sono istituiti gli asili nido comunali: legge 6 dicembre 1971, n. 1044, «Piano quinquennale per l'istituzione di asili-nido comunali con il concorso dello Stato».

1975

Riforma del diritto di famiglia: legge 19 maggio 1975, n. 151, «Riforma del diritto di famiglia».

Fino a questa riforma, il peso dell'educazione dei figli gravava, di fatto, sulle madri, ma tale impegno non aveva un adeguato riconoscimento giuridico. La patria potestà spettava ad entrambi i genitori, ma il suo esercizio toccava al padre, secondo l'art. 316 del Codice civile.

Col nuovo diritto di famiglia, la legge riconosce parità giuridica tra i coniugi che hanno uguali diritti e responsabilità e attribuisce ad entrambi la patria potestà.

1976

Per la prima volta una donna, Tina Anselmi, viene nominata ministro (Lavoro e previdenza sociale).

1977

È riconosciuta la parità di trattamento tra donne e uomini nel campo del lavoro: legge 9 dicembre 1977 n. 903, «Parità fra uomini e donne in materia di lavoro».

1978

Viene approvata la legge sull'aborto.

Nel 1974 i radicali avevano iniziato una campagna per un referendum al fine di abrogare le norme che penalizzavano l'aborto. Gli articoli dal 546 al 551 del Codice penale stabilivano, infatti, che la donna che si procurava un aborto dovesse essere punita con la reclusione da uno a quattro anni (ma, se l'aborto era effettuato per "salvare l'onore", era prevista una riduzione, che andava da un terzo alla metà della pena).

Dopo l'approvazione della legge, un referendum abrogativo del maggio del 1981 non avrebbe avuto successo.

1979

Nilde Jotti è la prima donna presidente della Camera.

1981

Il motivo d'onore non è più attenuante nell'omicidio del coniuge infedele.

1983

La Corte costituzionale stabilisce la parità tra padri e madri circa i congedi dal lavoro per accudire i figli.

1984

Presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri è costituita la Commissione nazionale per la realizzazione delle pari opportunità, presieduta da Elena Marinucci.

1986

La commissione nazionale per la parità uomo e donna elabora il «Programma azioni positive»: aziende e sindacati devono tutelare accesso, carriera e retribuzioni femminili.

1989

Le donne sono ammesse alla magistratura militare.

1991

Legge 10 aprile 1991, n. 125, «Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro».

La legge dovrebbe essere in grado di intervenire nel rimuovere le discriminazioni e valorizzare la presenza e il lavoro delle donne nella società. Purtroppo, è ancora poco applicata.

1992

Legge, 25 febbraio 1992, n. 215, «Azioni positive per l'imprenditorialità femminile».

La legge sull'imprenditoria femminile favorisce la nascita di imprese composte per il 60% da donne, società di capitali gestiti per almeno 2/3 da donne e imprese individuali.

1993

Con la legge 25 marzo 1993, n. 81 per la prima volta vengono introdotte le "quote rosa" in merito alle elezioni dei rappresentanti degli enti locali.

Si stabilisce che per le elezioni regionali e comunali, i candidati dello stesso sesso non possano essere inseriti nelle liste in misura superiore ai due terzi: ciò riserva, di fatto, un terzo dei posti disponibili al sesso sottorappresentato (cioè le donne). Per le elezioni nazionali, viene introdotta l'alternativa obbligatoria di uomini e donne per il recupero proporzionale ai fini della designazione alla Camera dei deputati.

Nel 1995 questa serie di interventi legislativi è stata annullata con la sentenza n. 422 della Corte costituzionale, avendo il giudice stabilito che, in materia elettorale, debba trovare applicazione solo il principio di uguaglianza formale e che qualsiasi disposizione tendente ad introdurre riferimenti al sesso dei rappresentanti, anche se formulata in modo neutro, sia in contrasto con tale principio.

1996

La legge 15 febbraio 1996, n. 66, «Norme contro la violenza sessuale», punisce lo stupro come delitto contro la persona e non contro la morale come in precedenza.

Il governo nomina un ministro per le pari opportunità, Anna Finocchiaro.

2000

Legge 8 marzo 2000, n. 53, «Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città».

Sia il padre che la madre possono chiedere l'aspettativa, da sei a dieci mesi, entro gli otto anni di vita del bambino. La cura dei figli smette di essere, dal punto di vista legislativo, esclusiva prerogativa delle madri.

2003

Legge costituzionale 30 maggio 2003, n. l, «Modifica dell'art. 51 della Costituzione».

L’art. 51 della Costituzione («Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizione di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge») viene modificato, con l'aggiunta: «A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini».

2004

La legge sulle elezioni dei membri del Parlamento europeo introduce una norma in materia di "pari opportunità": legge 8 aprile 2004, n. 90, «Norme in materia di elezioni dei membri del Parlamento europeo e altre disposizioni inerenti ad elezioni da svolgersi nell'anno 2004».

L’art. 3 prescrive che le liste circoscrizionali, aventi un medesimo contrassegno, debbano essere formate in modo che nessuno dei due sessi possa essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati.

2019

La legge n.69 prevede, a fronte di notizie di reato relative a delitti di violenza domestica e di genere: che la polizia giudiziaria, acquisita la notizia di reato, riferisca immediatamente al pubblico ministero, anche in forma orale; alla comunicazione orale seguirà senza ritardo quella scritta.

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L'emancipazione femminile: il lungo cammino verso il voto delle donne

3 Mars 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #La Resistenza delle donne

La decisione di ammettere le donne al voto venne presa formalmente a poco più di due mesi dalla conclusione del conflitto, ma essa era maturata fin dal 1944. Soprattutto i leader dei più importanti partiti di massa, DC e PCI, erano infatti ormai convinti, nonostante le resistenze della base, della necessità di un provvedimento che avrebbe incluso nella dialettica tra cittadini e forze politiche una componente essenziale alla vita del Paese e avrebbe inevitabilmente modificato contenuti e metodi dell’organizzazione del consenso.

Alcune formazioni di punta del movimento femminile fecero sentire la loro voce, oltre che per sollecitare le cose, per ribadire che un simile risultato non si configurava nei termini di una pura e semplice concessione. Nell’ottobre 1944 l’UDI, insieme a due associazioni che avevano alle spalle una storia gloriosa, e cioè l’Alleanza femminile pro suffragio e la FILDIS (Federazione italiana laureate e diplomate istituti superiori), inviò un promemoria al capo del governo Bonomi, affinché l’estensione alle donne del voto e dell’eleggibilità fosse tenuta presente nell’elaborazione delle leggi elettorali da introdurre per le future consultazioni. Nello stesso mese, più esattamente il 25, sempre l’UDI indisse a Roma un incontro con le esponenti di DC, PRI, PCI, PSIUP, Partito d'Azione, PLI, Sinistra cristiana, Democrazia del lavoro e delle due associazioni già nominate. Dalla riunione nacque un Comitato pro voto, che il 27 sottopose un promemoria al CLN nazionale. Il 15 novembre un gruppo di donne presentò una mozione al CLN e nello stesso mese il Comitato pro voto si fece promotore di altre iniziative, come la stampa di un opuscolo e la stesura di una petizione, diffusa dal Comitato di iniziativa dell’UDI, per raccogliere il maggior numero possibile di firme.

Parallelamente venne indetta una settimana nazionale di mobilitazione, che in realtà non ebbe luogo in seguito alle decisioni adottate in seno al governo. In un’Italia ancora divisa in due, con il Centro-Sud liberato e la Repubblica di Salò nel Nord occupato dai tedeschi, a Roma su richiesta di De Gasperi e Togliatti la questione venne infatti esaminata dal Consiglio dei ministri il 24 gennaio 1945. Il 30 si ebbe l’approvazione, ratificata con il decreto luogotenenziale n. 23, datato febbraio 1945, un breve testo il quale stabiliva all’art. 2 che, vista l’imminente formazione nei Comuni delle liste elettorali, nelle suddette si iscrivessero in liste separate le elettrici.

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Decreto luogotenenziale febbraio 1945, n. 23

DECRETO LEGISLATIVO LUOGOTENENZIALE febbraio 1945

Estensione alle donne del diritto di voto

UMBERTO DI SAVOIA

PRINCIPE DI PIEMONTE

LUOGOTENENTE GENERALE DEL REGNO

 In virtù dell'autorità a Noi delegata;

Visto il decreto legislativo Luogotenenziale 28 settembre 1944, n. 247, relativo alla compilazione delle liste elettorali;

Visto il decreto-legge Luogotenenziale 23 giugno 1914, n. 151;

Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri;

 Sulla proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, Primo Ministro Segretario di Stato e Ministro per l'interno, di concerto con il Ministro per la grazia e giustizia;

Abbiamo sanzionato e promulgato quanto segue:

 Art. 1

Il diritto di voto è esteso alle donne che si trovino nelle condizioni previste dagli articoli 1 e 2 del testo unico della legge elettorale politica, approvato con R. decreto 2 settembre 1919 n. 1495.

 Art. 2

È ordinata la compilazione delle liste elettorali femminili in tutti i Comuni. Per la compilazione di tali liste, che saranno tenute distinte da quelle maschili, si applicano le disposizioni del decreto legislativo Luogotenenziale 28 settembre 1944 n. 247, e le relative norme di attuazione approvate con decreto del Ministro per l'interno in data 24 ottobre 1944.

 Art. 3

Oltre quanto stabilito dall'art. 2 del decreto del Ministro per l'interno in data 24 ottobre 1944, non possono essere iscritte nelle liste elettorali le donne indicate nell'art. 354 del Regolamento per l'esecuzione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con R. decreto 6 maggio 1940 n. 635.

 Art. 4

Il presente decreto entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del Regno.

Ordiniamo, a chiunque spetti, di osservare il presente decreto e di farlo osservare come legge dello Stato.

 Data a Roma, addì febbraio 1945

UMBERTO DI SAVOIA

BONOMI - TUPINI


Paura del voto femminile

 Alla vigilia delle prime elezioni in cui anche le donne vennero chiamate ad esprimere il proprio parere, nes­suna forza politica poté ignorare quale enorme importanza avrebbe assunto l’elettorato femminile, che, con 14.610.845 persone che acquisirono il diritto a recarsi per la prima volta in una cabina elettorale, costituiva circa il 53% del totale.

De Gasperi e Togliatti erano fondamentalmente concordi sull’estensione del suffragio, ma dovettero scontrarsi con la diffidenza che il provvedimento suscitò, per motivi diversi, all’interno dei loro partiti.

Nel PCI i dubbi circa i risultati delle urne erano legati al timore che le donne si lasciassero troppo influenzare dai loro parroci e dalla Chiesa.

Le perplessità democristiane erano invece legate alla possibilità che, con la nuova partecipazione alla vita politica, esse si allontanassero progressivamente dai valori tradizionali, incrinando così l’unità della famiglia.

Per Nenni e per i socialisti il voto femminile era sicuramente un fatto positivo, ma potenzialmente pericoloso. Il Partito Liberale, il Partito Repubblicano e il Partito d'Azione si mostrarono a volte indifferenti, a volte diffidenti verso il voto alle donne, per timore che risultasse un vantaggio per i partiti di massa.

In più casi venne addirittura rinfacciato alle italiane di essere arrivate al diritto di voto senza aver fatto gran che per ottenerlo, di non aver avuto un movimento suffragista veramente combattivo e consapevole, come ad esempio quello inglese, e molti ribadirono che le donne erano assolutamente impreparate a compiere il loro dovere elettorale

 2 giugno 1946 file ai seggi     


Alle urne

In Italia le donne cominciarono ad esercitare il diritto di voto a partire dalle elezioni amministrative che si tennero in tutta la Penisola fra marzo e aprile 1946. Il 2 giugno dello stesso anno si recarono di nuovo alle urne per il referendum monarchia-repubblica e l’elezione dell’Assemblea Costituente.

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"IN ITALIA SI VOTA

CASTELGANDOLFO - Per fa prima volta dopo ventiquattro anni si sono avute libere elezioni in Italia. Tanto nelle città come nei piccoli centri tutti hanno votato in un ambiente assolutamente calmo. In molti casi le donne, specialmente le contadine, sono state le prime a recarsi alle urne". L'Europeo, 25 marzo 1946


Il 2 giugno 1946, su 556 membri totali vennero elette 21 donne all'Assemblea Costituente.

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La DC, che aveva ottenuto il 35,2% dei voti e 207 costituenti, aveva fra i suoi rappresentanti 9 donne.

Il PSIUP aveva il 20,7%, 115 seggi e 2 donne. Il PCI ottenne il 19% dei consensi, 104 costituenti e fra di essi 9 donne.

40 seggi andarono a vari gruppi moderati, 30 seggi al Partito dell’Uomo Qualunque, di cui uno assegnato a una donna. 23 seggi furono assegnati ai repubblicani e 7 al Partito d'Azione: fra le loro fila nessuna donna.

Le ventuno costituenti appartenevano prevalentemente alla classe media. Tredici erano laureate, soprattutto in materie umanistiche; c'erano poi un’impiegata e una casalinga; due delle comuniste erano state operaie. Avevano nel complesso una buona cultura e provenivano, per la maggior parte dal Centro-Nord del Paese, dove lo sviluppo economico era stato più precoce e dove si era vissuta la Resistenza.


 I lavori dell’Assemblea Costituente 

L’Assemblea Costituente si riunì per la prima volta nel Palazzo di Montecitorio il 25 giugno 1946. Nel corso di quella seduta venne eletto presidente dell’Assemblea Giuseppe Saragat, in seguito dimissionario e sostituito, l’8 febbraio 1947, da Umberto Terracini.

Il 28 giugno 1946 l’Assemblea procedette all’elezione del Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, il quale avrebbe esercitato le sue funzioni fino a quando non fosse stato nominato il Capo dello Stato a norma della Costituzione che sarebbe stata approvata dall’Assemblea.

Ai fini di un più efficiente svolgimento del proprio lavoro, l’Assemblea deliberò la nomina di una Commissione per la Costituzione, composta di 75 membri scelti dal presidente sulla base delle designazioni dei vari gruppi parlamentari in modo da garantire la partecipazione della totalità delle forze politiche, con l’incarico di predisporre un progetto di Costituzione da sottoporre al plenum dell’Assemblea. La Commissione, nominata il 19 luglio 1946 e presieduta da Meuccio Ruini, procedette nei suoi lavori articolandosi in tre sottocommissioni: la prima sui diritti e doveri dei cittadini; la seconda sull’ordinamento costituzionale della Repubblica (divisa a sua volta in due sezioni, per il potere esecutivo e il potere giudiziario, più un comitato di dieci deputati per la redazione di un progetto articolato sull’ordinamento regionale); la terza sui diritti e doveri economico-sociali.

Le donne fra i 75 membri della Commissione furono:

Maria Federici, per la DC, Lina Merlin, per il PSl, Teresa Noce e Nilde lotti, per il PCI; il 6 febbraio 1947 si aggiunse Angela Gotelli (DC).

Una volta terminato il lavoro delle sottocommissioni, la Commissione dei 75 affidò l’incarico di redigere un progetto organico e unitario ad un comitato di redazione, composto di 18 membri. Il comitato approntò il progetto di Costituzione e lo sottopose alla Commissione per la Costituzione, che approvò a sua volta il testo con lievi modifiche e lo presentò il 31 gennaio 1947 all’Assemblea Costituente. Il comitato di redazione ebbe anche l’incarico di rappresentare la Commissione dei 75 durante la discussione presso l’Assemblea plenaria, che si svolse dal 4 marzo al 20 dicembre 1947; il testo definitivo venne presentato all’Assemblea che lo votò il 22 dicembre 1947. La Costituzione venne promulgata il 27 dicembre dal Capo provvisorio dello Stato ed entrò in vigore il gennaio 1948.


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La parità tra uomini e donne è affermata in particola­re negli articoli 3, 29, 31, 37, 48 e 51 della Costituzione italiana.

Art. 3

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Art. 29

La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.

Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.

Art. 31

La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose.

Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo.

Art. 37

La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.

La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato.

La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione.

Art. 48

Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età.

Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.

Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge.

Art. 51

Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.

La legge può, per l’ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica.

Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario alloro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro. 

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La Resistenza delle donne 1943-1945

3 Mars 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #La Resistenza delle donne

Il contributo del genio femminile alla Resistenza

La gratuità del servizio alla Resistenza probabilmente allora non era così evidente, ma risulta essere un messaggio ancora oggi estremamente attuale. Offrire un contributo al bene comune (allora era la lotta per la libertà) senza avere la certezza e l'aspettativa di poter trarre nessun altro vantaggio che la possibilità di offrire una società più giusta: un atteggiamento che allora scattò in modo quasi automatico in molti, un atteggiamento che diventa provocazione per il nostro tempo, soprattutto di fronte a un deficit di partecipazione e di voglia di occuparsi delle cose di tutti. Un'altra piccola annotazione che potrebbe ben descrivere il contributo del genio femminile alla Resistenza. Le donne, allora come oggi, sanno portare concretezza e attenzione ai piccoli particolari che sono decisivi per la buona riuscita di qualsiasi azione. La concretezza appartiene soprattutto alle donne ed è merce rara in un universo maschile che rischia di trascurare le piccole cose solo apparentemente inutili.

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Il riconoscimento dell’impegno

Dopo la Liberazione la qualifica di partigiano fu riconosciuta a chi aveva portato le armi per almeno tre mesi e aveva compiuto almeno tre azioni di guerra o sabotaggio (o almeno aveva fatto tre mesi di carcere o sei mesi di lavoro nelle strutture logistiche). Poste così le cose, era chiaro che un grande numero di donne resistenti veniva messo fuori gioco e che - salvo casi eccezionali - per loro si sarebbe potuto parlare solo di «contributo» dato alla Resistenza, un termine che già contiene in sé un senso di inferiorità e di dipendenza. Come hanno mostrato ormai diverse studiose, esiste un forte divario tra il numero di donne che a vario titolo si opposero al nazifascismo e il numero di quante si videro effettivamente riconosciuto il lavoro svolto. Ciò non toglie che a livello nazionale furono riconosciute a quel tempo circa 35.000 partigiane e 70.000 appartenenti ai Gruppi di Difesa della Donna, una cifra piuttosto consistente. Di loro, 4653 furono arrestate, torturate, condannate; 2750 deportate e 623 fucilate o cadute in combattimento. Alle donne furono assegnate 19 medaglie d'oro al valore militare, di cui 15 alla memoria.

La memoria della Resistenza al femminile è stata poi limitata dal silenzio di tante protagoniste di quegli anni duri. Un silenzio che per molte donne è stato una scelta consapevole. Complessivamente parlando, però, il silenzio delle donne è stato quello più «assordante», per vari motivi: l'abitudine alla sottomissione all'uomo e al capo famiglia, il timore di passare per una «poco di buono» e per una donna rotta a chissà quali avventure, o al contrario l'idea di aver fatto solo il proprio dovere o comunque nulla di eccezionale in un tempo come quello della guerra.

Le donne furono presenti in tutti gli ambiti della Resistenza organizzata: scontro armato, informazione, approvvigionamento e collegamento, stampa e propaganda, trasporto di armi e munizioni, organizzazione sanitaria, organizzazione di scioperi e manifestazioni per il pane e contro il carovita e il mercato nero.

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La «staffetta» era qualcosa di più che una semplice «postina» come verrebbe da pensare: era colei che portava ordini e comunicazioni, ma anche armi e munizioni, che accompagnava uomini in fuga verso la salvezza e così via. Il rischio era sempre elevato e bisognava dimostrare notevole sangue freddo e tanta fortuna quando ci si imbatteva in un qualsivoglia posto di blocco: tanto più che bisognava mettere in conto non solo di rischiare la vita, ma di diventare oggetto di sgradite e pesanti attenzioni maschili.

Inoltre occorre considerare che tutte le attività informative svolte dalle ragazze e dalle donne.

La capacità di iniziativa individuale

Il punto di partenza cronologico è naturalmente l'8 settembre 1943, anche se non si possono dimenticare tanti precedenti, come l'antifascismo dimostrato nel corso del Ventennio o come le proteste pubbliche di madri e mogli per il graduale peggioramento delle condizioni di vita tra 1942 e 1943. Proprio al momento dell'annuncio dell'armistizio e di fronte al disfacimento delle nostre forze armate e alla cattura, quasi senza colpo ferire, di centinaia di migliaia di nostri soldati, le donne seppero reagire con inattesa decisione e inventiva.

Il maternage di massa - ovvero la sensibilità e la capacità di esplicare funzioni materne e protettive verso i nostri soldati in quei giorni di settembre - spinse un'infinità di donne di ogni età e di ogni regione italiana a considerare come propri figli quanti passavano davanti alle loro abitazioni, chiedendo un pezzo di pane, un abito borghese, un pagliericcio per riposare. Capacità di iniziativa individuale e fantasia segnarono i comportamenti di molte donne.

Nella pianura emiliana fiorirono le cosiddette «case di latitanza», che punteggiarono tutto il territorio. Per esempio nel Reggiano se ne trovavano a Campegine, Gattatico, Montecchio, S. Ilario d'Enza, Poviglio e così via, fino alla montagna. Erano generalmente poveri casolari sperduti in mezzo alle campagne: alcune nascondevano temporaneamente partigiani, disertori, alleati, ex prigionieri, mentre altre erano adibite allo smistamento dei giovani dalla pianura alla montagna e dalla montagna alla pianura. Le donne di queste case erano disposte a collaborare con la Resistenza e quindi pronte a preparare cibi e coperte per quanti si rivolgevano a loro in un qualsiasi momento del giorno e della notte. Erano le donne che curavano i feriti e li sorreggevano nei primi passi di convalescenza. Erano le donne che sostenevano gli ospiti nei momenti di sconforto, offrendo loro parole di speranza e d'incoraggiamento ed erano sempre loro che sostenevano la curiosità dei piccoli che sapevano, ma non dovevano sapere, inventando frasi di circostanza. Con coraggio nascondevano armi nei rifugi, nei fienili o nei doppi fondi dei mobili e celavano i loro uomini di fronte alle insistenze dei fascisti e dei tedeschi, trovando sempre le scuse più credibili per proteggerli dall'arresto.

In questo caso, se scoperte, al rischio dell'arresto o della fucilazione si aggiungeva quello di veder immediatamente bruciata la propria abitazione:

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fu quel che capitò a Genoeffa Cocconi Cervi, la moglie di Alcide e la madre dei sette celebri fratelli. Genoeffa morì di crepacuore dopo la fucilazione dei figli e dopo un nuovo incendio della sua casa nel novembre 1944.

L’assistenza offerta a tutte le categorie di perseguitati comportava dunque notevoli rischi e non può certo essere intesa come una sorta di scelta più tranquilla e meno coraggiosa rispetto alla lotta armata.

Una forma diversa di solidarietà fu manifestata dalle donne che si attivarono per portare soccorso agli antifascisti incarcerati.

Donne coraggiose si prodigarono negli ospedali per curare i feriti - veri o presunti che fossero - e per celare, magari sotto improbabili ma terribili diagnosi mediche, ebrei e ricercati. Furono in primo piano, naturalmente, molte suore, come quelle dell'ospedale Niguarda di Milano o della Poliambulanza di Brescia. Ricordiamo il caso di Maria Peron, lei stessa infermiera a Niguarda: proprio in quanto coinvolta nelle operazioni di salvataggio di ebrei e partigiani all'interno delle strutture dell'ospedale, ella rischiò l'arresto e dovette lasciare Milano. Si recò presso le formazioni partigiane della Val Grande e divenne ben presto leggendaria per la sua capacità di organizzare i servizi di cura e di reperimento dei medicinali, in una zona di guerra soggetta a numerosi rastrellamenti. Maria esercitò di fatto l'attività del chirurgo e salvò più di una vita, conquistando in tal modo una sorta di parità professionale e diventando popolare anche presso i valligiani.

A Torino donne, appartenenti ai Gruppi di Difesa della Donna, si diedero un compito ancora più delicato e rischioso: «quando si veniva a sapere che c'erano dei caduti in città, certe donne andavano a togliere la corda agli impiccati, li lavavano, li componevano. Altre pensavano a portare i garofani rossi al cimitero. Le tombe dei partigiani erano sempre tutte infiorate.

I Gruppi di Difesa della Donna

I Gruppi di Difesa della Donna ebbero un importante ruolo: non solo sostenere la lotta partigiana, ma anche sensibilizzare le donne, far loro maturare una coscienza politica e prepararle in tal modo alle responsabilità del dopoguerra. Nati a Milano nel novembre '43 per iniziativa del Partito Comunista italiano, del Partito Socialista di Unità Proletaria e del Partito d’Azione, questi gruppi si diffusero dal 1944 in tutta Italia e vennero riconosciuti ufficialmente dal Comitato di Liberazione Alta Italia. Tra queste donne agirono figure celebri come Camilla Ravera, Lina Merlin e Ada Gobetti. Nell'aprile del '44, nacque il giornale «Noi Donne»

1945-gen-NOI-DONNE.JPG

che insisteva sull'importanza e la specificità del ruolo delle donne nella difesa delle case e nella lotta quotidiana contro il carovita, invitando appunto a prepararsi «ad amministrare e governare». Il loro programma era semplice, ma di notevole importanza:

«Le donne italiane vogliono avere il diritto al lavoro, ma che non sia permesso sottoporla a sforzi che pregiudicano la loro salute e quella dei loro figli. Esse chiedono:

- la proibizione del lavoro a catena, del lavoro notturno, dell'impiego delle donne nelle lavorazioni nocive;

- essere pagate con una salario uguale per un lavoro uguale a quello degli uomini;

- delle vacanze sufficienti e l'assistenza nel periodo che precede e che segue il parto;

- la possibilità di allevare i propri bimbi, di vederli imparare una professione, di saperli sicuri del proprio avvenire; di partecipare all'istruzione professionale e non essere adibite nelle fabbriche e negli uffici soltanto a lavori meno qualificati;

- la possibilità di accedere a qualsiasi impiego, all'insegnamento in qualsiasi scuola, unico criterio di scelta: il merito;

- di partecipare alla vita sociale, nei sindacati, nelle cooperative, nei corpi elettivi locali e nazionali.

Non mancava, ovviamente, la richiesta del pieno diritto di voto politico e amministrativo per tutte le donne.

In questo contesto, in molte località italiane, si ebbero ripetute mobilitazioni al fine di raccogliere viveri, indumenti, sigarette, medicinali per aiutare concretamente le formazioni partigiane ad affrontare l'inverno del 1944.

 IMI stazione Pordenone

Nella Resistenza armata

Nella Resistenza non furono molte le combattenti vere e proprie, e tuttavia non mancano esempi in tal senso. Furono diverse le ragazze che chiesero, con maggiore o minore successo, di imparare a sparare e di poterlo poi fare davvero.

donna-partigiana.jpg 1945 25 aprile Milano partigiane

Elisa Oliva fu comandante in Valdossola e, in seguito, ricordò di aver così risposto a chi le voleva togliere il comando: «Non sono venuta qua per cercarmi un innamorato. Io sono qua per combattere e ci rimango solo se mi date un'arma e mi mettete nel quadro di quelli che devono fare la guardia e le azioni. In più farò l'infermiera. Se siete d'accordo resto, se no me ne vado [...] Al primo combattimento ho dimostrato che l'arma non la tenevo solo per bellezza, ma per mirare e per colpire [...]

Anche nei GAP militarono donne che parteciparono direttamente ad azioni rischiose e alla preparazione ed esecuzione di attentati (a Roma, Carla Capponi fu partecipe dell'attentato di via Rasella, nei GAP di Milano Onorina Brambilla, con il marito Giovanni Pesce fu protagonista della lotta armata).

Alcune delle donne martiri della Resistenza hanno conosciuto violenze inenarrabili prima di essere uccise. Occorre tener conto anche la mera violenza psicologica esercitata in occasione di interrogatori o di processi. Rileggere cronache e testimonianze del tempo spinge a guardare con infinita ammirazione a donne che conservarono sangue freddo e dignità assoluta.

Visioni tradizionali e pregiudizi accompagnarono l'impegno delle donne nella Resistenza, specialmente quando esse si trovavano, volutamente o forzatamente a condividere la vita delle formazioni in montagna. Di conseguenza le giovani partigiane finirono per essere sommariamente identificate con figure di donne “facili” tanto che i comandi della Resistenza cercarono di dettare regole e porre limiti rigidi. Nell'agosto del 44 il comando della 19a brigata d'assalto Garibaldi, intitolata a Eusebio Giambone, comunicò al comando generale delle Brigate Garibaldi di aver costituito al proprio interno un distaccamento femminile composto da staffette e da familiari dei propri partigiani.

staffette partigiane

Nacquero comunque molti rapporti affettivi più o meno duraturi, che per lo più ambivano a una situazione di ricerca di solidità e di serietà, tanto che non mancarono i matrimoni celebrati alla macchia o nei paesi delle zone liberate, anche con l'assistenza del prete.

Dopo la Liberazione tutti i pregiudizi emersero - o riemersero - con prepotenza. In tante sfilate per le vie cittadine alle donne partigiane arrivò l'ordine di non sfilare, oppure di farlo figurando solo come crocerossine.

La Resistenza e l’impegno politico

Certo è che - una volta fatta la propria scelta - le donne seppero anche passare all'iniziativa, comprendendo che la Resistenza avrebbe costituito un passo decisivo sulla strada dell'emancipazione propria e di tutte le donne.

La partecipazione alla Resistenza - scoperta anche attraverso autonomi percorsi personali - fu così la premessa per un successivo e forte impegno politico: pur tra mille ostacoli e pregiudizi, le donne avrebbero così cominciato a far politica anche entro le istituzioni pubbliche. L’ingresso di quel sparuto gruppetto di 21 deputate alla Costituente (su 110 candidate) può essere visto come il punto di arrivo della lotta resistenziale al femminile e come il punto di partenza per una nuova storia dell'Italia: una volta tanto, in meglio.

1946 donne alla Costituente 

Bibliografia

Giorgio Vecchio - LA RESISTENZA DELLE DONNE 1943-1945 – Ed In dialogo – Ambrosianeum – 2010  

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Prove di emancipazione

3 Mars 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #La Resistenza delle donne

Nella primavera del 1915, mentre i soldati italiani si avviano ai campi di battaglia, un secondo esercito comincia a combattere una sua guerra particolare. È un esercito composto da milioni di donne, anziane e giovanissime, contadine e intellettuali, ricche borghesi e proletarie che da un giorno all'altro si trovano a prendere sulle spalle la conduzione di un paese che ha mandato tutti i suoi uomini validi al fronte. La maggioranza di loro occupa il posto degli operai che hanno lasciato le fabbriche quasi deserte, migliaia entrano negli uffici per sostituire gli impiegati assenti, molte guidano i tram, spazzano le strade, portano la posta o fanno mestieri che ancora non hanno una dizione al femminile: campanaro, fabbro, cantoniere, barbiere, cancelliere e persino pompiere.

Nei campi si caricano di fatiche maschili e affrontano compiti amministrativi, come vendere e acquistare bestiame, riuscendo a mantenere quasi costante la produzione agricola. Le più benestanti e le aristocratiche fanno le infermiere, assistendo feriti anche a ridosso delle linee di fuoco. Quelle che non vogliono o non possono lavorare a tempo pieno si prodigano in altre forme di partecipazione: madrine di guerra, assistenti di famiglie rimaste prive di sostegno, scrivane per gli analfabeti, organizzatrici di questue, di lotterie o anche dispensatrici di "baci patriottici" a cento lire l'uno. Qualcuna fa la spia, qualcuna la corrispondente di guerra, qualcun'altra tenta addirittura di arruolarsi travestendosi da uomo. Molte, di contro, spinte dalla miseria, si prostituiscono in bordelli itineranti organizzati nelle retrovie dai comandi militari.

Nel giro di pochi mesi l'Italia è interamente in mano alle donne, come del resto accade già da un anno in paesi come la Germania, l'Inghilterra o la Francia. In tutta Europa si crea così una frattura nell'ordine familiare e sociale che non esaurirà con la guerra ma avrà conseguenze più o meno incisive nei decenni a seguire. Anche la gerarchia tra i generi subisce un rivolgimento, seppur temporaneo. L’uomo è al fronte a sparare e uccidere, come vuole il suo ruolo atavico, ma impara a usare ago e filo per rammendarsi gli indumenti e a non nascondere le sue fragilità nelle lettere a madri e mogli. La donna accudisce casa e figli, ma affronta per la prima volta lo spazio aperto del mondo, conquistando (insieme alla doppia fatica) una improvvisa e straordinaria libertà di movimento.

Il punto di partenza (e anche quello di arrivo) delle donne italiane è però qualche passo indietro rispetto al resto d'Europa. Anche se molte già lavoravano da tempo in fabbrica e negli uffici, i loro diritti sono fermi al Codice di Famiglia del 1865. Cioè a zero. Non esercitano alcuna tutela sui figli, devono far gestire al marito i soldi del proprio salario, non possono stipulare contratti o far parte di una qualsiasi associazione senza la cosiddetta "autorizzazione maritale".

Una situazione che negli anni precedenti aveva fatto nascere anche in Italia un movimento per la parità dei diritti, sia pure condotto in tono minore rispetto ad altri paesi, specie all'Inghilterra dove le suffragette, attive già negli ultimi decenni dell'Ottocento, facevano manifestazioni clamorose rischiando spesso l'arresto. Il movimento italiano, nutrito in gran parte da associazioni femminili di assistenza e impegno sociale, era riuscito comunque a organizzare nel 1908 un grande Congresso Nazionale delle Donne e dar vita a riviste specializzate. Ma nel 1912 quando fu varato il suffragio universale maschile, il Parlamento respinse a grande maggioranza la richiesta di estendere il voto alle donne, giudicato da Giolitti «un salto nel buio».

Gli annunci di guerra avevano poi spaccato la compattezza del movimento, fino ad allora decisamente pacifista. Molte intellettuali, avevano optato per l'interventismo, come la socialista Anna Kuliscioff e come Margherita Sarfatti che smette di scrivere per "La difesa delle lavoratrici" e passa al "Popolo d'Italia". La storica Augusta Molinari, autrice di Una patria per le donne. La mobilitazione femminile nella Grande Guerra, osserva a questo proposito: «Pur non venendo meno la richiesta del diritto al voto, l'etica del dovere verso la patria fa apparire rinviabile ogni rivendicazione di diritti. La priorità dell'azione politica diventa, anche per il femminismo, quello di servire la patria».

Ma il coinvolgimento delle donne è nei fatti. Massiccio, diffuso, praticamente totale in molti settori della produzione e della scena sociale, occupa presto anche l'immaginario con riferimenti visivi sempre più forti: cartelloni, manifesti e le popolarissime cartoline.

Se tutto ciò sia stato un volano di emancipazione che ha cambiato in profondità la storia femminile del nostro Paese o soltanto una parentesi di necessità che il fascismo fece presto dimenticare riducendo di nuovo la donna a moglie e madre prolifica, è a tutt'oggi materia di dibattito tra gli storici. Ma se è vero che bisognerà aspettare il secondo dopoguerra perché il suffragio diventi davvero universale (le donne ottennero il voto 31 gennaio 1945), e altri trent'anni perché il nuovo diritto di famiglia del 1975 scardini i residui patriarcali, nessuno mette in dubbio che in quegli anni si verificò una mobilitazione femminile senza precedenti che produsse mutamenti di costume e di consapevolezza non più reversibili.

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8 marzo: Giornata internazionale della donna

8 Mars 2023 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #La Resistenza delle donne

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Oltre il ponte

O ragazza dalle guance di pesca

Ragazza dalle guance d’aurora,

o spero che a narrarti riesca

La mia vita all’età che tu hai ora.

Coprifuoco: la truppa tedesca la città

dominava. Siam pronti.

Chi non vuole chinare la testa

Con noi prenda la strada dei monti.

Avevamo vent’anni e oltre il ponte

Oltre il ponte ch’è in mano nemica,

Vedevam l’altra riva, la vita.

Tutto il bene del mondo oltre il ponte.

Tutto il male avevamo di fronte.

Tutto il bene avevamo nel cuore.

A vent’anni la vita è oltre il ponte.

Oltre il fuoco comincia l’amore.

...

Non è detto che fossimo santi,

L’eroismo non è sovrumano.

Corri, abbassati, dài, balza avanti.

Ogni passo che fai non è vano.

Vedevamo a portata di mano,

Dietro il tronco, il cespuglio,

il canneto l’avvenire di un mondo

più umano, più giusto,

più libero e lieto.

Avevamo vent’anni e oltre il ponte ...

Ormai tutti han famiglia, hanno figli.

Che non sanno la storia di ieri. Io son

Solo e passeggio tra i tigli

Con te, cara, che allora non c’eri.

Vorrei che quei nostri pensieri

Quelle nostre speranze d’allora

Rivivessero in quel che tu speri,

ragazza color dell’aurora.

Avevamo vent’anni e oltre il ponte ...

Italo Calvino

 

 

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8 Marzo

8 Mars 2023 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #La Resistenza delle donne

Al fianco delle donne rifugiate e sfollate

Oggi, in cui il mondo celebra la Giornata Internazione della Donna, il nostro pensiero non può che rivolgersi alle donne ucraine: a quante tra di loro fuggono abbandonando tutto pur di portare in salvo i propri figli e a tante altre che sono ancora all’interno del Paese.

 

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Donne contro

2 Mars 2018 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana, #La Resistenza delle donne

Il contributo delle donne italiane alla liberazione dell’Italia dal regime fascista e dall’occupazione nazista.

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Appartenenti ai Gruppi Difesa della donna: 70.000

Donne partigiane: 35.000

Arrestate, torturate, condannate  4.653

Fucilate, impiccate o cadute: 623

Deferite, tra il 1926 e il 1943, al Tribunale Speciale Fascista Per La Difesa Dello Stato: 748 
Inviate al confino: 145

17 furono le donne decorate con Medaglia d’oro al Valor Militare

 

I “Gruppi Difesa della donna” furono una struttura attivissima nella guerra di Liberazione.

Il primo di questi organismi fu costituito a Milano nel novembre del 1943 da alcune esponenti di spicco dei Partiti che affluirono nel Comitato di Liberazione Nazionale, dopo la firma dell'armistizio, mentre i tedeschi assediavano le campagne e le città del Nord Italia, compiendo efferati rastrellamenti di civili, impegnati nella lotta contro il fascismo.

I Gruppi di Difesa della Donna e di Assistenza ai Combattenti della Libertà, da Milano, si estesero su tutto il territorio italiano ancora occupato, perseguendo l'obiettivo di mobilitare, attraverso un'organizzazione capillare e clandestina, donne di età e condizioni sociali differenti, per far fronte a tutte le necessità, derivate dalla recrudescenza della guerra.

Tali gruppi operativi femminili si segnalarono, durante la Resistenza, attraverso la raccolta di indumenti, medicinali, alimenti per i partigiani e si adoperarono per portare messaggi, custodire liste di contatti, preparare case-rifugio, trasportare volantini, opuscoli ed anche armi.

I Gruppi di Difesa della Donna erano quindi un'organizzazione unitaria "aperta a tutte le donne di ogni ceto sociale e di ogni fede politica e religiosa, che volevano partecipare all'opera di liberazione della patria e lottare per la propria emancipazione". I Gruppi di Difesa della Donna, nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole e nelle campagne, si proponevano la resistenza alle violenze tedesche , il sabotaggio alla produzione di guerra, il rifiuto di consegnare i viveri agli ammassi. I Gruppi di difesa della donna parteciparono alla organizzazione dei Comitati di liberazione periferici, e a quelli di agitazione nelle fabbriche; organizzarono scioperi contro fascisti e tedeschi e assicurarono l'assistenza alle famiglie dei carcerati, dei deportati e dei caduti.

I Gruppi di Difesa della Donna vennero ufficialmente riconosciuti dal Comitato di Liberazione dell'Alta Italia in un documento del 1944 nel quale si afferma: “Il Comitato di liberazione per l’Alta Italia, riconoscendo nei Gruppi di Difesa della Donna e di Assistenza ai Combattenti della Libertà un’organizzazione unitaria di massa che agisce nel quadro delle proprie direttive, ne approva l’orientamento politico e i criteri di organizzazione, apprezza i risultati sin ora ottenuti nel campo della mobilitazione delle donne per la lotta di liberazione nazionale e la riconosce come organizzazione aderente al Comitato di Liberazione Nazionale”.

 

Un padre della Repubblica come Ferruccio Parri dichiarò che «le donne furono la resistenza dei resistenti».

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