Bulow ci ha lasciati
E' morto a Ravenna a 92 anni il compagno Arrigo Boldrini, il leggendario comandante partigiano "Bulow" Medaglia d'Oro della Resistenza, Presidente onorario dell'ANPI.
“Durante la Resistenza ci battemmo per la libertà di tutti, la nostra, quella di chi non partecipava, quella di chi era contro; oggi intendiamo continuare ad operare perché essa sia sempre piena, ricca, garantita”.
Arrigo Boldrini
Arrigo Boldrini, il comandante “Bulow” della guerra di Liberazione, Medaglia d’Oro al Valor Militare, forse il più leggendario partigiano italiano, ci ha lasciato qualche giorno fa, alla bella età di 92 anni.
Bulow era presidente onorario dell’ANPI che per anni aveva guidato con mano ferma e autorevole. Era stato uno dei padri Costituenti e vicepresidente della Camera.
All’indomani dell’8 settembre non aveva esitato a mettersi subito al servizio del Paese. Nella sua Ravenna, lui, già ufficiale di complemento e combattente in Jugoslavia, non aveva esitato, nei giorni in cui tutto pareva perduto, a salire sul piedistallo del monumento a Garibaldi per annunciare a chi lo ascoltava che era arrivato il momento di dare battaglia per liberarsi dei fascisti e dei nazisti che stavano occupando l’Italia. Subito dopo era entrato in clandestinità con un gruppo dei suoi. Col passare dei mesi era nata la famosa 28ª Brigata Garibaldi “Mario Gordini”. Il suo coraggio e quello dei suoi partigiani, la sua umanità e la determinazione, avevano portato a scontri durissimi con il nemico, in un clima di passione e di amore per l’indipendenza e la libertà.
Era diventato molto presto anche un teorico della guerra di guerriglia e aveva convinto tutti della necessità di portare in pianura, con l’aiuto dei contadini, le operazioni militari dei combattenti di montagna.
Dopo aver ricevuto la massima onorificenza militare dal generale inglese Mc Creery, Comandante dell’VIII Armata, aveva sfilato con i suoi per le strade della sua città che aveva appena liberato.
Gli antifascisti e i partigiani di tutta Europa avevano imparato presto a conoscerlo e a stimarlo. Era stato poi eletto al Parlamento per un gran numero di legislature e non aveva mai cessato l’attività politica e legislativa.
In migliaia lo hanno salutato per l’ultima volta a Ravenna e migliaia sono stati i messaggi di cordoglio giunti al figlio Carlo e all’ANPI nazionale.
Principali aziende in Lissone nel 1944
Di seguito i logo della principali aziende esistenti a Lissone nel 1944
1942: in provincia di Milano le donne protestano
L’1 marzo 1942 (secondo anno di guerra) in Italia viene ridotta la razione di pane a 150 grammi pro capite.
Il tesseramento del pane porta quasi immediatamente alla quasi totale sparizione dal mercato della farina. Quello che avviene per la farina, si era già verificato per gli altri generi razionati: pasta, riso, farina di granoturco, carni, uova, grassi, zucchero.
Il razionamento tendeva a coprire una parte del fabbisogno, assicurando mediamente poco più di 1000 calorie giornaliere. Per arrivare a circa 2000 calorie la popolazione non poteva fare altro che ricorrere al mercato nero.
L’aumento dei prezzi dei generi alimentari reperibili al mercato nero era talmente consistente da risultare spesso proibitivo per le famiglie operaie e quelle a redito fisso.
Gli operai reggono con difficoltà la fatica di dieci ore di lavoro al giorno con la malnutrizione determinata dal razionamento.
Nella provincia di Milano, dal febbraio al settembre 1942, si susseguono manifestazioni di protesta che coinvolgono gruppi di donne abbastanza numerosi presso municipi e case del fascio. La vita delle operaie è dura: la paga è di gran lunga inferiore a quella degli uomini e il lavoro in fabbrica è spesso pesante, tuttavia, esse possono contare sulla sicurezza di un salario, anche se, finito il turno di lavoro, ritornano ad essere casalinghe, che si devono improvvisare sarte per adattare abiti usati e trarne cappotti, gonne e pantaloni per i ragazzi; devono diventare magliaie, disfare vecchie maglie e golf per trasformarli in sciarpe, calze, golfini. Con il salario o lo stipendio del marito, se c’è, se non è in guerra, bisogna comperare al mercato nero i generi alimentari per integrare le misere razioni distribuite con le tessere. Ogni giorno bisogna “inventare” una minestra o qualche altro piatto se la pasta o il riso tesserati sono finiti. Ma se manca la legna o il carbone da mettere sulla stufa, come si può cucinare un pasto caldo?
Da documenti conservati nell’Archivio di Stato di Milano (sono degli esposti che arrivano al prefetto dai diversi comuni della provincia) risulta che tra le prime manifestazioni di protesta, attuate nel marzo 1942, vi è quella attuata da operaie lissonesi: il 30 marzo, 40 operaie delle officine meccaniche Cesare Bosi di Via Piave, alle 8 del mattino, non riprendono il lavoro “in segno di protesta per l’esigua paga loro corrisposta”. È il rapporto dei Carabinieri di Desio che spiega le ragioni dello sciopero, sciopero che dura fino alle 14, quando “autorità locali e segretario del sindacato sono riusciti modificare l’atteggiamento delle operaie”. Il rapporto dei Carabinieri al prefetto non spiega in che modo le autorità abbiano convinto le donne a riprendere il lavoro ma rassicura, come sempre, al ritorno alla normalità dell’ordine pubblico e sull’attenta vigilanza, predisposta dai carabinieri si suppone, in fabbrica. (AS Milano, Pref., II vers, cart. 243)
Enrico Bracesco: il primo mutilato della Resistenza operaia
Enrico Bracesco, caposquadra attrezzeria alla Breda V, arrestato il 13 marzo per strada a Monza. È il primo mutilato della Resistenza operaia. Di lui, oltre alla moglie Maria, diversi compagni hanno lasciato testimonianza, come Antonio Paleari, operaio nella stessa sezione, arrestato già nel gennaio con L. S. Bersan, G. Marchetti e M. Rizzardi davanti al Bar Prealpi di Sesto durante un passaggio di armi.
Anche nel caso di Bracesco l'antifascismo è «di famiglia»: il fratello Carlo gestisce una trattoria a Monza che funge da cerniera di collegamento tra l'organizzazione clandestina delle fabbriche sestesi le brigate Garibaldine delle montagne del lecchese. L'arresto di Enrico come quello dei compagni davanti al Bar Prealpi, intende provocare la rottura dei collegamenti con la montagna.
Nella testimonianza di Maria Bracesco, dopo 1'8 settembre, Enrico è costretto ad «andare in montagna»: più di una volta è stato individuato per la sua attività clandestina. L'essere promotore degli scioperi del marzo 1943 gli avevano già causato circa un mese di carcere - tra attesa del processo e detenzione - e il conseguente licenziamento dalla Breda. Condannato a un anno perché «colpevole di abbandono del servizio» (durante il fascismo il termine «sciopero era stato abolito), veniva tuttavia liberato poiché la sentenza era passata nel frattempo in giudicato. Grazie all'intervento dei compagni di lavoro riusciva a farsi riassumere alla Breda, ben accolto anche dagli ingegneri Vezzani e Vallerani.
Quando inizia la Resistenza, Bracesco inizialmente si divide tra attività clandestina in fabbrica e fuori di essa; successivamente è conosciuto tra gli antifascisti più attivi come «il corriere delle armi». Il 4 novembre è a Sesto San Giovanni con un grande quantitativo di mitra caricati su di un camioncino, viene da Monza e ha l'incarico di portarle a Michele Robecchi a Muggiò.
(Sono armi che i militari in fuga dopo 1'8 settembre avevano sotterrato nel cortile della scuola Ugo Foscolo di Monza, delle quali i gappisti riescono a reinpossessarsi con grande coraggio, poiché la scuola nel frattempo era stata occupata dai repubblichini. Trattandosi di un grosso quantitativo, 72 mitra e 2 mitragliatrici il «corriere delle armi», E. Bracesco, provvede man mano a distribuirle).
La consegna viene eseguita con successo sennonché al ritorno, sulla strada tra Cinisello Balsamo e lo stabilimento staccato della Breda V, la «Taccona», verso il quale è diretto, il camioncino si rovescia. Viene trasportato all'ospedale di Monza dove è costretto a subire l'amputazione della gamba destra. Bracesco è un uomo coraggioso e non sarà questa disgrazia a fermarlo: è un gappista e fa parte del gruppo armato della Breda V. Persone sospette lo spiano anche in ospedale.
Una volta a casa, a Monza, in attesa della protesi per la gamba amputata e di una completa guarigione della ferita, egli continua a mantenere i collegamenti con la Resistenza. Persone sospette sorvegliano la sua casa. Ci sono appena stati gli scioperi e la moglie cerca di convincerlo a sfollare in campagna presso parenti. La difficoltà di camminare è però un grave impedimento. Inoltre Bracesco vorrebbe stare vicino al fratello Carlo, anche lui in pericolo per i suoi collegamenti con i partigiani. Per tali motivi, Bracesco resta,. limitandosi a rimanere nascosto durante la notte presso la sorella, la quale abita poco distante da casa sua. Un mattino però, mentre si avvia zoppicando verso la sua abitazione, viene arrestato. La moglie di quei giorni ricorda:
“lo non sapevo che l'avevano arrestato. Viene uno in casa mia, mi dice: «Dov'è Enrico?». lo gli dico che è a farsi curare per la gamba tagliata e lui mi dice di seguirlo con la mia bambina. Vengo caricata su una camionetta, mi portano al macello, dove ci sono le carceri. Lui era già lì, ma io non l'ho visto. Loro [sic!] mi hanno interrogato chiedendomi dove fosse Enrico. Io ho risposto: «Non lo so, magari ce l'avete già qui voi». Volevano sapere da me tante cose di Enrico, ma io sono sempre stata vaga. Tra l'altro, da mia sorella, avevo appena saputo, prima che venisse quell'uomo a casa mia, che Enrico l'avevano:. arrestato, ma non sapevo dove fosse.
Enrico Bracesco dopo una permanenza di più di un mese nel carcere di S. Vittore, trascorrerà tre mesi nel campo di transito di Fossoli e quasi due settimane in quello di Bolzano, dopodiché caricato assieme ad altri deportati negli usuali carri bestiame piombati a loro riservati, verrà condotto al KL di Mauthausen, dove verrà assassinato luogo della sua morte (Istituto eutanasia di Hartheim).
Il castello di Hartheim, vicino a Linz, nell’inverno 1940 fu trasformato in un edificio per "l’azione-eutanasia" ordinata da Hitler, il cui scopo era "dare la bella morte agli ammalati inguaribili". L'Aktion T4 fu il programma nazista di eugenetica che prevedeva la soppressione o la sterilizzazione di persone affette da malattie genetiche, inguaribili o da più o meno gravi malformazioni fisiche.
Michele Robecchi
Nato a Scanzorosciate (BG) il 29.9.1904. Residente a Muggiò (MI). Lavorava alla Breda, V Sezione Aeronautica, come elettricista. Arrestato il 10.8.1944 a Saronno (Va). Detenuto nel carcere di S. Vittore a Milano. Giunto nel campo di Bolzano il 7.9.1944. Partito il 5.10.1944 e giunto il 9.10.1944 a Dachau. Matricola 113505. Trasferito il 28.10.1944 a Überlingen (Dachau). Qui deceduto il 30.12.1944.
Racconta la moglie Maria Galletti; dopo l’8 settembre 1943 mio marito Michele disse:
"Maria, è giunto il momento, dobbiamo muoverci!" e io ricordo d'averlo abbracciato forte, con affetto e con orgoglio. Subito dopo, però, ho avuto paura, paura di qualcosa che non sapevo ma che sentivo sarebbe accaduto. Così incominciammo la nostra lotta.
Il mio Michele e i suoi amici avevano costituito un GAP (Gruppo di azione patriottica) che organizzava la resistenza in fabbrica, distribuiva materiale di propaganda fra gli operai, organizzava azioni di sabotaggio della produzione industriale destinata alla Germania.
Venne il marzo del 1944 con i grandi scioperi in tutte le fabbriche e allora si scatenò durissima la repressione tedesca. Gli operai venivano arrestati in fabbrica o prelevati in casa di notte. Condotti in carcere, venivano interrogati, spesso torturati e poi trasportati su carri bestiame in Germania. Il mio Michele riuscì fortunatamente a sfuggire in un primo tempo agli arresti ma non gli fu più possibile continuare il suo lavoro alla Breda e per guadagnarsi da vivere faceva lavori saltuari presso qualche artigiano o presso persone amiche.
Intanto si intensificava la lotta e si organizzavano colpi di mano contro le colonne tedesche e le brigate fasciste.
Passò l'estate e venne l'autunno. Un pomeriggio di settembre, uscendo di casa per incontrare i suoi compagni a Monza, mio marito mi disse che probabilmente quella sera non sarebbe tornato. Non tornò neanche l'indomani. Dopo due giorni ancora niente: allora, improvvisamente, fui assalita da un dubbio e da un'angoscia mortale. Messi a letto i bambini, corsi da una mia cugina e insieme ci recammo da tutte le persone che conoscevamo, nonostante il coprifuoco e l'ora tardissima. Nessuno sapeva niente.
La sera del giorno mi sorprese uno squillo di campanello. Era un tale che veniva a
consegnarmi la bicicletta e un biglietto di mio marito. Su quel biglietto mio marito aveva scritto: "Ci hanno arrestati e ci portano a Milano in camion”. Le mie ricerche non dettero alcun risultato: finalmente, dopo circa un mese arrivò a casa una cartolina postale dal carcere di San Vittore. Era una cartolina di mio marito il quale chiedeva notizie dei bambini e mi pregava di portargli una maglia e una camicia. Con il cuore pieno di speranza, il giorno dopo, mi presentai al portone del carcere. Qui il portiere mi avvertì che mio marito e un gruppo di "sovversivi" erano partiti nel cuore della notte, accompagnati alla stazione da dove sarebbero partiti quella mattina stessa per la Germania. Se fossi arrivata in tempo avrei forse potuto rivederlo un'ultima volta allo scalo Farini. Con il cuore in gola mi feci portare
allo scalo Farini , inutilmente: la stazione era deserta: il treno era partito da circa dieci minuti. Allora, piangendo in silenzio, tornai a casa.
Venti giorni più tardi ricevo una lettera da mio marito. "Siamo in un campo di concentramento fuori Bolzano. Allora decisi di andare a Bolzano. Con l'aiuto di mia cugina riuscii a racimolare i soldi per il viaggio ma proprio in quei giorni nuovi bombardamenti aerei avevano interrotto la linea ferroviaria del Brennero. Mentre aspettavamo che la linea ferroviaria venisse riattivata, arriva una nuova lettera da Bolzano spedita dalla persona che avrebbe dovuto far pervenire a Michele le mie lettere. "Suo marito, con tutti gli altri che erano con lui, è partito stamani alla volta della Germania".
Poi giunse la primavera e con la primavera la gioia della liberazione e la fine della guerra. "Tornerà? Ma quando? Arrivavano notizie amare di campi di sterminio, di atrocità compiute dai nazisti , arrivava ogni tanto a Milano o a Monza qualche superstite dei lager e raccontava cose terribili. Del mio Michele nessuna notizia.
Dopo circa due mesi fui avvisata che all'ospedale di Niguarda erano ricoverati alcuni deportati sopravvissuti. Con la forza della disperazione mi recai a Niguarda; percorrevo adagio adagio tutta la corsia, fermandomi a ogni letto e mostrando a tutti la fotografia del mio Michele. I ricoverati, pallidi e scheletriti , mi guardavano da sotto le coperte con i grandi occhi impauriti e non dicevano nulla. Nessuno, probabilmente, l'aveva incontrato o conosciuto. Una suora della corsia, vedendomi con la fotografia in mano, chiese incuriosita il motivo della mia visita e poi mi invitò a seguirla. Prese dei fogli, scorse un elenco di nomi e fu allora che la vidi impallidire. A bassa voce cominciò: "Signora, devo purtroppo darle una brutta notizia… da questo elenco risulta che...".
Allora il cuore mi mancò, pareva che si rompesse e mi sembrò di precipitare in un abisso. In un lampo avevo visto e capito tutto: piangevo e singhiozzavo così forte che un medico, dopo aver rimproverato la suora, volle a tutti i costi farmi un'iniezione per calmarmi. Senza più lacrime ma sempre singhiozzando scesi adagio le scale e uscii in strada. Solo in quel momento capii di essere sola: lui non sarebbe più tornato”.
A Michele Robecchi è dedicata la Sezione dell'A.N.P.I. di Muggiò.