Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

Luciano Donghi, un antifascista lissonese impegnato nella Resistenza e nella vita sociale

18 Mars 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #storie di lissonesi

Luciano Donghi 

Luciano Donghi era nato a Lissone il 18 marzo 1908. Era stato operaio della Breda poi artigiano metalmeccanico: il suo laboratorio, situato nell’attuale Via Don Minzoni, prospiciente l’ex stabilimento della Montana.

Luciano Donghi, subito dopo il 25 luglio 1943, fece parte di quel piccolo nucleo di antifascisti lissonesi, socialisti e comunisti, che si ritrova segretamente presso l’abitazione di Federico Costa (Costa sarà poi membro del CLN locale per il Partito Socialista, con il nome di battaglia “Francesco”).

Di quel gruppo di antifascisti, oltre a Luciano Donghi e Federico Costa, facevano parte Gaetano Cavina, Agostino Frisoni. Pensano di ricostituire i due partiti a livello locale, ma intendono dar vita ad una resistenza organizzata, costituire comitati di agitazione nelle fabbriche.

Donghi e gli altri antifascisti sono sorretti da un’innata fede nella libertà, credono nei valori dell’uguaglianza e della democrazia e intendono impegnarsi per i bisogni della collettività.

Da questo gruppo usciranno gli uomini che guideranno Lissone nella Resistenza, nella Liberazione e nei primi tempi della vita democratica.

Antifascista, iscritto al Partito Comunista clandestino, dopo l’ 8 settembre 1943 il suo impegno nella Resistenza contro i Tedeschi ed i fascisti divenne lo scopo della sua vita. Fece parte delle SAP, le squadre di azione patriottica brianzole, come partigiano di strada a Lissone, negli anni dal 1943 al 1945.

Scrive nel suo “Diario di guerra”, Bruno Trentin,“La guerra in pianura, in campagna, era la scelta più pericolosa; non c’era il «fronte» ma una guerra selvaggia anche, condotta da giovani, senza retroterra dove rifugiarsi. Era una guerra dalla quale, una volta cominciata, non si poteva tirarsi indietro. Si è scritto poco su questo versante della guerra partigiana che è la guerra in pianura, il più esposto, il più indifeso e, nello stesso tempo, impensabile senza il sostegno delle popolazioni ...”.

Per alimentare la vita partigiana erano necessarie delle armi: in un primo tempo si utilizzavano le armi abbandonate dai soldati sbandati dopo l’ 8 settembre 1943, a volte si prendevano al nemico, in altri casi le armi provenivano dai lanci di paracadute da parte degli Alleati anche a pochi chilometri dalle postazioni tedesche o fasciste.

Luciano Donghi era abile nel riparare le armi quando addirittura non le costruiva: spesso Mario Bettega, operaio della Breda e amico, lo riforniva con qualche pacco di otturatori e caricatori, di provenienza dallo stesso stabilimento sestese. Luciano Donghi costruiva anche piccole bombe che richiudeva nelle scatolette per la carne in conserva. Queste “scatole esplosive” venivano custodite in una fabbrica produttrice di carne in scatola (la Montana), nei cui pressi il Donghi aveva il suo laboratorio.

Mario Bettega e Luciano Donghi avevano contatti con il movimento clandestino locale oltre che con i gruppi partigiani della Valsassina e della Valtellina.

Purtroppo Mario Bettega cadde presto nelle mani dei repubblichini: dal carcere di San Vittore di Milano venne deportato a Mauthausen dove morì, all’età di ventisei anni, nel marzo 1945.

Nonostante la deportazione del suo amico, Luciano Donghi continuò a svolgere un gran lavoro per sostenere ed estendere l’attività resistenziale, oltre ad aiutare gli sbandati.

Vent’anni di oppressione fascista sboccarono non in episodiche rivolte ma nel più grande movimento armato di massa dell’Europa occidentale.

Gli ideali di libertà che hanno animato quei giovani sono oggi contenuti nella  Costituzione Italiana di cui quest’anno ricorre il  60° anniversario: per questo ci sentiamo riconoscenti a Luciano Donghi come a tutti coloro che hanno dato la loro vita per gli stessi ideali.

Luciano Donghi, smessi i panni del partigiano, continuò il suo impegno nel partito e, nel 1965, fu eletto Consigliere Comunale per il PCI, sempre interessandosi alle persone più deboli, carica che ricoprì fino al 1975.

Pensionato, il suo desiderio di solidarietà verso le persone portatrici di handicap, lo vide impegnato, nel 1975, nella creazione del primo nucleo del Laboratorio Sociale, con sede in Via Volta, per creare uno spazio lavorativo rivolto a persone con problemi di disabilità psicofisica, malattia mentale, disadattamento sociale: il Laboratorio Sociale, nel 1995, ha assunto l’attuale denominazione, Società Cooperativa Sociale Luciano Donghi.

 

 coop-donghi.jpg

nella foto, la sede attuale della cooperativa a lui dedicata

 

Luciano Donghi moriva a Lissone, all’età di 70 anni, il 29 gennaio 1978 lasciando tutti i suoi averi in favore dei disabili Lissone.

Nel decennale della sua morte, nel 1988, a lui fu dedicata la locale sezione dell’allora Partito Comunista.

Nel trentesimo anniversario della sua morte l’A.N.P.I. di Lissone aveva chiesto all’Amministrazione Comunale di Lissone di dare una degna sepoltura ai resti di Luciano Donghi con una cerimonia commemorativa in ricordo dell’opera da lui svolta.

famedio-comunale.jpg

L’Amministrazione Comunale di Lissone ha accettato la proposta: le sue spoglie sono state traslate nella Cappella dei benemeriti nel famedio del Comune.

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Giulio Colzani

18 Mars 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #storie di lissonesi



 

 

Nato a Lissone il 12 febbraio 1911 da Carlo e da Giulia Vismara.

 

Arrestato a Lissone in data non nota tra dicembre 1943 e gennaio 1944.

Viene trasportato nel lager Buchenwald, dove, dopo sedici mesi, muore il 24/4/1945, dopo pochi giorni dalla Liberazione avvenuta l’11 aprile 1945 (auto-liberazione ed Eserciti Alleati), in una delle "marce della morte”, che seminano di cadaveri le strade della Germania, ucciso da una guardia tedesca a colpi di mitra.

 

 

Buchenwald era situato in Germania, nei pressi di Weimar sulle pendici della collina di Ettersberg, a circa dieci chilometri da Weimar, in Turingia.

Istituito nel luglio 1937, vi vennero deportati oppositori politici del regime nazista, omosessuali, asociali, ebrei e Testimoni di Geova.

 

I deportati venivano sfruttati per il lavoro nelle numerose industrie belliche allestite nei 136 campi dipendenti da Buchenwald.

Nel Lager ebbero luogo uccisioni in massa di molti prigionieri di guerra; molti deportati morirono per la fame e per le malattie, per le terribili condizioni di lavoro, per le torture e le violenze ed anche in conseguenza di esperimenti medici.

Dal luglio del 1937 fino all'aprile del 1945 vennero qui deportate oltre 250.000 persone: di esse più di 50.000 morirono.

Nel gennaio del 1945 affluirono al Lager di Buchenwald migliaia di deportati evacuati dalla Polonia, precisamente dal complesso concentrazionario di Auschwitz e dal Lager di Gross-Rosen.

Ai primi di aprile del 1945 le SS fecero evacuare gran parte dei deportati in lunghe marce forzate (o marce della morte), nel corso delle quali morirono circa 28.000 deportati.

 

In una di queste “marce della morte”, che seminano di cadaveri le strade della Germania, Giulio Colzani, sfinito, il 24 aprile 1945 viene ucciso da una guardia tedesca a colpi di mitra.

Il comitato di resistenza che operava clandestinamente nel Lager di Buchenwald rese possibile l'ingresso nel Lager ad alcune unità della terza armata americana, dopo che le SS erano fuggite: era l'11 aprile del 1945.

 


Con me soffrono molti compagni

tutti ragazzi fieri e coraggiosi,

non versiamo lacrime,

tiriamo tutti la stessa corda.

 

Se dalla palude scrutiamo l’orizzonte

e tuffiamo lo sguardo nel vasto mondo

nei nostri cuori di prigionieri

dilaga una mesta nostalgia.

 

Fugge via il giorno, fuggono le nuvole

al mese segue l’anno -

tutto il dolore, tutte le ansie

ci imbiancano precocemente i capelli.

 

Ci mancano le nostre donne,

la nostra patria, la nostra vita -

e sconsolati torniamo a scrutare:

libertà, quando ritornerai?

 

 

(Canti dai lager: ESILIATO NEL REMOTO NORD

DELL’EMSLAND

il testo è stato redatto nel 1933 dal deportato Kaufmann nel Lager di Neu-Sustrum)



 

(da Lager e Deportazione  http://www.lageredeportazione.org/)

Fonti:

- ANED Sesto san Giovanni, dalla Gazzetta Ufficiale n.130 del 22 maggio 1968

- Gazzetta Ufficiale della Repubblica Federale Tedesca, 24.09.77
- Schwarz, G., 1990, Die nationalsozialistischen Lager, Fischer Verlag
- Tibaldi, I., 1994, Compagni di viaggio
- Dall'Italia ai Lager nazisti
- I "trasporti" dei deportati 1943-1945, Franco Angeli editore
- Pieghevoli informativi dei Lager

 

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chi erano i GAP (Gruppi di Azione Patriottica)?

13 Mars 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

«I gappisti non si fermarono mai davanti a nessun ostacolo, a nessun pericolo. Le loro gesta occupano un posto di rilievo nella storia della Resistenza popolare contro nazisti e fascisti.

Chi furono i gappisti?

Potremmo dire che furono "commandos." Ma questo termine non è esatto. Essi furono qualcosa di più e di diverso di semplici "commandos." Furono gruppi di patrioti che non diedero mai “tregua” al nemico: lo colpirono sempre, in ogni circostanza, di giorno e di notte, nelle strade delle città e nel cuore dei suoi fortilizi.

Con la loro azione i gappisti sconvolsero più e più volte l'organizzazione nemica, giustiziando gli ufficiali nazisti e repubblichini e le spie, attaccando convogli stradali, distruggendo interi parchi di locomotori, incendiando gli aerei sui campi di aviazione. Ancora non sappiamo chi erano i gappisti.

Sono coloro che dopo l’8 settembre ruppero con l'attendismo e scesero nelle strade a dare battaglia, iniziarono una lotta dura, spietata, senza tregua contro i nazisti che ci avevano portato la guerra in casa e contro i fascisti che avevano ceduto la patria all'invasore, per conservare qualche briciola di potere.

Gli episodi più straordinari e meno conosciuti di questa lotta si svolsero nelle grandi città, dove il gappista lottava solo e braccato contro forze schiaccianti e implacabili; sono coloro che colpirono subito i nazisti sfatando il mito della loro supremazia e ricreando fiducia negli incerti e nei titubanti i quali ripresero le armi in pugno.

I gappisti non furono mai molti: alcuni erano giovanissimi, altri avevano dietro di sé l'esperienza della guerra di Spagna e la severa disciplina della cospirazione, del carcere fascista e del confino. Tutti, nel difficile momento dell'azione, nelle giornate drammatiche della reazione più violenta, quando la vita era sospesa a un filo, a una delazione, a una retata occasionale, tutti, giovani e anziani, seppero trovare la forza e la coscienza di non fermarsi. Soprattutto, i gappisti furono uomini che amavano la vita, la giustizia; credevano profondamente nella libertà, aspiravano a un avvenire di pace, non erano spronati da ambizione personale, da arrivismo da calcoli meschini.

Erano dei "superuomini"? No di certo. Erano soltanto degli uomini, ma degli uomini dominati dalla volontà di non dare mai tregua al nemico. Il loro orgoglio aveva radici profonde: coscienti del sacrificio di tutti coloro che avevano sofferto impavidi carcere, persecuzioni, sevizie ne rivendicavano la grandezza e l'insegnamento. Senza l'autorità dei vecchi militanti che avevano sofferto galera, confino, ed esilio, durante il ventennio fascista, ai dirigenti non sarebbe stato pos­sibile esigere dai gappisti, dai partigiani la disciplina più severa che conduceva spesso alla morte più straziante, né ai combattenti avere il cuore saldo per affrontarla. Era soltanto orgoglio ed entusiasmo lo spirito che animò i gappisti? Era un legame di reciproca fiducia tra i vecchi militanti e i giovani, tra coloro che avevano dimostrato di saper resistere sulla via giusta aprendo nuove prospettive e coloro che si inserivano in una lotta che era la lotta eterna contro la sopraffazione, il privilegio, la schiavitù. Senza gli antichi legami del presente oscuro col passato glorioso, davvero non vi sarebbe stata la guerra di liberazione, non avremmo riscattato l'onta del fascismo, "non avremmo conquistato il diritto di essere un popolo libero e indipendente." »

 

dal libro di Giovanni Pesce “Senza tregua – La guerra dei GAP” Feltrinelli Editore


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Giovanni Pesce e Onorina Brambilla nel giorno delle loro nozze (14 luglio 1945).

Giovanni Pesce, nato a Visone (Alessandria) il 22 febbraio 1918, è morto a Milano il 27 luglio 2007: Medaglia d’Oro al valor militare. Nel settembre del 1943 è tra gli organizzatori dei G.A.P. a Torino; dal maggio del 1944 assume a Milano, sino alla Liberazione il comando del 3° G.A.P. "Rubini".

Onorina, “Nori”, per il marito, gli amici e i compagni è membro del Consiglio Nazionale dell’ANPI.

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Di quanta terra ha bisogno un uomo?

13 Mars 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Quando si esaminano le ambizioni iperottimistiche di Hitler nella fase iniziale della campagna di Russia (estate 1941), risulta chiaro che non aveva mai letto, o non aveva assimilato, il racconto di Lev Tolstoj, «Di quanta terra ha bisogno un uomo?», scritto nel 1886.

Vi si narra di un contadino benestante di nome Pahom che viene a sapere di una ricca terra nel paese dei BakSir, al di là del Volga. Sono gente semplice e lui potrebbe avere tutta la terra che vuole senza tanti problemi. Quando giunge nel territorio dei Baksir, gli dicono che per mille rubli potrà avere tutta la terra che riuscirà a percorrere nel corso di una giornata. Disprezzandoli per la loro mancanza di furbizia, Pahom è tutto contento. È sicuro di poter coprire una lunga distanza. Ma appena si mette in viaggio vede tante cose belle e decide di includerle nel suo percorso: uno stagno laggiù, una distesa di terra adatta alla coltivazione del lino ecc. Poi si accorge che il sole comincia a calare. Comprendendo che rischia di perdere tutto, corre sempre più in fretta per tornare in tempo. «Ne ho presa troppa», dice tra sé, «e ho rovinato tutto.» Lo sforzo lo uccide. Muore proprio sul traguardo ed è lì che viene sepolto. «Un metro e ottanta dalla testa ai piedi era tutta la terra di cui aveva bisogno», conclude Tolstoj. A distanza di meno di sessant'anni, l'unica differenza era che nella steppa non era sepolto un uomo solo, ma centinaia di migliaia di soldati.

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cittadini di LISSONE non tornati dal fronte russo (1943) - parte prima

13 Mars 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #storie di lissonesi

 

(dati forniti dall’Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia)

Elenco parziale dei cittadini di LISSONE non tornati dal fronte russo

1       

Arosio Alessandro

05.11.20

 7° autoragg.to

++ 30.10.43

2       

Arosio Carlo

16.06.13

54°rgt. fanteria

disperso

3       

Arosio Felice

25.06.11

54°rgt. fanteria

++ 14.04.43 lager Tiomnikov

4       

Arosio Franco

07.06.12

2° btg. mortai

disperso

5       

Arosio Oreste

15.03.22

2° artiglieria C.A.

disperso

6       

Arosio Pasquale

5.03.13

54° rgt. fanteria

disperso

7       

Arosio Pierino

19.08.13

81° rgt. fanteria

++ 02.02.43 lager Tambov

8       

Arosio Ugo

1.04.12

54° rgt. fanteria

disperso

9       

Arosio Vittorio

23.09.22

52° rgt .. artiglieria

disperso

10    

Cattaneo Fernando

10.09.22

rgl. artig1.a cavallo

++ 09.02.43 lager Tambov

11    

Cattaneo Luciano

18.08.22

52° rgt. artiglieria

disperso

12    

Ciccardi Stefano

26.12.14

2°btg. mortai

++ 03.02,43 lager Nova Liada

13    

Crippa Ferdinando

19.09.12

54° rgt. fanteria

disperso

14    

Corno Feiice

19.04.12

2° btg. mortai

disperso

15    

Dassi Dino

14.08.22

2° artiglieria c.A.

disperso

16    

Erba Felice

20.02.11

54° rgt. fanteria

++? lager Tiomnikov

17    

Erba Rodolfo

7.10.14

9° rgt. artiglieria A.

++ 22.01.43 lager Tambov

18    

Erba ·Silvio

21.07.21

81° rgt  fanteria

12 .12.41   . ? 

19    

Fiocchi Felice

27.07.07

5° rgt. alpini

disperso

20    

Fossati Alessandro

22.10.12

54° rgt. fanteria

++?


+ caduto o deceduto in seguito per ferite                ++ morto in prigionia



(continua)

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cittadini di LISSONE non tornati dal fronte russo (1943) - parte seconda

13 Mars 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #storie di lissonesi

(continuazione)


(dati forniti dall’Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia)

Elenco parziale dei cittadini di LISSONE non tornati dal fronte russo (1943) 



21       

Fossati Armando

14.02.15

54° rgt. fanteria

disperso

22       

Fossati Giuseppe

16.04.15

54° rgt. fa..Tlteria

++ 07.02.43 lager Taliza

23       

Fossati Lodovico

19.10.10

2° btg. Qlortai

disperso

24       

Fossati Luigi

19.09. 21

54° rgt.fanteria

++ 06.04.43 lager?

25       

Fossati Napoleone

11.09.12

54° rgt. fanteria

disperso

26       

Fossati Oreste

24. 10.21

52° rgt artiglieria

++ 30.03.43 lager Tiomnikov

27       

Fossati Ugo

1.06.21

7° autoraggr.d'Arm.

disperso

28       

Fumagalli Arturo

26.05.15

54° rgt. fanteria

++ 11.03.43 lager Taliza

29       

Gatti Angelo

8.12.11

54° rgt. fanteria

disperso

30    

Gatti Giovanni

5.12.20

9° rgt. artigi d'Ann.

disperso

31    

Gatti Giuseppe

5.10.11

54° rgt. fanteria

+ 17.12.42 osp.miiit. Rikovo

32    

Gelosa Vincenzo

11.10.19

4° btg. genio alpino

disperso

33    

Giussani Ambrogio

10.10.10

54° rgt. fanteria

++ 19.12.42 lager Tambov

34    

Giussani Franco

6.01.22

52° rgl. artiglieria

disperso

35    

Mariani Carlo

04.08.20

89° rgt. fanteria

++ 31.03.43 lager?

36    

Mariani Cesare

12.02.14

  278° fanteria

 disperso

37    

Mariani Ugo

20.02.20

54° rgt. fanteria

++ 25,07,44 lager 2983 ?

38    

Mariani Virgilio

03.12.12  

14° autogr Div.Celere

disperso

39    

Manferto Ezio

07.05.14- 

17° rgt.artiglieria

dìsperso

40    

Manferto Nevio

26.08.14

8° btg. collegamenti

disperso

+ caduto o deceduto in seguito per ferite                       ++ morto in prigionia



(continua)

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cittadini di LISSONE non tornati dal fronte russo (1943) - parte terza

13 Mars 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #storie di lissonesi

(continuazione)


(dati forniti dall’Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia)

Elenco parziale dei cittadini di LISSONE non tornati dal fronte russo (1943)

41       

Montrasio Aldo

17.09.22

2° btg. mortai

disperso

42       

Perego Antonio 

12.12.10  

54°rgt. fanteria

disperso

43       

Perego Eugenio

2.09.19

53° rgt. fanteria

disperso

44       

Pirola Giuseppe

15.08.14

278° rgt. fanteria

disperso

45       

Pozzi Augusto 

22.06.21

3° btg genio alpini

disperso

46       

Pozzi Pietro 

11.12.14

277° rgt. fanteria

disperso

47       

Sala Luigi  

23.02.18

rgt. Lancieri di Novara

disperso

48       

Santamaria Erminio

 16.01.22

rgt. genio ferrovieri

disperso

49       

Sironi Mario

4.12.16

rgt. Savoia Cavalleria

disperso

50    

Tarenghi Angelo

26.01.12

278° rgt. fanteria

disperso

51    

Teruzzi Angelo

10.10.22

 rgt. artigl. a cavallo

++ 10.06.43 lager Ak Bullak

52    

Trabattoni Luigi

25.02.22

54° rgt. fanteria

disperso

53    

Viganò Antonio

13.07.21

80° rgt. fanteria

disperso

54    

Volentieri Giuseppe

22.03.11

2° rgt. artigl. C.A.

disperso  24.12.1942

 

+ caduto o deceduto in seguito per ferite                                          ++ morto in prigionia


 



BILANCIO DELLA CAMPAGNA DI RUSSIA 

Nel marzo del 1943 i resti di quello che era l’ARMIR vengono rimpatriati e si fanno i primi conti delle perdite. La forza complessiva presente all’inizio dell’offensiva russa era di 220.000 uomini e, secondo i dati pubblicati dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore, mancavano all’appello 84.830 uomini. Oggi, dopo approfondite indagini presso ciascun Comune e ciascun Distretto Militare, da parte dell’Ufficio dell’Albo d’Oro — Sezione del Ministero della Difesa che funziona da anagrafe di tutti i militari — il numero degli italiani che non hanno fatto ritorno dal fronte russo è di circa 100.000. Tenuto conto che circa 5.000 erano caduti per i fatti d’arme antecedenti al 15 dicembre, le perdite della ritirata sono di 95.000 uomini. Secondo i dati più recenti, desunti dalla documentazione esistente negli archivi russi, finalmente aperti ai ricercatori italiani, 25.000 sono morti combattendo o di stenti durante la ritirata e 70.000 sono stati fatti prigionieri.  Questi prigionieri furono costretti a marciare per centinaia di chilometri e poi a viaggiare su carri bestiame per settimane, in condizioni allucinanti, senza mangiare, senza poter riposare la notte, con temperature siberiane. Coloro che riuscirono a raggiungere i lager di smistamento — improvvisati, disorganizzati, con condizioni igieniche medioevali — erano talmente denutriti e debilitati che le epidemie di tifo e dissenteria ne falciarono ben presto la maggior parte. Siamo in possesso dei nominativi degli italiani deceduti nei lager, quasi tutti nei primi sei mesi del 1943. Solo nel 1945 ed in parte nel 1946. 10.000 sopravvissuti furono restituiti dall’Unione Sovietica.

 Rientro di soldati reduci dalla Russia

Dalla documentazione russa risulta la presenza di italiani in circa 400 diversi lager, quelli più tristemente famosi sono quelli di Tambov  - dove morirono circa 10.000 italiani -quelli di Miciurinsk, di Khrinovoje, di Tioìnnikov. 

dal sito internet  dell’Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia:

http://www.fronterussounirr.it/chisiamo.html

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la strategia politica del regime fascista

4 Mars 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #il fascismo

Estetizzazione della politica, estetizzazione delle masse

 

La spettacolarizzazione della vita politica durante il regime fascista costituiva la base e il presupposto della strategia politica del regime.

Il fascismo aveva bisogno di alimentare continuamente la fede nel partito e nel Duce attraverso l'istituzione di rituali patriottici, commemorazioni ufficiali, celebrazioni di storia patria, marce e cerimonie politiche.

Specialmente le mostre allestite secondo la logica modernista dello «spettacolare», diventarono un importante tassello nella strategia politica del fascismo che usò queste manifestazioni come cassa di risonanza per celebrare la propria storia.

Allestimenti iperbolici che assicurarono folle di visitatori, incuriosendo gli indecisi con la promozione di campagne pubblicitarie, con riduzioni ferroviarie e talvolta addirittura con facilitazioni di soggiorno.

Ogni mostra diveniva anche occasione per presentare le sue conquiste, celebrare la sua storia fornendo tangibilità e materia a questi risultati, mostrando, di volta in volta insieme a arte, sculture, fotomontaggi e gigantografie, cimeli di guerra come nella Mostra della Rivoluzione Fascista.

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Brigate nere e SS italiane

1 Mars 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #il fascismo

Nell'estate del 1944 mancavano circa dieci mesi alla conclu­sione della seconda guerra mondiale. Americani, inglesi, canadesi e francesi erano sbarcati, con superiorità schiacciante, in Normandia, i russi si trovavano ai confini della Prussia Orientale e dell'Ungheria e, in Italia, Winston Churchill, seduto su una panca accanto al gen. Ale­xander, osservava il territorio ancora da conquistare al di là della Linea Gotica, che correva da La Spezia a Pesaro.

La superiorità alleata era schiacciante, soprattutto in morale. Quegli uomini lanciati contro il colosso nazista erano soldati giovani, preparati e intelligenti, eguagliavano i tedeschi per carattere e capacità.

Pavolini, segretario del Partito Fascista Repubblicano, dopo aver convinto il Duce, si accinse a militarizzare il partito. I volonta­ri che accolsero il suo appello di formare un corpo ideologizzato furono, invece, salvo eccezioni, gruppi raccogliticci, con ragazzi di tredici anni e vecchietti di settanta, che credevano ancora in un mitico squadrismo da Anni Venti, quando la semplice massa, alcuni autocarri, i manganelli e un po' di bottiglie d'olio di ricino poterono decidere il destino d'uno Stato. Ecco: l'ultimo fascismo nacque così, all'insegna di un'incredibile illusione, e storica­mente era già battuto.

 

Pavolini vuole solo elementi di fede indiscussa, che vadano a combattere i partigiani, che stanino i traditori, che facciano i cani da guardia del fascismo con la massima intransigenza. Il 26 giugno 1944, il duce firma un decreto: con esso si istituisce il Corpo ausiliario delle squadre d'azione delle Camicie nere, il segretario del partito ne prenderà il comando. Le federazioni fasciste assumeranno il nome di Brigate nere del Corpo ausiliario, dandosi il nome di un caduto per la causa fascista e i commissari federali la carica di comandanti di brigata. Ne faranno parte i volontari iscritti al partito con età compresa fra i 18 e i 60 anni. Nel testo del decreto, si dice che il corpo sarà impiegato per la difesa dell'ordine nella Repubblica Sociale Italiana sia per la lotta contro i ribelli, mentre non sarà impiegato per requisizioni, arresti o altri compiti di polizia. Questa disposizione fu presto disattesa, perché le brigate nere compiranno tanti di quei furti e di quegli arresti, da provocare a volte perfino l'intervento dei tedeschi che ne chiederanno lo scioglimento.

La funzione delle Brigate nere rimane allora la funzione territoriale, poliziesca nelle città, dove diventano il bersaglio dell'odio popolare, perché sono loro che nei luoghi pubblici e nelle abitazioni rastrellano i renitenti, i disertori e i parenti dei partigiani trasferitisi in montagna. Sono loro che s'impadroniscono nei negozi, nei magazzini e nelle fabbriche di tanta merce con la scusa di combattere il mercato nero e gli imboscamenti. Molti sono noti sfaccendati, piccoli criminali o ex-impiegati delle federazioni che non rinunciano così ai propri privilegi.

 
undefinedPavolini (a destra) e Costa (al centro)

La Brigata nera Aldo Resega

La Brianza fu interessata dall'azione di due brigate nere, essendo composta dal territorio di due province. In quello milanese agì l'VIII Brigata nera Aldo Resega, comandata dal maggiore Vincenzo Costa, quest'ultimo, subentrato come federale di Milano a Boattini, successore del defunto Resega. La brigata nera di Costa, presta giuramento il 25 luglio 1944 sul sagrato della Basilica di S. Lorenzo e stabilisce il comando in via Zecca Vecchia. Sarà la brigata nera più forte e numerosa della RSI. Si doterà anche di un giornale proprio, grossolano nello stile di scrittura, dove si sprecano promesse di manganellature e sonore punizioni per tutti. S'intitola semplicemente Brigata nera “Aldo Resega", ma il motto in dialetto milanese sotto la testata è grottesco: Forsa bagai ... alegher, fidigh san per la gloria d'Italia e de Milan.

I principali centri brianzoli furono sede di plotoni e presidi della formazione repubblichina. Il comandante in capo Alessandro Pavolini, suggellerà i comuni intenti delle brigate nere lombarde, tenendo rapporto ai loro comandanti il 16 ottobre 1944 a Monza.

Una delle azioni che questi fascisti misero in atto, e che aumentò l'avversione della popolazione verso di loro, furono i rastrellamenti, retate che avevano come obiettivo la cattura di renitenti e disertori. Ma diverse di queste spedizioni, furono trasformate dalle brigate nere in occasioni per razziare beni e soprattutto generi alimentari, spacciandole per azioni repressive contro il mercato nero e l'accaparramento, funzioni che, tra l'altro, non erano di loro competenza. Questo denota ancora una volta, quali erano le mire di certe polizie autonome fasciste e come si disinteressassero della cura del loro rapporto con la gente comune. Agli occhi dei brigatisti, la Brianza si presentava come una zona di opulenza dal punto di vista alimentare. Così diverse cittadine di questa zona, subirono dei veri e propri saccheggi.

Diverse sono le segnalazioni di soprusi commessi dagli stessi presidi presenti in Brianza.

È una situazione ormai degenerata che i poteri centrali della RSI non controllano più, se mai l'hanno controllata. E più la fine si avvicina, più i componenti di queste polizie aumentano la loro attività illegale, nel tentativo di crearsi la propria personale base di sostentamento o, addirittura, di ricchezza, da trasferire poi con un acrobatico trasformismo, nella nuova società post-fascista.

Con l'ascesa di queste forze così vicine ai nazisti e al fascismo più ideologizzato ed intollerante, si registra la decadenza della Guardia Nazionale Repubblicana, che ha puntato tutto sulla quantità, sul reclutamento senza andare troppo per il sottile che ne ha minato la struttura ed ha aperto voragini nelle sue fila con le diserzioni. 
Della Brigata nera Aldo Resega faceva parte anche il lissonese Gislon Fausto.

 

undefinedLegione Muti

Un'altra delle numerose polizie, nate durante la RSI con il fine di sorreggere il fascismo più intransigente, ma anche con lo scopo di guadagnare potere e soldi, fu la Legione Muti.

L'ex-caporale del regio esercito Franco Colombo, radunò attorno a sé, dopo l'8 settembre, un aggregato di fanatici e pregiudicati, che presto ottenne il favore dei tedeschi, appoggi altolocati nella RSI e il timore e il disprezzo della gente. Pose la base in via Rovello a Milano, negli edifici ora riscattati al genere umano dal Piccolo Teatro. Agirono con tale spregio di ogni regola che lo stesso federale di Milano, Aldo Resega, che di lì a poco sarà abbattuto dai partigiani, tentò invano di far sciogliere il malfamato reparto. Il comando della Muti appare però inattaccabile; riesce ad ottenere dal Ministero degli interni nella primavera del '44 la trasformazione formale in Legione autonoma Ettore Muti. Quel termine autonoma, i mutini lo interpreteranno a modo loro, cioè come possibilità di fare quello che vogliono.

Nell'elenco degli arruolati della Muti, riportato da Ricciotti Lazzero nel suo volume Le Brigate nere, figurano numerosi brianzoli, esattamente 64, provenienti per la metà dalle città di Monza e Lissone. Di questi arruolati, 30 hanno un'età compresa tra i 14 e i 17 anni.

 Arditi della Legione Autonoma Mobile “Ettore Muti” di Monza e circondario:

 Arosio Emilio (Muggiò), Arosio Felice (Lissone), Arosio Mario (Lissone), Biella Oreste (Monza), Bisesti Cesare (Monza), Calderini  Cesare (Monza), Calloni Luigi (Lissone), Cazzaniga Giuseppe (Lissone), Cereda Franco (Monza), Colombo Antonio (Monza), Comi Arcangelo (Lissone), De Molinari Luigi (Monza), Erba Pietro (Monza), Farina Paolo (Monza), Galbiati Giordano (Monza), Galimberti Bruno (Lissone), Garibaldi Angelo (Monza), Gatti Erino (Lissone), Graglia Michele (Monza), Lucarelli Michele (Desio), Mantegazza Pietro (Monza), Montrasio Angelo (Monza), Montrasio Osvaldo (Monza), Nobile Arturo (Monza), Nunzi Santino (Lissone), Piazza Francesco (Monza), Radice Sandro (Desio), Rigamonti Osvaldo (Monza), Tieghi Galliano (Monza),Villa Giorgio (Monza).

Il re Vittorio Emanuele III, accusato dai fascisti del tradimento del 25 luglio, scomparve dai documenti ufficiali e addirittura dalla piazza principale di Lissone che dal 3 marzo 1944 verrà intitolata ad Ettore Muti. Nella piazza, presso il palazzo Mussi tra il febbraio e il marzo del 1944 troverà alloggio anche il comando antiaereo tedesco che, con i militi della GNR alloggiati nei locali di palazzo Magatti (N.d.R. il vecchio municipio) in via Garibaldi,· garantiva un controllo più capillare del paese volto in particolar modo a contrastare la Resistenza. La locale sezione della GNR, dipendente dal comando di Desio, verrà soppressa nel novembre 1944; al suo posto resterà sino agli ultimi giorni di guerra un distaccamento delle Brigate nere.

Compiti affidati alla Legione: 

1.    Lotta anti-partigiana.

2.    Repressione di ogni tentativo di movimento antinazionale o comun­que diretto a sabotare l'opera del Governo repubblicano (scioperi, at­tentati, propaganda sovversiva, ecc.).

3.    Impiego immediato contro eventuali nuclei di paracadutisti.

4.    Impiego immediato per fronteggiare eventuali sommosse popolari.

5.    Eventuali compiti a seconda dell'emergenza del momento e sempre dietro ordine del Capo della Provincia (sorveglianza conferimento ammassi, protezione lavori di trebbiatura, servizio di presidio ad enti statali, scorta convogli di carattere militare).

Forza della Legione (permanenti):

Ufficiali 69; sottufficiali 89; graduati 44; arditi 1306. Totale 1.508.

Ufficiali superiori:

colonnello Franco Colombo, comandante, ten.col. Ampelio Spadoni, di Romano Lombardo (Bergamo), vice-comandante

ten. col. "Luciano Folli, di Lodi,

maggiore" Alessandro Bongi, di Milano,

maggiore Bruno DeStefani, di Milano

 

Dal libro di Ricciotti Lazzero “Le brigate nere” Rizzoli 1983

Fonte: Archivio di Stato - Como - Prefettura 122. L'elenco venne preparato, assieme a quello di tutti gli organi di polizie speciali della RSI in servizio al 25 aprile 1945, dalla Presidenza del Consiglio e trasmesso in plico sigillato, nell'agosto 1945, ai Prefetti ed ai Questori, in copie strettamente personali.

Poco prima della fine, il 9 marzo 1945, la "Muti" effettuò un rastrellamento in Val Cannobina, lungo la strada che da Cannobio (Lago Maggiore) porta a Domodossola. Nove partigiani garibaldini dell’85.ma Brigata furono costretti ad ingoiare ricci di castagne, poi evirati e sventrati a baionettate. L'11 marzo la "Muti" continuò il rastrellamento ad Armeno. (Guerriglia dell’'Ossola, Feltrinelli, Milano, pag.101).

 

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SS italiane

In quasi tutti i paesi da loro occupati, i tedeschi avevano formato con i residenti dei reparti militari che avevano inserito a vario titolo nel proprio esercito; fra questi, spiccavano i battaglioni delle SS. Anche in Italia, ormai paese satellite, si percorse questa strada, anzi lo stesso Mussolini, sempre preoccupato di non perdere considerazione presso il Fuhrer, chiese la formazione di reparti di SS italiane già il 24 settembre 1943. Gli arruolati vengono addestrati a Munsingen, credono di andare a combattere inglesi e americani al fronte, ma Himmler e Wolff hanno stabilito che questi reparti debbano essere utilizzati per compiti di polizia, di ordine pubblico e di lotta antipartigiana. Gli vengono fornite le divise rabberciate dell'ex-esercito italiano ma, cosa determinante, con le mostrine rosse come le vere SS. A novembre avviene il rimpatrio, con la prima emorragia di soldati che scappano verso le loro case o la macchia. Malgrado ciò si costituiscono tredici battaglioni, sistemati nell'alta Italia, al comando di un generale tedesco alle dipendenze dirette di Wolff. Né Mussolini e né Graziani avranno mai potere su questi reparti, che giureranno non a loro ma a Hitler.

I componenti delle SS italiane copiano i loro maestri tedeschi e vogliono superarli, nei paesi dove eseguono i rastrellamenti dilaga il terrore.
 

Anche la Brianza ebbe le sue Ville Tristi, a partire dalla Villa Reale di Monza fino ad andare ai vari presidi delle brigate nere sparsi sul territorio. Per chi ancora abbia bisogno di rendersi conto di cosa fu il fascismo repubblichino, una  testimonianza di Antonio Gambacorti Passerini, antifascista socialista monzese, che sperimentò la terribile esperienza della tortura:

“Fra i tanti supplizi subiti, ricordo uno messo in pratica da un certo Bussolin: le due mani legate, le ginocchia fatte sporgere per la forte flessione degli arti sul tronco al di sopra dei gomiti e fissate da un manico di scopa che passava al di sopra dei gomiti e al di sotto delle ginocchia; così ridotto un uomo non può in alcun modo difendersi e nemmeno riparare con parti più resistenti zone più delicate del proprio corpo. Così ridotto ad una palla, venivo colpito disordinatamente dai miei carnefici con calci, pugni, colpi di frusta e bastonature ... Ma non parlai; e così quando il Gatti mi disse "Ti fucilerei domani mattina", il Bussolin urlò "Ma intanto ha vinto lui! Non ha parlato, a quest'ora i suoi compagni ormai già sapranno della sua cattura e si saranno messi in salvo! No! Prima di morire deve parlare”.

Antonio Gambacorti Passerini,
uno dei protagonisti che parteciparono alle manifestazioni di giubilo per la caduta di Mussolini e nei 45 giorni che precedettero l’8 settembre 1943, fu impegnato per la riorganizzazione in senso democratico
  del comune di Monza che per oltre venti anni era stato guidato da un Podestà fascista. Questo suo aperto impegno a sostegno della cosa pubblica lo mise in evidenza, divenne una persona conosciuta ed alla prima occasione venne arrestato dai nazifascisti. Portato poi nel campo cosiddetto di “transito di Fossoli” in provincia di Modena, il 12 luglio 1944, per un atto di brutale e vigliacca rappresaglia, a cui erano barbaramente abituati i nazisti, venne portato al poligono di tiro di Cibeno, vicino a Carpi e fucilato assieme ad altri 66 antifascisti.

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