L’anno terribile 1948: il mondo si divide
Fu l'anno del colpo di Stato comunista a Praga e del blocco sovietico di Berlino,
in Italia dello scontro elettorale del 18 aprile, della vittoria della Democrazia cristiana di De Gasperi sul Fronte socialcomunista di Togliatti e Nenni;
e ancora, nel resto del mondo, della nascita dello Stato d'Israele e dell'assassinio di Gandhi, e delle definitive vittorie militari dell'Armata Rossa di Mao Zedong in Cina.
Un anno di svolta. Da una parte, esso portò alle estreme conseguenze politiche la crisi dei rapporti tra i vincitori del secondo conflitto mondiale, sancendo, al di là di ogni residua speranza, la frattura dell'Europa e in buona misura del mondo tra l'Ovest liberaldemocratico, guidato dagli Stati Uniti d'America, e l'Est comunista, ispirato e controllato dalla Mosca di Stalin (la «guerra fredda»). Dall'altra, creò le premesse di quella che sarebbe stata, in qualche modo, al fondo di tutto, la stabilità internazionale, per oltre un quarantennio, cioè fino a quando, repentinamente, ma come effetto finale del lungo e severo confronto, l'Est comunista non crollò su se stesso (o quanto meno, come nel caso della Cina, non diventò qualcosa di nuovo e diverso).
Proprio cento anni prima, nel 1848, in febbraio, Karl Marx e Friedrich Engels pubblicarono il Manifesto del partito comunista, diretto a superare e anzi a rovesciare ogni percorso moderato e gradualista delle trasformazioni sociali e politiche, per annunciarne uno decisivo e apocalittico: la «dittatura del proletariato», la lotta all'ultimo sangue alla borghesia capitalistica. Un anno prima, nel 1847, Marx era entrato a far parte di un'associazione fondata a Parigi nel 1830, chiamata Lega dei Giusti, e poi Lega comunista, il cui slogan era: «Tutti gli uomini sono fratelli». Marx e Engels lo sostituirono con un altro, che chiamava al «rovesciamento violento di tutto l'ordine sociale esistente», intendendo gettare via tutto il socialismo cosiddetto visionario e utopistico di Owen e Saint-Simon, di Blanc e Fourier, in nome di una nuova dottrina «scientifica» della lotta di classe e della rivoluzione mondiale. Il Manifesto uscì a Londra in febbraio, quando ormai era cominciata, a Parigi, la rivoluzione quarantottesca che avrebbe portato alla Seconda Repubblica francese.
Come cominciò la «guerra fredda»
L'espressione «guerra fredda» fu coniata da quello che è stato forse il più importante giornalista politico americano, Walter Lippmann, nel 1947. Voleva dire ovviamente uno stato di tensione nelle relazioni internazionali talmente grave da somigliare a una guerra, senza tuttavia esserlo davvero, ma con il pericolo di diventarlo .
Tale era il tipo di rapporti che si andava instaurando tra l'Est e l'Ovest, e soprattutto tra Unione Sovietica e Stati Uniti, all'indomani della comune vittoria contro la Germania nazista.
È del 1946 un'altra espressione famosa: «cortina di ferro». A pronunciarla, il 5 marzo, fu l'ex primo ministro britannico Winston Churchill, uno dei grandi protagonisti della guerra contro Hitler, in un discorso al Westminster College di Fulton, nello Stato americano del Missouri.
Disse Churchill che una cortina o sipario di ferro, appunto, «è sceso attraverso il continente, da Stettino nel Baltico a Trieste nell'Adriatico», volendo significare la pretesa dell'Urss di fare dei Paesi liberati dall'Armata Rossa nell'Europa centro-orientale una sorta d'impero al servizio di Mosca.
A Churchill, Stalin rispose sprezzantemente che «le nazioni che non parlano la lingua inglese non vogliono una nuova schiavitù», evidentemente sottintendendo che non ci sarebbe stato posto per un nuovo Impero britannico, o, nella nuova situazione, anglo-americano, e quindi rivendicando per se stesso e per l'Urss un ruolo storico di alternativa al potere occidentale.
Prove tecniche, diremmo oggi, di guerra fredda, cioè di un confronto, che sarebbe diventato globale, europeo e planetario, tra due blocchi di potere geopolitico tradizionale, con in più due ideologie contrapposte e inconciliabili, frutto delle rivoluzioni degli ultimi due secoli. Insomma la preparazione di una fase storica che, per l'intreccio e la complessità dei fattori, e per la gravità del pericolo di una loro esplosione, poteva essere considerata senza precedenti. E che, tra alti e bassi, sarebbe durata quasi mezzo secolo.
La Guerra Fredda come scontro di due progetti ideologicamente contrastanti.
La Guerra Fredda non fu uno scontro inevitabile. Fu la guerra provocata dal Terzo Reich che portò nel cuore dell'Europa Stati Uniti e Unione Sovietica e li pose gli uni di fronte all'altra. Entrambi cercarono di inglobare nella propria sfera d'influenza gli Stati europei e in particolare entrambi inclusero nella propria coalizione uno dei due Stati tedeschi nati dalle macerie della guerra. La contrapposizione politica, economica e militare tra le due Germanie acuì l'ostilità tra Stati Uniti e Urss e fece venire meno le basi dell'alleanza che si era formata durante il periodo nazista.
«La guerra fredda si sviluppò come conseguenza dell'esistenza di due progetti mondiali ideologicamente contrastanti e che i due campi si adoperarono per diffondere politicamente, economicamente e infine anche militarmente. La particolare asprezza assunta in Europa da questo scontro trova la sua giustificazione nel fatto che, se è vero che il potenziale tedesco venne controllato in entrambi i campi, è anche vero che quello tedesco-occidentale, ben più rilevante, non solo venne consolidato, ma venne anche mobilitato contro L'Unione Sovietica. Anche la Guerra Fredda, quindi, fu una conseguenza della guerra di conquista scatenata dalla Germania nazista». Jost Duffler
Winston Churchill: il discorso di Fulton
Un'ombra è caduta sulle scene così recentemente illuminate dalla vittoria degli alleati. Nessuno sa ciò che la Russia sovietica e la sua organizzazione internazionale intendono fare nell'immediato futuro, o quali siano i limiti, se ce ne sono, alle loro tendenze all'espansione e al proselitismo. [...] Noi comprendiamo il bisogno della Russia di essere sicura alle sue frontiere occidentali di fronte a qualsiasi ripetersi dell'aggressione tedesca. [...] È tuttavia mio dovere porre davanti a voi certi fatti al riguardo dell'attuale situazione in Europa: è mio dovere farlo, penso, anche se senza dubbio preferirei farne a meno.
Da Stettino sul Baltico a Trieste sull'Adriatico, è scesa sul continente europeo una cortina di ferro. Dietro quella linea ci sono tutte le capitali degli antichi Stati dell'Europa centrale e orientale. Varsavia, Berlino, Praga, Vienna, Budapest, Belgrado, Bucarest e Sofia, tutte queste famose città e le popolazioni che le circondano si trovano nella sfera sovietica e sono soggette, in una forma o nell'altra, non soltanto all'influenza sovietica, ma a un'altissima e crescente misura di controllo da Mosca. [...] Governi polizieschi stanno prevalendo in quasi tutti i casi, e finora, esclusa la Cecoslovacchia, non c'è vera democrazia. [...] D'altra parte io respingo l'idea che una nuova guerra sia inevitabile; e ancor più che sia imminente. È proprio perché sono così certo che le nostre fortune sono nelle nostre mani e che possiamo salvare il futuro, che sento il dovere di parlare ora che ho l'occasione di farlo. Non credo che la Russia sovietica desideri la guerra. Ciò che essi desiderano sono i frutti della guerra e l'indefinita espansione della loro potenza e della loro dottrina. Ma quello che dobbiamo considerare qui, oggi, mentre siamo ancora in tempo, è la prevenzione permanente della guerra e la creazione di condizioni di libertà e democrazia, il più rapidamente possibile, in tutti i paesi. [...] Se le democrazie occidentali si uniscono nella stretta aderenza ai principi della Carta delle Nazioni Unite, immensa sarà la loro influenza nella spinta in avanti di questi principi e nessuno probabilmente le molesterà. Se, invece, si dividono o esitano nel compimento del loro dovere, e se si permette a questi anni tanto importanti di scivolare via, allora potrà davvero sopraffarci tutti una catastrofe [...].
Cit. in J. MORRAY, Storia della guerra fredda, Editori Riuniti, Roma, 1962
Giustizia per le vittime italiane e greche del nazismo
Centro di ricerca “SCHIAVI DI HITLER” / fondo I.M.I. Claudio Sommaruga
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Sezione dell'Istituto di Storia Contemporanea "P.A. Perretta" 22100 Como – via Brambilla, 39
Io sostengo il punto di vista che una parte importante della realizzazione dei diritti umani sia il diritto di chiunque sia stato o sia costretto a lavorare per altri a ricevere l'adeguata ricompensa.
Per il lavoratore coatto questo indennizzo deve essere dato da chi ha tratto profitto da lui”.
Simon Wiesenthal, lettera a Ricciotti Lazzero, 20 marzo 2000
Giustizia per le vittime italiane e greche del nazismo
Dal 12 al 16 settembre si terrà presso la Corte internazionale di giustizia a L’Aia il dibattimento inerente il ricorso presentato dalla Germania contro l’Italia per le sentenze della nostra Corte di Cassazione in merito alle cause giudiziarie in corso relative a:
sfruttamento del lavoro coatto di oltre settecentomila internati militari e civili italiani deportati dopo l’8 settembre 1943,
eccidi compiuti dall’esercito tedesco contro i civili sugli Appennini nel corso della 2a guerra mondiale,
esecutività in Italia delle sentenze dei tribunali greci relative alla strage di Distomo.
La difesa dell’immunità degli stati trova la convergenza del governo tedesco e di quello italiano, ribadita da una dichiarazione congiunta che affida al tribunale internazionale “il chiarimento su tale questione” contro la decisione della nostra massima Corte, che con chiarezza ha ribadito che gli stati non possono pretendere immunità quando commettono gravi crimini di guerra o crimini contro l'umanità.
Noi temiamo che con il processo a L’Aia si vogliano chiudere definitivamente i capitoli dolosi e dolorosi della nostra storia a cui non si è voluto per oltre sessantacinque anni rendere giustizia.
Critichiamo e condanniamo l’atteggiamento del governo tedesco, che rifiutando il riconoscimento delle responsabilità delle sue imprese e del nazismo antepone alla giustizia e alla storia degli individui gli interessi economici e le opportunità politiche. Nello stesso tempo critichiamo e condanniamo l’atteggiamento del governo italiano, che offende i suoi cittadini e la storia del Paese in nome della ragione di stato e sospende l’esecutività delle sentenze dei tribunali della Repubblica.
Ancora una volta la vicenda della deportazione per lavoro coatto e le stragi di civili sono oggetto di scambio in nome di interessi che nulla hanno a che fare con la dignità degli individui e delle nazioni.
Tutto questo è particolarmente grave nella comune dimensione europea e costituisce un’offesa a qualsiasi politica che sulla ”memoria” voglia costruire un patrimonio comune in grado di orientare e di essere di monito al presente, per preservarlo dagli errori e dalle tragedie del passato.
Ma c’è di più in questo processo che si apre a L’Aia, che va al di là dello spregio dei cittadini italiani e greci, macinati dalla guerra nazista e dalla real-politik di tutti i governi del dopoguerra, qualcosa su cui dobbiamo porre attenzione.
La corte è chiamata ad esprimere un giudizio e fare giurisprudenza sul delicato e decisivo confine fra diritto individuale e responsabilità istituzionale.
In discussione a L’Aia c’è in generale il principio dell’immunità degli stati oltre“il punto di rottura dell'esercizio tollerabile della sovranità“, un principio che attiene il diritto internazionale dei popoli nel presente.
Storia della nazione e dei suoi cittadini, diritti individuali e collettivi sono in discussione in una causa ignorata dai media e coperta dal silenzio degli stati.
Riteniamo indispensabile in questa occasione fare sentire la nostra protesta e invitiamo quanti provano la nostra stessa preoccupazione ed indignazione a fare sentire la loro voce in tutte le sedi che giudicheranno più opportune.
Cernobbio 8 settembre 2011
Centro di ricerca “Schiavi di Hitler”
Claudio Sommaruga, Valter Merazzi, Maura Sala,
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