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Oreste Ballabio, un lissonese nel Corpo Italiano di Liberazione

10 Mars 2015 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #storie di lissonesi

Oreste Ballabio, un lissonese nel Corpo Italiano di Liberazione

Oreste Ballabio ci ha lasciati. Era socio onorario dell'ANPI.

Nel 2010, in occasione del “Giorno della Memoria”, gli avevamo conferito la tessera ad honorem, in segno di riconoscenza per aver contribuito alla Liberazione dell’Italia dall’occupazione nazista e dal regime fascista.

Oreste Ballabio, dopo l’8 settembre 1943, fece parte del Corpo Italiano di Liberazione che, con gli Alleati, contribuirono alla liberazione dell’Italia dall’occupazione nazifascista. Questi militari del C.I.L. vanno considerati dei resistenti come quelli che combatterono a Cefalonia o che finirono, rifiutando di combattere a fianco dei nazisti, nei lager tedeschi. Questi combattenti nelle unità militari, accomunati a quelli nelle formazioni partigiane e ai prigionieri in mano tedesca, compirono un grande sacrificio. A loro il nostro pensiero riconoscente e la gratitudine per averci consentito di riacquistare la dignità nazionale.

Quella di Oreste Ballabio è una preziosa testimonianza: quattro anni (dal gennaio 1942 al luglio 1946) in cui il giovane lissonese, da protagonista, vide la fine del regime fascista, la sconfitta del nazismo e poi, anche con il suo voto, la nascita della Repubblica Italiana.

Pedalando, fin dall’inizio

Oreste Ballabio si è affacciato alla vita il 24 ottobre del 1922 a Lissone, figlio di Ambrogio (pà ‘mBrusìn) e di Maria Perego.

Quello stesso giorno si radunavano a Napoli 60.000 camicie nere ad ascoltare Mussolini che proclamava: «O ci daranno il governo o lo prenderemo»  e a preparare la marcia su Roma, che in effetti ci sarà appena 4 giorni più tardi e che tanto avrebbe condizionato la giovinezza del nuovo nato.

58° artiglieria, cappello alpino

«Nel febbraio 1941 ho fatto la visita di leva, a Monza in “Forti e Liberi”. Poi sono partito il 10 gennaio del 1942 e sono tornato  a luglio del 1946. A vent’anni avevo già fatto 10 mesi di naja. Avevo 19 anni e tre mesi e sono tornato a 24 anni non ancora fatti».

«All’inizio sono andato a Milano alla caserma di piazzale Perrucchetti, artiglieria, e non so come mai sono andato lì; tornavo a casa tutte le domeniche, tram e treno. L’addestramento forte l’abbiamo fatto a Caslino d’Erba».

Ecco cosa dice un possibile commilitone del nonno Oreste, l’artigliere valtellinese Cesare Poletti Riz: «Nel gennaio dell’anno 1941 mi sono presentato alle armi con i nati nel 1921. Fui arruolato, fra le reclute, nel 58° Reggimento di Artiglieria Divisione Fanteria Legnano di cui alcuni reparti combattevano sul fronte greco-albanese. Eravamo ospiti nella caserma di Baggio, a Milano, presso il 27° Reggimento di Artiglieria. Dopo un primo periodo di istruzione, siamo stati inviati al campo a Canzo-Asso in provincia di Como e sistemati in una vecchia filanda con i nostri muli. Nell’autunno del 1941 il mio reparto è stato inviato in Liguria, a Cervo San Bartolomeo e dintorni; eravamo alloggiati in baracche vicino al mare e facevamo lunghe marce nell’entroterra ed esercitazioni varie. Dalla Liguria, nel novembre 1941, il reparto al quale appartenevo, con armamento e muli, fu spostato in Francia, sulla Costa Azzurra, presso Cannes, dove siamo rimasti fino al luglio 1942. La zona era bellissima con tante ville lussuose. Noi eravamo attendati, anche durante i mesi più freddi, con il compito di occupare il territorio francese e, nell’eventualità di uno sbarco dal mare, avevamo i nostri pezzi di artiglieria piazzati lungo la costa. I primi due mesi sono stati durissimi, anche per la scarsità dei rifornimenti, ma in seguito la situazione migliorò notevolmente ed a noi, come truppa di occupazione, venne assegnata una paga giornaliera di 50 franchi francesi, molto più del soldo nel territorio italiano. Stavamo bene tutti e il rapporto con la popolazione locale, nonostante alcune regole da osservare, come il coprifuoco, era buono ed eravamo benvisti».

Anche il nonno Oreste – che appartiene alla Divisione di fanteria «Legnano» e più precisamente al 58° artiglieria «Legnano» e quindi porta il cappello da artigliere alpino -  ha una storia del genere, sebbene posticipata di un anno:

«Poi sono partito per il reggimento che era in Liguria ad Albenga, a giugno. A novembre siamo andati in Francia. Già pronti per andare in Russia a rinforzare la Tridentina, invece di andare a prendere il treno ci hanno mandati in Francia. I bersaglieri in bicicletta e noi a piedi».

«Il più brutto l’ho fatto più in Francia che dopo. Si stava fuori un giorno o due a costruire camminamenti, poi quand’era pronto ci spostavano. Si faceva una media di 25-30 km tutti i giorni. Siamo arrivati fino a Lione. Nel 1943 abbiamo cominciato a stare un po’ fermi e a star bene, abbiamo costruito le baracche, e ci hanno rimpatriati».

Ecco cosa testimonia un altro reduce, un ufficiale:

«Fra i compiti dei reparti Italiani attestati nella Francia meridionale era quello di preparare delle difese per ostacolare il probabile tentativo di sbarco da parte degli anglo-americani. Infatti uno degli incarichi che ebbi in quel periodo, inverno e primavera del 1943, fu quello della responsabilità per oltre tre mesi di un plotone formato in gran parte di valtellinesi e comaschi impiegato nella costruzione di alcuni fortini in cemento armato per mitragliatrici e cannoni anticarro nella località di La Napoule a circa sei chilometri oltre la città di Cannes e organizzata come caposaldo. Gli approntamenti difensivi, grazie ai miei fanti tutti esperti muratori e carpentieri, furono lodati dal colonnello comandante il Reggimento, e seppero resistere all’usura del tempo: infatti ne ho ritrovato due intatti quando nel 1989 tornai in quella località. Ai primi di settembre 1943 i reparti della “Legnano” furono inviati in Puglia per contrastare l’avanzata delle truppe anglo-americane sbarcate in Sicilia».

Mitraglia a truppa

Continua infatti l’Oreste:

«Io il 6 settembre 1943 ero a Bologna per scendere in Bass’Italia. A un certo punto il tenente mi dice: “Ballabio, metti la mitraglia truppa!”. In pratica, sui carri merci avevamo le mitraglie in posizione contraerea e dovevamo invece metterle in posizione per sparare alle persone. Lì ho capito che stava succedendo qualcosa di grosso».

«Ma dell’armistizio abbiamo saputo solo quando siamo arrivati a Francavilla Fontana, in provincia di Brindisi. L’abbiamo saputo lì perché il tenente al ma dis: “Ballabio (io avevo la mitraglia), dovete portare in salvo la bandiera. Però state attenti, non fate il fesso. Se incontrate qualcuno fate così subito” e faceva il segno di alzare le mani. “Però cercate di bruciare il camion con dentro la bandiera, per non farla restare prigioniera”. Invece, come siamo arrivati in caserma, due carri armati americani ci hanno bloccato il camion ed è finita lì, noi siamo stati agli ordini del tenente».

Ecco la testimonianza di un altro reduce:

«Il mio reparto, dopo una prima destinazione nei pressi di Bologna, a Samoggia, ai primi di settembre fu inviato, con tutto l’armamento e i muli, per “destinazione ignota”. Il viaggio fu molto lungo, in tradotta militare.

Giunti nelle vicinanze di Barletta, alle 8 di sera dell’8 settembre 1943, arrivò la comunicazione dell’avvenuto armistizio.

Pensavamo tutti che la guerra fosse ormai finita, ma alle 9 della stessa sera la radio comunicò che la guerra sarebbe continuata. Le notizie erano molto confuse, non si riusciva più a capire quale fosse il nemico, forse i tedeschi! Per nostra fortuna il viaggio proseguì senza incidenti ed arrivammo incolumi alla nostra destinazione: San Vito dei Normanni, in Puglia».

Coi «soldati del re»

Dopo l'8 settembre 1943, infatti, la Divisione Legnano fornisce i reparti base per la costituzione del 1° Raggruppamento Motorizzato, che diventa successivamente Corpo Italiano di Liberazione (Cil): sono i «soldati del re», che ora finalmente cominciano ad essere rivalutati  per la loro opera, perché l’Italia non è stata liberata solo dai partigiani, ma anche da questi soldati fedeli al loro giuramento e che persero 8100 uomini.

«Già il 28 settembre 1943 – scrive uno storico – un gran numero di fanti della Legnano costituirono, insieme ad altri reparti, il nucleo del 1º Raggruppamento Motorizzato, circa 5000 uomini che furono la prima unità combattente italiana ammessa a partecipare alla guerra contro i tedeschi», anche se – almeno all’inizio – in un settore marginale della guerra; probabilmente perché gli Alleati non si fidavano troppo. Ma il valore anche morale della loro lotta è stato altissimo: erano italiani che finalmente lottavano per liberare la loro terra».

 Il nonno Oreste prosegue:

«Eravamo prigionieri e non prigionieri, ci hanno disarmato e poi ci hanno armato ancora con le nostre armi. Eravamo l’esercito del Sud. Noi eravamo i primi, poi sono rientrati vari altri reparti e si è formato un Gruppo Legnano specializzato, poi c’erano gli alpini. Più avanti ci hanno dato la divisa inglese kaki e le sue armi, ma sempre col cappello alpino; comandante (dal gennaio 1944, ndr) era il generale Umberto Utili».

Il 58° artiglieria entra nel I Raggruppamento Motorizzato dal 15 novembre 1943. Il Raggruppamento venne impiegato già sin dal 7 dicembre 1943 sul fronte di Cassino e, in venti giorni di prima linea, caddero per la conquista del Montelungo 47 fanti e si ebbero 102 feriti. Per fortuna, il nostro Oreste lì non c’era, anche perché quella del Montelungo fu un’operazione militarmente sbagliata.

Lui era altrove:

«Prima a Brindisi, dopo a Mesagne, poi a Manduria, poi a Lizzano, poi a Taranto. Non facevamo niente. Abitavamo in tendopoli. La divisione 67 fanteria ha cominciato a combattere a Montelungo nel dicembre del 1943, noi nel febbraio 1944 sulle Mainarde, Monte Morrone.

Lì c’era una batteria alpina che era spostata e non poteva sparare, noi siamo arrivati a un punto che di munizioni non ce n’era più e allora ce le ha date la batteria alpina. Combattevamo i tedeschi, non gli italiani. Prima non avevo mai sparato, in Francia eravamo truppe d’occupazione. Nella mia batteria uno solo è morto, con la mina: stava portando il rancio in linea pezzi ed è saltato».

Sulle Mainarde

Monte Marrone è sulla catena delle Mainarde, ai confini tra le province d’Isernia e di Frosinone. Lì gli italiani combattono prima (per poco tempo) al servizio delle truppe francesi del generale De Gaulle, poi con i bersaglieri e gli alpini del «Piemonte», che s’impadronirono a metà maggio 1944 del Monte Marrone e poi occuparono Monte Mare e Monte Cavallo ed aprirono agli Alleati una nuova direttrice per raggiungere Roma.

«Il 24 maggio – spiegano i libri - venne dato l'ordine al 4° Reggimento bersaglieri, agli alpini del battaglione “Piemonte”, all'85° Reparto paracadutisti, al IX Reparto d’assalto e al IV Gruppo artiglieria someggiato di avanzare per l'alto lungo la direttrice Monte Marrone, Monte Mare, valle Venafrana, Picinisco».

«La resistenza tedesca si irrigidiva sul Monte Irto e Monte Pietroso che sbarravano l'accesso alla valle di Fondillo; ovunque avanzando, il 28 fu raggiunto Picinisco. Quando i soldati italiani del Corpo Italiano di Liberazione già gridavano “Roma, Roma!”, gli Alleati, in particolare i britannici, non vedevano di buon occhio l'entrata a Roma delle unità italiane».

Questo il ricordo di Oreste:

«Siamo scesi a Picinisco col battaglione Boschetti, il famoso battaglione Boschetti degli arditi. Poi abbiamo attraversato una valle, non so se era la valle del Liri, e c’era un ufficiale, un tenente del Boschetti che era davanti, e sento che dice se c’era qualcuno della Lombardia. Gli dicono c’è un Ballabio… “Ciao - al ma ciama, io avevo la mitraglia -. Da che part ta set?”. “Mi son da Lisòn”. “Mi son da Aròs. Ciao!”».

In effetti, quel battaglione di arditi (era il IX Reparto d'assalto)godeva di fama di grandi combattenti; entrò in linea il 20 marzo 1944 presso Monte Castelnuovo sulle Mainarde.  Veniva chiamato Boschetti dal nome del suo comandante, Guido Boschetti, e contava su circa 500 o 600 uomini, tutti volontari; dall’armistizio alla fine della guerra avrà a 60 caduti e circa 200 feriti.

Il nonno racconta di un sergente del Boschetti che, saltato su una mina e gravemente ferito, estrae una pistola e si spara alla testa.

«Come truppe destinate ad entrare in azione – racconta un altro testimone - ci fu un miglioramento nel vitto e nell’equipaggiamento; la paga fu portata a 50 lire giornaliere per soldati e ufficiali. In questa zona combattevano truppe italiane, polacche, marocchine e indiane, sulla Linea Gustav, lungo la quale avanzammo lentamente con combattimenti durissimi contro i tedeschi».

«La Pasqua del 1944 fu tragica, con moltissime perdite da una parte e dall’altra, sulla cima del Monte Marrone. Questo è stato il periodo delle grandi e sanguinose battaglie di Monte Cassino, Monte Lungo, Monte Mainardi, Monte Marrone e Monte Mare: battaglie che, anche con la partecipazione del Gruppo di combattimento Legnano del rinato esercito italiano, a fianco degli Alleati, aprirono la strada della liberazione di Roma».

Ma gli Alleati non volevano che Roma fosse liberata proprio dagli italiani, che nel frattempo – a primavera del 1944 - si erano costituiti nel Corpo Italiano di Liberazione. Esso infatti venne deviato verso l’Adriatico e impiegato alle dipendenze del II Corpo d’Armata Polacco, comandato dal generale Anders e che rappresentava l'estrema sinistra dello schieramento dell'VIII Armata britannica.

Il 1° giugno i 12-14 mila uomini del Cil erano stati organizzati su due Brigate, una Divisione e un Comando artiglieria. Oreste fa parte della prima Brigata, costituita dal 4° Reggimento bersaglieri, dal 3° Reggimento alpini (con i battaglioni Piemonte e Monte Granero) dal 185° Reparto paracadutisti e appunto dal IV Gruppo artiglieria someggiato.

Come testimoniano gli storici:

«Il Cil dall'8 giugno iniziò una travolgente offensiva che doveva portarlo da Guardiagrele al Metauro. Lo sfondamento della linea invernale portò l'8 giugno alla conquista di Canosa Sannitica, Guardiagrele e Orsogna. Mentre dopo questa operazione la II Brigata rimase a presidio del settore, i bersaglieri e gli alpini della I Brigata proseguirono l'avanzata ed occuparono Bucchianico. Nei giorni 11, 13 e 15 giugno elementi della I Brigata raggiunsero rispettivamente Sulmona, L'Aquila e Teramo. Dura poi fu la resistenza tedesca sul Chienti, ma, serrati sotto i reparti che nella rapida avanzata si erano scaglionati per decine di chilometri, a fine giugno furono occupati Tolentino e Macerata».

Spiega un reduce della “Legnano”:

«Nel maggio 1944 l’avanzata proseguì verso Roma e anche il mio reparto si spostò più a nord. Avanzammo verso Pescara; attraversammo, a piedi, il fiume Pescara trasportando mezzi e muli protetti da una pattuglia di Alpini. Deviammo verso l’Aquila, sempre a piedi, e poi ancora verso Teramo, Ascoli Piceno e Filottrano. Proprio a Filottrano (caposaldo indispensabile per la presa di Ancona) ci fu una durissima battaglia».

La battaglia di Filottrano

Infatti quella di Filottrano, tra il 9 e l’11 luglio 1944, fu una delle più dure battaglie di tutto il Cil, con 300 morti tra i paracadutisti della Nembo. Eccone una sintesi:

«I tedeschi ritirandosi da Macerata, avrebbero voluto organizzare una difesa sul fiume Musone a nord di Filottrano ma non ebbero il tempo e cercarono di resistere all'interno e nei pressi del paese. L'artiglieria del Cil si schierò nei pressi di Sant’Antonio al Forone, da dove la mattina del 7 luglio cominciò ad aggiustare i tiri sui tedeschi. La maggior parte degli obiettivi da battere erano compresi tra Filottrano e Centofinestre».

«I tedeschi battevano la strada che da Centofinestre porta a Filottrano per fermare gli attaccanti: i parà della Nembo, il San Marco, gli arditi e il 68° fanteria. Per tutta la mattina durò il combattimento e solo verso mezzogiorno ci fu una stasi. Il paese era occupato metà dagli italiani, metà dai tedeschi e si combatteva casa per casa».

«L'abitato fu molto danneggiato. Nel pomeriggio dal lato nord del paese i tedeschi sferrarono un attacco con alcuni carri armati "Tigre" ma furono dopo poco fermati dal tiro intenso dell'artiglieria. Iniziarono così a ritirarsi verso il fiume Musone e il 9 luglio il tricolore potè sventolare sul campanile di Filottrano. L'avanzata italiana continuò il 17 e portò il Cil oltre il Musone, quindi a S. Maria Nuova il 19 e a Jesi il 21».

Così invece la racconta Oreste:

«L’abbiamo vista brutta anche noi, nelle Marche, a Filottrano, si sparava a zero, appena appena sopra la nostra fanteria. Carica uno, la carica minima: già il pezzo sparava a 4 km al massimo, figurarsi dov’erano i nemici... Eran già arrivati i muli in linea, pronti per caricare la roba e scappare. Poi comincio a sentire: “Alzo più uno”, “Alzo più due”, poi “Carica terza”… Basta, era andata».

Il cannone della Grande Guerra

Per avere un’idea dell’armamento, le batterie di artiglieria da montagna erano armate con un obice da 75/13 mod. 15già preda bellica austro-ungarica nella Grande Guerra, prodotto dalla Skoda. Il pezzo era lungo 3 metri e mezzo circa, pesava oltre 600 kg e sparava (teoricamente) a 8 km. Il tutto someggiato a dorso di mulo.

Oreste però era capo arma della mitraglia pesante (una Fiat 14/ 35, che pesava circa 17 kg più altri 23 per il treppiede) nella decima batteria del IV Gruppo someggiato. Ogni batteria contava su 4 pezzi e due mitraglie:

«La mitraglia pesante era solo in difesa dei pezzi: nella ritirata, la mitraglia doveva stare lì. La portava un soldato con i muli, pesava quasi più del pezzo.. Ero il capo-arma».

«Sono rimasto in linea fino al settembre del 1944. Salendo da Pescara fino alla Linea Gotica, sempre nelle Marche più o meno».

Il Corpo Italiano di Liberazione giunge stremato al Metauro, dopo aver abbandonato lunga la strada la maggior parte dei suoi mezzi  distrutti. Viene quindi deciso di costituire con i reparti del Cil, integrato da nuove forze provenienti dalla Sardegna, sei divisioni o Gruppi di Combattimento ognuno di circa 10 mila uomini, armati ed equipaggiati con materiale inglese.

Il 24 settembre 1944, sulla base della ex Prima Brigata cui apparteneva Oreste, si ricostituisce così il Gruppo di combattimento «Legnano» con il 68° Reggimento di fanteria «Palermo», rinforzato dal IX reparto d'assalto (gli arditi del Boschetti), un Reggimento Fanteria Speciale (costituito con quanto resta del 3° alpini e del 4° bersaglieri).

L’acqua giù per le spalle

Infatti Oreste se lo ricorda bene:

«Ai primi di ottobre del 1944 eravamo nella divisione Legnano del Corpo italiano di liberazione. Poi siamo andati a riposo a Piedimonte d’Alife, mi sembra che fosse nel matese, in provincia di Caserta. L’inverno l’abbiamo fatto lì, sotto le tende. Avevamo le divise estive, i pantaloni corti. Poi, quando eravamo quasi marci con l’acqua che viaggiava sotto le tende, qualche signora ci ha fatto entrare a dormire in una casa del paese».

Un altro reduce conferma, quasi parola per parola:

«Veniamo dotati di uniformi inglesi che accettiamo molto mal volentieri, stante la nostra volontà, dimostrata in modo energico, di mantenere il grigio–verde. Anche l’armamento è inglese  e inglese diviene la tattica,  per cui necessita un particolare addestramento».

«Il battaglione viene trasferito a Piedimonte d’Alife, attendato in un campo fangoso. I mesi di ottobre e novembre sono particolarmente piovosi, ma l’addestramento, duro e spregiudicato, non conosce sosta. Alla sera, sotto il grande tendone dello spaccio, intrattengo la compagnia raccontando barzellette e facezie varie, con grande gradimento dei bersaglieri, ufficiali compresi, il che mi incoraggia a mettere insieme un’orchestrina clarinetto, tromba, tamburi ed altri a strumenti vari, tra i quali un alpino al sassofono,  ottenuti in modo rocambolesco».

Poi Oreste (ed esattamente il 23 marzo) torna al fronte, in Romagna:

«Ai primi del 1945 siamo rientrati in linea. Subito al fronte, ma si è combattuto molto. Lì chi ha lasciato tante penne è stata la Sforzesca».

Ecco la storia ufficiale:

«Il Gruppo Legnano raggiunse il fronte il 19 marzo 1945 alle dipendenze della Quinta Armata americana, schierandosi (il più a ovest dei reparti italiani) nel settore del fiume Idice».

«Gli alpini del Piemonte e dell'Aquila e i bersaglieri del Goito presero posizione fra le valli Zena e Idice, unicamente ai fanti del 68°, schierati a Monte Tano e Monte Castelvecchia. Fu subito un succedersi continuo di scontri di pattuglie e colpi di mano per saggiare, con azioni preliminari, la consistenza del dispositivo tedesco».

«Il 10 aprile ebbe inizio l'attacco contro le posizioni nemiche, da parte di due compagnie di arditi che puntarono su Vignale. Seguirono, l'occupazione di Cà del Fiume, San Chierico e del costone dei Roccioni di Pizzano. Il 21 aprile riprese l'avanzata verso Bologna dove entrarono poco dopo. Ormai i tedeschi erano in rotta».

La liberazione a casa

«Nell'ultima fase dell'inseguimento il Gruppo si divise in vane colonne motorizzate nella pianura padana; Mantova, Brescia, Bergamo, Milano, Torino furono le sue ultime tappe».

Così il nonno Oreste ricorda:

«Il 25 aprile eravamo a fare i combattimenti, dopo l’armistizio sono tornato a casa. Non tornavo al febbraio del 1943 e dopo l’armistizio notizie non se ne sapevano più. Eravamo 10, tutti lombardi; abbiamo preso un camion (lo sapeva anche un nostro ufficiale) e siamo partiti, abbiamo attraversato il Po su un ponte di barche e siamo arrivati su. L’autista era di Como».

«L’armistizio proprio ero a casa, quel giorno lì; il 5 o 6 maggio. Tant’è vero che mi hanno chiesto: “E’ lunga amò ‘sta guerra?”. “Mah. Credo che ormai è finita”. C’è la fotografia dove ci sono anch’io con la scritta: “La Brianza libera non vuole il Savoia traditore” e io sto versando il latte nel bicchiere».

La guerra è finita, la naja no

Ma intanto per Oreste è ora di tornare in caserma…

«Un giorno arriva la camionetta, il tenente ci fa: “Dai, bagai che l’hi fada fin trop!”. Mi han trovato tramite i carabinieri».

«Ci hanno sparpagliati tutti, hanno diviso il Corpo Italiano di liberazione. Chi è andavo alla Legnano, chi è andato alla Picena. Io sono andato a finire alla Nembo: alla Folgore, via, ai paracadutisti».

«E siamo tornati, siamo finiti direttamente al Brennero, a Fortezza, Bressanone, un giorno di qua, 15 giorni di là. Aspettavamo il rimpatrio dei soldati italiani. Facevamo i posti di blocco nei paesi».

«Un giorno eravamo a Miramonti, c’era un grosso capannone, pieno di copertoni e altro materiale. Quel giorno dovevo montare di guardia, il furiere mi dice: “Ballabio!”. “Dai, porco cane, ho smontato ieri sera di guardia...”. “O vai in cucina, o monti di guardia”, fa lui. Allora vado in cucina! Quella notte lì è sparita metà dei copertoni. Nessuno ha visto niente e tutto era chiuso: dove è andata a finire la roba, se le chiavi ce le aveva il maggiore?».

«C’era la popolazione altoatesina, ma hanno dovuto abbassare la testa. A San Michele dell’Adige, nel paese di Savor, ci hanno dato l’albergo e e parlavano tedesco, ma c’era un cameriere italiano: “Ho 40 anni e non riesco a capire una parola di tedesco…”, diceva».

Lo confermano gli storici: «Concluse le ostilità, il Gruppo di combattimento “Folgore” fu destinato al presidio della linea di confine tra l'Italia e l'Austria, dal Passo di Resia al Brennero fino a Prato alla Drava. Il Reggimento paracadutisti “Nembo” con comando a Brunico venne dislocato in Val Pusteria e nell'Alta Valle del Piave e vi rimase fino al 24 dicembre 1945. Nel successivo dicembre, la Folgore viene trasferita in Toscana e in Umbria».

Infatti Oreste se lo ricorda bene:

«A Natale del 1945, il giorno prima, partenza per la Toscana. A Pistoia nella caserma della Nembo, dei paracadutisti, ad aspettare che venisse sera. Poi son venuto anche a casa, 6 giorni di licenza».

«Poi il 2 giugno 1946, alle prime elezioni, siamo andati a presidiare il paese di San Marcello Pistoiese. Io ho votato repubblica, chi devo votare? Mi hanno fatto fare 10 anni di militare, i Savoia!».

Congedo da paracadutisti

«Da lì siamo andati a Pisa, a fare vacanza. E’ stato bello: ci svegliavamo alla mattina quando volevamo, alle 7 al massimo, poi si prendeva il camion e si andava a Marina di Pisa, al mare; solo noi, gli anziani. Poi si rientrava al rancio, si faceva il riposino fino alle 3 e poi si andava ancora al mare. Si giocava al pallone fino alle 7 e poi si andava in libera uscita e rientravi quando volevi. Basta che alla mattina alle 7 eri presente. Una pacchia. Io ho visto la torre di Pisa perché ero militare».

«Poi è arrivato il congedo, il 18 luglio. Ho buttato via la divisa, mi sono vestito da borghese. Era la divisa dei prigionieri di guerra, ma non grigioverde né kaki, verdone scuro con una pezza gialla dietro sulla schiena, e appena a casa l’ho buttata via. Era un venerdì e ho cominciato a lavorare dopo 8 giorni: “T’è ripusà asé”, m’an dì».

 

L’articolo è un estratto dal libro " ’Ndem, Oreste! " di Roberto Beretta. Il testo in corsivo è tratto da una registrazione di Oreste Ballabio, effettuata da Roberto Beretta. 

Libri utili

Cesare Medeghini - «Gli italiani nella guerra di liberazione. Da Cassino alle Alpi» (S.E.S.A. 1945)

Umberto Utili - «Ragazzi, in piedi», Mursia

Antonio e Giulio Ricchezza - «L’esercito del Sud», Mursia

Lorenzo Bedeschi - «La nostra guerra di liberazione: gli Arditi», Savio

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