Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

Settembre 1943, la Milano del dopo armistizio

3 Septembre 2017 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Settembre 1943, gli stracci sono sempre i primi a volare. La Milano del dopo armistizio si presenta come una città devastata dalle incursioni aeree dell'agosto precedente.
   

Degli oltre duecentomila abitanti rimasti senza tetto la maggior parte sono operai: alloggiavano in «abitazioni malsane e carissime» e ora, dopo che i bombardamenti alleati hanno infierito sui quartieri popolari di Porta Genova, Porta Ticinese, Porta Garibaldi e sull' area a nord dell'Arena, non hanno più nemmeno quelle.

Diverso il discorso per i ceti abbienti, i quali, a quest'epoca, sono già sfollati trovando riparo nelle campagne e nelle valli lombarde. Le autorità municipali, di fronte a tale situazione, ventilano sì un progetto di accertamento e di requisizione dei vani disponibili, ma basta il coro di proteste del sindacato proprietari di fabbricato perché tutto si areni e la proverbiale solidarietà meneghina, il "gran coeur de Milan ", si blocchi di fronte all'inviolabilità della proprietà privata.

Adesso, dopo l '8 settembre, il problema degli alloggi è aggravato anche dalle requisizioni operate dai tedeschi. Trovare casa, anche un buco in cui accalcarsi, diventa impresa sempre più ardua, almeno per chi non possiede un reddito superiore.

Non meno drammatica si presenta la situazione alimentare: le razioni assegnate a prezzi controllati - per ammissione degli stessi repubblichini - forniscono «meno di un terzo del fabbisogno minimo».

Il ricorso al mercato nero è, dunque, un fatto scontato e indispensabile, senonché i prezzi vanno registrando un'impennata vertiginosa. Anche qui, accanto alle disastrose conseguenze di un'economia di guerra di per sé asfittica e sempre più corrosa dalla speculazione, accanto alla rarefazione dei prodotti e alle difficoltà di approvvigionamento dovute al dissesto dei trasporti e al dominio dei cieli da parte dell' aviazione alleata, si aggiunge il peso dell'occupazione germanica.

La fissazione del cambio lira-marco nel rapporto 1 a 10, incoraggia l'accaparramento di beni di consumo da parte dei militari e dei cittadini tedeschi e concorre alla progressiva lievitazione dei prezzi della borsa nera, peraltro già inaccessibili alle classi più povere.

Con lo scorrere delle settimane la situazione generale peggiora sempre più. Il costo della vita ascende a livelli impensati: il capitolo alimentazione del settembre 1943 registra un aumento di 50 punti rispetto ai 14 dell'anno precedente e quello del vestiario un aumento di 74 punti (8 nel 1942).

Nei mesi successivi, da ottobre a dicembre, la Militärkommandantur 1013 segnala l'inadeguatezza del rifornimento dei grassi (destinati prevalentemente al fabbisogno della Wehrmacht), la deficiente disponibilità di zucchero, la scarsità di scarpe e la minaccia della totale scomparsa del sale. Buon ultimo anche la produzione risicola lombarda è destinata all'esportazione verso il Reich e, pertanto, alla popolazione italiana non potranno essere distribuiti che esigui quantitativi.

A completare il quadro già drammatico c'è anche la mancanza di combustibile e di legna da ardere per affrontare i rigori dell'inverno ormai prossimo: a fine anno l'indice relativo al capitolo riscaldamento e luce segna un aumento di ben 84 punti. Va da sé che, in una simile situazione, la difesa del salario e del posto di lavoro si identifichi come non mai con le possibilità di sopravvivenza, tanto più che la classe operaia si trova ora a dover fronteggiare anche i provvedimenti adottati dal padronato nella nuova congiuntura economico-politica.

Dall'agosto all'ottobre del 1943 in previsione della smobilitazione dell'industria bellica e, poi, per la scarsità di materie prime, il numero degli operai occupati diminuisce dell'8,8%, mentre l'indice delle ore lavorative eseguite cala di quasi 11 punti in settembre e di 17,2 in ottobre.

Le cifre statistiche relative all'intera Italia settentrionale trovano conferma in ciò che accade nel capoluogo lombardo. Tra settembre e ottobre si scatena una massiccia ondata di licenziamenti: la Caproni (6.000 dipendenti) ne espelle 2.000, la Lagomarsino (4.000) ne caccia 3.000, la Brown Boveri 2.000 su un totale di 5.000, la Safar (3.000 dipendenti) ne allontana 1.500, la Olap 500, le Rubinetterie riunite 1.300, la Montecatini 700, la Rizzoli riduce il personale da 200 a 70 unità, la Magni chiude, l'Innocenti non licenzia ma sospende 1.500 lavoratori. A nessuno viene corrisposto il previsto pagamento del 75% del salario da parte della cassa integrazione e i licenziamenti sono accompagnati dalla contrazione delle ore lavorative e dal mancato rispetto di accordi aziendali: alla Montecatini la settimana è ridotta a cinque giorni lavorativi, alla Safar si scende a due e inoltre si eludono gli impegni presi in merito alla concordata distribuzione di carbone e di biciclette per gli operai e se ne sospendono altri 300; all' Alfa Romeo di Melzo non vengono pagate le 35 lire pattuite per la trasferta né si provvede, come promesso, agli alloggi per i lavoratori; alla Grazioli si rifiuta il pagamento del 75% del salario ai sospesi e, in novembre, alla Caproni vengono ridotte le tariffe preventive del cottimo. 

 

Novembre 1943, l'angoscia grava sulla città come la sua proverbiale nebbia. Le forniture di gas e energia elettrica sono limitate a alcune ore della giornata, la gente va a dormire al buio e al freddo con l'incubo dei bombardamenti: una valigia ai piedi del letto e la torcia elettrica a dinamo sul comodino, per essere pronti al primo allarme a precipitarsi nelle cantine trasformate in malsicuri rifugi antiaerei.
 

C'è poco da mangiare: a chi possiede una tessera annonaria, in ottobre, sono stati distribuiti un chilo di patate, 100 gr. di fagioli, 50 gr. di salumi, 80 gr. di carne suina, un decilitro di olio, 200 gr. di burro e 100 gr. di grassi di maiale. Riso e pasta si aggirano attorno al chilo, di carne di manzo neanche parlarne, la verdura è introvabile. Una saponetta da bagno da 100 gr. deve durare due mesi e tra poco sparirà dal mercato. Per chi fuma la razione giornaliera è di tre sigarette.

 

Ma non esiste solo una Milano operaia che fa la fame, ne esiste anche un' altra: una Milano che sembra non voler pensare a quanto sta succedendo, una Milano che vuole stordirsi, che vuole o finge di illudersi che tutto stia tornando alla normalità. E i tedeschi, che di questa pseudonormalità hanno bisogno, ne incoraggiano gli aspetti più frivoli concedendo a tutto spiano autorizzazioni alla riapertura di cinema e teatri. I sette cinematografi rimasti aperti nei giorni dell'armistizio diventano ventotto alla fine di ottobre, più quattro teatri.

Bombardata la Scala, la stagione lirica si riapre al Nuovo con il Rigoletto e, se proprio non va bene a chi ha dello spettacolo un gusto un po' più grasso, al Mediolanum c'è Gambe al vento, con la compagnia di quel Nuto Navarrini che vanterà intime amicizie tra gli assassini della Legione autonoma Ettore Muti e che spesso si mostrerà in pubblico indossandone la divisa: negli anni cinquanta troverà benevola accoglienza nei palinsesti televisivi della Rai. Per chi ha denaro, invece, da sabato 29 ottobre è ripreso il galoppo all'ippodromo di San Siro.

È anche contro questa falsa normalità che i gappisti devono battersi per impedire che dilaghi e invischi le coscienze nell'accettazione passiva dell'occupazione straniera e del rigurgito squadrista.
da “Due inverni un’estate e la rossa primavera” di Luigi Borgomaneri


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