Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

Résultat pour “vento del Nord”

La formazione delle Brigate Garibaldi

6 Décembre 2009 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

 Nel novembre del 1943 in un articolo del giornale clandestino, organo del Partito comunista italiano, la «Nostra lotta», dal titolo «Perché dobbiamo agire subito», viene motivata  la necessità di “agire subito e il più ampiamente e decisamente possibile.

“Primo: per poter abbreviare la durata della guerra e liberare al più presto il popolo italiano dall'oppressione tedesca e fascista. L'azione dei partigiani deve diventare l'azione di tutto il popolo italiano ...

In secondo luogo è necessario agire subito ed il più ampiamente e decisamente possibile per risparmiare decine di migliaia di vite umane e la distruzione di tutte le nostre città e villaggi. È vero che la lotta contro i tedeschi ed i fascisti costerà sacrifici, vittime e sangue. Ma questa lotta è necessaria per abbreviare l'occupazione tedesca dell'Italia ...

In terzo luogo è necessario agire subito ed il più ampiamente e decisamente possibile perché solo nella misura in cui il popolo italiano concorrerà attivamente alla cacciata dei tedeschi dall'Italia, alla sconfitta del fascismo e del nazismo, potrà veramente conquistarsi l'indipendenza e la libertà.

In quarto luogo è necessario agire subito ed il più ampiamente possibile per impedire che la reazione tedesca e fascista possa liberamente dispiegarsi indisturbata ... Se noi non passiamo alla lotta subito essi potranno indisturbatamente continuare a saccheggiare il nostro paese ... costringere i nostri operai ad andare in Germania ...

Infine è necessario agire subito ed il più largamente e decisamente possibile perché la nostra organizzazione si consolida e si sviluppa nell'azione ... È dalla lotta e dall'esperienza che sorgeranno i migliori quadri di combattenti contro i tedeschi e contro i fascisti”.

 

Contemporanea alla pubblicazione dell’articolo di «Nostra lotta» è la mobilitazione del Partito comunista all'interno e all'esterno. All'interno viene stabilito che a partire dalle cellule il maggior numero possibile dei militanti venga indirizzato al «lavoro militare», senza tuttavia sguarnire il fronte altrettanto importante delle fabbriche, all'esterno viene promossa la costituzione dei «distaccamenti d'assalto Garibaldi» non come formazioni di partito, ma come «formazioni modello aperte a tutti i patrioti».

Il primo Comando generale delle Garibaldi fu costituito a Milano fra la fine d'ottobre e il principio di novembre stabilendo le seguenti principali responsabilità: Longo comandante, Secchia commissario, Roasio organizzatore delle formazioni nel Veneto e nell'Emilia; lo stesso compito fu affidato a Scotti per il Piemonte e la Liguria, con particolare impegno per la Lombardia. Fu stabilito che in linea di massima ogni distaccamento fosse «costituito sulla base di nuclei di cinque o sei combattenti, di squadre di due nuclei ciascuna; e quattro o cinque squadre costituivano un distaccamento: 40-45 uomini in tutto ...

Le Garibaldi (prima distaccamenti, poi brigate) costituiscono una svolta nella guerra partigiana.


 

Il punto fondamentale che distingue l'iniziativa garibaldina è l'istituzione dei «commissari politici», derivata direttamente dalla guerra di Spagna, ed è la distinzione che viene accolta in un primo momento con diffidenza dagli altri settori della Resistenza ...

Spettava al commissario la soluzione di tutti quei problemi che non erano di natura tecnica militare e l'opera di educazione politica delle formazioni. Il commissario agiva all'interno ma anche contemporaneamente all'esterno, allargava la sua opera di convinzione alle popolazioni civili, si poneva costantemente il problema del rapporto fra i partigiani e l'ambiente in cui agivano, rispondeva anche in questo settore alla necessità di non isolare la lotta dei gruppi armati dalla resistenza della popolazione civile.

Come sempre meglio si chiarì nel corso della lotta, non vi fu la temuta interferenza con i compiti del comandante nè una diminuzione della sua autorità, ma una distinzione ben precisa dei compiti.

Il monzese Gianni Citterio, nome di battaglia "Redi", fu commissario politico della banda dell’architetto Filippo Beltrami.
 



bibliografia:
Roberto Battaglia - "Storia della Resistenza italiana" - Einaudi 1964
 

Lire la suite

il Manifesto degli intellettuali antifascisti

12 Avril 2011 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Accanto all'antifascismo più attivo e impegnato, vi fu la testimonianza morale di alcuni intellettuali, per esempio dei 12 professori universitari che nel 1931 si rifiutarono di giurare fedeltà al regime.

Benedetto-Croce.jpgUna delle testimonianze più significative è senza dubbio quella di Benedetto Croce, il grande storico e filosofo che, dopo un'iniziale condiscendenza verso il fascismo, nel 1925 rese pubblico il proprio dissenso redigendo il celebre Manifesto degli intellettuali antifascisti, in polemica e contrapposizione col Manifesto degli intellettuali fascisti che era appena stato pubblicato sotto la direzione del filosofo Giovanni Gentile. Consideriamo alcune parole di Croce tratte dalla sua Risposta al Manifesto degli intellettuali fascisti, pubblicato a Roma nel 1925:

 

[...] Noi rivolgiamo gli occhi alle immagini degli uomini del Risorgimento, di coloro che per l'Italia operarono, patirono e morirono, e ci sembra di vederli offesi e turbati in volto alle parole che si pronunziano e agli atti che si compiono dai nostri italiani avversari [...]. La nostra fede non è un'escogitazione artificiosa e astratta o un invasamento di cervello, cagionato da mal certe o mal comprese teorie; ma è il possesso di una tradizione, diventata disposizione del sentimento, conformazione mentale e morale[...]. La presente lotta politica in Italia varrà, per ragione di contrasto, a ravvivare e a fare intendere in modo più profondo e più concreto al nostro popolo il pregio degli ordinamenti e dei metodi liberali, e a farli amare con più consapevole affetto. E forse un giorno, guardando serenamente al passato, si giudicherà che la prova che ora sosteniamo, aspra e dolorosa a noi, era uno stadio che l'Italia doveva percorrere per rinvigorire la sua vita nazionale, per compiere la sua educazione politica, per sentire in modo più severo i suoi doveri di popolo civile .

 

Croce, richiamandosi all'esperienza del Risorgimento, ribadisce la vitalità e la superiorità della tradizione liberale che il fascismo ha momentaneamente sconfitto. In realtà, il fascismo non è radicato nella storia italiana: è un invasamento di cervello, che finirà per mostrare tutta la sua inconsistenza. Anzi, in quanto esperienza di negazione della libertà, il fascismo contribuirà, per contrasto, a far capire e a far amare ancora di più agli italiani il valore della libertà e delle istituzioni liberali

Da queste poche parole si può intendere come Croce desse del fascismo una lettura molto diversa da quella di Gobetti, che pure era liberale. Nell'ottica di Croce il fascismo non è l'autobiografia della nazione, cioè un'esperienza radicata nella storia italiana e nel modo di essere degli italiani. Al contrario, esso è, per usare altre celebri espressioni crociane, una parentesi, una malattia morale. Esso è, perciò, una sorta di corpo estraneo alla storia italiana, un'esperienza passeggera da cui ci si può rimettere come da una malattia. La storia moderna - e quella italiana non fa eccezione - è storia della libertà, storia del progressivo affermarsi delle istituzioni e dei valori liberali. Il fascismo è, certo, un'esperienza aspra e dolorosa, che tuttavia può solo interrompere una storia che è destinata a continuare.

 

____________________________

 

Piero-Gobetti.jpgPiero Gobetti (1901·1926)

Scrittore e politico, teorizzatore del liberalsocialismo, fu assertore dell'unione tra liberalismo laico e movimento operaio.

Morì a Parigi, dove era espatriato per sfuggire alla persecuzione fascista.

 

Piero Gobetti aveva visto nel fascismo una sorta di autobiografia della nazione: il fascismo, in questo senso, è la sintesi della storia italiana, dei suoi tratti più caratteristici e negativi, come la mancata integrazione delle masse popolari nella vita politica, la tendenza al servilismo, al conformismo e al culto del "capo". In questa prospettiva la lotta antifascista doveva rappresentare anche una sorta di rigenerazione morale dell'Italia.

 

Lire la suite

la "Rosa Bianca"

22 Février 2009 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza europea

Sessantasei anni fa, il 22 febbraio 1943, furono processati e condannati a morte tre giovani del gruppo di resistenza tedesco la "Rosa Bianca".


  
Sophie Scholl
, Hans Scholl e Christoph Probst vennero decapitati nello stesso giorno dopo solo qualche ora dalla sentenza.

La loro colpa era di aver scritto e distribuito sei volantini antinazisti..

Al di là del valore pratico della resistenza messa in atto dai ragazzi della "Rosa Bianca", ciò che va sottolineato è il valore etico della loro azione. La resistenza che questi giovani cercavano di suscitare nel popolo tedesco era una forma di non violenza: la disobbedienza.

La pericolosità dell'atto di dissenso per un regime totalitario e oppressivo rappresenta il maggior pericolo.

Non è la violenza che può spaventare i teorici dell'oppressione ma il pensiero che, finalmente libero, fa della disobbedienza arma di libertà.

 

per un approfondimento sulla "Rosa Bianca" leggere:

Ricordi della "Rosa Bianca"

di George J. Wittenstein

Lire la suite

Giorno della Memoria 2023

13 Janvier 2023 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Giorno della Memoria

Sabato 21 Gennaio 2023 alle ore 16,30 si terrà, presso la sala al piano terra di Villa Magatti, il concerto multimediale “ TU CHE M'HAI PRESO IL CUOR ”. 

Organizzato dall'ANPI di Lissone in occasione della Giornata della Memoria, il concerto multimediale “Tu che m'hai preso il cuor. Vienna - Auschwitz: dal Paese del sorriso al Campo della morte", ha  il patrocinio del Comune.

Il concerto è curato dal musicista, storico e ricercatore Maurizio Padovan e ripercorre la storia di Friedrich Löhner, che per le sue satire contro il regime nazista e le sue origini ebree venne deportato nei campi di Dachau, Buchenwald, e Auschwitz, dove fu ucciso.

Tutti, almeno una volta, hanno sentito cantare la celebre canzone “Tu che m’hai preso il cuor”. Pochi, però, sanno che le parole di questa famosissima romanza furono scritte da Friedrich Löhner.

L’ingresso è libero e aperto a tutta la cittadinanza.

 

Giorno della Memoria 2023
Giorno della Memoria 2023
Giorno della Memoria 2023
Giorno della Memoria 2023
Giorno della Memoria 2023
Giorno della Memoria 2023
Lire la suite

La Resistenza dei militari italiani a Cefalonia

14 Octobre 2023 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

L’8 settembre 1943 la Divisione Acqui che, forte di 525 ufficiali e 11.500 soldati, presidiava le isole di Cefalonia e Corfù agli ordini del generale Antonio Gandin, si trovò di fronte alla consueta alternativa: o arrendersi e cedere le armi ai tedeschi o affrontare la resistenza armata, sapendo di non poter contare su alcun aiuto esterno.

Tra il 9 e l’11 settembre si svolsero estenuanti trattative tra Gandin e il tenente colonnello tedesco Barge, che intanto fece affluire sull’isola nuove truppe. L’11 settembre arrivò l’ultimatum tedesco, con l’intimazione a cedere le armi. All’alba del 13 settembre batterie italiane aprirono il fuoco su due grossi pontoni da sbarco carichi di tedeschi. Barge rispose con un ulteriore ultimatum, che conteneva la promessa del rimpatrio degli italiani una volta arresi. Gandin chiese allora ai suoi uomini di pronunciarsi su tre alternative: alleanza con i tedeschi, cessione delle armi, resistenza. Tramite un referendum i soldati scelsero all’unanimità di resistere.

Il 15 settembre cominciò la battaglia che si protrasse sino al 22 settembre, con drastici interventi degli aerei Stukas che mitragliarono e bombardano le truppe italiane. I nostri soldati si difesero con coraggio, ma non ci fu scampo: la città di Argostoli distrutta, 65 ufficiali e 1.250 i soldati caduti in combattimento.

L’Acqui si dovette arrendere, la vendetta tedesca fu spietata e senza ragionevole giustificazione. Il Comando superiore tedesco ribadì che "a Cefalonia, a causa del tradimento della guarnigione, non devono essere fatti prigionieri di nazionalità italiana, il generale Gandin e i suoi ufficiali responsabili devono essere immediatamente passati per le armi secondo gli ordini del Führer".

Il 24 settembre Gandin venne fucilato alla schiena; in una scuola 600 soldati italiani con i loro ufficiali furono falciati dal tiro delle mitragliatrici; 360 ufficiali furono uccisi a gruppetti nel cortile della casetta rossa. Alla fine saranno 5.000 i soldati massacrati, 446 gli ufficiali; 3.000 superstiti, caricati su tre piroscafi con destinazione i lager tedeschi, scomparirono in mare affondati dalle mine. In tutto 9.640 caduti, la Divisione Acqui annientata.

Molti dei superstiti dell’eccidio si rifugiarono nelle asperità dell’isola e continuarono la resistenza nel ricordo dei compagni trucidati e si costituirono nel raggruppamento Banditi della Acqui, che fino all’abbandono tedesco di Cefalonia si mantenne in contatto con i partigiani greci e con la missione inglese operando azioni di sabotaggio e fornendo preziose informazioni agli alleati.

 

Dal discorso del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi alla commemorazione dei caduti italiani della divisione "Acqui" Cefalonia, 1° marzo 2001

«Decisero di non cedere le armi. Preferirono combattere e morire per la patria. Tennero fede al giuramento ...

La loro scelta consapevole fu il primo atto della Resistenza, di un'Italia libera dal fascismo.

Con un orgoglioso passo avanti faceste la vostra scelta, "unanime, concorde, plebiscitaria": "combattere, piuttosto di subire l'onta della cessione delle armi".

Un filo ideale, un uguale sentire, unirono ai militari di Cefalonia quelli di stanza in Corsica, nelle isole dell'Egeo, in Albania o in altri teatri di guerra. Agli stessi sentimenti si ispirarono le centinaia di migliaia di militari italiani che, nei campi di internamento, si rifiutarono di piegarsi e di collaborare, mentre le forze della Resistenza prendevano corpo sulle nostre montagne, nelle stesse città».

undefined

monumento agli italiani della divisione Acqui trucidati a Cefalonia dai tedeschi

 

 

versi in dialetto friulano di un fante della Acqui, Olinto G. Perosa.

 

Il dì plui trist

 

Nus puartin

vers Argostoli

incolonaz

sote la curte cane

del "mascin"

un puar drapel

batut

e dezimat

Vin piardut

guere e speranze

e i nestris muarz

son lì

par tiere

di cà e di là de'strade

cui voi sbaraz

E il mar...lajù

cui tant ò vin sperat

nus vuarde

ndiferent

e mut!

 

Il giorno più triste

 

Noi partivamo

verso Argostoli

incolonnati

sotto le corte canne

del mitra

un povero drappello

battuto

e decimato

Abbiamo perduto

guerre e speranze

e i nostri morti

sono lì

per terra

di quà e di là della strada

con gli occhi sbarrati

E il mare...laggiù

in cui tanto avevamo sperato

ci guarda

indifferente

e muto!

 

Lire la suite

Senza memoria non c'è futuro

26 Avril 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #Festa della Liberazione

"Senza memoria non c'è futuro" ha detto il Presidente della Repubblica ieri 25 aprile 2024 a Civitella in Val di Chiana a "ottanta anni dalla terribile e disumana strage nazifascista perpetrata sull'inerme  popolazione"  che fece 244 vittime. 

25 aprile 2024

25 aprile 2024

Alcuni momenti della celebrazione a Lissone 

 

fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli

fotografie di Gianni Redaelli

Intervento del prof. Giovanni Missaglia nella celebrazione della Festa di Liberazione dal nazifascismo

La Costituzione è antifascista dall’inizio alla fine

 Il Presidente della Repubblica invita a "una doverosa unità popolare sull'antifascismo

note di Bella Ciao

note di Bella Ciao

Il 25 aprile 1945 a Lissone

CLN e Giunta municipale

CLN e Giunta municipale

CLN Lissonese

CLN Lissonese

Angelo Genola primo Sindaco di Lissone nominato dal CLN

Angelo Genola primo Sindaco di Lissone nominato dal CLN

Appello del Sindaco ai cittadini Lissonesi

Appello del Sindaco ai cittadini Lissonesi

Gli Alleati a Lissone il 29 aprile 1945Gli Alleati a Lissone il 29 aprile 1945

Gli Alleati a Lissone il 29 aprile 1945

Lire la suite

Stalingrado: fine di un esercito

12 Avril 2014 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Tre grandi città segnano il destino dell’invasione tedesca in Russia: Leningrado, con il martirio dei suoi abitanti, Mosca, con la dissennata ostinazione di Hitler che non vuole essere inferiore a Napoleone, e Stalingrado che vede frantumarsi il potenziale distruttivo delle armate tedesche. Quando la città è divenuta un cumulo di macerie i sovietici cominciano a dettare le regole del gioco: lasciano avanzare i carri armati che finiranno comunque in trappola tra mucchi di mattoni e di cemento e distruggono le fanterie, attaccano di notte quando il nemico è maggiormente in difficoltà, attendono che questi concentri al massimo le sue forze per poi chiuderlo in trappola.

1942-Stalingrado.JPG 1942-Stalingrado-2.JPG

Da un articolo di Enzo Biagi in La Seconda guerra mondiale – Parlano i protagonisti - Corriere della Sera 1989

Sono arrivato a Volgograd, dove non ero mai stato; si chiamava Stalingrado, e l'hanno scioccamente epurata. Mi ha detto un collega della «Pravda» che le ridaranno il nome per cui è conosciuta in tutto il mondo, ma la burocrazia è lunga e il partito prudente.

È sulla collinetta di Mamaja, sulla terribile quota 102, che Hitler ha perso la guerra, ed è cambiato anche il nostro destino. I tedeschi che combattono lo chiamano «il grande fungo» ed è un intrico di ridotte, di nidi di mitragliatrici, di postazioni di mortai. Adesso è meta di turisti e di scolaresche.

1943-2-febbraio-resa-Paulus-a-Krusciov.JPGPaulus si è rifugiato nei sotterranei dei Grandi Magazzini; una cantina di quattro metri per quattro, ricoperta di legno, riscaldata da una stufa di argilla, costruita sul posto dai soldati.

Il suo rancio è due zuppe al giorno e una fetta di pane; a un comandante di battaglione insignito della croce di ferro, pochi giorni prima della resa, ha mandato in dono una pagnotta una scatola di aringhe al pomodoro.

 

La mattina del 31 gennaio 1943, un ufficiale del corpo di guardia si affaccia all'emporio e avverte: «I russi sono alla porta». Friedrich Paulus decide di farla finita e «senza tante storie», precisa; si avvia all'uscita pallido e umiliato. Nella notte è stato promosso feldmaresciallo. Fuori, lo aspettano anche i fotografi. E un momento che va ricordato. Nella foto: Paulus, feldmaresciallo da un giorno, appare di spalle mentre va a comunicare lo resa a Nikita Krusciov.

In vetrina espongono ora giocattoli di pezza e profumi a buon mercato. In quello che era il rifugio di Vasilij Ivanovič Čujkov, l'avversario, sulla riva del Volga, dentro la roccia porosa, han sistemato un ristorante. Più in su, c'è un teatro: stasera si rappresenta Ballo al Savoy.

Quando, il 21 giugno 1941, un sabato, Hitler dà ordine di attaccare l'Unione Sovietica, al Cremlino non dovrebbe esserci sorpresa; le spie li hanno avvertiti perfino del giorno e dell'ora dell'invasione. Soltanto trenta minuti dopo mezzanotte, il commissario del popolo alla Difesa Timošenko ordina alle truppe delle regioni di confine di prepararsi a resistere. Eppure, racconta il diplomatico Berezkov, che sta in quel momento all'ambasciata di Berlino, già in febbraio un tipografo amico gli ha portato un manuale di conversazione russo-tedesco, avvertendolo che se ne stanno stampando migliaia di copie. Il frasario è di questo genere: «Dov'è il presidente del Kolchoz?», «In alto le mani, o sparo», «Arrenditi».

La dichiarazione ufficiale di guerra la fa Ribbentrop, alle tre del mattino, davanti agli operatori e ai giornalisti: ha la faccia gonfia, gli occhi appannati, le palpebre arrossate. Balbetta, ha bevuto. L'ambasciata dell'URSS nel congedarsi commenta: «Questa volta la pagherete cara».

La rapidità e la portata dei successi della Wehrmacht sbalordiscono. Le divisioni corazzate minacciano la capitale: le punte avanzate arrivano a una trentina di chilometri. Stalin non si muove. Organizza uomini e mezzi per bloccare il nemico. Telefona a Zukov, il vice capo della Stavka, l'alto comando: «Siete certo di poter tenere Mosca? Ve lo chiedo col cuore straziato, da comunista».

Risposta: «Senza alcun dubbio. Ma avremo bisogno di due armate con più di duecento carri armati».

Zukov mantiene la promessa: e l'esercito nazista non arriverà mai, come Napoleone, ad assestarsi sulla Collina dei Passeri: nella battaglia per Mosca perde più di mezzo milione di soldati, 1300 carri armati, 2500 cannoni e una quantità enorme di materiale. Viene respinto di oltre 100 chilometri verso Ovest.

Più tardi Hitler, riferisce Rahn, un suo diplomatico, ammette l'errore: «Per quanto riguarda i russi, mi sono effettivamente sbagliato, e per la prima volta. Al momento dell'invasione contavo che disponessero di 4000 carri armati, e ne avevano invece 12.000».

Eppure il conte von der Schulenburg, che nell’URSS rappresentava il Terzo Reich, non aveva nascosto il suo giudizio e le sue previsioni: «Le cose non potranno mai andar bene. Non si ha alcuna idea della potenza dell'Armata Rossa e dell'energia concentrata nell'ideologia sovietica».

Quando torna la buona stagione, Hitler lancia il «Progetto Azzurro», una larga manovra che ha come obiettivo l'occupazione del Caucaso e la conquista dei giacimenti petroliferi: Stalingrado, nei suoi piani, ha una importanza marginale. E una città industriale che, nel 1925, ha preso il nome del capo: prima si chiamava Sarizija, ma il compagno Dzugasvili nel 1918 sostò da queste parti come commissario di guerra; c'era da battere i «bianchi» del generale Krasnov. Invece, per cinque mesi, in quelle strade, si svolgono «i combattimenti più esasperati del secondo conflitto mondiale».

Alla fine di ottobre nove decimi del centro urbano sono occupati dai reparti nazisti, e la bandiera di combattimento del Reich sventola sulla piazza principale: ma Zukov, che coordina la controffensiva, avverte: «Presto avremo un giorno di festa».

Paulus vede le sue divisioni combattere e cadere disperatamente, in una lotta disumana, ma non sa ribellarsi; il chilometro, come unità di misura, scrive Paul Carell, cede il posto al metro, la carta dello Stato maggiore è sostituita da quella topografica: si spara in un vecchio mulino, tra i serbatoi d'acqua, sulla linea ferroviaria; capita che nello stesso appartamento i sovietici, riferisce il corrispondente Walter Kerr, hanno occupato la cucina e i tedeschi il soggiorno.

I rifornimenti promessi dalla Luftwaffe non arrivano, o vengono scaricati in quantità minima, o finiscono, coi lanci, tra le macerie, o nelle mani del nemico. Confessa poi Paulus: «Lottavo dentro di me, e mi chiedevo se dovevo preferire l'obbedienza che mi veniva chiesta con l'argomento perentorio che ogni ora guadagnata era di vitale importanza, oppure la compassione umana per i miei soldati. Credetti allora di dover risolvere il conflitto facendo prevalere la disciplina».

Contro di lui, Vasilij Ivanovič Čujkov, quarantadue anni, figlio di contadini, amante degli scacchi, delle letture e della buona tavola, deciso e intelligente, che sa quello che vuole: «Se rischi la pelle salvi quella di molti combattenti», dice, ed è pronto a pagare: «O terremo la città o moriremo qui».

Pensa di lui Paulus: «Non è un militare, è uno stregone». I biografi lo descrivono «ambizioso, pieno di talento strategico, intrepido e incredibilmente tenace». Comanda la LXll Armata, e ha alle spalle, come consigliere politico, un vecchio comunista, Nikita Sergeevič Chruščëv.

 

1942-fabbrica-carrarmati-URSS.JPGCambia di continuo le regole: i tedeschi preferiscono combattere durante il giorno, e lui gli impone la notte, amano lottare nelle vie, e lui le lascia deserte. Lancia nel corpo a corpo i siberiani, armati di coltelli finlandesi e di pugnali, mobilita cinquantamila civili e forma la Difesa Popolare, tremila ragazze diventano ausiliarie e infermiere, i giovanetti del Komsomol vanno al fronte, perché il fronte è ovunque. Dalla fabbrica di trattori Gerginksij escono carri armati, e vanno subito in linea, senza vernice, senza strumentazione ottica, con equipaggi formati dagli stessi operai che li hanno costruiti. Nello stabilimento «Barricata rossa» si producono cannoni: che appena fuori dai reparti, sono in postazione e sparano.

Novembre, maledetto novembre per l'Asse: quante batoste. Montgomery, a El Alamein, batte Rommel; Eisenhower sbarca in Africa occidentale e marcia su Tunisi; Hitler parla ad antichi camerati, quelli della birreria di Monaco, di ciò che sta accadendo a Stalingrado, e promette:«Nessuna potenza al mondo riuscirà a sloggiarci di là».

Immagina manovre dai simboli fascinosi e carichi di minacce: «Colpo di tuono», «Tempesta invernale», ma la pioggia, il nevischio, la nebbia ghiacciata segnano le ore della sconfitta.

Von Manstein, la mente più sottile tra gli strateghi della Wehrmacht, promette: «Faremo tutto il possibile per liberarvi», e Paulus ancora si illude di farcela; e una settimana prima della caduta ordina: «Radunare le ultime forze per resistere fino al cedimento dei russi».

Trecentomila uomini sono chiusi nella sacca: ma la fame e i proiettili li distruggono. Non si distribuisce quasi più il rancio, non ci sono bende per curare i feriti, si insegna a cucinare la carne dei pochi cavalli rimasti. Già il 22 novembre un marconigramma di Paulus informa l'Oberkommando: «Carburante quasi esaurito. Situazione munizioni precaria. Viveri solo per sei giorni».

Dagli altoparlanti arriva la voce di Ulbricht che esorta a deporre le armi, e viene diffuso un manifesto coi versi del poeta comunista Becher, uno dei rifugiati a Mosca: «Nel sogno il volantino gli parlò: non ti succederà nulla di male I Il pezzetto di carta lo prese per mano I Io conosco bene questo paese So dove andiamo».

Il 31 gennaio, la strada la imparano anche centomila soldati che hanno ubbidito agli ordini del Führer, e vanno verso la prigionia. Tra loro, quasi diecimila rumeni. Una fila senza fine di straccioni e di malati.

L'ultimo aereo ha decollato da Gurmak il 23: lo pilota il luogotenente Krause, ha undici feriti a bordo e il timone di profondità in avaria. Sul limite del campo, sono raccolti migliaia di disgraziati che vengono abbandonati al loro destino.

 

Nel cielo splendente di sole, i russi fanno sfilare una parata aerea, trentacinque bombardieri formano la stella sovietica. Hanno sbigottito con la loro caparbietà, con la loro «pazzia» il nemico; ora sentono che comincia la marcia verso Berlino «Perfino dopo morti», ricorda il colonnello Adam «restavano avvinghiati al volante dei carri armati distrutti».

1943-gennaio-prigionieri-tedeschi.JPGGli ultimi momenti del dramma dei soldati tedeschi a Stalingrado.

Dei 320.000 tedeschi di Stalingrado, 140.000 sono morti per ferite ricevute in combattimento, fame, freddo, malattie, 20.000 dispersi, 70.000 feriti evacuati prima e dopo la sacca. I superstiti 90.000 lasciano in mano ai russi 750 aerei, 1550 carri armati, 480 autoblindo, 8000 cannoni e mortai, 60.000 autocarri e 235 depositi di munizioni e partono per i campi di prigionia della Siberia.

 

Fra loro vi sono 2500 ufficiali, 23 generali ed un feldmaresciallo: torneranno in soli 5000, meno del 2 per cento. Alle 14.46 del 2 febbraio un aereo tedesco da ricognizione sorvola a grande altezza la città e trasmette questo messaggio «A Stalingrado, nessun segno di combattimento».


Lire la suite

La conquista dell’Etiopia

10 Mai 2009 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #il fascismo

Svolta fondamentale nell’evoluzione della dittatura fascista, la guerra d’Etiopia provoca il ravvicinamento tra l’Italia e la Germania.

 

La politica estera dell’Italia fascista è stata molto incerta per molto tempo e spesso anche incoerente. Non per il suo obiettivo principale, che era quello di dare all’Italia un ruolo di primo piano in Europa, ma per i mezzi impiegati. Da ciò la mediocrità dei risultati ottenuti fino al 1935. La decisione di attaccare l’Etiopia, presa contro il parere del suo entourage degli ambienti affaristici italiani, costituisce dunque per Benito Mussolini una rottura e nello stesso tempo determina il riavvicinamento decisivo dell’Italia fascista e alla Germania hitleriana.

Perché l’Etiopia

All’origine della decisione di Mussolini, vi era un’umiliazione da vendicare: in un primo tentativo di invasione dell’Etiopia, nel marzo 1896, gli italiani avevano subito uno smacco cocente ad Adua, con 4.000 morti.

L’Etiopia era uno dei paesi africani non ancora occupato dai colonizzatori europei. Inoltre, l’Etiopia confina con l’Eritrea e la Somalia, province italiane dal 1890 per la prima e dal 1905 per la seconda. Aveva quindi interesse a creare un blocco italiano in questa parte dell’Africa orientale, preludio alla rinascita dell’Impero romano di cui il Duce aveva fatto nascere la nostalgia nel cuore dei suoi connazionali. In realtà, più pragmaticamente, il nuovo territorio sarebbe servito come sfogo ai gravi problemi economici dell’Italia, che intaccavano il prestigio del regime; nello stesso tempo avrebbe offerto una soluzione al sovraffollamento della penisola.

Etiopia ed Eritrea avevano una frontiera in comune, e le scaramucce tra i soldati dei due campi erano frequenti.

Il nuovo imperatore d’Etiopia, dal 1930, Hailé Sélassié, temendo l’aggressività degli italiani, rinforza gli effettivi delle guardie di frontiera, che si cura, tuttavia, di far piazzare a 30 km dal confine. Ma la minima scintilla darà fuoco allle polveri.

Il Duce prepara diplomaticamente il suo intervento. Davanti al nuovo pericolo incarnato da Hitler, che fa assassinare, nel luglio 1934, il cancelliere austriaco Dolfuss, ostile all’annessione dell’Austria e all’espansionismo tedesco, Mussolini si riavvicina alle democrazie occidentali. Nell’aprile del 1935, a Stresa, sul lago Maggiore, incontra i rappresentanti di Gran Bretagna e Francia. Viene firmato un accordo tra i tre paesi che si impegnano ad opporsi “a tutte le rinunce unilaterali dei trattati, suscettibili di mettere in pericolo la pace”, dichiarazione a cui Mussolini aggiunse di suo pugno la menzione “in Europa”.

La Francia e la Gran Bretagna, non reagendo all’aggiunta, illudono il Duce, che pensa di poter contare sulla loro benevola neutralità allorquando attaccherà l’Etiopia. Tuttavia gli Inglesi, temono il dominio dell’Italia in una regione dell’Africa in cui erano presenti, in Sudan e in Egitto, con grandi interessi commerciali.

Un incidente di frontiera, avvenuto il 5 dicembre 1934, presso l’oasi d’Oual-Oual, è il pretesto per l’intervento militare.

La tensione, già sensibile dopo l’arrivo al potere del negus nel 1930, aumenta tre i due Stati, e, malgrado l’invio nel Mediterraneo di una flotta britannica per intimidire l’Italia, l’armata fascista passa all’offensiva il 3 ottobre 1935. L‘aviazione e reparti corazzati violano lo spazio etiope senza dichiarazione di guerra.

Le forze sono sproporzionate. Di fronte a 500.000 italiani, ben equipaggiati, comandati da De Bono, l’Etiopia ”feudale” non allinea che qualche decina di migliaia di cavalieri, senza disciplina e spesso equipaggiati con fucili presi ad Adua, nel 1896. Pertanto, dopo una doppia offensiva frontale vittoriosa dall’Eritrea e dalla Somalia, l’armata italiana avanza lentamente da novembre 1935 a gennaio 1936.

De Bono è sostituito da Badoglio che non esita ad utilizzare i gas e i bombardamenti aerei. Adis-Abeba, la capitale, è occupata il 5 maggio 1936. Mussolini, trionfante, proclama Vittorio Emanuele III imperatore d’Etiopia.

La Società delle Nazioni condanna l’Italia dall’inizio delle ostilità e, nel novembre 1935, vota delle sanzioni economiche, che si rivelano però inefficaci perché non comprendono il petrolio e le materie prime. Inoltre, diversi Stati non le applicano.

Francia e Inghilterra elaborano, nel dicembre 1935, un piano segreto di divisione dell’Etiopia, che però fallisce appena diventa di dominio pubblico. Ciò rivela il comportamento tortuoso delle democrazie e la poca importanea delle decisioni prese dalla Società delle Nazioni, che tolse le sanzioni accrescendo così il suo discredito. Le sanzioni finirono per esacerbare il sentimento nazionale italiano e strinse gran parte dell’opinione pubblica intorno al Duce vittorioso.

Per sostenere il peso della guerra le donne furono invitate a donare allo Stato fascista le loro fedi d’oro.

L’episcopato italiano si schierò presentando l’impresa del Duce come una crociata. Tuttavia la conquista divenne presto un peso: militare prima, perché la resistenza degli autoctoni continuò; economica poi, perché gli investimenti erano costosi e l’immigrazione troppo debole per colonizzare il paese in modo vantaggioso. La conseguenza principale della guerra all’Etiopia è che Mussolini ruppe il fronte di Stresa e che fu supportato da un altro dittatore, Hitler. L’asse Roma-Berlino prende forma e la politica estera dell’Italia sarà ormai allineata a quella della Germania.


L’asse Roma-Berlino

Quando il Duce si sente messo al bando in Europa si rivolge verso Hitler, che alla fine riconobbe come alleato.

Il riconoscimento della conquista dell’Etiopia da parte di Hitler e l’uscita dell’Italia dalla Società delle Nazioni, sono all’origine del riavvicinamento dei due dittatori. Confermato dal loro mutuo sostegno al pronunciamento di Franco, in Spagna, queste relazioni si concretizzano con la visita in Germania, nell’ottobre 1936, del conte Ciano, genero di Mussolini e ministro degli Esteri.

Il Duce annuncia, il 1° novembre, la formazione di un “asse attorno al quale si possono unire tutti gli Stati europei”. Accordo inizialmente vago, simbolizza comunque la convergenza ideologica dei due dittatori e la fine dell’isolamento tedesco.

L’avventurismo bellicoso dell’Italia, poco a poco diventata un satellite della Germania, porta Mussolini a rinforzare l’Asse nel 1939, con il patto d’Acciaio.


In Brianza

Le reclute delle classi dal 1911 al 1914 furono richiamate per partire per l'Abissinia: il 23 febbraio del 1935 salpa dal porto di Messina il primo contingente militare diretto in Africa Orientale.

A Monza «i manipoli delle camicie nere» in partenza per l'Africa orientale vennero solennemente benedetti in Duomo dall'arciprete.



Episodi che accaddero a Lissone durante gli anni della guerra d’Etiopia.

Di seguito notizie tratte dalle pagine dai registri di classe, contenenti la "Cronaca e le osservazioni dell’insegnante sulla vita della scuola", di una quinta elementare della scuola "Vittorio Veneto" di Lissone nell’anno scolastico 1936-1937.

18 novembre 1936: primo anniversario delle sanzioni inflitte dalla Società delle Nazioni all’Italia per la guerra d’Etiopia

classeV-18-novembre-1936-I-anniversario-sanzioni.jpg


18 dicembre 1936: primo anniversario in cui tutte le donne d’Italia dovettero donare il proprio anello nuziale per sostenere il paese in guerra

classeV-18-dicembre-1936-giornata-della-fede.jpg


26 febbraio 1937: nella guerra di aggressione all’Etiopia, chi si oppone all’occupazione del proprio paese, in questo caso il Ras Destà, viene definito ribelle ed eliminato
classe-V-26-febbraio-1937-i-briganti-dell-Impero.jpg


20 marzo 1937: il maestro esalta la figura del Duce in terra d’Africa
classe-V-20-marzo-1937-il-niveo-corsiero.jpg

7 maggio 1937: l’Ispettore scolastico cerca di mettere in rilievo, davanti agli scolari radunati, «i motivi altamente civili della conquista dell’Impero»
classe-V-7-maggio-1937-celebrazione-dell-Impero.jpg

A guerra terminata venne organizzata una solenne funzione «promossa per ringraziare Iddio per la Vittoria ... clero, autorità, popolo e associazioni tutte portarono la loro adesione con l'intervento nel tempio prepositurale, dove venne cantato il Te Deumn'", E se la settimana successiva Lissone accolse «con gioia entusiastica i Legionari reduci dall' Africa Orientale», dove con i vittoriosi sfilarono in un corteo improvvisato «una folla di cittadini, tra i quali le autorità e colonne di dopolavoristi aziendali, numerosi famigliari e parenti dei reduci, le Associazioni combattenti, Mutilati», l'emozione doveva essere ancora alta quando in settembre «la cittadina [era] un tripudio di bandiere, vive le ore delle grandi giornate» accogliendo «con un'imponentissima manifestazione popolare, con entusiamo altissimo, le gloriose camicie nere del suo primo poltone del 125° battaglione».

In terra d'Africa due sono i caduti lissonesi: Ettore Colzani e Francesco Penati.

Colzani-Ettore-bersagliere-caduto-Eritrea.jpg Penati-Francesco-fante-caduto-Eritrea.jpg



a Monza
Durante gli anni della guerra d'Africa troviamo già
Gianni Citterio, il figlio dell'ex assessore socialista di Monza, nelle file del Pci, «tenace propagandista contro la guerra d'aggressione all'Abissinia e l'intervento fascista in Spagna», e un altro gruppo di antifascisti attivi, frequentato anche da Ferrari e Citterio, nel vecchio caffè Romano in via Carlo Alberto a Monza, che riuscì persino a stampare in una tipografia di Villasanta e a diffondere un volantino contro la guerra d'Etiopia; e infine, ci sembra (non siamo riusciti a stabilire la data con precisione) che anche il noto - noto agli antifascisti di ogni colore - retrobottega della farmacia del dottor Carlo Casanova oltre il ponte di Lecco, funzionasse già come centro di attività antifasciste. Il primo gruppo del caffè Romano comprendeva il dottor Antonio Gambacorti Passerini (fucilato a Fossoli il 12 luglio '44), il dottor Francesco Pini, socialista, il pittore Arpini, un cattolico, e l'avvocato G. B. Stucchi (rappresenterà il Psi nel comando generale del Cvl). La farmacia Casanova era frequentata, oltre che dagli «amici» del caffè Romano, dall'avvocato Fortunato Scali, comunista, Farè, socialista, Tarcisio Longoni e Luigi Fossati, esponenti della Dc.
Insomma, qualcosa s'era mosso anche allora nell'ambito dell'antifascismo brianzolo, poco ma abbastanza da permettere al movimento clandestino di organizzare, verso la fine del '36, cioè circa sei mesi dopo la proclamazione dell'impero, il reclutamento di volontari per la difesa della Spagna repubblicana. E furono circa una decina i « garibaldini » brianzoli che riuscirono a raggiungere le brigate internazionali per combattere la sedizione franchista. Di questi volontari si ricordano ancora i nomi di Spada, monzese, di Vismara, lissonese, di Pirotta e Farina di Villasanta, di Frigerio di Vimercate.




Hailé Sélassié

 

Il nuovo negus Hailé Sélassié I, imperatore d’Etiopia, 225° successore di Salomone secondo la leggenda, rappresenta la più antica dinastia del mondo.

Allievo di missionari francesi, e presto iniziato alle responsabilità del potere, è proclamato imperatore nel novembre 1930 con il nome di Hailé Sélassié “Forza della Trinità”.

Riformatore, fa entrare l’Etiopia nella Società delle Nazioni, abolisce la schiavitù e intraprende la revisione delle istituzioni del suo paese quando l’invasione italiana lo costringe all’esilio in Inghilterra.

Al fianco delle truppe britanniche e golliste, partecipa alla liberazione della sua patria nel maggio 1941.

Figura di rango internazionale, uno dei capi dei paesi del terzo mondo e pioniere dell’unità africana, si prodiga senza tregua per l’unificazione e la modernizzazione dell’Etiopia. Impotente di fronte alla carestia degli anni 1973-1974 e alla rivolta dell’Eritrea, è destituito dall’esercito nel 1974.

La sua morte, avvenuta in circostanze misteriose, è ufficialmente annunciata il 27 agosto 1975.

 

 

Lire la suite

DALLA GRANDE GUERRA AL FASCISMO

8 Mars 2015 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #varia

DALLA GRANDE GUERRA AL FASCISMO

Conferenza del prof. Giovanni Missaglia e letture a cura di Nicoletta Lissoni

MERCOLEDI' 11 MARZO 2015 ore 21 sala polifunzionale della Biblioteca civica di Lissone, piazza IV Novembre

Questa iniziativa dell’ANPI di Lissone rientra nelle celebrazioni lissonesi per centenario della prima guerra mondiale.

La Grande Guerra segnò una linea di confine netta tra il prima e il dopo, portando con sé strascichi politici, economici e sociali che avrebbero creato il terreno fertile all’affermazione dei grandi totalitarismi.

Lire la suite

La scomparsa di Daniele Massa presidente dell’ANPI di Sestri Levante

30 Mars 2016 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #varia

Daniele Massa a Lissone, marzo 2015
Daniele Massa a Lissone, marzo 2015

Daniele Massa, Lucifero ci ha lasciati.

Esattamente un anno fa, Lucifero era venuto nella nostra città di Lissone per l’inaugurazione di una bella piazza dedicata ad Arturo Arosio, partigiano lissonese fucilato nel marzo 1945 a Sestri Levante.

Nell’autunno del 2007, per la prima volta ci eravamo parlati per telefono quando avevo iniziato delle ricerche sui cittadini lissonesi caduti durante la guerra di Liberazione. Fu allora che mi invitò a partecipare alle cerimonie per ricordare coloro che persero la vita in combattimento o vennero uccisi dai nazifascisti nell’entroterra ligure. E così dalla primavera del 2008, ogni anno, membri dell’ANPI di Lissone sono stati presenti a Santa Margherita di Fossa Lupara.

Ricordiamo Daniele Massa per la sua instancabile attività nell’ANPI e anche la sua partecipazione al 15° congresso nazionale della nostra associazione svoltosi nel 2011. E proprio in quell’anno lo avevamo nominato membro onorario della nostra Sezione.

Lucifero a Lissone 22 marzo 2015
Lucifero a Lissone 22 marzo 2015
Lucifero a Lissone 22 marzo 2015
Lucifero a Lissone 22 marzo 2015
Lucifero a Lissone 22 marzo 2015

Lucifero a Lissone 22 marzo 2015

Abbiamo potuto conoscere il suo impegno, prima come giovane partigiano, e poi, dopo la guerra, come amministratore comunale, attraverso una sua testimonianza, pubblicata nel libro “Come fosse ieri ...” di Ornella Visca, che riportiamo:

«Mi chiamo DANIELE MASSA e sono nato a Velva, nel comune di Castiglione Chiavarese, il 10 aprile 1924. All'età di nemmeno 6 anni sono rimasto orfano di padre e mia mamma è rimasta vedova a quarant'anni con otto figli, il più grande dei quali aveva 21 anni.

Si viveva da contadini a mezzadria, perciò la vita era di stenti. Con mio padre si viveva meglio perché lui, oltre che il mezzadro, faceva anche il muratore e si andava avanti discretamente. Dopo la sua morte mia mamma ha mandato le mie sorelle a fare le donne di servizio, mentre noi più piccoli stavamo in casa con lei. Io facevo il chierichetto e dicevano che ero molto bravo. Il parroco del paese si interessò, d'accordo con mia madre, per trovarmi un posto in seminario a Chiavari, in poche parole per farmi diventare prete; ma, alla sera della vigilia della mia partenza per il seminario, mentre mi trovavo con mia mamma in casa di un mio zio; questo mio zio, per scherzo, mi disse: "Vai a farti prete e così non potrai nemmeno prendere moglie, sei proprio un belinun!" lo mi sono messo a piangere e non sono più voluto partire. Ho poi passato alcuni anni a lavorare con questo mio zio, naturalmente quando ero libero dalla scuola.

Finita la quinta elementare, mia mamma, io, mio fratello del '22 e una mia sorella del '26 ci trasferimmo a Sestri Levante ed io andai a fare il garzone in un negozio di alimentari nell'attuale Piazza della Repubblica, dove rimasi fino a 15 anni. Nel novembre del '39 entrai nella FIT, Fabbrica Italiana Tubi, di Sestri Levante e andai avanti fino a che iniziò la guerra. Si lavorava da bestie, 12 ore al giorno e il mangiare era sempre meno, era stato razionato con la tessera annonaria.

Il 1° dicembre del '43 ci fu il primo bombardamento a Sestri, dove rimasi ferito. Dopo la mia guarigione, io e mio fratello del '22 scegliemmo di andare in montagna con i partigiani. Fu una lotta molto dura, di stenti, privazioni, freddo e fame, ma finalmente arrivò la Liberazione il 25 aprile '45. Dopo la Liberazione mi fermai per parecchi mesi al Comando della Divisione "Coduri", dove facevo il segretario del comandante "Virgola". Quando nacque l' ANPI, divenni il primo presidente della sezione di Sestri Levante. Quando eravamo ancora in montagna, nel dicembre del '44, io e mio fratello aderimmo al PCI. Rientrai in FIT, ma non smisi mai la mia attività sia nell'ANPI sia nel partito. Nel 1956 fui candidato per la prima volta alle elezioni amministrative e divenni assessore alla Pubblica Istruzione, carica che mantenni fino al 1964, mentre rimasi consigliere comunale fino al 1969, quando mi ritirai dall'attività politica. Non smisi mai invece di dedicarmi al rafforzamento dell' ANPI, cosa che faccio ancora oggi con grande piacere e con molta soddisfazione.

Nel 1979 - '80 cominciai a dare attività anche nella cooperazione e proprio in quegli anni fui eletto presidente della Sezione Soci della Coop di Sestri Levante, carica che detengo ancora oggi».

Abbiamo potuto conoscere anche uno dei momenti critici sia di Lucifero, ventenne partigiano della Divisione garibaldina “Coduri”, che dell’intero movimento di Resistenza italiana, nell’inverno 1944.

Dal libro “Scarpe rotte e pur bisogna andar ...” di Daniele Massa “Lucifero”:

«La grande delusione del novembre 1944.

In questo mese noi tutti eravamo convinti che entro Natale l'Italia sarebbe stata liberata dai nazi-fascisti e che non avremmo dovuto passare un altro intero inverno in montagna. Invece arrivò la doccia fredda del proclama di Alexander, nel quale ci si invitava ad andare a casa, in attesa che gli alleati si potessero organizzare per la primavera del '45, per sferrare l'attacco finale.

Ora, ragionando ci un po' sopra e attentamente, quasi quasi verrebbe da dire che fu una specie di tradimento che ci fecero: come potevamo noi abbandonare la lotta e tornare a casa, come se fossimo un esercito regolare e potessimo trasferirei regolarmente da una zona all'altra o addirittura tornare a casa? Tornare a casa voleva dire consegnarci nelle mani dei fascisti e dei nazisti e lascio immaginare quali sarebbero state le conseguenze alle quali saremmo andati incontro. E' pur vero che gli alleati nel proclama facevano presente la difficoltà di poter continuare l'offensiva, senza rifornimenti di armi e munizioni e col tempo che si presentava, e loro non avrebbero potuto venire avanti, considerando anche che c'era da sfondare la linea gotica, ma invitarci ad andare a casa era come avviarci al suicidio. Come reagimmo a tutto questo? Pur essendo consapevoli a cosa si andava incontro, le formazioni partigiane decisero che si doveva continuare a combattere e si può dire che questa decisione venne presa all'unanimità.

Quanto ai tedeschi e ai fascisti, a questo proclama non gli parve nemmeno vero di poter togliere delle truppe dal fronte e preparare un grande rastrellamento, che infatti avvenne nel gennaio '45: i nostri nemici erano convinti di annientare una volta per sempre le bande di ribelli che erano in montagna.

Quello che noi imputavamo agli alleati fu proprio il modo in cui si propagandò questo messaggio; ci parve che si sarebbero potuti usare altri sistemi perché i partigiani fossero informati di questo momentaneo arresto dell'offensiva alleata. Invece il proclama venne diffuso via radio e, come lo ascoltammo noi, altrettanto fecero i nostri nemici i quali, rassicurati che non ci sarebbe stata per il momento nessuna offensiva, ebbero tutto il tempo di preparare loro la propria offensiva.

Quale fu la strategia partigiana quando tedeschi, fascisti, mongoli vennero su in montagna? Tanti partigiani di quelle montagne seppero preparare dei nascondigli perfetti e riuscirono a salvarsi, ma il grosso della nostra formazione scese giù nelle vallate, vicino alle città; per noi, per esempio, la vallata di S. Vittoria, una vallata nella quale, come ho già detto, quasi in ogni famiglia vi era un partigiano, fu un rifugio perfetto, con l'aiuto dei nostri collaboratori; ed erano in molti ad aiutarci: dalle gallerie della miniera di Libiola a tutti gli anfratti della boscaglia, si crearono dei nascondigli che ci permisero di salvare il grosso della nostra formazione. Appena passata la bufera del mese di gennaio, ai primi di febbraio si ritornò sui nostri monti.

Si può dire che questa fu come una presa in giro dei nostri nemici, anche se parecchi dei nostri furono presi, anche a causa di qualche spiata e di qualcuno che si era infiltrato nelle nostre file facendo il doppio gioco».

Ricordando Daniele Massa, desideriamo essere riconoscenti a quegli uomini e a quelle donne che, con il loro impegno e a volte con il loro sacrificio, durante la Resistenza hanno riscattato la dignità del nostro Paese. E, come viene anche affermato nel documento del prossimo congresso nazionale della nostra associazione, “la memoria” non può che restare ed essere il primo compito dell’ANPI, quello più tradizionale e consono alle sue stesse finalità.

Renato Pellizzoni

presidente della Sezione ANPI di Lissone

Lire la suite