Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

Résultat pour “vento del Nord”

La propaganda tedesca per il reclutamento di lavoratori italiani

30 Octobre 2010 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #il fascismo

La propaganda tedesca opera in Italia in modo del tutto autonomo, con una rete parallela a quella del governo di Salò, ma che a questa - nei punti strategici e nei momenti focali - si sovrappone o si impone, sia per dettare norme di comportamento sia per l'esercizio di una censura drastica.

Accanto alla PK (Propaganda Kompanien) agiscono nel territorio della RSI altri tre centri: Propaganda Abteilung Deutschen (PAD), Propaganda Abteilung ltalien (PAI) e Propaganda Staffel West.

manifesto lavoratori in Germania manifesto lavoratori in Germania 2

Staffel significa formazione, termine che bene esprime l'intento pedagogico di chi vorrebbe plasmare gli italiani secondo canoni nazionalsocialisti. L'organizzazione tedesca è un’emanazione della Wehrmacht con diverse sedi nelle principali città italiane.

Il feldmaresciallo Rommel ha affidato alla Staffel, il 14 ottobre 1943, il controllo sulla stampa nel territorio della RSI. Il tema del lavoro è quello maggiormente divulgato, per favorire l'affluenza di manodopera in Germania. Nonostante gli slogan, in luogo del volontariato si ricorre alla precettazione. Le condizioni di lavoro nel Reich sono ben diverse da quelle decantate dai manifesti nazisti: lo appurano le stesse fonti di Salò. Una relazione dell' ottobre 1944 ironizza sulla promozione del lavoro in Germania:

«Si rileva come il trattamento tedesco per i nostri operai non risponda esattamente a quello dei proclami e degli inviti disseminati in ogni via d'Italia. Dal viaggio in vagoni bestiame ermeticamente chiusi al durissimo lavoro di 12 ore giornaliere, al rancio niente affatto all'italiana e, per lavoratori dell'industria pesante, insufficiente, i nostri operai sono in uno stato veramente miserevole. Risentimento contro le nostre autorità civili le quali a tutto e a tutti promettono di provvedere: promesse che non hanno alcun esito e alcun effetto. In un campo-lavoro di 45.000 persone, in mezzo a uomini delle più svariate nazionalità, in un conglomerato dove si parlano 22 lingue, tutti sono concordi “nel disprezzare l'italiano” e non c'è nessuno che cerchi di attenuare o modificare questo stato di cose. I metodi tedeschi più inumani e più duri sono usati solo per i lavoratori italiani i quali in questo caso sono da tutti vilipesi, mancando quell'autorità ai nostri dirigenti consolari che dovrebbero far assolutamente cessare questa palese ingiustizia».

La situazione non registra miglioramenti, se ancora a inizio marzo 1945 un emissario del duce che ha visitato i connazionali impegnati nei campi e nelle grandi industrie tedesche relaziona in termini assolutamente negativi:

«I nostri lavoratori sono stati fino ad ora abbandonati a loro stessi. Essi hanno in generale indumenti in stato deplorevole. Sembrano veri accattoni. Hanno sofferto e soffrono terribilmente il freddo. Le loro calzature sono per lo più costituite da zoccoli. Il loro modo di presentarsi li respinge dal consorzio civile; di qui molti incidenti incresciosissimi: è capitato più volte che nostri lavoratori sono stati espulsi dai tram ed altri mezzi pubblici di trasporto. Il loro stato di sporcizia li fa allontanare dai locali pubblici ed in qualche caso anche dai rifugi antiaerei».

Impossibile mascherare questa avvilente realtà e convincere gli italiani a recarsi volontariamente in Germania a svolgervi attività lavorativa.

 

Bibliografia:

- Mimmo Franzinelli, RSI - La repubblica Sociale del duce 1943-1945, Mondadori, 2007

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2 giugno 2011: festa della Repubblica italiana

24 Mai 2011 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #varia

ANPI--Lissone-LOGO.jpg                 logo Teatro Elica

In occasione della Festa della Repubblica

2 giugno festa-italiani.jpg nascita-Repubblica-italiana.jpg

GIOVEDÌ 2 giugno, dalle ore 9 alle 13 in Piazza Libertà, , presentazione delle attività dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia Sezione “Emilio Diligenti” di Lissone.

Verranno distribuite copie della Costituzione italiana.

copertina della Costituzione 

 

LUNEDÌ 6 giugno, alle ore 21,00 in Via S.Martino 34, presso la sede dell’Associazione Teatro dell'Elica di Sergio Missaglia (Cortile delle Scuole Medie B. Croce) , spettacolo teatrale

NON SOLO CARTA

Breve viaggio nella Costituzione della Repubblica Italiana. Ingresso libero.

 

non-solo-carta.jpg

 

Non è solo un pezzo di carta la Costituzione Italiana: è la tappa fondamentale della nascita dell’attuale Stato democratico, la mappa che ha orientato sessant’anni di vita e di governo degli italiani.

Un argomento che quindi tutti dovrebbero conoscere, ma che spesso viene dato per scontato.

Attori, pupazzi, immagini e musica accompagnano il pubblico in questo breve ma intenso viaggio che tocca i temi del lavoro, dell’uguaglianza, dell’istruzione, della guerra.

Con: Marco Clerici, Damiano Giambelli, Anna Mariani, Tatiana Milan

Coordinamento alla Regia: Cristina Discacciati

Immagini, scene e costumi: Teatro dell’elica

Pupazzi: Damiano Giambelli

Suoni e musiche: Marco Clerici, Damiano Giambelli


 

«I valori che ci uniscono come cittadini italiani sono proclamati solennemente nei primi dodici articoli della carta costituzionale, principi semplici e chiari scolpiti nei nostri cuori: la democrazia, i diritti inviolabili dell'uomo, i doveri inderogabili di solidarietà, l'eguaglianza e la pari dignità di tutti i cittadini davanti alla legge; il diritto e il dovere del lavoro; l'unità indissolubile della repubblica, nel rispetto delle autonomie locali; la promozione della cultura; la difesa della Patria; l'impegno per la pace». Carlo Azeglio Ciampi, decimo Presidente della Repubblica Italiana

 


2 GIUGNO 2011: LA REPUBBLICA E LA COSTITUZIONE

 

Vi è un legame indissolubile fra la Repubblica e la Costituzione: hanno le loro comuni radici nella Resistenza, quale moto popolare di donne e di uomini che ha liberato il Paese dall’occupazione tedesca, dalla dittatura fascista e riunificato l’Italia.

 

La guerra di Liberazione e poi la proclamazione della Repubblica pongono un suggello al Risorgimento ed a una rinnovata unificazione del Paese, facendo riconoscere gli Italiani, non più e non solo in confini geografici, ma in valori e precetti comuni: quelli della Carta Costituzionale!

 

La Costituzione è base della nostra libertà e del nostro vivere civile.

 

In essa sono scolpiti i pilastri della nostra democrazia:

 

·       i diritti umani e sociali, la partecipazione della cittadinanza alla vita sociale e politica;

 

·       la passione egualitaria, cioè la passione verso i diritti di cittadinanza, ugualmente riconosciuti a tutti. A partire dal diritto al lavoro e alla formazione, eliminando gli impedimenti e gli ostacoli e creando le condizioni al suo esercizio effettivo;

 

·       l’autonomia e la separazione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), compreso quello dell’informazione; e la loro indipendenza, la loro laicità e l’equilibrio tra di essi.

 

La Costituzione è come un albero, radicato nella terra in cui nasce e cresce. Si può potarlo o innestarlo, ma non si può sradicarlo dalla sua terra, senza farlo morire.

 

Oggi questi pilastri e questi principi sono a rischio. E dunque la stessa democrazia può entrare in crisi e correre rischi di svuotamento e di involuzione.

 

Gli attacchi del Governo e della sua maggioranza parlamentare alla Costituzione e alle Istituzioni di garanzia, finiscono per delegittimare le regole fondamentali su cui si basa la civile convivenza e sulle quali si può costruire, per i giovani, una vita serena e dignitosa ed una speranza per il futuro.

 

Noi non possiamo più tollerare gli insulti alla Corte Costituzionale ed alla Magistratura, le surrettizie proposte di modifica all’articolo 1 della Costituzione, così come quella di abolire il divieto di ricostituzione del Partito Fascista.

 

Non casuali, crediamo altresì, sono i tentativi tardivi del Governo di artificiose modifiche di legge sui temi posti all’attenzione della popolazione dai prossimi referendum su Acqua, Nucleare e legittimo impedimento; questi escamotage legislativi tendono esclusivamente a vanificare il diritto al voto delle elettrici e degli elettori.

 

Noi non ci rassegniamo! 

ANPI Lissone

 

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Il fascismo e la radio

23 Novembre 2022 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #il fascismo

Il fascismo seppe fare un abile uso di tutti gli strumenti di propaganda. A questo scopo non poteva sfuggire uno strumento innovativo e potente come la radio. Il fascismo si rese conto progressivamente delle potenzialità della radio e delle possibilità di sfruttarla. A una fase di disinteresse, quando la radio trasmetteva soprattutto musica e l'elemento fascista si limitava al ritornello della canzone Giovinezza, seguì un periodo di grande attenzione e uno sviluppo significativo degli apparati di trasmissione. A poco a poco personalità fasciste di primo piano divennero frequentatori della radio; i programmi letterari erano preceduti da introduzioni che fornivano una interpretazione fascista dei brani letti, i notiziari giornalieri si attenevano alle direttive del regime.

 

Guglielmo Marconi

Malgrado la radio fosse principalmente il prodotto dell'opera dell'inventore italiano Guglielmo Marconi, quando, nell'ottobre 1922, Mussolini salì al potere, l'Italia era, quanto a sviluppo di una rete radiofonica nazionale, sensibilmente indietro rispetto agli altri paesi.

Non era stata ancora costruita alcuna emittente che funzionasse continuativamente, e la radiofonia restava, in buona parte, nella fase sperimentale. [...]

Negli Stati Uniti la costruzione di apparecchi radio e la radiofonia erano già un grosso “business”: 11,5 milioni gli apparecchi radio in funzione.

radioricevitore 1927

Il fatto che nella penisola la radio si sviluppasse pressoché per intero durante il periodo fascista rese a Mussolini relativamente facile porre questo importante mezzo di comunicazione sotto il suo pieno controllo (erano gli stessi anni in cui si consolidava il suo potere politico sullo Stato italiano). In verità, il valore potenziale della radio come veicolo di propaganda e di standardizzazione culturale non apparve immediatamente chiaro a Mussolini. Ma, una volta riconosciute pienamente le sue implicazioni, i fascisti procedettero a sviluppare e sfruttare la radio facendone uno strumento decisivo della loro politica culturale. [...]

 Nel settembre 1929, 6 erano gli impianti in funzione: Roma, Milano, Napoli, Bologna, Genova, Torino.

 

I poteri di controllo fondamentali - quelli concernenti la selezione e la distribuzione del materiale da trasmettere - erano nelle mani dello Stato, e la struttura amministrativa di questi servizi era destinata a rimanere sostanzialmente immutata, eccettuati ritocchi di minor rilievo, per quasi un decennio. [...] Piuttosto limitato era il numero dei possessori di apparecchi radio che avevano l'obbligo di versare un canone annuale di abbonamento all'EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche).

EIAR

La concessione del servizio delle radioaudizioni circolari era stata accordata dal Governo (con convenzione 15 dicembre 1927 fino al 15 dicembre 1952) all’URI  (che dal 15 gennaio 1928 aveva assunto la nuova denominazione EIAR — Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche).

Nel 1926 gli abbonati ai servizi radiofonici dell'URI (Unione Radiofonica Italiana, prima società di diffusione radiofonica in Italia, fondata nel 1924) erano stati circa 27.000; due anni dopo il totale degli abbonamenti era passato a circa 61.500.    

abbonati radio anni 20 30

 

Anche supponendo che ciascun apparecchio servisse una decina di persone, il numero totale degli italiani raggiunti dalle trasmissioni restava modestissimo. Si registrava inoltre una grossa sproporzione nella distribuzione geografica degli apparecchi. [...] Negli anni successivi questa sproporzione si sarebbe alquanto attenuata, ma una certa disparità nella localizzazione geografica degli apparecchi radioriceventi si mantenne durante tutto il periodo fascista.

 

programmi radio 1934

 

Prima del 1930 i programmi dell'EIAR non erano troppo appesantiti da una propaganda fascista diretta. Ma a cominciare dal 1926 le trasmissioni andarono sempre più politicizzandosi, e sempre più si fece sentire su di esse l'influenza delle scelte del regime. Mussolini parlò alla radio per la prima volta il 4 novembre 1925 dal teatro Costanzi in Roma, ma la trasmissione fu ostacolata da difficoltà tecniche. In quegli anni il maggior trionfo di Mussolini in fatto di oratoria radiofonica fu il discorso sulla “Battaglia del grano” (10 ottobre 1926).

Gli orari di trasmissione dei programmi erano pubblicati su “Il Radiorario”, che, dal Gennaio 1930, assume la denominazione di Radiocorriere.

Radiorario 1929

 

logo-radiocorriere-1941.jpg

 

Biografia:

Philip Cannistraro - La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media - Laterza, Roma-Bari 1970

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in attesa della Festa della Liberazione

13 Avril 2024 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Memoria e dell'Impegno

verso il 25 aprile

verso il 25 aprile

A.N.P.I. A S S O C I A Z I O N E N A Z I O N A L E P A R T I G I A N I D ’ I T A L I A 

VIVA LA REPUBBLICA ANTIFASCISTA

Appello dell’ANPI per uno straordinario 25 aprile

La data del 25 aprile è simbolo dell’Italia libera e liberata, dopo venti mesi di Resistenza e uno straordinario tributo di sangue e di dolore. Fine dell’occupazione tedesca. Fine del fascismo. Fine del conflitto. Si abbatteva lo Stato fascista, ma anche il vecchio Stato liberale, e si avviava la costruzione di un nuovo Stato e di una nuova società. Il 2 giugno del 1946 il popolo sceglieva la Repubblica e con la Costituzione del 1948 nasceva l’Italia democratica che si fonda sul lavoro e che ripudia la guerra.  Oggi tutto è in pericolo. C’è un governo che comprende una destra estrema che ha le sue radici nel ventennio fascista e nelle sue nostalgie, che per questo intende cambiare la Costituzione. Con un uomo solo (o una donna sola) al comando – il cosiddetto “premierato” - ed un Paese frantumato in tante regioni in competizione fra di loro, con diritti diversi dei cittadini – l’autonomia differenziata delle regioni -. Una destra estrema che in vari modi tende a reprimere qualsiasi dissenso, qualsiasi protesta. Una destra estrema aggressiva, vendicativa e rivendicativa.  Tutto è in pericolo perché ci sono milioni di poveri, dilaga il lavoro precario, con un governo che taglia la sanità e la scuola pubblica, con l’intera Europa che rischia la recessione economica. C’è una grande solitudine sociale, il futuro viene visto come una minaccia.  Tutto è in pericolo perché c’è la guerra, e se ne parla spesso in modo irresponsabile, come se fosse una dura necessità o, peggio, una nuova e accettabile normalità. Mentre il mondo intero si riarma come prima dei due conflitti mondiali, si dichiara possibile una guerra convenzionale ad alta intensità in Europa. Siamo alla follia. Ha ragione il Presidente Mattarella quando sottolinea che il compito del nostro Paese è "costruire ponti di dialogo, di collaborazione con le altre nazioni, nel rispetto di ciascun popolo". È urgente un 25 aprile 2024 di liberazione dalla guerra. Cessate il fuoco ovunque. Diciamolo: va lanciato un allarme. Sono in discussione democrazia, libertà, uguaglianza, lavoro, solidarietà, pace, cioè la repubblica democratica fondata sulla Costituzione e nata dalla Resistenza. Questo 25 aprile non può essere come gli altri. Dev’essere il giorno in cui si ritrova nelle piazze di tutte le città, a cominciare da Milano, l’Italia antifascista e democratica, le famiglie, le donne, i giovani, il nostro grande popolo illuso e deluso, a cui va restituita una speranza vera di futuro, fatta di un buon lavoro, di una retribuzione sufficiente per una vita libera e dignitosa, di una pace stabile e duratura. Costruiamolo insieme questo 25 aprile, costruiamolo come un appuntamento straordinario a cui non si può mancare, come una insormontabile e pacifica barriera contro qualsiasi attacco alla democrazia e alle libertà. Costruiamolo insieme sventolando le bandiere del Paese migliore, la bandiera della Costituzione antifascista, la bandiera dell’Italia fondata sul lavoro e che ripudia la guerra, la bandiera di coloro dal cui sacrificio sorsero i semi di una nuova Italia.

FACCIAMO DI QUESTO 25 APRILE UNA GIORNATA INDIMENTICABILE. INSIEME.

LA SEGRETERIA NAZIONALE ANPI 11 aprile 2024

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1943-1945: rifugiati e internati in Svizzera

20 Octobre 2014 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

Dall'inizio alla fine della guerra hanno chiesto ospitalità alla Svizzera e sono stati accolti nel suo territorio 293.773 rifugiati e internati provenienti da tutti i punti cardinali.

Nella regione meridionale è stato l'episodio dei fuoriusciti italiani, ebrei e politici, braccati dalla sbrirraglia nazifascista e dei fuggiaschi militari italiani e alleati; i primi,. renitenti alle leve della repubblica di Mussolini o alla deportazione; i secondi, in cerca di scampo dopo l'evasione dai campi di concentramento.

Di questo speciale episodio Antonio Bolzani, ha dovuto occuparsi per la carica militare (colonnello) che ricopriva nell’Esercito. Scrive nella prefazione del suo libro “Oltre la rete”, pubblicato subito dopo la fine della guerra, nel 1946: «Sono state così numerose e interessanti le cose viste e vissute che mi è nata l'idea di comporre un libro di memorie e di darlo alla stampa».

Dal libro sono tratte le informazioni che sono di seguito riportate.

 

La fiumana (settembre 1943)

Il 9 settembre 1943, in seguito all'armistizio fra l'Italia: e gli Alleati, vi fu, nel Ticino, una mobilitazione parziale di truppe per guarnire la frontiera meridionale.

Si temevano dei contraccolpi come conseguenza del disarmo dell'esercito italiano da parte della Wehrmacht, dell'occupazione tedesca di tutte le città e i punti strategici importanti nell'Italia settentrionale, delle lotte fra fascisti e antifascisti, della caccia agli ebrei, che non era mai stata accanita anche dopo la legge razziale del 1938, ma che stava per diventare feroce sotto la pressione dei germanici e, infine, a cagione della scarsità dei viveri e delle riserve, specialmente nei centri popolosi, scarsità che si sarebbe senza dubbio accentuata per effetto delle prevedibili requisizioni da parte dell'esercito occupante.

I primi fuggiaschi apparvero l'11 settembre 1943: venti prigionieri inglesi evasi dai campi di concentramento, che erano stati aperti dagli stessi italiani alla proclamazione dell'armistizio. Il giorno dopo furono novanta senegalesi.

Il Comando territoriale fino alla mobilitazione del 9 settembre 1943 non aveva preso che ristrette misure per l'internamento, limitandosi a preparare un campo unico a Roveredo (Mesolcina).

Ma i fuggiaschi accettati dagli organi di sicurezza disseminati lungo il confine divennero di giorno in giorno più numerosi, fino a formare una vera fiumana che si sovrappose a qualsiasi controllo ordinato e straripò sul territorio svizzero, da ogni dove. Già il 14 settembre se ne contavano più di mille.

 

Nel frattempo, il Comando territoriale aveva aperto in tutta fretta e arredato sommariamente dei campi di raccolta:

-         a Melano, per le regioni del mendrisiotto, del Generoso e della Valle d'Intelvi;

-         a Lamone, per il luganese, la Val Colla, la Tresa, il Malcantone,

-         a Quartino, per il Monte Tamaro e il Gambarogno;

-         a Cugnasco, per il locarnese, la Valle Maggia, le Centovalli,

-         a Roveredo, per la Mesolcina.

Ma ben. presto anche questi campi improvvisati diventarono insufficienti e si dovette aprirne altri a Gudo, a Bellinzona, a Bodio, che a loro volta furono subito riempiti e allora venne presa la decisione di far sostare i fuggiaschi in campi di masse presso la truppa di frontiera e di organizzare dei trasporti ferroviari per l'interno della Svizzera.

Il sabato 18 settembre si contavano nei diversi campi di masse non meno di 14.000 fuggiaschi, quasi tutti italiani, la più gran parte militari.

Erano presenti circa:

-         3.000 uomini a Chiasso, accampati un po’ dappertutto: nei depositi della stazione, al campo di foot-ball, nel nuovo cinematografo, in un treno preparato per la partenza dieci ore in anticipo;

-         3.000 uomini a Mendrisio, intorno alla chiesetta del manicomio cantonale;

-         800 uomini a Stabio, nella camiceria Realini;

-         700 a Riva S. Vitale, la maggior parte nell'antico, collegio Baragiola (Istituto Canisio);

-         700 a Melano, nella ex filanda;

-         800 a Lamone, nell'asilo e nella riseria;

-         1.200 a Gudo, nella grande casa colonica dello Stato che, dopo alcune sommarie trasformazioni, aveva già ospitato nei primi anni della guerra gli internati polacchi e francesi;

-         400 a Bellinzona, nell'Istituto Soave;

-         600 a Roveredo, nel collegio S. Anna.

Benché i più si dichiarassero militari, solamente dei piccoli gruppi portavano l'uniforme. Tutti gli altri erano in abito borghese e, malgrado la buona stagione, parecchi erano muniti di soprabiti, di maglie di lana e di grosse valige, ben conoscendo i rigori dell’inverno svizzero. Fra i militari in uniforme si contavano in gran numero le guardie di finanza e i carabinieri. Le guardie di finanza di Porlezza e di Porto Ceresio si erano consegnate agli organi di frontiera con i loro motoscafi.

Una buona percentuale dei fuggitivi era composta di militari in congedo abitanti nelle città e nei borghi situati in vicinanza della frontiera, che volevano sottrarsi al reclutamento da parte dei neofascisti o all'invio in Germania per il servizio del lavoro.

 

Ospitalità da parte svizzera per tutta questa gente? Diritto di asilo?

Scrive il Bolzani:

«Per i militari il presupposto per essere accettati come internati era di avere combattuto nelle vicinanze del confine e di essere stati sospinti dalle vicende della battaglia in territorio svizzero, in cerca di scampo.

Per i civili e anche per i prigionieri evasi, entra in linea di conto il diritto d'asilo, che consiste nel diritto di uno Stato di garantire, entro i suoi confini, protezione e rifugio alle persone perseguitate per motivi politici o religiosi da parte delle autorità del loro paese.

Ogni Stato indipendente è libero di accettare o di respingere i fuggiaschi e il diritto di asilo è l'espressione di questa libertà.

Esso costituisce pertanto un diritto di fronte agli altri Stati, non rappresenta un obbligo nè di fronte a uno Stato nè di fronte ai fuggiaschi in cerca di asilo.

Si deve quindi ritenere che non esiste un diritto all'asilo e che lo Stato al quale il fuggiasco fa ricorso, è libero concedere o di rifiutare l'asilo, secondo il proprio giusto criterio.

È libero cioè, in quanto Stato sovrano, di poter dire: questi entrano e sono meritevoli di protezione e questi altri non entrano perché non corrono pericoli o sono nocivi. In conclusione, se i nostri organi di vigilanza alla frontiera (nei primi venti giorni del settembre 1943 assai deboli di numero) non fossero stati travolti dalla improvvisa fiumana e non fosse mancata la possibilità di vagliare caso per caso, almeno i nove decimi dei fuggiaschi si sarebbero dovuti respingere.

 

Formavano i nove decimi tutti i militari del disciolto esercito italiano, si trovassero in servizio o fossero in congedo, e costituivano il decimo rimanente (non più di 2000) i prigionieri evasi e i fuggiaschi civili, perseguitati politici o razziali.

Ma una volta la fiumana straripata sul nostro territorio, come fare un esame a posteriori dei fuorusciti e decidere la sorte di ognuno? La decisione spettava al Consiglio federale per i militari, e per i civili alle guardie federali di confine, rispettivamente al Comando territoriale, per delegazione del Dipartimento federale di Giustizia e Polizia. Si poteva certo pensare di respingerli in massa, senza appello; ma prevalsero, come sempre. le ragioni di umanità e fu decisa l'accettazione, nella speranza che fosse questione di poche settimane. Invece l'internamento durò quasi due anni e fu sotto ogni aspetto assai gravoso. L'accettazione, considerata al lume d'oggi, ha indubbiamente valso a salvare centinaia centinaia di giovani dalla morte e dagli orrori dei campi concentramento germanici.

Decisa l'accettazione fu necessario provvedere immediatamente alle operazioni di controllo, alle visite sanitarie e al vettovagliamento.

I Comandi di truppa si incaricarono, ognuno, delle proprie centurie di fuorusciti e il Comando territoriale, d'intesa colla direzione del II Circondario delle ferrovie federali, provvide al loro trasporto oltre Gottardo, dove furono presi in consegna dal Commissariato per l'internamento, organismo militare appositamente creato dalla Confederazione per la custodia e la reggenza di tutti gli internati.

Dal 14 al 30 settembre, i trasporti notturni con treni interessarono 19.055 persone».

Nel rapporto sugli avvenimenti della seconda quindicina di settembre ha scritto le seguenti considerazioni:

«Sono per lo più uomini validi, assai dotati intellettualmente e fisicamente, ma moralmente dei naufraghi ... Solo una piccola minoranza non mi è parsa compresa della situazione angosciosa e deprimente nella quale si trovava e ha rivelato la superficialità dell'educazione ricevuta durante i venti anni di regime fascista».

 

Bibliografia:

Antonio Bolzani, “Oltre la rete”, Società Editrice Nazionale, Milano 1946

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Il fascismo degli anni dal 1932 al 1935

25 Janvier 2011 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #il fascismo

Il fascismo degli anni dal 1932 al 1935 visto da un giovane universitario di allora.

 

Il giorno dell'annuncio delle ostilità contro l'Etiopia e quello della proclamazione dell'Impero, Mario Alicata, Enzo Molajoni, Bruno Zevi, Carlo Cassola, qualche altro e io eravamo in piazza Venezia, a "studiare" il comportamento della gente. Ne venimmo via angosciati. Non perché non ci spiegassimo l'entusiasmo della folla, ma perché esso ci faceva paura, perché - pur senza comprenderne, forse, fino in fondo le ragioni - intuivamo che quella per cui ci si era incamminati era una strada pericolosa per il Paese ...

Come noi tanti altri, diciottenni o  ventenni compirono, a cavallo tra il '35 e il '36, la prima concreta esperienza che l'essersi scoperti antifascisti, in un momento come quello, restava. si un'acquisizione di coscienza risolutiva: una conquista di verità. Ma aspra, amara, irta di ostacoli e di responsabilità. Una coscienza e una verità alle quali si rischiava di non essere capaci di conservarsi fedeli ...

Se ci fu un tempo in cui il fascismo poté dispiegare tutte le sue lusinghe verso i giovani, con una forza di penetrazione quale non aveva potuto esserci in precedenza (per l'eco ancor viva delle sue origini) e quale sarebbe in seguito declinata (per l’inizio dell'avventura spagnola e dell'alleanza con il nazismo) quel tempo fu tra il 1932 e il 1936 ...

Sul finire del '32 il fascismo celebrò il decennale della rivoluzione.

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Fu una sagra di festeggiamenti, sfilate, manifestazioni di tripudio. Per chi aveva, allora, intorno ai 15 anni, parve davvero si trattasse di un grande avvenimento nazionale, che consacrava l'unità e la concordia.

Nel quadro di quelle celebrazioni, Mussolini decise di concedere una amnistia politica. E, ai primi di novembre, fu reso; noto che, in virtù di essa, i condannati per antifascismo rimasti in carcere erano in tutto 337 ...

Poco o niente sapevamo dei fuorusciti, degli esuli in Patria., o dei "bigi,'" verso i quali ultimi, comunque, non nutrivamo simpatia poiché le loro posizioni non sembravano abbastanza nette, come piacciono ai giovani. E poi per il sospetto, efficacemente insinuato dalla scuola, di scarso patriottismo che su essi gravava.

Con il decennale, intanto, la "rivoluzione" era entrata nella fase delle "realizzazioni. "

Era già stato dato, da tempo, il via alla "battaglia del grano".

La battaglia del grano

Ma in quegli anni, fra il '31 e il '35, vuoi per l'entusiastico impegno del clero, basso e alto, sempre in prima fila nelle, premiazioni, vuoi per i fertilizzanti della "Montecatini," che cominciarono ad essere impiegati su vasta scala ("Con la calciocianamide - il villano se la ride", diceva un diffuso slogan) e vuoi, infine, per il sudore dei contadini, si raggiunse una produzione di 73 milioni di quintali annui, con una punta, di 81 milioni nel '33.

C'era in corso, non meno entusiasmante, un'altra battaglia: quella per la bonifica delle terre acquitrinose. L'offensiva era scattata nel basso Piave, nel Maremmano, a Maccarese, a Metaponto, nella piana di Catania, in Sardegna. Ma ciò che più appassionava la gente, sorprendeva i visitatori stranieri, commuoveva i poeti, era il prosciugamento delle paludi Pontine. Nel '32 e '33 tra i monti e il mare, dove prima era squallore e malaria, sorsero due nuove città, Littoria e Sabaudia, e vennero ad abitarle coloni che giungevano dal Veneto e dall'Emilia ...

Una “battaglia" che i giovani non capivano troppo (ma che doveva, essere utile, a giudicare dagli incitamenti e dagli elogi che esperti e giornali continuavano a fare) era quella della lira. All'ingrosso, richiamava l'idea della previdenza e del risparmio su scala nazionale. E quelle erano virtù che le famiglie, allora, insegnavano fiduciosamente.

Sempre in quegli anni, tra il '32 e il '35, si verificarono eventi, iniziative, imprese che, senza assumere la definizione di "battaglie", davano la sensazione di solide conquiste.

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Qualche esempio: lo sviluppo dell'aviazione civile, con le note trasvolate e crociere atlantiche, che resero popolari i nomi di Ferrarin, Del Prete, De Pinedo, Balbo. Successi della cinematografia italiana, posta in condizione di produrre su scala industriale. L'incremento delle attività sportive.

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Talune manifestazioni che potevano anche infastidire per la retorica "romanistica" e il cerimoniale delle troppe inaugurazioni, come gli scavi antichi, gli svecchiamenti e gli sventramenti

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(che accendevano polemiche, quali quelle per l'apertura della via della Conciliazione, a Roma, o per l'"azzardo " della stazione ferroviaria di Firenze) e la lunga nota serie delle opere pubbliche e stradali che - imparammo molti anni dopo - è tipica delle dittature. Ma, intanto, in quel tempo, ai giovani romani fece buona impressione, ad esempio, l'''invenzione" del Lido di Roma, collegato con autostrada, e l'apertura della Città Universitaria, avvenuta nel '34.

Più in generale, superata la crisi economica, del 1929-'31, si verificò, in quegli anni, un notevole incremento nella produzione industriale, specie delle industrie nuove o autarchiche: chimiche, tessili, elettriche, automobilistiche, ecc. In effetti, penso si sian gettate allora le fondamenta o, in alcuni casi, create le condizioni per la nascita degli attuali
monopoli ...

Nel novembre '33, parlando al Consiglio delle Corporazioni della crisi economica mondiale e condannando il capitalismo americano che vi aveva dato origine, Mussolini asseriva che la crisi non era nel sistema, ma del sistema, onde - diceva - "oggi possiamo affermare che il modo di produzione capitalistico è superato"...

L'anno dopo, il 6 ottobre, tornando in un discorso pronunciato a Milano sul motivo della "crisi del capitalismo" come "trapasso da una fase di civiltà a un'altra", il duce additava quale soluzione più avanzata quella corporativa: "l'autodisciplina della produzione affidata ai produttori". "E quando dico produttori" ammoniva, "intendo anche gli operai!" ...

Il 10 novembre '34, Mussolini avvertiva ancora: "Il secolo scorso proclamò l'eguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Il secolo fascista mantiene, anzi consolida questo principio , ma ve ne aggiunge un altro, non meno fondamentale: l'eguaglianza degli uomini dinanzi al lavoro ... "

La politica estera del fascismo sembrava allora orientata verso la stabilizzazione dell'equilibrio europeo.

Nel luglio '33, si era stipulato a Roma, il "patto a quattro (tra Inghilterra, Francia, Italia e Germania), giudicato anche all’estero un successo della politica mussoliniana volta a scongiurare contrasti acuti, scosse e pericoli di conflitto tra i maggiori Paesi europei. Nel settembre di quell'anno il duce e Litvinov firmavano, a palazzo Venezia, un patto di non aggressione tra Italia e URSS .

C'era poi stato, nel giugno successivo il primo incontro tra Mussolini e Hitler, che aveva creato qualche allarme anche tra i giovani, ai quali la vera natura della "rivoluzione" nazionalsocialista non era ignota. E non piaceva. Ma allora in materia di razzismo, il regime si mostrava apertamente polemico verso Berlino.

Nel luglio '34 le prospettive di un avvicinamento alla Germania  nazionalsocialista erano state troncate sul nascere dal putsch tentato dai nazisti in Austria con l’ uccisione del cancelliere Dollfuss.

cancelliere-austriaco-Dollfuss.jpg

Mussolini aveva immediatamente spedito al Brennero, per impedire la minaccia dell'Anschluss, sessantamila uomini.

Dopo quell'energica mossa, l'arrivo a Roma del presidente del Consiglio francese Laval, nel gennaio '35, parve un sintomo indubbio di più stretta alleanza tra i due paesi latini.

Nell'aprile di quello stesso anno e sempre nel quadro di una politica di contenimento dell'espansione tedesca, infine, si ebbe l'accordo di Stresa, con il quale l'Italia fascista si legava, senza preconcetti ideologici, alle due maggiori democrazie europee: l'Inghilterra e la Francia.

Grazie a questi precedenti, anche l'impresa d'Abissinia, quando cominciò a prospettarsi, tra la primavera e l'autunno del '35, non parve ai più un'avventura coloniale ma il legittimo sforzo per creare a un popolo giovane e prolifico un'area di espansione e portare l'Italia al livello delle grandi potenze europee.

 

 

Bibliografia:

Ruggero Zangrandi - Il lungo viaggio attraverso il fascismo - Garzanti 1971

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L’artiglieria dell'altoparlante

14 Juin 2016 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

ricevitore radio 1937

La funzione della trasmissioni radio durante la guerra di Spagna (17 luglio 1936 – 1 aprile 1939)

Durante la guerra di Spagna, gli antifascisti cominciano ad avere a disposizione, sin dall'inizio, un'arma (quella che Vittorio Vidali chiamerà «l’artiglieria dell'altoparlante»: la radio. Fino a quel momento, in Italia, le trasmissioni radiofoniche erano state soltanto monopolio del regime fascista e anche un suo potente mezzo di corruzione di massa.

Da Radio Barcellona, da Radio Madrid, Radio Valenza si possono captare in Italia le voci dell'antifascismo, in trasmissioni speciali in lingua italiana (il PCI avrà poi, sino alla fine della guerra, la possibilità di utilizzare una sua radio trasmittente da cui manda anche direttive ai propri seguaci clandestini in Italia).

Ha scritto Elio Vittorini: «Quanto si poteva afferrare tendendo l’udito di dentro alla cuffia di un apparecchio a galena, verso le prime voci non fasciste, che finalmente giunsero fino a noi. Madrid, Barcellona ... Ogni operaio che non fosse un ubriacone e ogni intellettuale che avesse le scarpe rotte, passarono curvi sulla radio a galena ogni loro sera, cercando nella pioggia che cadeva sull'Italia, ogni notte, dopo ogni sera, le colline illuminate di quei due nomi. Ora sentivamo che nell’offeso mondo si poteva essere fuori della servitù e in armi contro di essa».

Da Radio Barcellona, il 13 novembre 1936, Carlo Rosselli lancia lo slogan che può sintetizzare la prospettiva comune del volontariato antifascista italiano in Spagna: «Alla Spagna proletaria tutti i nostri pensieri. Per la Spagna proletaria tutto il nostro aiuto. Oggi in Spagna. Domani in Italia. Anzi, oggi stesso in Italia, perché l’esempio dei fratelli spagnoli può e deve essere seguìto. Gioventù d’Italia, sveglia! Antifascisti italiani, sveglia! Uomini liberi, in piedi!».

A partire dal giugno-luglio del 1937, la stampa di regime ammette sempre più chiaramente che l'Italia è impegnata in Spagna con un proprio contingente.

Dalle emittenti radio della repubblica spagnola ogni sera gli antifascisti - dopo più di dieci anni di silenzio - riescono a parlare al popolo italiano. Vi è la Radio di Stato della repubblica che ha numerose trasmissioni da Madrid e da Valenza in lingue estere. Vi è la radio Generalitat a Barcellona. Vi è infine una emittente, «Radio Milano», che trasmette da Aranjues vicino a Madrid, tutte le sere intorno alle 23,45, che è esclusivamente dei comunisti italiani. A giudicare dalla massa enorme di lavoro che essa dà alla polizia italiana, si direbbe che l'ascolto é diffusissimo e ha una importanza nonché un rilievo psicologico e politico notevole. Gli antifascisti italiani dunque esistono, parlano dell'Italia e del resto del mondo, si battono: ecco ciò che scoprono per la prima molti italiani.

La voce che giunge dalla Spagna (e spesso disturbatissima) non si sa quanto incida sulle coscienze. Si tenga presente anche che l'apparecchio radio è ancora un lusso per le masse più povere e diseredate. Ma, appunto, le denunce della polizia e la stessa ripresa di azioni squadristiche su vasta scala per reprimere o intimidire quanti osano sintonizzare il proprio apparecchio sulla lunghezza d'onde di Radio Milano ne danno un quadro vivissimo. Si apprende che l'ascolto spesso non é individuale o familiare ma spesso viene organizzato, nel retrobottega di un locale pubblico, in una sala di caffé, chiuse le saracinesche verso la mezzanotte, persino in circoli Dopolavoro o della Opera nazionale combattenti. Il che mostra certo una notevole dose di imprudenza (é in questi casi che la sorpresa, la retata degli agenti di PS o dei militi fascisti, la delazione di un finto antifascista, sortiscono i migliori risultati), ma denota nondimeno un bisogno di testimonianza in comune oltre che una sete di informazioni inestinguibile. In qualche caso, la polizia riferirà che all'inizio e alla fine delle trasmissioni, quando risuonano le note dell'inno di Garibaldi e dell'Internazionale, gli ascoltatori si alzano in piedi e salutano con il pugno chiuso.

Non c’é solo solo la curiosità di sentire l'altra campana, di venire a sapere quanto la stampa fascista tace o deforma. C’è anche l’ansia di tanti congiunti di avere qualche notizia del figlio o del marito spedito in Spagna da Mussolini (dopo la battaglia di Guadalajara per settimane si trasmettono messaggi, testimonianze dirette dei prigionieri italiani).

Infatti, i «legionari» italiani, al comando del generale Roatta - dai primi trentamila arriveranno a cinquantamila - erano truppe il cui carattere di volontari è quanto mai discutibile; spesso si trattava di soldati mandati in Spagna a loro insaputa, reclutati per formare «battaglioni lavoratori» nell’impero africano da colonizzare.

La battaglia di Guadalajara del marzo 1937 ha una grande eco internazionale. Celebri restano, tra tutte, le corrispondenze di Ernest Hemingway, che aveva conosciuto i combattenti italiani sul fronte della prima guerra mondiale. Hemingway scrive dopo la battaglia, vedendo i caduti fascisti: «Il caldo dà lo stesso aspetto a tutti i morti, ma questi morti italiani con le loro facce grige, di cera, se ne stanno stesi sulla pioggia, molto piccoli e pietosi ... Il generale Franco scopre adesso che non può fare molto conto sugli italiani, non perché gli italiani siano vili, ma perché gli italiani i quali difendono il Piave e il Grappa sono una cosa e gli italiani mandati a combattere in Spagna mentre credevano di andare in guarnigione in Etiopia sono un’altra».

E parlando da Radio Madrid, il 27 marzo 1937, della fuga dei legionari di Mussolini, Randolfo Pacciardi, repubblicano, comandante del battaglione “Garibaldi”, dice: «Sono scappati non perché sono vigliacchi. Sono scappati perché avevano tanks, cannoni, mitragliatrici, fucili, moschetti, ma non avevano idee. Non si combatte per il piacere di combattere».

La battaglia di Guadalajara é stata il culmine della partecipazione dei garibaldini italiani alla guerra di Spagna.

Guadalajara: un volontario antifascista si rivolge col megafono alle truppe di Mussolini durante una sosta della battaglia. All’invito di passare nelle file repubblicane risponderanno positivamente molti “volontari” fascisti.

Nel marzo del 1937 (dopo Guadalajara) il capo della polizia Bocchini così telegrafa ai prefetti del regno: «Viene rilevato come molti ascoltatori radio cerchino di ascoltare iniqua et falsa propaganda radiodiffusa da Barcellona aut da altre stazioni spagnole nonché da Mosca. A tale scopo cercano anche di riunirsi in comitiva presso apparecchi riceventi di casa aut locali pubblici. Fenomeno est particolarmente osservabile presso operai, contadini, piccola borghesia. Est necessario in modo assoluto intervenire prontamente et energicamente con azioni preventive et repressive procedendo a fermi, a provvedimenti di polizia, a chiusura dei pubblici esercizi dove viene effettuata ascoltazione et a ritiro degli apparecchi in caso di flagranza. Vorranno all'uopo predisporre servizi et ricorrere ove sia necessario anche servizio di fiduciari. Si gradirà al riguardo sollecita segnalazione di ogni emergenza».

La prevenzione e la repressione auspicate da Bocchini si sviluppano largamente. Spesso vengono intercettate lettere inviate dall'Italia all’indirizzo di Radio Barcellona nelle quali si formulano elogi oppure richieste di spostare l'ora della trasmissione.

Le trasmissioni, da quel che possiamo arguire attraverso i resoconti registrati dalla polizia italiana, sono efficaci giacché risultano trattati temi che concernono direttamente la guerra di Spagna (notizie sulle battaglie, sullo schieramento internazionale, sulle denunce alla Società delle Nazioni, sull'afflusso di nuove truppe fasciste) sia argomenti che riguardano la vita delle masse popolari italiane. E qui si parla dell'aumento dei prezzi che in effetti è notevole nel 1937 e annulla i vantaggi del generale aumento dei salari e degli stipendi agli impiegati, delle condizioni di vita dei contadini e degli operai, dei profitti delle grandi aziende. E si insiste sulla crescente sudditanza dell’Italia alla Germania nazista.

Bibliografia:

Paolo Spriano - Storia del Partito comunista italiano – Einaudi 1970

Stazioni spagnole ascoltate nel 1937 al Centro di Controllo dell’EIAR e ricevitore radio dell’epocaStazioni spagnole ascoltate nel 1937 al Centro di Controllo dell’EIAR e ricevitore radio dell’epoca

Stazioni spagnole ascoltate nel 1937 al Centro di Controllo dell’EIAR e ricevitore radio dell’epoca

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La stampa delle formazioni partigiane

11 Novembre 2012 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Impugnare la penna quando si impugna lo sten, parlare un linguaggio fatto di parole quando il nemico di dentro e di fuori non sembra intendere che il rude linguaggio delle bocche da fuoco, potrà apparire a qualcuno un ritrarsi dall’azione, dalla lotta, mentre è tempo di azione e di combattimento. Teniamo a fare sapere a tutti che noi non interrompiamo l'esecuzione dei nostri compiti di guerra; rubiamo tempo al riposo per rivolgersi a questo compito di immensa importanza (da La nostra stampa, «Il Partigiano, Volontario della libertà». Organo della III Divisione garibaldina Cichero, a. I, n. 1, 1° agosto 1944).

Il giornale partigiano nasce nelle formazioni durante la lotta. La redazione, l’apparato tecnico, la diffusione, la sua stessa esistenza sono legati alle vicende della lotta di liberazione, e ne sono a loro volta condizionati. Così i giornali hanno un’esistenza precaria, una periodicità irregolare. «Esce quando e come può», è il sottotitolo di uno dei più diffusi periodici partigiani, «Il Ribelle».

Le condizioni variano di situazione in situazione: non tutti i gruppi partigiani ebbero infatti giornali, e non sempre i giornali furono espressione di un particolare partito. Anche se la situazione dei giornali di formazione legati ai partiti appare più definita ed organicamente strutturata.

15 giugno 1944 il partigiano fronte 1-ottobre-1943-il-combattente-1.jpg

Spesso questi fogli avevano una limitatissima tiratura, poche centinaia di copie, a volte poche decine, erano dattiloscritti, manoscritti, ciclostilati e, in casi sporadici, stampati. La loro diffusione era limitata alla zona controllata dalla formazione, ma costituiva un’indispensabile organo di collegamento con le popolazioni locali.

Ma i giornali di formazione rappresentano soprattutto un materiale indispensabile per ricostruire la vita delle bande, il loro variare nel tempo, la loro maturazione o evoluzione politica, le motivazioni morali della lotta partigiana e i modelli culturali di riferimento.

Questi fogli costituirono inoltre lo strumento fondamentale di comunicazione.

All’origine della vasta produzione giornalistica è ravvisabile, certamente, un «bisogno di raccontare», di rendere testimonianza di un’esperienza singolare, aspra e pericolosa.

Il bisogno di raccontare, che è proprio di tutta l'esperienza politica e culturale della generazione uscita dal fascismo e dalla guerra, che trova echi nella memorialistica contemporanea di guerra e concentrazionaria o nei racconti del dopoguerra - si pensi a Fenoglio o a Calvino - ma che nasce, a livello di esperienza collettiva, nella stampa partigiana.

La stampa partigiana si struttura come riproduzione scritta del racconto orale.

Era insomma « una voce che proveniva anche dal basso, dunque, data la mescolanza degli strati sociali nei gruppi partigiani, da attori e testimoni dei fatti, non una voce dall'alto come solo si verificava nei fogli di guerra dell'esercito regolare.

Questa produzione costituisce un solido rapporto fra il partigianato e il retroterra sociale e locale: attua una saldatura fra le motivazioni politiche che hanno determinato l’organizzazione delle bande, e i problemi della popolazione in guerra.

Più difficile è ricostruire un itinerario politico o un programma di rinnovamento sociale negli altri giornali di formazione. Di solito alle origini della scelta resistenziale, almeno nel primo periodo, non c'è una precisa ideologia politica, ma un impulso morale: il desiderio di ritrovare la propria dignità e di cacciare i traditori fascisti o nazisti.

Emerge fortissima l’esigenza di creare una società più giusta, un mondo nuovo.

Si afferma una sentita esigenza di rinnovamento: dalle sofferenze della guerra, dalle lotte e dalle distruzioni deve nascere un mondo nuovo, che abbia come protagonista l’uomo e che sia espressione e sintesi delle libertà civili. La Resistenza deve essere il momento iniziale di questo rinnovamento.

Patrioti I 

I fogli d’ispirazione azionista

Quest’ansia giacobina di rinnovamento viene colta ed espressa soprattutto in alcuni fogli di formazione, specie nei casi in cui più capillare e profonda è l’opera di educazione e la personalità del commissario politico. È il caso dei giornali di ispirazione azionista del Cuneese, organizzati e diretti da Livio Bianco, ma anche di altre testate coordinate dal PdA in Piemonte. Tra queste pubblicazioni, la stampa delle brigate Giustizia e Libertà è forse la più rappresentativa sia per numero, la continuità e la diffusione, sia per il tono generale e l’alta professionalità dei redattori.

Superato il duro inverno 1943-44, con il miglioramento dell'organizzazione politica e militare, il direttivo militare delle brigate GL iniziò a pubblicare l’organo ufficiale delle formazioni «Il Partigiano alpino». Stampato nel Canavese dal febbraio 1944, in due sole pagine, il giornale raggiunse una tiratura di 20.000 copie, diffuse in tutta la regione; dall'agosto ebbe un'importante edizione lombarda, che raggiunse le 10.000 copie e fu diffusa anche nell'Emilia e nel Veneto. Organo destinato precipuamente a militari, il foglio ufficiale delle GL non si limita alle informazioni militari e alle illustrazioni dei problemi strategici, ma propone anche questioni di politica interna, dai problemi istituzionali alla ricostruzione.

Dall'estate del 1944 furono pubblicati nel Cuneese «Giustizia e Libertà», «Quelli della montagna», «La Grana», il giornale umoristico. «Cacasenno» e «Naja repubblichina», un giornale destinato alle formazioni della Rsi. Con il crescere e il successivo organizzarsi di nuove formazioni, anche le testate si moltiplicarono in una vasta serie di pubblicazioni diffuse dalle Langhe al capoluogo piemontese. Specialmente nel bel giornale della I Divisione GL, «Quelli della montagna», si coglie il legame profondo fra il partigiano e la sua terra, che è proprio di tutta la migliore produzione partigiana.

 

Il «Pioniere»

Un caso altrettanto singolare è quello del «Pioniere», un altro giornale di formazione pubblicato a Torre Pellice, centro di una popolazione valligiana profondamente antifascista, ad opera di un piccolo gruppo di redattori guidati da Roberto e Gustavo Malan. Il giornale, ciclostilato nei primi mesi, poi stampato, uscì settimanalmente, con una tiratura che salì dalle 800 copie iniziali fino alle 15.000 stampate nel periodo precedente la liberazione, diffuse anche a Torino e nell’Astigiano. Colpisce negli articoli di fondo del «Pioniere» la profonda e sentita esigenza di un rinnovamento che parta dal basso.

 

«Il Ribelle»

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Carattere assolutamente originale e a se stante rispetto a tutti gli altri organi di formazione, assume il periodico «Il Ribelle», organo delle Fiamme Verdi bresciane. Pur essendo il giornale di una formazione autonoma operante nelle valli lombarde, «Il Ribelle», che porta la falsa indicazione di Brescia, ma viene scritto e stampato nel Milanese è il portavoce di un gruppo di cattolici , laici ed ecclesiastici, non legati alla Democrazia Cristiana, e si mostra aperto ai contributi anche di militanti di altri partiti.

Alle origini del «Ribelle» è il ciclostilato «Brescia libera» pubblicato, dall'ottobre 1943, dallo stesso gruppo di cattolici impegnati in organizzazioni sociali, come le Acli, e di cui facevano parte don Giuseppe Tedeschi, Laura Bianchini, Claudio Sartori, Vittorio E. Alfieri, e soprattutto Teresio Olivelli. Lo stesso Teresio Olivelli, assistente alla cattedra di diritto amministrativo e rettore del collegio Ghislieri di Pavia, fu l'animatore del gruppo. L'intensa spiritualità, l'ansia di ricreare un mondo e una società "più civile e umana, conforme al Vangelo, costituiscono la piattaforma ideale del gruppo.

Da parte sua, Olivelli aveva già elaborato fin dal 1943, uno Schema di discussione sui princìpi informatori di un nuovo ordine·sociale, in cui tutta la grande tradizione del riformismo cattolico lombardo sembra confluire in un'analisi della società e della guerra. Un tema che viene ripreso nell'editoriale del secondo numero - l'unico articolo che poté pubblicare prima dell'arresto e della deportazione a Flossemburg, dove morì - e che espone la filosofia del giornale e della sua redazione:

A questa nuova città aneliamo con tutte le forze; più libera, più giusta, più solidale, più «cristiana». Per essa lottiamo, lottiamo. giorno per giorno, perché sappiamo che la libertà non può essere elargita dagli altri. Non vi sono «liberatori». Solo uomini che si liberano. Lottiamo per una più vasta e fraterna solidarietà degli spiriti, e del lavoro, nei popoli e fra i popoli; anche quando le scadenze paiono lontane e i meno tenaci si afflosciano: a denti stretti anche se il successo immediato non conforta il teatro degli uomini, perché siano consapevoli che la vitalità d'Italia risiede nella nostra costanza, nella nostra volontà di risurrezione, di combattimento; nel nostro amore.

Giornale più di dibattito ideologico che di informazione militare, «Il Ribelle» seppe tuttavia rispondere anche a esigenze di più vasta divulgazione, pubblicando i documenti delle Fiamme Verdi, un ampio notiziario sulle deportazioni e una varia rassegna della stampa. Costituì comunque in campo cattolico l’esempio più significativo di un programma non integralista, laico e aperto ad ampie riforme statali e sociali.

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La stampa delle formazioni garibaldine

Ancora più complesso il panorama della stampa delle formazioni garibaldine, che rappresenta il gruppo più ampio e numerose di testate (secondo un calcolo di Laura Conti, i giornali delle brigate Garibaldi furono un centinaio rispetto ai 16 di Giustizia e Libertà e ai 12 delle brigate autonome). E tuttavia, questi periodici sono facilmente riconducibili a una tematica unitaria, a un modulo comune, per il rapporto più costante con la direzione centrale e per una maggiore circolazione della stampa di partito. In realtà, anche la stampa garibaldina è opera, almeno nella sua parte più direttamente politica e formativa dei commissari politici, molto più presenti e attivi che nelle altre formazioni, e dei comandanti di divisione.

La stampa garibaldina pubblica quindi, accanto all’organo ufficiale «Il Combattente» nelle sue varie edizioni regionali, una vasta serie di ·testate locali particolarmente numerose nelle vallate alpine del Piemonte o nei territori dove vengono costituite le cosiddette «zone libere». L’organizzazione propagandistica prepara anche una nutrita serie di giornali murali, opuscoli, volantini e, in alcuni casi, di trasmissioni radiofoniche.

Si tratta di una capillare organizzazione del consenso che, mentre accetta la linea politica elaborata dal partito, la interpreta poi individualmente e nelle varie situazioni locali, e secondo le personali capacità dei redattori. Assistiamo così a una riduzione nel locale, o meglio nella concretezza della realtà locale, delle grandi scelte istituzionali o politiche.

Così, se esaminiamo un campione, di necessità limitato, di alcuni di questi giornali, vediamo come, pur in presenza di minore originalità e ricchezza di proposte di trasformazione rispetto ad altri giornali, si realizzi invece in essi una traduzione a livello di massa di concetti e direttive politiche, nel quadro di una determinata situazione militare. Così «Il Partigiano Volontario della libertà» - Organo di una divisione garibaldina che operava nell'entroterra ligure - e pubblicato dal 10 agosto 1944 sotto la direzione del comunista Giovanni Serbandini (Bini), realizza, pur con mezzi molto limitati e primitivi, un difficile rapporto fra la stampa di base, con le sue reminiscenze scolastiche (le vignette, i bozzetti), e le indicazioni di politica generale di mobilitazione e d'informazione locale.

In alcuni giornali del Biellese, come «La Baita» diretta da Francesco Moranino (Gemisto), che raggiunge una tiratura di 4.000 copie a stampa, si ha una più critica valutazione politica e una proposta di modelli di «democrazia progressiva» più aperti alle istanze di rinnovamento. Questo giornale ha la collaborazione anche dei civili ed è particolarmente attento ai problemi sociali.

Sempre in Piemonte, nella contigua Valsesia, esce «La Stella alpina», foglio delle brigate comandate da Cino Moscatelli che continuerà a uscire come settimanale anche durante l'immediato dopoguerra. Quindicinale a stampa di grande formato, quasi sempre di quattro pagine, ben curato e strutturato con grande professionalità, il giornale ha tutte le caratteristiche di una moderna testata locale. In prima pagina le direttive militari, gli articoli d'informazione politica, spesso derivati dagli organi ufficiali di partito, e un'ampia informazione sulla guerra, articolata in varie rubriche («Brigata di eroi», «Corrispondenza garibaldina», «Bollettini di guerra»).

Uno sforzo di convogliare le esigenze politiche e operative in un programma di educazione politica di base, si può cogliere in tutta la produzione garibaldina: da quella ricchissima delle zone emiliano-romagnole e marchigiane, in cui predominano gli appelli alla popolazione delle campagne per il sostegno alla lotta partigiana e quindi i problemi della terra, a quelli rivolti più direttamente alle gente cittadina e alla classe operaia.

 settembre 1943 L Azione

Bibliografia

Giovanni De Luna, Nanda Torcellan, Paolo Murialdi – La stampa italiana dalla Resistenza agli anni sessanta – Editori Laterza 1980

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Le prime libere elezioni dopo la fine del regime fascista, la scelta tra monarchia e repubblica a Lissone

28 Mai 2021 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #pagine di storia locale

Nel breve spazio di tempo che va dal marzo al giugno 1946, gli italiani furono chiamati alle urne due volte: la prima, per eleggere le amministrazioni comunali, la seconda, il 2 giugno 1946, per scegliere la forma istituzionale dello Stato, monarchia o repubblica, ed eleggere i componenti dell’Assemblea Costituente incaricata di redigere la nuova Costituzione.

 

Lissone 1946

 

A Lissone, il 3 maggio 1945, nella residenza comunale, il Comitato di Liberazione Nazionale insediò la nuova Giunta municipale, la cui composizione era stata decisa sin dalla riunione clandestina del 12 marzo. Per la scelta del sindaco i comunisti, superando la dura opposizione socialista, avevano comprensibilmente messo «il loro voto a disposizione dei democristiani, appellandosi alla situazione prefascista» e la scelta era caduta su Angelo Arosio, detto Genola. Vicesindaco fu nominato Giuseppe Crippa, comunista, e all'amministrazione andò Federico Costa, socialista. La Giunta fu completata da Mario Camnasio (Dc) all'annonaria, Emilio Colombo (Psi) ai lavori pubblici e Giulio Meroni (Pci) all'assistenza ai quali si aggiunse il ragionier Giulio Palma, rappresentante del Partito liberale, quale assessore supplente.

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Il Comitato di Liberazione Nazionale aprì una grande sottoscrizione per garantire l'assistenza ai più poveri; i fondi furono gestiti ed erogati da una speciale Commissione finanziaria che, oltre dell'assistenza si occupò anche di sostenere l'ospedale della Carità, il patronato scolastico, la scuola professionale di disegno, l'Associazione mutilati e invalidi di guerra e l'Associazione reduci e la Conferenza di San Vincenzo.

La guerra aveva avuto un costo umano ed economico di grandi proporzioni. Notevoli furono le spese sostenute dall'Amministrazione comunale lissonese durante il periodo dell’occupazione tedesca.

In campo internazionale, gli USA, una volta vinta la guerra, furono l'unica potenza in condizioni di prosperità di fronte ad un'Europa terribilmente impoverita e devastata. Perciò, con il preciso scopo di combattere l'influenza sovietica e mostrare agli europei il volto del loro possente capitalismo, gli americani programmarono notevoli aiuti ai paesi europei. Uno strumento importante sorto nel novembre 1943 a Washinghton con il fine di pianificare l'aiuto per la ricostruzione delle zone devastate dalla guerra, fu l'United Nation Relief and Rehabilitation Administration (UNRRA), formalmente sotto il controllo ONU, ma di fatto frutto dell'intervento economico degli USA. Furono messi a disposizione capitali, materiali e generi alimentari.

A Lissone il problema dell'assistenza aveva determinato la nascita nel dicembre del 1945 del Comitato comunale per l'assistenza post-bellica con lo scopo di favorire la distribuzione di vestiario e generi alimentari, mentre il 9 gennaio 1946 il comune fu incluso nel piano di distribuzione viveri e prodotti tessili del comitato provinciale UNRRA. A tal proposito nello stesso anno si formò il comitato comunale di assistenza UNRRA e nacquero contemporaneamente quattro centri di assistenza, ubicati presso la scuola materna comunale di via G. Marconi, l'asilo infantile Maria Bambina di via Origo, la mensa materna ONMI di via Fiume e lo spaccio comunale ECA di piazza Libertà.

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In definitiva nel luglio del 1946 erano assistiti tramite refezione gratuita e distribuzione di generi in natura circa 540 minori e 120 madri, anche se i bisognosi ammontavano in tutto a 900 persone. 

Le prime elezioni libere dopo la fine del regime fascista furono quelle amministrative che furono fissate per il 7 aprile 1946; 5.700 furono i Comuni italiani interessati dal voto.

Alla vigilia delle prime elezioni in cui anche le donne vennero chiamate ad esprimere il proprio parere, nessuna forza politica poté ignorare quale enorme importanza avrebbe assunto l’elettorato femminile, che, con 14.610.845 persone che acquisirono il diritto a recarsi per la prima volta in una cabina elettorale, costituiva circa il 53% del totale.

De Gasperi e Togliatti erano fondamentalmente concordi sull’estensione del suffragio, ma dovettero scontrarsi con la diffidenza che il provvedimento suscitò, per motivi diversi, all’interno dei loro partiti.

De Gasperi Nenni Togliatti

Nel PCI i dubbi circa i risultati delle urne erano legati al timore che le donne si lasciassero troppo influenzare dai loro parroci e dalla Chiesa.

Le perplessità democristiane erano invece legate alla possibilità che, con la nuova partecipazione alla vita politica, esse si allontanassero progressivamente dai valori tradizionali, incrinando così l’unità della famiglia.

Per Nenni e per i socialisti il voto femminile era sicuramente un fatto positivo, ma potenzialmente pericoloso. Il Partito Liberale, il Partito Repubblicano e il Partito d'Azione si mostrarono a volte indifferenti, a volte diffidenti verso il voto alle donne, per timore che risultasse un vantaggio per i partiti di massa.

In Brianza si affermò la Democrazia cristiana, che vinse in tutti i paesi ad eccezione di Albiate e Nova.

Nonostante le preoccupazioni della Questura di Milano, che temendo incidenti, inviò una circolare contenente le direttive per mantenere l'ordine pubblico, anche a Lissone la giornata elettorale trascorse «da parte della cittadinanza in una atmosfera di disciplina e compostezza e di esemplare senso civico».

torre Casa del popolo dopoguerra-comizio.jpg 1948 Comizio

A Lissone, i seggi elettorali erano insediati in piazza IV Novembre, alle scuole di via Aliprandi, alla cascina Santa Margherita. Verso sera, alle 18, l'altoparlante della casa del popolo comunicò i dati riassuntivi: la Dc prese il 58,45% (e 24 seggi), l'Unione dei partiti di sinistra il 36,7% (6 seggi), e infine gli indipendenti con soli 411 voti presero il 4% e nessun seggio in Consiglio comunale. Ma il dato più significativo fu l'affluenza alle urne, che raggiunse il 92% degli iscritti (gli aventi diritto al voto erano oltre 11.000).

Il 17 aprile 1946 si insediò quindi il nuovo Consiglio comunale, e dopo il doveroso ricordo dei caduti della liberazione in un clima di grande rispetto reciproco e di consapevolezza delle difficoltà del momento, la maggioranza, per voce di Bruno Muschiato (che lo presiedeva nella sua qualità di consigliere capolista), chiese «ai colleghi della minoranza [...] la loro collaborazione e specific[ò] che [era] intenzione di riserbare un posto di assessore effettivo al consigliere Federico Costa nella sua qualità di capo riconosciuto dalla minoranza stessa». Dopo il rifiuto del Costa, motivato dalla necessità «di poter svolgere liberamente il compito di controllo e di critica costruttiva che in regime veramente democratico sono indispensabili», Mario Camnasio fu eletto sindaco. 

1949 Lissone Amministrazione comunale 1  1949 Lissone Amministrazione comunale 2

 

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«Il lavoro da compiere - sostenne il sindaco uscente Angelo Arosio - è oltremodo difficoltoso e non si può certamente sperare che una bacchetta magica lo possa immediatamente risolvere; il pareggio di bilancio, ad esempio, appariva ben distante da raggiungere. E nonostante si dovesse operare, secondo la Giunta, «più con la riduzione delle spese che con eccessivi inasprimenti di tributi locali o con l'assunzione di mutui, furono applicate dall'amministrazione comunale «la sovraimposta al 3° limite [e] tutte le altre imposte e tasse comunali [...] con le aliquote e nelle misure massime stabilite dalle vigenti disposizioni di legge in materia, e [...] pure sono state applicate le addizionali sulla imposta di famiglia e sulla imposta industria, arti, commercio e professioni». Malgrado gli sforzi e le nuove imposizioni il risultato fu tuttavia sconsolante, poiché «benché applicate al massimo le imposte non hanno seguito il vertiginoso aumento dei prezzi. Infatti [...] le entrate non potranno pareggiare le uscite».

In questa situazione la Giunta affrontò il problema degli alloggi nominando una apposita Commissione comunale, con «mansioni principalmente conciliative per la disciplina dell'importante servizio» e programmando sistemazioni anche precarie per le famiglie degli sfrattati. Inoltre, «constatata la necessità da parte della popolazione e particolarmente dei ceti meno abbienti, di disporre di generi alimentari non razionati di più largo consumo e prezzi equi», fu istituito l'Ente comunale di consumo e programmato un piano organico di opere pubbliche a «sollievo della disoccupazione, sempre più preoccupante in ogni categoria operaia», con il contributo dello Stato. 

2 giugno 1946 file ai seggi manifesto PCI per la repubblica

Il 2 giugno 1946 il corpo elettorale venne nuovamente chiamato alle urne. Gli elettori dovevano scegliere con un referendum tra la monarchia e la repubblica ed eleggere i loro rappresentanti all'assemblea costituente. Vittorio Emanuele III, in un ultimo disperato tentativo di salvare la monarchia aveva meno di un mese prima abdicato in favore di suo figlio, Umberto.

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Ma fu vana impresa e con 12.717.923 (il 54,2%) contro 10.719.284 (il 45,8%) l’Italia divenne una repubblica. Ufficializzata la votazione Umberto inizialmente chiese tempo, affermando che le preferenze per la Repubblica costituivano la maggioranza dei voti validi, ma non la maggioranza della totalità degli aventi diritto al voto.

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Furono giorni carichi di tensione, e circolarono voci di un possibile colpo di stato dell' esercito in appoggio al re. Tuttavia De Gasperi e gli altri ministri rimasero fermi al loro posto e infine il 13 giugno il «re di maggio», come venne poi soprannominato, prese la via dell'esilio.

1946-Torino-W-la-Repubblica.JPG 1946 re Umberto II lascia Quirinale

Enrico De Nicola, l'ultimo presidente della Camera prefascista, fu, quindici giorni più tardi, eletto capo provvisorio dello Stato.

Enrico De Nicola I presidente

A Lissone le elezioni si svolsero «in un clima di concordia e di consapevolezza dell'importanza e della gravità» del momento.

scheda elettorale monarchia repubblica Lissone-referendum-2-giugno-1946.jpg

Anche il corpo elettorale cittadino votò in grande maggioranza per la Repubblica (76,2% contro il 23,8% per la Monarchia) e Federico Costa, il 17 giugno, alla prima adunanza del Consiglio comunale dopo il referendum, sottolineò con forza che «la superata crisi dei giorni scorsi per merito dei nostri dirigenti democratici e per la maturità politica di tutto il popolo dimostra quanto fosse retrograda e reazionaria la dinastia che resse i destini del nostro paese per tanti anni».

manifesto per Costituente giugno 1946 lavori Costituente

L'elezione per l'Assemblea Costituente dette inoltre per la prima volta una indicazione precisa della forza dei partiti. A livello nazionale la Dc emerse come primo partito con il 35,2%, seguito dai socialisti con il 20,7% e dal Pci con il 19%. I tre grandi partiti ebbero da soli quasi il 75 per cento dei voti, presentandosi come i dominatori della Costituente. A Lissone la percentuale ottenuta dai tre partiti fu addirittura maggiore, il 94,13%, e lo scrutinio non presentò particolari stravolgimenti rispetto a due mesi prima. La Dc tuttavia perse quattro punti percentuali, e con 5.577 voti ottenne il 54,2%; i socialisti con 3.086 voti ottennero il 29,99%, il Pci con 1.023 voti ebbe il 9,94%. Gli altri partiti si spartirono il 6% rimanente (Democrazia repubblicana ebbe 84 voti; i repubblicani 93; i comunisti internazionalisti 9; il Blocco libertà 41; l'Unione democratico liberale 199 e lo Schieramento nazionale 8. Da notare che nettamente inferiore al dato nazionale fu il risultato raggiunto a Lissone dal Fronte dell'Uomo qualunque, che con 169 voti ottennero un misero 1,64%).

l Unità W la Repubblica ministro Romita vittoria repubblica 

Ricominciava quindi definitivamente la vita democratica, era nata la Repubblica, e la classe dirigente lissonese si rendeva conto che anche dalla rappresentanza comunale «dipende[va] che questa istituzione di liberi cittadini prosperi e si rafforzi in un clima di democrazia, di giustizia, di moralità e di progresso sociale». La minoranza socialista, attraverso Federico Costa, offrì «all'uopo un sincero appoggio» alla Giunta democristiana «in tutte quelle deliberazioni che devono tradursi in un miglioramento delle condizioni del popolo», consci che in città «i problemi da risolvere [erano] numerosi e difficili» e che necessario era soprattutto un riordinamento della materia tributaria, in cui «occorre oculatezza e massima rigidezza, [e] bisogna gravare senza tema di ostilità quelle persone che molto hanno e che nulla vogliono dare per il bene comune».

1946-via-simboli-monarchici.JPG 2 giugno 1946

 

Bibliografia:

Archivi comunali di Lissone

Antonio Maria Orecchia in “La seconda guerra mondiale, la Resistenza, la Liberazione”

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Arturo Arosio

28 Mars 2014 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #storie di lissonesi

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Il 18 marzo 1945 veniva fucilato dai nazifascisti Arturo Arosio. 
Di anni 19. Nato a Lissone (Milano) il 24 maggio 1925, come molti altri giovani risponde al bando Graziani di chiamata alle armi e si arruola nella Divisione alpina «Monterosa»; addestrato con i commilitoni a Münsingen, in Germania, sotto la diretta supervisione dei tedeschi, rimpatria nella seconda metà del 1944 ed è dislocato in un reparto di presidio nell'entroterra ligure. Valutata la situazione, diserta e si aggrega ai partigiani della Brigata «Centocroci» di La Spezia. Catturato durante un rastrellamento, viene processato per diserzione e condannato a 30 anni di reclusione, grazie alla difesa di un capace avvocato, Emilio Furnò, che riesce ad evitargli (seppure per poco) la fucilazione. La sera del 13 marzo 1945 due partigiani armati di rivoltella irrompono nell'abitazione del tenente della X flottiglia Mas Roberto Gandolfo (arruolato nella 5a Compagnia del Battaglione «Lupo») e lo uccidono insieme a suo padre. Per rappresaglia il Tribunale militare di Chiavari condanna a morte con rito sommario sei prigionieri (Arturo Arosio, Giuseppe Barletta Alessandro Sigurtà, Emanuele Giacardi, Luigi Marone e Mario Piana), prelevati il 18 marzo dalle carceri, condotti sul luogo dell'azione partigiana, in località «Villa Pino» di Santa Margherita di Fossa Lupara (comune di Sestri Levante), e fucilati da un plotone della 3a Compagnia della XXXI Brigata Nera «Generale Silvio Parodi» comandato dal tenente Giuseppe Barbalace. Per cinque di essi la fine è immediata; il sesto, Mario Piana, lasciato per morto, trascinatosi sul terreno riesce a raggiungere il vicino bosco, dove è ritrovato dopo alcune ore dai partigiani; ricoverato all'ospedale da campo di Santo Stefano d'Aveto, si spegne nel giro di pochi giorni per emorragia. Sul luogo della fucilazione, accanto alla casa della famiglia Gandolfo, un cippo ricorda i sei fucilati. La salma di Arturo Arosio è trasportata a fine maggio 1945 a Lissone, suo paese natale, per la celebrazione di solenni funerali partigiani. (tratto da “Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza 1943-1945” a cura di Mimmo Franzinelli – Ed. Oscar Storia – marzo 2006 pag.87, 88 e 89)

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Lettera alla famiglia del 5 maggio 1944, scritta durante l’addestramento in Germania


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Tratte dalla pubblicazione “Le Brigate del Popolo” del 17 gennaio 1946 (pagg. 12 e 13)

ARTURO AROSIO 14ma Brigata del Popolo

Partigiano di fede, per il suo ideale sacrificò la vita. Dopo un lungo periodo di dura prigionia venne fucilato a Sestri Levante dai tedeschi, perche appartenente a formazioni partigiane.

Unico sentimento espresso nell’ultima lettera ai suoi cari l'orgoglio di morire per la sua Patria "Italia”.

Fucilato a Sestri Levante il 18 marzo 1945.


UNA LETTERA

Un glorioso caduto ebbe la 14.ma Brigata: il caporale Arturo Arosio, nome di battaglia “Tarzan”, fucilato il 18 marzo 1945 dai nazifascisti di Sestri Levante. Ad illustrare la figura di “Tarzan”ogni nostra parola sarebbe vana per cui ci rimettiamo alla sua penna pubblicando stralci della lettera scritta poco prima di essere condotto alla fucilazione.

 Chiavari, 16 marzo 1945

Cara mamma. Carletto, Antonio, Bruno, Angelina, Ernestina, Luigia e il cognato Luigi, Zii, Zio, parenti, cugini e cugine, amici.

Eccomi a Voi con questo ultimo mio scritto primo di partire per la mia sentenza, io muoio contento di aver fatto il mio dovere di vero soldato e di vero italiano; cara mamma sii forte che io dal cielo pregherò per te; sei stata l'unica consolazione, hai sofferto tanto per me e soffrirai ancora dopo la mia morte? Cara mamma io pregherò tanto per te e per i fratelli e sorelle!

Cari fratelli e sorelle, siate orgogliosi di aiutare la mamma e sopportare la sua pesante croce che dovrà portare in alto dei cieli. Mamma non piangere per me, pensa che tu mamma nell’altra guerra, hai avuto un fratello caduto al fronte, e io vado a raggiungerlo la dove godrò un'altra vita felice e beata, dove ci sarà un altro tribunale davanti a Dio onnipotente, là dove ci sarà finalmente giustizia per quelli che hanno fatto del bene o del male.

Cara mamma, fratelli e sorelle, nel momento della mia morte, invocherò e pregherò per voi, pregherò il Signore perché vi benedica e vi tenga sani in una lunga vita di pace e felicità. Miei cari fratelli ricordatevi di me nelle vostre povere preghiere, credo che tutto il male che vi ho fatto, me l'avrete perdonato; scusatemi se vi ho fatto arrabbiare e perdonatemi di tutto.

Al mio caro Carletto, che tutti giorni facevo impazzire credo che mi perdonerà di tutto il male che gli ho fatto, per le volte che l'ho fatto piangere? Mi perdoni?

Ai miei cari fratelli Anselmo e Bruno, per fare che aiutino la mamma e sia ubbidienti e laboriosi, ricordino che il loro fratello è stato processato e dopo fucilato nella schiena.

Alle care sorelle Ernestina, Angelina e Luigia perché mi perdonino e preghino per me, che io pregherò per loro quando salirò in cielo.

Alla mia cara mammina che tanto piangeva per me, mamma sii forte a sopportare questo tremendo delitto, che Dio pense a maledire questi uomini senza fede e senza speranza in Dio. Dio non paga solamente al sabato, ma paga tutti i giorni. Fate bene fratelli, che il tempo passa e la morte s’avvicina.

Vi mando i miei ultimi saluti e baci, tanti bacioni a te mamma, baci a voi cari fratelli, Carlo, Anselmo, Bruno, baci alle mie care sorelle Angelica, Ernestina, Luigia e Luigi.

Vostro fratello Arturo.

Tuo figlio ti manda tanti baci, tanti saluti; ci rivedremo in cielo.

Arturo, ciao mamma mia.

Salutami la zia Vittorina, Viola, Salvatore, lo zio Giuseppe, la zia Agnese, Arturo, Teresina, Arcangelo, Maria Adelaide, zia Giovanna e tutti i suoi figli, lo zio Alessandro, zia Paolina, Alfonso, sua moglie e i suoi figli, Arturo e tutti gli altri parenti che non ricordo più.

Baci a tutti, ci rivedremo in cielo, Ciao, ciao, ciao.

Mamma, miei fratelli e sorelle, pregate per me. Baci, baci, baci.

Vostro Arturo.

Un inutile commento sciuperebbe la piena di commozioni e sentimenti che suscita la lettura di questa lettera, sono parole semplici di un'anima semplice che va a presentarsi a Dio, conscia di aver fatto null'altro che il proprio dovere.

Ed in pochi minuti prima di morire ecco il suo nobile post scriptum alla lettera.

Chiavari, 18 marzo 1945.

Cara mamma,

sii forte che io vado a trovare il caro e amato papà e tutti i nostri cari morti. Baci, baci, baci.

Saluti a tutti i nostri cari parenti. Ciao mamma, fratelli e sorelle.

Vostro Arturo - Ciao. 

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Arturo era credente: a lui dedichiamo la «Preghiera del partigiano»:


"Signore, cala la notte sui monti, ed io elevo a Te la mia preghiera. Tu che leggi nel cuore degli uomini, ascolta questa voce. Benedici la mia casa lontana, coloro che in ansia attendono il mio ritorno.

Benedici i compagni che vegliano in armi, fa' che l'occhio sia vigile, pronta la mente, salda la volontà.

Benedici la gente d'Italia, i fratelli che soffrono, perché dalle loro pene fiorisca la libertà, ritorni il regno della giustizia.

Accogli nel Tuo mondo di luce i nostri Morti, rendimi degno del loro sacrificio.

Fa' che ogni mio gesto, ogni pensiero, sia puro come le nevi, guarda con misericordia alle mie colpe.

Benedici l'Italia, o Signore, benedici coloro che nel suo nome operano e combattono.

Così sia".

 


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Il cippo in località Santa Margherita di Fossa Lupara (comune di Sestri Levante) che ricorda i partigiani caduti tra cui Arosio Arturo 


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Il Comune di Lissone nel decennale della Liberazione


Arturo Arosio aveva tre fratelli e tre sorelle. Abitavano in Via Crippa a Lissone. Nella foto degli anni ’30, Arturo è il primo a destra.

 

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Due sono stati i processi cui è stato sottoposto Arturo Arosio dopo la sua cattura, il secondo dei quali è stato una vera e propria farsa: una sentenza scontata, pronunciata, nel pomeriggio del 18 marzo 1945 dopo un processo con rito sommario, da giudici militari del Tribunale di guerra della “Monterosa”, giudici succubi del regime tirannico della Repubblica Sociale Italiana, ormai con i giorni contati, e sotto la minaccia delle Brigate Nere.
Emilio Furno, uno dei tre avvocati difensori che con le loro arringhe hanno tentato di evitare la condanna alla fucilazione dei sei partigiani rinchiusi nel carcere di Chiavari, così scrive:

Chiavari, 18 marzo 1945.
Oggi al tramonto, in S. Margherita di Fossa Lupara, Brigate Nere hanno eseguito la sentenza di morte contro un gruppo di Partigiani, pronunciata nel pomeriggio dal Tribunale di Guerra della «Monterosa». Oggi la morte ha stroncato la giovinezza di altri nostri fratelli.
La sera cade sui corpi insanguinati di Barletta Giuseppe, Piana Mario, Marone Luigi, Arosio Arturo, Sigurtà Alessandro, Giaccardi Emanuele.
Come erano giovani!
Barletta, Piana, Arosio, Giaccardi vent'anni. Marone ventuno. Sigurtà ventidue.
Pesa su di me un'invincibile angoscia, fatta di avvilimento e d'ira.
Ho lasciato il Tribunale piangendo né mi· son dato pena di·nascondere le lacrime ai Giudici militari, silenziosamente raccolti sulla scalinata di Villa Navone. Ma non serve a nulla il piangere! Sottolinea soltanto la mia impotenza. E non solo la mia. Quando finirà questa guerra fratricida?
Rolando Perasso, Giovanni Trucco, fraterni compagni nella dolorosa via che essi stessi mi hanno esortato a percorrere, sono stati fino a tardi con me. Rolando ha detto poche parole, vincendo la sua pena di uomo con l'accettazione del combattente. Più loquace Trucco, con il quale ho spartito la fatica e la difesa e che oggi ha pronunciato un'orazione ardente e coraggiosa.
Caro Giovanni! Ricorderò sempre quello che hai detto oggi in Tribunale. Ed i pallidi volti dei giudici.
Domani, forse, sembrerà nulla, sembrerà naturale, ma oggi ci vuole molto coraggio a dire certe cose! Trucco ha detto che voleva portare in aula la voce e l'ammonimento del popolo, assente, ma presente. E ha portato questa voce, chiedendo la liberazione dei giovani con estrema energia.
Il vecchio alpino non ha avuto peli sulla lingua. Trucco ed io abbiamo speso tutte le nostre forze. Qualcosa abbiamo ottenuto. Gli imputati erano dieci. Quattro hanno avuto salva la vita. Ma non basta al nostro cuore. Ho negli occhi i sei condannati.
Piana Mario, ancora ferito al viso, calmissimo. Affrontava risoluto il suo ultimo combattimento. Marone Luigi aveva conservato, ancor dopo la condanna, la sua ligure compostezza. E dalla scalinata del Tribunale guardava il sole, alto nel cielo. Barletta, Arosio, Sigurtà, Giaccardi hanno saputo vincere il tremito della carne. Tutti intorno a me, prima di salire sulla corriera, che li avrebbe portati a S. Margherita di Fossa Lupara. Che sforzo a non piangere davanti ad essi. Marone mi ha consegnato il portafoglio, ricordo per il padre. Lo apro questa notte. V'è la sua fotografia, un'immagine di S. Antonio, una moneta abissina.
La mia angoscia aumenta. Aumenta la mia solitudine. … E' ancora guerra.
Eppure la primavera si è già affacciata sull'appennino e guarda dolce il ligure mare. Ma la primavera non ferma il destino. Avv. Emilio Furno(da “Storia della Divisione Garibaldina «Coduri» di Amato Berti e Marziano Tasso Seriarte Genova 1982)

In corriera i sei partigiani, tra cui Arturo Arosio, vengono portati da militi delle Brigate Nere a Santa Margherita di Fossa Lupara, frazione di Sestri Levante.

Su un dosso tra viti ed ulivi, a poca distanza dal mare, in un paesaggio che suscita sentimenti di pace e di tranquillità in chi oggi raggiunge il luogo, avviene la tragedia.

 

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Nel silenzio della natura, siamo stati anche noi oggi, muti, sul posto dove un cippo ricorda i sei partigiani fucilati: Arturo è il primo della lista.

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Abbiamo trovato dei fiori freschi che gli amici dell’ANPI di Sestri Levante avevano appena deposto. Poi abbiamo scambiato delle parole con gli attuali proprietari del terreno su cui avvenne la fucilazione: a noi, nati con la Costituzione repubblicana, in un Paese libero, hanno raccomandato di far conoscere ai giovani ciò che è stato. E' un impegno che ci proponiamo di mantenere.

 

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