Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

Résultat pour “vento del Nord”

primavera del 1943: gli antifascisti italiani confinati a Ventotene

12 Décembre 2010 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Ventotene è un'isola del Mar Tirreno, situata al largo della costa al confine tra Lazio e Campania, in provincia di Latina.

Isole Pontine

Durante il periodo fascista, sull'isola furono confinati numerosi antifascisti, nonché persone considerate non gradite dal regime.

Antifascisti-verso-il-confino.jpg

Tra gli altri Sandro Pertini, Luigi Longo, Umberto Terracini, Giorgio Amendola, Lelio Basso, Mauro Scoccimarro, Giuseppe Romita, Pietro Secchia, Eugenio Colorni, Giovanni Roveda, Walter Audisio, Camilla Ravera, Giuseppe Di Vittorio, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi. Furono proprio questi ultimi due antifascisti a scrivere sull'isola, nella primavera del 1941, l'importante documento Per un'Europa libera e unita. Progetto di Manifesto diventato noto come Manifesto di Ventotene. Nel documento la federazione degli Stati d'Europa, sul modello statunitense, viene indicata come l'unica soluzione per la salvezza della civiltà europea.

Luigi Longo, confinato politico a Ventotene, ha scritto nel suo libro “Un popolo alla macchia”:

«Mentre tutto intorno crescevano e s'avvicinavano le fiamme della guerra, mentre nelle città e nelle campagne lavoratori, impiegati, professionisti e intellettuali si agitavano, si muovevano, premevano per avere pace e libertà, nelle carceri e nelle isole di confino italiane centinaia e migliaia di antifascisti si struggevano nella loro forzata inattività, tendevano ansiosamente l'orecchio a tutti i suoni, a tutte le briciole di notizia che giungevano dall'esterno, soffrivano crudelmente per le pene della patria e sentivano che presto, forse prestissimo, sarebbero stati chiamati a prendere in mano le sorti del paese e a tentarne l'estrema salvazione.

L'isola di Ventotene era come la capitale di questo mondo di captivi. Nella primavera del '43 essa raccoglieva un migliaio circa di dirigenti e di umili militanti di tutte le correnti dell'antifascismo italiano. Eravamo finiti là provenienti da tutte le parti - molti dopo cinque, dieci e anche quindici e più anni di reclusione sofferta - prelevati dalle città e dalle campagne d'Italia perché sorpresi a parlare contro il fascismo e la guerra; reduci, noi garibaldini di Spagna e gli emigrati, dai campi francesi di internamento, dove eravamo stati rinchiusi allo scoppio della guerra. Ci affratellavano le comuni sofferenze, le stesse speranze e un uguale amore di libertà.

Due volte la settimana un battello congiungeva l'isola al continente: portava le provviste, qualche familiare e sempre nuovi confinati. Ma portava anche i giornali e le notizie dall'Italia. Scorrevamo avidamente i comunicati ufficiali, che cercavamo di completare e di arricchire leggendo tra le righe, ma; soprattutto, correvamo a scoprire le comunicazioni confidenziali, “illegali”, che ci arrivavano nascoste nelle pieghe di un vestito, nella copertina di un libro, nei “doppi” più impensati.

Con emozione indicibile seguivamo in quei giorni il corso della guerra, apprendevamo le rovine che si accumulavano nelle nostre città bombardate, salutavamo le prime manifestazioni di resistenza popolare alla folle politica fascista. Il sentire - come sempre di più sentivamo - la grande anima dell'Italia vicina a noi ci risollevava, ci riempiva di fierezza e di speranza. Erano lunghe serate di attesa, nelle tristi camerate della nostra deportazione: lunghi giorni di meditazione, dinanzi al mare d'Italia; un'impaziente preparazione alla lotta aperta, tempestata di presentimenti amari, di preoccupazioni non mai sopite per la sorte del nostro. popolo. Era la nostra vigilia immediata? Si giungerà in tempo? Si potrà evitare che il popolo venga defraudato dei suoi sacrifici e della sua riscossa? Si salverà l'Italia dal tedesco e da nuovi tradimenti?

Intanto non si perdeva il tempo. Ventotene non era soltanto l'isola di confino voluta dal fascismo, ma era anche, come ogni carcere e ogni altra isola di deportazione, un centro di formazione politica dei confinati e di direzione del movimento per la pace e la libertà all'interno del paese. Molti, tra coloro che salparono da Ventotene dopo la caduta del fascismo, lasciarono la vita sulle montagne o nelle segrete nazifasciste. Non per nulla gli antifascisti definivano, con una punta di scherzo e una di profonda serietà, “governo di Ventotene” il gruppo dei confinati. Tra Ventotene e il paese si svolgeva, soprattutto a mano a mano che la lotta si acuiva, un ricambio continuo e proficuo: il lavoro unitario dell'isola si rifletteva sui «fronti nazionali» dell'interno, e viceversa; avveniva uno scambio, un'osmosi incessante fra le esperienze di Ventotene - che non erano meramente teoriche, proprio perché operavano sulla realtà dei rapporti politici e umani tra i suoi “ospiti”, e influivano sulla ben più complessa realtà del paese - e quelle del continente.

Nonostante la sorveglianza, nessuno dei confinati rimaneva all'oscuro degli avvenimenti, e soprattutto delle considerazioni politiche che se ne potevano trarre. Per i comunisti ad esempio, Scoccimarro, Secchia, Li Causi, Roveda, Di Vittorio, io, elaboravamo ogni settimana un rapporto di informazione sulla situazione italiana e lo diffondevamo “a catena”, fino a toccare tutti i compagni dell'isola nel giro di cinque o sei giorni. Ognuno di noi si dava a passeggiare con due compagni, tirandosi appresso le guardie incaricate di pedinarci, le quali però si stancavano presto e finivano per mettersi a passeggiare e a chiacchierare tra di loro. Ciascuno dei due compagni, a sua volta, ripeteva la relazione che aveva udita ad altri due. Non si poteva certo giurare che il primo e l'ultimo contesto dicessero esattamente la stessa cosa; ma un orientamento, una qualche indicazione arrivava in questo modo, di certo, su tutte le questioni più importanti a tutti i compagni del confino».

 

Bibliografia:

Luigi Longo “Un popolo alla macchia” Editori Riuniti 1965

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Congresso ANPI Lissone 2021

12 Novembre 2021 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #varia

Il Congresso di Sezione si è tenuto Sabato 20 Novembre dalle ore 15,00  presso la sala riunioni ( 1° piano ) di Villa Magatti in P.zzale S. Pertini,1  a Lissone

L’accesso alla sala dove si teneva il Congresso era consentito solo con il GREENPASS

momenti del Congressomomenti del Congresso
momenti del Congressomomenti del Congresso
momenti del Congressomomenti del Congresso

momenti del Congresso

"La sezione lissonese dell' ANPI, riunita per celebrare il proprio congresso, apprende con sgomento delle inqualificabili espressioni con cui Fabio Meroni, consigliere comunale ed ex Sindaco leghista di Lissone, si è rivolto alla senatrice Liliana Segre. Chiamarla con il numero che la barbarie nazista le ha tatuato sul braccio è un gesto che si commenta da sé e che, come la stessa senatrice Segre ci ricorda, richiederebbe forse soltanto il silenzio.

Noi però vogliamo esprimerle tutta la nostra solidarietà ed anche la nostra immensa gratitudine per il coraggio della sua infaticabile testimonianza. Ci sentiamo di promettere alla senatrice Segre il nostro impegno, proprio nella città di Lissone, per tenere viva la sua lezione di resistenza e di democrazia".

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Direttivo eletto nel Congresso ANPI Lissone del 17/11/2021

 incarichi decisi nel direttivo del 01/12/2021

 Stucchi

Pierangelo

Presidente

Ballabio

Graziella

Tesseramento

Brusa

Mariuccia

Verbali

Confalonieri

Alberto

Supporto organizzativo

Fossati

Cesare

Supporto organizzativo

Lissoni

Cosetta

Supporto organizzativo

Martinengo

Massimo

Comunicazione

Missaglia

Giovanni

Vice Presidente

Nappo

Francesco

Gestione informatica

Pellizzoni

Renato

Sito Anpi

Tremolada

Luigi

Supporto organizzativo

Viganò

Maria Rosa

Supporto organizzativo

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È morto Egeo Mantovani

11 Mai 2022 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #varia

Figlio di braccianti agricoli, trasferitisi a Carpi e poi nell'Agro Pontino, a undici anni inizia a lavorare come bracciante e meccanico. Mobilitato durante la Seconda guerra mondiale, Mantovani fa parte della divisione Ariete, di stanza nell'Africa settentrionale, e partecipa anche alla battaglia di El Alamein. L'8 Settembre 1943 si trova a Bologna; la sua caserma è occupata dai nazisti, ma lui riesce a scappare. Si rifugia prima da una zia (che con altre donne aiutava i soldati sbandati, fornendo loro abiti e calzature borghesi), ma presto entra nelle formazioni partigiane che si vanno organizzando sulle montagne tosco-emiliane. Partecipa così a numerose azioni contro i nazifascisti e ha modo di salvare molti soldati inglesi. Mantovani, che è stato fra i protagonisti della liberazione della sua città, ha ricevuto dal comune di Carpi un riconoscimento ufficiale del contributo dato alla Resistenza. Entrato nel 1946 alla "Magneti Marelli", dal 1954 al 1970 è stato membro della commissione interna. rendendosi protagonista di numerose conquiste sindacali. In quegli stessi anni ha ricoperto numerosi incarichi, tra cui quello di presidente della Cooperativa "Carlo Cattaneo" di Monza, membro del direttivo provinciale della Fiom, segretario del Coordinamento nazionale della Magneti-Marelli. Per diversi anni è stato l'anima e il punto di riferimento dell'ANPI di Monza e della Brianza. Nel 2008 è stato eletto Presidente onorario della nuova ANPI provinciale di Monza-Brianza. Fu instancabile nella sua quotidiana attività di coordinatore e divulgatore dei principi dell'antifascismo.

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anno scolastico 1940 - 1941

10 Octobre 2011 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #pagine di storia locale

vissuto sui banchi di una scuola elementare di Lissone.



Quando il 16 ottobre 1940 inizia l’anno scolastico, da quattro mesi i nazisti hanno occupato Parigi.
Parigi-giugno-1940.jpg
Il maresciallo Petain, dopo il crollo dell’esercito francese, ha firmato l’armistizio con i tedeschi. Pochi giorni dopo, l’anziano militare veniva nominato presidente della Repubblica di Vichy, istituita come governo collaborazionista della Germania. Dall’Inghilterra il generale De Gaulle annunciava alla popolazione francese attraverso la radio: “Qualunque cosa succeda la fiamma della resistenza francese non deve spegnersi e non si spegnerà”.

Quando i tedeschi erano a pochi chilometri da Parigi, il 10 giugno 1940, dal balcone di Palazzo Venezia, Mussolini aveva annunciato di aver dichiarato guerra alle “democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente” e iniziava l’offensiva italiana sulle Alpi che costava all’Italia notevoli perdite e fruttava ben poco in termini di territorio conquistato. “Una pugnalata alle spalle” che costringeva la Francia a chiedere l’armistizio all’Italia.

A Lissone, le classi delle scuole elementari sono composte mediamente da cinquanta alunni.
Nella scuola della frazione Santa Margherita, classificata come scuola rurale, la cerimonia di apertura viene così descritta: «gli alunni, inquadrati, si recano con i loro insegnanti alla chiesa della vicina frazione Bareggia. Poi inquadrati davanti al monumento ai Caduti, rispondono al saluto al Re, al Duce e all’appello ai Caduti».
quaderno scuola rurale

Il 28 ottobre, nell’anniversario della Marcia su Roma, il Duce del fascismo ordinava l’inizio delle operazioni belliche contro la Grecia.


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Quest’anno l’Italia è in guerra e il 4 novembre è giorno di scuola. Un maestro
«ne approfitto per commemorare la giornata che ricorda la più strepitosa vittoria italiana, ricordando gli eoi che seppero dare la vita per la grandezza dell’Italia e invitando gli scolari a saperli imitare, se la difesa della nostra patria lo richiedesse». E un’altro insegnante della scuola elementare di Santa Margherita «infioriamo il quadro del Milite Ignoto, soldato nel quale la Patria ha esaltato tutti i suoi Eroi» e «vorrei proporre al Sig. Direttore che si intitoli l’aula ad uno dei Caduti della frazione».

7 novembre 1940: Il Federale di Milano visita gli stabilimenti industriali di Lissone.
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Scrive il maestro sul “Giornale della classe”: «Da parecchi giorni avevo invitato i miei scolari a prepararsi la divisa e infatti per le ore 14 ho potuto averne un bel numero in perfetta divisa di balilla. Alle 14,15 noi eravamo schierati di fronte alla Casa del Fascio ad attendere il capo del partito della Provincia.
Lissone ex casa del fascio
Appena arrivato gli furono presentate tutte le Autorità locali quindi, presa la bicicletta, si diresse a visitare gli stabilimenti. I balilla rimasero un po’ mortificati perché il federale non li passò in rassegna e quindi non tutti lo poterono vedere
».


Lissone municipio anni 4018 novembre 1940: «Oggi ho avuto un’altra grande soddisfazione perché ho potuto completare il pagamento delle tessere di balilla. Ho insistito molto per far portare i soldi ma sono riuscito nel mio intento. Ho anche ricordato l’anniversario delle inique sanzioni col dimostrare il perfido desiderio dei nostri nemici, specialmente della Francia e dell’Inghilterra di affamarci ed impedirci così di conquistare un posto al sole. Alle ore 10 poi, accompagnai tutti i balilla in divisa delle classi terze, quarte e quinte nel cortile del Municipio, dove sta murata la lapide ricordo, per la cerimonia commemorativa».


umberto di savoiaIl 13 dicembre 1940 arriva a Lissone nientemeno che Sua Altezza Reale il Principe di Piemonte, Umberto di Savoia, per visitare le caserme del paese.

distaccamento-militare.jpg delibera-11-12-1940.jpg

Il direttore ordina di sospendere le lezioni alle ore 12
«per consentire agli scolari di ritornare in divisa alle scuole Vittorio Veneto per le ore 13,30». Inquadrati vengono condotti davanti alla caserma principale, in via Besozzi, dove vengono schierati. La giornata non è particolarmente fredda, ma «il dover rimanere immobili per due ore non era particolarmente simpatico». Finalmente alle ore 16 il Principe arriva. «La lunga attesa li ha stancati un po’ ma quando il Principe li passò in rivista seppero stare sull’attenti come altrettanti soldati. Nei loro occhi si leggeva la gioia grande di aver visto da vicino un così nobile personaggio e il sacrificio della lunga attesa era completamente dimenticato».

principe Umberto Lissone 1940 b

principe Umberto Lissone 1940

principe Umberto Lissone 1940 a

 

Si avvicina il Natale ma a scuola si fanno prove di incursione aerea. Il 20 dicembre «al segnale d’allarme, dato dal Sig. Direttore con 3 suoni di fischietto, tutte le classi, secondo gli ordini impartiti, in silenzio sono scesi nel sotterraneo e là sono rimaste fino al segnale del cessato allarme dato con un suono prolungato di fischietto».

Le vacanze natalizie sono ridotte a tre giorni: il 24, 25 e 26 dicembre. Il 27 si ritorna a scuola: «per le eccezionali condizioni della nostra Patria, non si deve parlare di vacanza». Un altro maestro annota nel “Giornale della classe”: «le lunghe vacanze natalizie dovrebbero essere tolte anche negli anni venturi poiché lo studio ne trae maggior vantaggio».

8 gennaio 1941: «ricorre il genetliaco di S.M. la Regina Imperatrice. Immustro la figura nobile e magnanima della nostra Regina. Illustro poi le mplteplici attività della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e il largo contributo che ha dato nella guerra per la conquista dell’Impero, nella Spagna, in Albania e nell’attuale conflitto».


La guerra costa e allora si chiedono ulteriori sacrifici alle famiglie. Una circolare del segretario del Fascio di Lissone invita gli scolari ad essere generosi verso i soldati in guerra; in una quinta maschile
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Nelle classi femminili si procede alla raccolta di indumenti di lana per i militari. La maestra scrive: «nessuna delle mie scolare è in condizioni finanziarie tali da poter offrire neppure un capo di lana. Invito quindi le scolare ad offrire qualche lira per poter comperare della lana e confezionare poi con essa qualche paio di calze». È da sottolineare che in una pagina del “Giornale della classe”, di fianco al nome e ai dati anagrafici di ogni scolaro, vi era uno spazio in cui veniva indicata la condizione economica della famiglia!

E in un’altra quinta femminile: «con le mie alunne felicissime ho preparato il pacco con gli indumenti e altri oggetti destinati ai combattenti, che nel pomeriggio verrà portato al fascio. Contiene 12 paia di calze di lana, 9 paia di guanti, 1 passamontagna, molte buste con fogli di carta da lettera, biglietti postali, cioccolato, sigarette. Non mi aspettavo tanto! ».

Nelle classi femminili si procede alla raccolta di indumenti di lana per i militari. La maestra scrive: «nessuna delle mie scolare è in condizioni finanziarie tali da poter offrire neppure un capo di lana. Invito quindi le scolare ad offrire qualche lira per poter comperare della lana e confezionare poi con essa qualche paio di calze». È da sottolineare che in una pagina del “Giornale della classe”, di fianco al nome e ai dati anagrafici di ogni scolaro, vi era uno spazio in cui veniva indicata la condizione economica della famiglia!

E in un’altra quinta femminile: «con le mie alunne felicissime ho preparato il pacco con gli indumenti e altri oggetti destinati ai combattenti, che nel pomeriggio verrà portato al fascio. Contiene 12 paia di calze di lana, 9 paia di guanti, 1 passamontagna, molte buste con fogli di carta da lettera, biglietti postali, cioccolato, sigarette. Non mi aspettavo tanto! ».

 

20 febbraio 1941:
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«
Anche alla Cascina Santa Margherita si sente l’eco della guerra. Tutti i bambini hanno parenti prossimi e lontani richiamati alle armi. Parlo del sacrificio compiuto dai nostri soldati e del dovere, da parte nostra, di collaborare alla buona riuscita delle armi. I bimbi devono, come quattro anni orsono, offrire i rottami di ferro che possono sembrare inutili. Come durante la guerra per la conquista dell’Impero, anche ora la Patria saprà trasformare i rottami in potenti armi contro il nemico. Siamo lieti di aver partecipato anche noi alla vittoria finale». Un incaricato della Gioventù Italiana del Littorio ritira 50 chilogrammi di rottami offerti alla patria dagli alunni di Santa Margherita.
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E nel primo anno di guerra, per ricordare l’anniversario della Fondazione dei Fasci di combattimento (furono fondati il 23 marzo 1919 a Milano in Piazza San Sepolcro) un grande avvenimento per la scuola lissonese: «inaugurazione del gagliardetto dei Balilla e delle Piccole Italiane, che è intitolato a Giulio Venini, un caduto del fronte greco-albanese, proposto per la medaglia d’oro, già figlio di una Medaglia d’oro della Grande Guerra».

Dato il susseguirsi degli avvenimenti bellici, un maestro decide di dedicare il lunedì di ogni settimana per raccontare agli scolari quanto sta accadendo sui vari fronti.
K aprile 1941 Bengasi yugoslavia epiro macedonia 

4 aprile 1941: «Oggi ho dato la notizia ai miei scolari della riconquista di Bengasi».

7 aprile 1941: «Spiego ai miei alunni la ragione per cui l’Italia e la Germania hanno iniziato la guerra contro la Jugoslavia».

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21 aprile 1941: «
Commemoro la fondazione di Roma e la festa del lavoro. Inoltre do notizia della caduta della Jugoslavia che si è arresa».

24 aprile 1941: «Comunico ai miei scolari la notizia che le Armate dell’Epiro e della Macedonia sono capitolate».

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I soldati che sono impiegati in Albania hanno risposto alle lettere inviate dalle bambine di quinta. 

Una in particolare «è veramente interessante: un Alpino racconta un poco le vicende gloriose di laggiù».

21 aprile 1941: «Per commemorare il Natale di Roma e la festa del Lavoro, ascoltiamo una trasmissione organizzata dall’Ente Radio Rurale». Ciò è stato possibile grazie all’apparecchio radiomicrogrammofonico donato dall’Egr. Podestà Cav. Angelo Cagnola.

E per il 9 maggio, anniversario della fondazione dell’impero, il maestro scrive: «ricordo alla scolaresca la rapida e gloriosa conquista dell’Etiopia, inutilmente ostacolata dall’Inghilterra. In questo momento in cui si accende sempre più la speranza di una emancipazione del Mar Mediterraneo dal dominio britannico e si consolida la nostra fiducia nella vittoria finale e nel rafforzamento del potere italiano nell’Africa Orientale italiana, volgiamo ai nostri soldati, che in quelle terre combattono per la gloria d’Italia, il nostro affettuoso saluto ed il nostro ringraziamento».

In realtà in Africa gli inglesi erano passati al contrattacco, dilagando in tutti i possedimenti orientali italiani, Etiopia, Somalia, Eritrea, tanto che, dall’aprile 1941, il negus era ritornato trionfalmente ad Addis Abeba.

La scuola sta per finire. Come lo scorso anno termina il 15 maggio e non ci saranno gli esami di terza e di quinta. Gli alunni verranno giudicati solo attraverso lo scrutinio. Scrive sul “Giornale della classe” una maestra di quinta femminile: «Dedico questi ultimi giorni di scuola a lezioni di igiene ed economia domestica, che riusciranno certo tanto utili a queste donnine, molte delle quali lasceranno fra poco definitivamente la scuola».


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pagine del programma didattico di una V classe femminile
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La “lunga Liberazione”

4 Mai 2009 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

La violenza della RSI - sotto forma di fucilazioni di partigiani e di rappresaglie contro i civili - perdurò in forma virulenta sino alla fine della guerra, senza alcuna attenuazione.

Il 19 aprile 1945 il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia lanciò ai fascisti l’invito tassativo di “arrendersi o perire”. Ma fino agli ultimi giorni, quasi le ultime ore, l'azione repressiva dei nazifascisti mantenne intatta la propria drammatica efficacia. Lo scontro fu durissimo e totale sino alla fine delle ostilità "ufficiali". Nella sola fase insurrezionale 4.000 furono le perdite partigiane.

L'addensarsi della rabbia vendicativa, accumulata per mesi, trovò sanguinoso sfogo appena le circostanze lo consentirono.

Alla Liberazione seguì un mese di giustizia sommaria, intensa e senza mediazioni. La memoria lunga dell'oppressione classista e della guerra civile strisciante del 1921-22, quando il rullo compressore dello squadrismo aveva distrutto il tessuto associativo delle leghe rosse, costò cara ai responsabili di soperchierie lontane nel tempo ma vicinissime nella percezione delle vittime e dei loro figli. Si uccise il nemico sconfitto, si vendicarono i caduti e gli eccidi. Si anticipò il corso di una giustizia che ritardava troppo la sua azione.

... “Ragazzi di vent'anni o padri di famiglia pagano adesso con la vita la fedeltà e l'estrema coerenza ad un malinteso ideale di onore e di amor patrio che li ha tragicamente spinti a non vedere ciò che era ormai sotto gli occhi di tutti, pagano l'aver scelto di continuare a stare dalla parte di chi aveva elevato la violenza e l'efferatezza a sistema, di chi volontariamente e oggettivamente si era asservito ai nazisti divenendo corresponsabile del saccheggio del patrimonio nazionale, delle deportazioni, delle stragi, delle rappresaglie, delle torture, delle impiccagioni e delle fucilazioni”.
 


Piccola fascista con il viso imbrattato di vernice e la ‘M’ di Mussolini dipinta sulla fronte viene fatta marciare per la città da partigiani milanesi (da Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea 'Giorgio Agosti' http://www.istoreto.it/mostre/lunga_liberazione_220405/chiaroscuri_fotografie.htm


Dove più forte aveva infierito la repressione nazifascista, più forte colpì la vendetta del postliberazione. Dove più forte e sanguinoso era stato l'impatto dello squadrismo agrario e padronale, lì è dove la "pulizia" venne condotta con la massima energia.


Furono mesi in cui la fiducia in una giustizia pronta ed efficace rimase ancora diffusa, sensazione che si infranse prima sul reale rigore della giustizia ufficiale e poi nell'azione di distruzione a tappeto delle condanne compiuta dalla Cassazione, operazione completata dall'amnistia del 1946.

Apparve presto evidente, con l'emanazione dell'amnistia Togliatti e con la sua applicazione oltremodo estensiva da parte della magistratura (plasmata in buona parte dal regime e persistentemente ancorata a quei valori), che lo Stato applicò agli imputati criteri di straordinaria generosità, considerati beffardi da chi aveva avuto familiari o compagni di lotta uccisi in maniera brutale e che vedeva quei criminali tornare liberi, nel giro di un paio d'anni.

21.500 furono gli imputati comparsi di fronte alle CSA (Corti Straordinarie d’Assise); 525 furono le condanne a morte comminate (2,4%). I reati consumati prima dell’8 settembre 1943 non furono di competenza delle CSA e non conobbero mai giustizia perché amnistiati nel giugno 1946.

Mentre in Francia vi fu un mantenimento, con qualche novità, della sua classe dirigente politica (con l’esclusione delle destre fasciste) e un rinnovamento, in misura sensibile, degli apparati, in Italia vi fu un rinnovo della classe politica senza mutare il personale degli apparati. Un esempio: i giudici della Cassazione. La Cassazione (che annullò il maggior numero possibile di condanne a morte) era composta da uomini che dovevano al fascismo la loro posizione: erano stati zelanti verso le disposizioni del regime.

L’amnistia fu l’eutanasia del processo di defascistizzazione e un fallimento dell’epurazione amministrativa.

Particolarmente severo nei confronti dell’amnistia si dimostrò Sandro Pertini che non mancò di polemizzare anche con Togliatti.

L’amnistia fu carente per “dissidio tra circostanze attenuanti e principio di responsabilità”.

Con l’amnistia buona parte dei vertici della repubblica Sociale Italiana furono liberi, così pure i golpisti del 1922, i sicari di Matteotti e dei fratelli Rosselli, i delatori, le spie, i torturatori di prigionieri (percosse, strappi delle unghie, bruciature non vennero considerate sevizie “particolarmente” efferate), gli stupratori. Un gran numero di componenti della banda Koch di Milano, tra cui assassini di partigiani (con l’esclusione dei componenti volontari dei plotoni di esecuzione), vennero liberati.

I giudici togati al cospetto dell’opinione pubblica condannarono gli imputati, ma sul piano giurisprudenziale lasciarono ampio spazio alla revisione delle sentenze, con la conseguenza di una netta attenuazione delle pene emesse  dalle CSA.

La Cassazione completò l’opera di totale smantellamento dell’apparato primitivo contro fascisti e collaborazionisti applicando in maniera estensiva e indiscriminata l’amnistia.


da una sentenza della Cassazione depositata in copia a Torino:

"Non può […] essere ritenuta la partecipazione dell'imputato all'omicidio di un paracadutista, che gli inglesi avevano calato nel territorio occupato per servizio di informazioni, per averlo lo stesso denunciato e consegnato ai tedeschi che lo fucilarono, giacché, a prescindere che malgrado il rigore dei metodi di guerra dei tedeschi la decisione sulla fucilazione restava sempre ad essi devoluta, mancava la prova nell'imputato della volontà di uccidere, non potendo la previsione della fine certa del denunciato indurre senz'altro l'intenzione di uccidere. Non sussiste la causa ostativa dei fatti di omicidio nei confronti di chi -comandante dell'UPI- abbia arrestato due coniugi e diverse altre persone di razza ebraica, poi deportate a Dachau e Mauthausen, dove perirono, giacché nella fattispecie non solo manca il rapporto di causalità psichica, ma anche di causalità materiale fra l'arresto, la deportazione e l'evento morte. Né sussiste la causa ostativa dei fatti d'omicidio a carico di chi, maresciallo della G.N.R., abbia compiuto numerosi arresti di cittadini e patrioti, successivamente uccisi dai tedeschi o deceduti a Fossoli [ ... ] poiché mancano gli estremi della responsabilità per la partecipazione agli omicidi. Non costituiscono sevizie particolarmente efferate le percosse con nerbate, inflitte a diversi arrestati durante gli interrogatori per farli parlare, fatte seguire da immersioni in vasche piene d'acqua durante l'inverno, giacché tali violenze non arrivano a concretare il grado sommo ed abnorme di atrocità nelle sofferenze richiesto per rappresentare quelle sevizie particolarmente efferate ostative dell'amnistia. Né l'assistenza dell'imputato all'impiccagione di un arrestato può costituire di per sé, senza il concorso di elementi specifici di partecipazione, prova di concorso nell'omicidio o nemmeno, per difetto di circostanze idonee ad integrarle, le sevizie particolarmente efferate. Difetta di motivazione la sentenza che ha qualificato sevizie particolarmente efferate le nerbate sulle mani, protratte sino a provocare la perdita dei sensi della vittima, ed il ricorso a punture per farla rinvenire e continuare il martirio, giacché da un lato ha omesso di valutare criticamente le modalità ed intensità delle sevizie stesse e dall'altro di indagare quali siano stati i mezzi impiegati per farle ricuperare i sensi, ben diverse, a seconda del mezzo adoperato, potendo essere le conclusioni circa la gravità delle sofferenze provocate”.

 
“Si salvano in tanti

Sono in troppi a salvarsi in quei giorni e sono in troppi a prodigarsi per il salvataggio dei criminali più in vista. Ci sono gli angloamericani e la curia milanese, quell'Ildefonso Schuster che, per glorificare il duce aveva scomodato anche Gesù quando, all'interno del duomo, aveva fatto scrivere in caratteri dorati: «Gesù, re dei popoli - dona anni lunghi e vittoriosi - a Benito Mussolini, splendore dell'epoca sua» .

Tra coloro che avranno salva la vita c’è “il maresciallo Graziani, il «leone di Neghelli», l'uomo che, fra le tante ignominie, ha firmato il bando di fucilazione per i renitenti alla leva repubblichina. ...

Il 26 febbraio 1948 la Corte d'assise speciale di Roma, dopo settantanove udienze, si dichiarerà incompetente a giudicare Graziani e ordinerà la trasmissione degli atti alla Procura militare. Condannato il 2 maggio 1950 a diciannove anni di reclusione, beneficerà subito di una riduzione della pena a quattro anni e cinque mesi per effetto del condono e, scontatigli anche gli ultimi quindici mesi che gli restano da fare, il maresciallo torna in libertà, ma non proprio a vita privata: una fotografia del 1953 lo ritrae ad un comizio elettorale ad Arcinazzo, in un bel abbraccio con l'allora giovane sottosegretario democristiano Giulio Andreotti”.


L’amnistia arrivò troppo presto in Italia, solamente dopo quattordici mesi dalla fine della guerra, a differenza della Francia (*) dove l’amnistia vi fu solo nell’agosto del 1953, cioè nove anni dopo la fine dell’occupazione tedesca.

 

Bibliografia:

-  Mirco Dondi – La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano – Editori Riuniti, 2008

- Massimo Storchi – Il sangue dei vincitori. Saggio sui crimini fascisti e i processi del dopoguerra (1945-1946) – Aliberti Editore, 2008

- Luigi Borgomaneri - Due inverni, un'estate e la rossa primavera. Le brigate Garibaldi a Milano e provincia 1943-1945 - Franco Angeli, 1995

- Vittorio Roncacci  - “La calma apparente del lago” Macchione Editore, 2004

 


 

(*) Le cifre dell’epurazione in Francia:


9.000 esecuzioni extragiudiziarie

1.500 esecuzioni giudiziarie

310.000 le cause istruite

125.000 processi

45.000 pene di prigione

      50.000 sottoposti a “dégradations nationales”
      25.000 funzionari sottoposti a sanzioni


La “lunga Liberazione” a Lissone


Anche nella nostra città la giustizia sommaria ebbe, nei giorni seguenti il 25 aprile, il suo tragico corso:

Ennio Arzani,

impiegato, di anni 29, fucilato alla schiena alle ore 6,30 del 30 aprile 1945 presso il Parco delle Rimembranze

Luciano Mori,

geometra, di anni 45, fucilato alla schiena alle ore 6,30 del 30 aprile 1945 presso il Parco delle Rimembranze

Giuseppe Tempini,

maresciallo dei Carabinieri in pensione, di anni 55, morto per ferite multiple di arma da fuoco al torace e al cranio, presso la sua abitazione di Via Assunta 3, alle ore 18,30 del 3 maggio 1945

Guglielmo Mapelli,

meccanico, di anni 37, morto per ferite multiple di arma da fuoco al cranio, alle ore 22,30 del 17 maggio 1945 presso il cimitero di Lissone

Fausto Gislon,

falegname; di anni 41, morto per ferite multiple di arma da fuoco al cranio, alle ore 5 del 18 maggio 1945 presso il cimitero di Lissone

 

(fonte Archivi comunali)

 


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LA CRISI E L’ATTUALITA’ DELL’ANTIFASCISMO

25 Avril 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #varia

Un contributo di Giovanni Missaglia per il 25 aprile 2008

A  dispetto del ruolo che mi compete in questa giornata di festa e di commemorazione, vorrei iniziare il mio intervento con una nota amara sulla crisi di quello che è stato chiamato il “paradigma antifascista”. Un paradigma che negli ultimi anni ha subito molti attacchi espliciti o, nella migliore delle ipotesi, è caduto nell’oblio, è invecchiato – così si dice – secondo le inesorabili leggi del tempo.

Un giovane storico di idee politiche moderate, Sergio Luzzato, nel 2004 ha scritto un bellissimo libro intitolato La crisi dell’antifascismo. Proprio nelle prime pagine afferma: “Inutile negarlo: l’antifascismo sta attraversando una crisi profonda; eventualmente una crisi irreversibile. E non soltanto a causa della legge generale per cui l’impatto di ogni fenomeno storico è destinato comunque a diminuire nel tempo […]. Penso che alla mia generazione competa una responsabilità retrospettiva ben precisa: non consentire che la storia del Novecento anneghi nel mare dell’indistinzione”.

E invece è proprio nel mare dell’indistinzione che rischiano di condurre, se non hanno già condotto, alcune esigenze di per sé legittime e persino irrinunciabili. Penso, in primo luogo, al tema della pietà per i morti, al rispetto che si deve anche a coloro che decisero di militare nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana. L’ingiunzione etica, che per qualcuno riveste anche un significato religioso, è fuori discussione: non compete agli uomini il giudizio morale. Che, però, non deve essere confuso col giudizio storico: quel che conta, dice ancora Luzzato, quando ci si collochi sul terreno della valutazione storica, non è l’uguaglianza nella morte, ma la disuguaglianza nella vita. “Il saloino era evidentemente disponibile ad immolarsi per l’Italia della Risiera di San Sabba e di Fossoli: per il mondo di cui Mussolini e Hitler andavano berciando da vent’anni, dove i più forti erano i migliori, i più deboli partivano dentro carri bestiame per una destinazione che soltanto gli ipocriti qualificavano ignota. Il garibaldino era pronto a morire per l’Italia di Montefiorino e della Val d’Ossola […], per un mondo che poteva sperare libero, egualitario, solidale”; Luzzato può così concludere che “le concrete circostanze della storia italiana e mondiale attestano oltre ogni margine di dubbio che il partigiano delle Garibaldi combatteva dalla parte giusta, il ragazzo di Salò dalla parte sbagliata”.

Un’altra istanza sacrosanta rischia di condurci “nel mare dell’indistinzione”. Penso al grande tema della pacificazione tra gli italiani che una festa come quella del 25 aprile, secondo i suoi detrattori, avrebbe il torto di impedire. Occorre intendersi. Il bisogno di voltare pagina dopo un conflitto tremendo, di non interpretare la memoria come eterna perpetuazione dei conflitti del passato, è giusto. Del resto, fu proprio il ministro Togliatti ad assumere nei confronti dei fascisti il provvedimento tanto discusso dell’amnistia. Ma deve essere chiaro, in primo luogo, che la pacificazione non può equivalere ad una parificazione tra fascisti e antifascisti. Sarebbe inaccettabile sul piano morale, ma sarebbe persino insensato sul piano storico; sarebbe, questo sì, un modo per togliere dignità e responsabilità a quegli italiani che scelsero di combattere al fianco del’alleato nazista per la costruzione di un’Italia fascista. Deve essere chiaro, in secondo luogo, che la vera pacificazione fu proprio quella operata dai partigiani e dai loro eredi politici. Essa non fu altro che quell’opera di democratizzazione della vita pubblica che è l’unica condizione di una pace duratura: la costruzione di un Paese dove il pluralismo politico e il riconoscimento delle libertà consentisse a tutti, pur nelle differenze sociali, politiche ed economiche, di sentirsi italiani e di vivere in pace con gli altri italiani e con gli altri popoli.

Non credo, tuttavia, che questi argomenti siano sufficienti a ridare vita a un antifascismo largo e partecipato, sentito, soprattutto, dalle nuove generazioni. Penso, invece, che l’antifascismo vivente sia oggi quello depositato nella Costituzione della Repubblica italiana. Anche per questo è una vera tragedia che troppo spesso, nella formazione dei giovani, la Costituzione non trovi posto. E’ proprio lì l’antifascismo da vivere tutti i giorni; e non come un impegno “contro” –come potrebbe suggerire il prefisso “anti” della parola antifascismo” – ma come un impegno “per”. Per l’uguaglianza, sancita dall’articolo 3, contro tutte le discriminazioni politiche, sociali, economiche e sessiste. Per la pace, che l’articolo 11 annovera tra i principi fondamentali della nostra Costituzione, a segnare la rottura col bellicismo dell’Italia fascista. Per i diritti civili, ed in particolare per la libertà personale, la libertà di opinione e la libertà di associazione, che il Fascismo aveva pesantemente conculcato e che devono essere coltivate e protette anche dalle minacce odierne, comprese quelle “ad alta tecnologia”, se è vero che i proprietari dei nuovi e poderosi strumenti di comunicazione rischiano di ridurre noi, semplici cittadini, ad una massa di manovra conformista e acquiescente. E ancora: per difendere la centralità del Parlamento, visto che le giuste riforme che pure sono necessarie a renderlo più efficiente non devono mai svilirne il ruolo. Noi italiani sappiamo bene che Mussolini pensava al Parlamento come ad “un’aula sorda e grigia” e sappiamo ancora meglio quali pericoli siano insiti nel leaderismo esasperato, nella cieca fiducia nelle virtù taumaturgiche di un “Capo” che pensa di essere l’unico interprete dell’autentica volontà del popolo, a sua volta ridotto ad una massa indistinta priva di differenziazioni interne, ad un bambino che deve soltanto “credere, obbedire e combattere”. Antifascismo non significa lavorare contro qualcosa o contro qualcuno, ma per l’attuazione piena – e certo anche il miglioramento – della nostra Costituzione. E’ lì, l’antifascismo del XXI secolo.

Ma forse –e mi avvio a concludere- c’è anche un antifascismo eterno. Nel 1995, uno dei più importanti tra i nostri uomini di cultura, Umberto Eco, ha scritto un saggio intitolato Il fascismo eterno. Se c’è un fascismo eterno, ne devo dedurre che c’è anche un antifascismo eterno. Non vi annoierò ricordandovi tutti i quattordici elementi che secondo Umberto Eco caratterizzano il fascismo eterno, quello che non è solo del passato, ma potrebbe anche essere del futuro e, soprattutto del presente; quello che non è solo di un luogo ma potrebbe essere in ogni luogo, anche fra noi. Vorrei solo segnalarvi alcuni di questi elementi, quelli che mi sembrano più attuali e incombenti e rispetto a cui, perciò, più alta deve essere la vigilanza. Primo: l’esaltazione dell’azione per l’azione. Conta solo agire. I dibattiti e le discussioni sono chiacchiere inutili. Goebbels, il famigerato ministro della propaganda nazista, diceva: “quando sento parlare di cultura, metto mano alla pistola”. Il rifiuto della cultura, il fastidio per ogni  critica, conducono ad interpretare ogni disaccordo come un tradimento. Secondo: la paura della differenza. La nostra società è destinata a divenire sempre più multietnica e multireligiosa. E’ normale che questo susciti anche delle ansie e delle paure. Ma non dimentichiamoci mai che la vera e propria criminalizzazione della differenza è la via maestra che conduce alla xenofobia e al razzismo, l’essenza, il cuore di ogni fascismo. Terzo: il machismo, l’esaltazione della virilità e il disprezzo della donna. Mi piace, tra gli elementi del fascismo eterno richiamati da Eco, ricordare questo, che mi pare abbia una sua tragica attualità, ad ascoltare le cronache che ci parlano ogni giorno di donne offese, stuprate e svilite da maschi di ogni colore e di ogni ceto sociale, nei focolari delle famiglie e nei margini del degrado urbano. Quarto: il populismo. L’idea, come dicevo, che il popolo sia una massa compatta, priva di bisogni e di biografie diverse. L’idea che il popolo sia, a seconda delle circostanze, un bambino immaturo, da educare e proteggere con forme di paternalismo statalista, o un consumatore sciocco da sedurre con le sirene delle merci. Mai, in ogni caso, un soggetto politico plurale che ha il diritto di partecipare alla vita pubblica in tutte le forme che la Costituzione suggerisce, non solo quella del voto, certo sacrosanta ma sempre più interpretata e forse vissuta come una delega ad altri.

Questi, insomma, mi sembrano gli elementi di un antifascismo che potrebbe continuare a parlare anche alle nuove generazioni e aiutarci a mantenerci all’altezza della straordinaria testimonianza morale, civile e politica, della Resistenza italiana.

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La scuola che resiste

20 Novembre 2017 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Nel novembre 1943, all'apertura dei corsi universitari la ribellione si estende alla scuola. La Resistenza veneta è guidata da tre professori universitari: Silvio Trentin rientrato clandestinamente dall'esilio francese, Concetto Marchesi, Egidio Meneghetti: l'antica Università padovana non mancherà la dichiarazione di guerra al nazifascismo. Bisogna però attendere che si apra l'anno accademico. Così fino a novembre il mondo universitario combatte il fascismo nelle città e nelle campagne, i professori partecipano ai convegni della cospirazione, gli assistenti Pighin, Carli, Zancan percorrono il Veneto per organizzarla; e il CLN tiene le sue sedute proprio nel palazzo Pappafava dove ha posto la sua sede il ministero della Educazione nazionale repubblichino.

 

La battaglia nella scuola si accende alla data fissata. Il 9 di novembre il rettore Concetto Marchesi apre l’ anno accademico con un primo inequivocabile gesto di ostilità al nazifascismo: dal suo ufficio non è partito alcun invito alle autorità per assistere alla cerimonia. Ci vengono in forma «privata» il ministro Biggini e il prefetto Fumei. Il fascismo padovano cade in un grossolano errore, manda nell’aula una squadra di giovani armati che salgono sul palco proprio mentre entra il rettore magnifico seguito dal professor Mereghetti. I due docenti si gettano d'impulso contro i fascisti mentre l'adunanza degli studenti urla «via gli armati!». Gli intrusi sono costretti ad allontanarsi e il rettore pronuncia la memorabile allocuzione, l'atto di fede nella libera Università: «Qui dentro si raduna ciò che distruggere non si può». Marchesi esalta nel mondo del lavoro una civiltà opposta alla nazifascista e dichiara aperto l'anno accademico nel nome « del lavoratori, degli artisti, e degli scienziati». Il 28 novembre il rettore deve rassegnare le dimissioni e trasferirsi sotto falso nome a Milano; ma lascia un nobile messaggio agli studenti: «Oggi non è più possibile sperare che l’Università resti asilo indisturbato di libere coscienze operose, mentre lo straniero preme alle porte dei nostri istituti e l'ordine di un governo, che per la defezione di un vecchio complice ardisce chiamarsi repubblicano, vorrebbe convertire la gioventù universitaria in una milizia di mercenari e di sgherri massacratori... Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra patria; vi ha gettato tra cumuli di rovine. Voi dovete tra quelle rovine portare la luce di una fede, l’impeto dell'azione e ricomporre la giovinezza e la patria. Traditi dalla frode, dalla violenza, dalla ignavia, dalla servilità criminosa, voi insieme con la gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia dell'Italia e costituire il popolo italiano».

 

La resistenza della scuola romana prende invece l’avvio da gruppi studenteschi di formazione spontanea: l'Associazione rivoluzionaria studentesca guidata da Ferdinando Agnini e da Gianni Corbi; il gruppo azionista promosso da Pier Luigi Sagona; quello comunista di Dario Puccini e di Carlo Lizzani. Di fronte alla minaccia fascista di escludere dagli esami universitari quanti non si sono presentati ai distretti i vari gruppi si uniscono, danno vita a un Comitato studentesco di agitazione e a un Comitato tecnico diretto da Maurizio Ferrara che si mette alla testa della prima grande manifestazione antifascista del 17 gennaio. Gli studenti di medicina entrano nel Policlinico, stracciano i registri, percuotono i fascisti. di guardia. Maurizio Ferrara, salito su una panchina, incita i colleghi alla ribellione. Si forma un corteo, c'è uno scontro a fuoco, un giovane è ferito, altri arrestati.

 

A Milano e a Torino, capitali della resistenza armata le Università sono i distretti della ribellione, da esse partono i quadri delle bande. Gli ultimi mesi del 1943 insegnano che la partecipazione attiva alla Resistenza (lo scrive a un amico Giaime Pintor) è l'unica possibilità aperta a un intellettuale che voglia operare per il riscatto del Paese. Gli studenti universitari, in particolare, non possono mancare la prova. Sono i giovani borghesi giunti all'antifascismo attraverso il fascismo: la guerra partigiana è il suggello delle conversioni sincere.

 

Il lungo viaggio

Gli studenti o i laureati fra i venti e i trent'anni che partecipano alla Resistenza vi giungono da esperienze diverse, ma tutte compiute dentro il fascismo. Il loro è stato un lungo cammino che ora, essendo resistenti, ripercorrono con la memoria, senza mentire a se stessi. Fino al 1938, la maggioranza ha partecipato al fascismo: rassegnata alla sua inevitabilità, sedotta da certe proposte. Non quella di un fascismo sociale che promette un socialismo «più umano, più moderno», riservata a pochi ingenui; ma le altre dei vantaggi concreti, offerti ai giovani borghesi da una dittatura borghese. Fino al '38 i giovani sono fascisti o filofascisti non solo per la ragione ovvia di essere nati dentro il fascismo, ma perché credono di poter ottenere dal fascismo occasioni e promozioni gradite al loro forte appetito, tanto forte da soffocare nei più i primi dubbi e il fastidio morale per le menzogne e le sopraffazioni del regime. I giovani vedono nel fascismo tre possibili vantaggi: una promozione dei ceti medi, una maggiore efficienza amministrativa, una crescente disponibilità di impieghi. Vantaggi in gran parte illusori, ma ci vorrà il lungo cammino fino al '43 per capirlo. Prima del '38 la gioventù borghese e studiosa capisce poco e male la struttura sociale del fascismo:

La personalità di Mussolini nasconde, ai suoi occhi, il «consorzio dei privilegi»; l'avventura imperialistica la distrae dall'affarismo autarchico. E poi il grande capitale faccia pure i suoi affari purché lasci ai borghesi famelici la sua rappresentanza politica e amministrativa. È difficile per i giovani capire che la promozione dei ceti medi è dovuta ai tempi più che al regime; per loro coincide con esso: allevati in famiglie assillate dal pensiero del posto sicuro, essi vedono nel fascismo imperialistico una fabbrica di nuovi posti, e non hanno motivi per rifiutare la propaganda sull'efficientismo del regime. Il regime non è privo di scaltrezza, concede ai giovani una libertà vigilata, li lascia scrivere, dibattere fino a un certo limite sui giornali studenteschi o durante le competizioni culturali come i «littoriali».

 

L'appetito dei giovani è robusto, la loro preparazione culturale mediocre; eppure il fastidio morale c'è e cresce, molti giovani sono già entrati nel lungo cammino e non lo sanno, sarà l'anno 1938 a rivelarlo, con turbamento e dolore. Il 1938 è l'anno in cui la Germania nazista annette l'Austria e in cui l'Italia fascista si accoda alla persecuzione razziale: così ammettendo pubblicamente la sua qualità di nazione subalterna, al rimorchio dell'imperialismo germanico. È soprattutto la persecuzione razziale, con la sua ignominia gratuita, a far «precipitare» tutti gli scontenti morali per l'ipocrisia, per il conformismo, per la servilità della dittatura. Con la vigilia della guerra e con la guerra il distacco morale trova le conferme della ragione, diventa distacco definitivo: non solo e non tanto perché la guerra dimostra l'inefficienza del regime e fa cadere le proposte e le speranze dei vantaggi, ma perché si capisce, da alcuni in modo oscuro, da altri con un principio di chiarezza, che è sbagliata la scelta in sé, la scelta della guerra imperialistica. Una guerra per il dominio mondiale in cui l'Italia entra avendo già perso quello fra i Paesi fascisti, e proprio quando l'imperialismo capitalistico sta per rinunciare dovunque ai rapporti coloniali, quando la rivoluzione industriale esclude lo schiavismo del tipo barbarico. La guerra mette a nudo la povertà intellettuale e morale del regime, segna il naufragio dell'intera classe dirigente.

 

I giovani assistono umiliati, delusi. Alcuni reagiscono rifugiandosi in quella indifferenza che è già disponibilità per una nuova scelta; altri, i più razionali, si sorprendono a desiderare la vittoria del nemico, a rallegrarsi se l'Inghilterra o la Russia resistono, se l'America interviene: preferendo essere liberi nella sconfitta che schiavi nella vittoria; altri ancora, i più sentimentali, i più sensibili ai tormenti delle responsabilità personali, cercano la bella morte sui campi di battaglia, come Giani, Pallotta, Sigieri Minocchi. C'è anche una minoranza di intellettuali come Alleata, Ingrao, Pintor, che possono passare all'antifascismo militante; ma per la maggioranza il lungo viaggio non è ancora finito, passa per gli anni della guerra, per la vergogna della disfatta, anche per i primi mesi della Resistenza. Perché i resistenti borghesi che sul finire del '43 ripensano il lungo cammino capiscono solo ora di avere ignorato gli altri ceti e la loro oscura pena: ora che stanno nella guerra di tutti, con gli operai e con i contadini.

 

Bibliografia:

Giorgio Bocca ”STORIA DELL'ITALIA PARTIGIANA”

Casa editrice G. Laterza & Figli, Bari gennaio 1980

 


 

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La religione e il fascismo

7 Janvier 2011 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #il fascismo

LA RELIGIONE "FONDAMENTO E CORONAMENTO DELL'ISTRUZIONE PRIMARIA" durante il ventennio

 

Non fu certo il profondo senso religioso a spingere Mussolini nella direzione di quel rapido processo di restaurazione dei valori cattolici nella scuola che, avviatosi già all'indomani della marcia su Roma, toccò il suo culmine con il Concordato del 1929.

 

La conciliazione

 

Furono essenzialmente ragioni di opportunismo politico che lo indussero a tale scelta. L'appoggio della Chiesa era ritenuto indispensabile per la diffusione del fascismo. Nel campo scolastico l'educazione religiosa aveva inevitabilmente quei contenuti autoritari utili al fascismo per la formazione di una gioventù pronta ad ubbidire senza discutere e ad accogliere e seguire senza spirito critico la propaganda del Regime. L'intesa con la Santa Sede doveva diventare, quindi, uno dei cardini della sua politica.

Nell'ambito di questo disegno politico si può comprendere perché Mussolini assegnasse proprio a Gentile l'incarico di ministro della Pubblica Istruzione nel suo primo governo. Le risapute opinioni del filosofo idealista nei confronti della formazione religiosa cattolica nella scuola elementare (l'educazione religiosa doveva dare "un orientamento iniziale nella vita"), della libertà d'insegnamento e dell'esame di Stato, lo facevano apparire al duce il più indicato collaboratore per dare subito il via ad una riforma scolastica che perlomeno provvisoriamente potesse soddisfare le aspettative del Vaticano. "Così - come ben scrive Carmen Betti nel suo libro "Sapienza e timor di Dio. La religione a scuola nel nostro secolo" - grazie ad un capo di governo ateo e ad un ministro della Pubblica Istruzione laico, entrambi però sensibili per motivi diversi all'influenza e al potere della Chiesa, il Dio cattolico si apprestò a rientrare con gran pompa nella scuola del popolo, da cui per la verità era stato allontanato più a livello di principio che nei fatti". Di più, a religione cattolica fu posta "a fondamento e coronamento dell'istruzione primaria". Già nel novembre del 1922 il sottosegretario alla pubblica istruzione, il deputato fascista Dario Lupi, ordinava a tutti i sindaci del regno, attraverso i provveditorati agli studi di far ricollocare al più presto alle pareti delle scuole, dove fossero stati rimossi, il Crocifisso insieme al ritratto del Re, "simboli sacri della fede e del sentimento nazionale".

In base ai nuovi programmi, l'orario settimanale assegnato all'insegnamento religioso - che doveva essere impartito dagli stessi maestri - era di un'ora e mezzo per le prime due classi e due ore per tutte le altre. Ma poiché questo orario doveva probabilmente sembrare alle gerarchie ecclesiastiche inadeguato in rapporto alla dichiarata supremazia della religione, ai programmi fu anteposta un'avvertenza: Alla religione che la legge considera fondamento e coronamento degli studi elementari, giacché investe un po' tutti gli insegnamenti, è stato riservato un posto notevole in molti di essi; di conseguenza le ore speciali dedicate alla religione non sono molte e devono essere destinate alla meditazione degli argomenti indicati nel programma speciale) i quali sono come il punto di concentrazione di tutti gli elementi di cultura religiosa sparsi nei vari insegnamenti".

Il programma - redatto come gli altri da Lombardo Radice - voleva, nelle intenzioni, limitare il più possibile gli aspetti confessionali, ponendo soprattutto l'accento sugli "aspetti sentimentali della religione come educazione dell'anima". L'azione educativa doveva essere informata allo "spirito" proprio dell' opera religiosa di Alessandro Manzoni:. amore e timore filiale, non servile terrore". Si suggeriva, inoltre, di infondere nei cuori dei ragazzi "il senso del divino e della provvidenza" facendo soprattutto ricorso alla "contemplazione dell'armonia delle cose e della vita morale non tanto definita per aforismi e per regole, quanto rappresentata in grandi e umili figure di credenti (si pensi al cardinale Federico e a Lucia)". Nonostante ciò, l'impronta confessionale rimaneva in evidenza (e non poteva essere diversamente). Essa traspare fin dalla prima classe per farsi via via più accentuata: canti, preghiere, conversazioni, brevi e chiare sentenze tratte dalle Scritture e dal Vangelo (I elementare), episodi del Vecchio Testamento (II elementare), ciclo di lezioni sul Pater e sulla vita di Gesù (III elementare), lezioni sui comandamenti (IV elementare), illustrazione dei Sacramenti e del rito secondo la prassi cattolica (V elementare); questo il percorso suggerito ai maestri. Un altro provvedimento gradito alla Santa Sede fu l'introduzione dell'esame di Stato nell'ordinamento scolastico che poneva sullo stesso piano, almeno teoricamente, gli alunni della scuola statale e non statale. Mussolini si era così avviato sulla strada delle più ampie concessioni alla Santa Sede. I Patti Lateranensi furono il punto di approdo. Essi costituirono per il fascismo l'occasione di un definitivo consolidamento interno e un motivo di prestigio internazionale. Gli elogi al duce per la "conciliazione" si sprecarono e i cattolici guardarono a lui come all' "Uomo della provvidenza" (l'appellativo è dello stesso Pontefice). Per quanto riguarda il nostro discorso, il Testo definitivo del Concordato oltre a ribadire l'effettiva parità fra scuola pubblica e scuola privata, in virtù dell'esame di Stato; oltre ad assicurare pieno riconoscimento "alle organizzazioni dipendenti dall'Azione Cattolica, a patto che operino al di fuori di ogni partito politico e sotto l'immediata dipendenza della gerarchia della Chiesa, per l'attuazione e diffusione dei principi cattolici", stabiliva all'art.36 l'estensione dell'istruzione confessionale alle scuole medie secondo programmi che sarebbero stati stabiliti d'intesa tra Stato e Chiesa. Il concetto della dottrina cattolica come "fondamento e coronamento" veniva così allargato alla scuola secondaria.

 

La religione

 

 

Nonostante i limiti posti alle organizzazioni giovanili di Azione Cattolica, il consenso dei vertici ecclesiastici non poteva che essere unanime. Mussolini tuttavia non perdeva occasione per ribadire il primato dello stato fascista, tenendo discorsi decisamente anticlericali: “Nello Stato la Chiesa non è sovrana e non è nemmeno libera (...) Lo stato fascista rivendica in pieno la sua eticità: è cattolico, ma è fascista, anzi soprattutto, esclusivamente, essenzialmente fascista. Il cattolicesimo lo integra, e noi lo dichiariamo apertamente, ma nessuno pensi di cambiarci le carte in tavola". Malgrado ciò la Chiesa non poteva certo opporsi ad un regime che si presentava come il restauratore dell'ordine sociale, come il difensore della famiglia, della proprietà e della religione.

A questo punto l'unico terreno di scontro tra Chiesa e regime riguardava proprio il monopolio dell'educazione giovanile, a cui nessuno dei due voleva rinunciare. Così il successivo "impegno" di Mussolini (peraltro già iniziato negli anni precedenti, con l'istituzione dell'O.N.B. e lo scioglimento delle organizzazioni scoutistiche cattoliche ritenute incompatibili con l'Opera balilla) in tal senso determinò i noti fatti del 1931 (30 maggio) che portarono allo scioglimento d'autorità dei circoli giovanili di Azione Cattolica, sottoposti alle violenze fasciste con devastazioni di sedi, percosse e minacce ai singoli esponenti. Dopo mesi di tensioni e trattative fu raggiunto un accordo che circoscriveva sensibilmente le possibilità di azione dei circoli giovanili, riaperti a ottobre. I due "poteri", pur a denti stretti, continuarono a procedere affiancati. Anzi pochi anni dopo, alcuni avvenimenti li avvicinarono notevolmente. Infatti con la guerra d'Etiopia - di cui la Chiesa colse subito il risvolto missionario, non ci fu più tempo per i litigi, e soprattutto i fatti di Spagna mostrarono quanto il fascismo fosse sempre il miglior baluardo contro i sovversivi rossi e contro i nemici della chiesa.

Il progressivo distacco della Chiesa dal regime maturerà molto tardi, in relazione alle scelte di politica estera (avvicinamento alla Germania nazista) e alla svolta razzista. Gli ampi spazi di influenza che Mussolini concesse alla Chiesa, anche nel campo scolastico, fecero sentire i loro effetti soprattutto nel dopoguerra. Tutti i partiti sorti dalle ceneri della dittatura dovettero farne i conti. Affrontare il problema della religione a scuola con "il piglio, pluralistico e sovranazionale, consolidato nei paesi anglosassoni" sarebbe stato impossibile. Non a caso l'insegnamento della religione nelle scuole statali, entrò, insieme al concordato, nella Costituzione italiana.

 

Bibliografia:

-       Elena D'Ambrosio, A SCUOLA COL DUCE - L'istruzione primaria nel ventennio fascista, Istituto di Storia Contemporanea "Pier Amato Perretta" di Como

Immagini della mostra A SCUOLA COL DUCE dell’Istituto di Storia Contemporanea "Pier Amato Perretta" di Como

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Attività della Sezione ANPI di Lissone nel 2011

2 Juillet 2007 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #varia

 
Sabato 29 gennaio 2011 presso la sala Polifunzionale della Biblioteca Civica di Lissone,  in Piazza IV Novembre, ricordo di tre personaggi dell’antifascismo monzese: Giovanni Battista Stucchi, Gianni Citterio e Antonio Gambacorti Passerini.
Le loro storie attraverso la lettura di alcune pagine del libro “Tornim a baita. Dalla campagna di Russia alla Repubblica dell'Ossola” di Giovanni Battista Stucchi.
E' intervenuta Rosella Stucchi, figlia di Giovanni Battista Stucchi.
 


150° anniversario Unità d’Italia
Giovedì 17 marzo 2011 ore 18.00
sala Polifunzionale della Biblioteca Civica
Lissone,  Piazza IV Novembre
 
«Fratelli d'Italia?
L'idea di nazione a 150 anni dall'Unità d'Italia»
 
 
 
conferenza del prof. Giovanni Missaglia
 
docente di Storia e Filosofia
 
 
 

 
 
Domenica 10 aprile, una delegazione dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia di Lissone ha partecipato ad una cerimonia, organizzata dall’ANPI di Sestri Levante, a ricordo di tutti coloro che, combattendo per la libertà durante la guerra di Liberazione, sono caduti vittime del nazifascismo nell’entroterra della Riviera ligure di Levante.
 
La cerimonia si è svolta in località S. Margherita di Fossa Lupara dove, il 18 marzo 1945, venne fucilato anche il diciannovenne partigiano lissonese Arturo Arosio, al quale è stata recentemente intitolata una via di Lissone.
 
Alla celebrazione di una messa in suffragio dei caduti nella chiesetta locale, , è seguito un corteo che ha raggiunto il luogo in cui sorge il cippo commemorativo, dove sono state deposte corone di fiori.
 
Dopo i saluti delle autorità locali, l’intervento di uno storico ha inquadrato l’episodio di quei giorni della primavera del 1945 nel contesto degli avvenimenti della Resistenza italiana, nella quale tanti giovani, in un’ora difficile della nostra storia, seppero scegliere tra civiltà e barbarie, testimoniando con la stessa vita la loro fede nei valori di democrazia, giustizia e libertà, principi che sono alla base della nostra Costituzione repubblicana.
 
La cerimonia è stata presieduta dall’ex partigiano Daniele Massa, nome di battaglia Lucifero, attuale Presidente dell’ANPI di Sestri Levante, che conobbe personalmente il nostro concittadino Arturo Arosio. Arturo rimase vittima di una feroce rappresaglia ma, sorretto dalla fede, seppe affrontare il suo tragico destino con grande dignità, come testimoniano alcune lettere inviate alla famiglia nell’imminenza della sua esecuzione.
 
Alcune di queste sono pubblicate  nel libro “Lissone 1939-1945. Storie di guerra e Resistenza” di Renato Pellizzoni e nel sito dell’ANPI di Lissone (http://anpi-lissone.over-blog.com/) nelle pagine di storia locale dedicate ai caduti lissonesi nella guerra di Liberazione.
 
2011 a
 
 

 2011 b2011 c2011 d 2011 f 2011 g 
 
A Daniele Massa (nella foto a sinistra) è stata consegnata la tessera di membro onorario della nostra Sezione ed una pergamena.
2011 e  pergamena Lucifero
dal libro “Come fosse ieri ...” di Ornella Visca, segeretaria dell’ANPI di Sestri Levante:
«Mi chiamo DANIELE MASSA e sono nato a Velva, nel comune di Castiglione Chiavarese, il 10 aprile 1924. All'età di nemmeno 6 anni sono rimasto orfano di padre e mia mamma è rimasta vedova a quarant'anni con otto figli, il più grande dei quali aveva 21 anni.
Si viveva da contadini a mezzadria, perciò la vita era di stenti. Con mio padre si viveva meglio perché lui, oltre che il mezzadro, faceva anche il muratore e si andava avanti discretamente. Dopo la sua morte mia mamma ha mandato le mie sorelle a fare le donne di servizio, mentre noi più piccoli stavamo in casa con lei. Io facevo il chierichetto e dicevano che ero molto bravo. Il parroco del paese si interessò, d'accordo con mia madre, per trovarmi un posto in seminario a Chiavari, in poche parole per farmi diventare prete; ma, alla sera della vigilia della mia partenza per il seminario, mentre mi trovavo con mia mamma in casa di un mio zio; questo mio zio, per scherzo, mi disse: "Vai a farti prete e così non potrai nemmeno prendere moglie, sei proprio un belinun!" lo mi sono messo a piangere e non sono più voluto partire. Ho poi passato alcuni anni a lavorare con questo mio zio, naturalmente quando ero libero dalla scuola.
Finita la quinta elementare, mia mamma, io, mio fratello del '22 e una mia sorella del '26 ci trasferimmo a Sestri Levante ed io andai a fare il garzone in un negozio di alimentari nell'attuale Piazza della Repubblica, dove rimasi fino a 15 anni. Nel novembre del '39 entrai nella FIT, Fabbrica Italiana Tubi, di Sestri Levante e andai avanti fino a che iniziò la guerra. Si lavorava da bestie, 12 ore al giorno e il mangiare era sempre meno, era stato razionato con la tessera annonaria.
Il 1° dicembre del '43 ci fu il primo bombardamento a Sestri, dove rimasi ferito. Dopo la mia guarigione, io e mio fratello del '22 scegliemmo di andare in montagna con i partigiani. Fu una lotta molto dura, di stenti, privazioni, freddo e fame, ma finalmente arrivò la Liberazione il 25 aprile '45. Dopo la Liberazione mi fermai per parecchi mesi al Comando della Divisione "Coduri", dove facevo il segretario del comandante "Virgola". Quando nacque l' ANPI, divenni il primo presidente della sezione di Sestri Levante. Quando eravamo ancora in montagna, nel dicembre del '44, io e mio fratello aderimmo al PCI. Rientrai in FIT, ma non smisi mai la mia attività sia nell'ANPI sia nel partito. Nel 1956 fui candidato per la prima volta alle elezioni amministrative e divenni assessore alla Pubblica Istruzione, carica che mantenni fino al 1964, mentre rimasi consigliere comunale fino al 1969, quando mi ritirai dall'attività politica. Non smisi mai invece di dedicarmi al rafforzamento dell' ANPI, cosa che faccio ancora oggi con grande piacere e con molta soddisfazione.
Nel 1979 - '80 cominciai a dare attività anche nella cooperazione e proprio in quegli anni fui eletto presidente della Sezione Soci della Coop di Sestri Levante, carica che detengo ancora oggi».

 25 aprile a Lissone
 
25 aprile 11 10 25 aprile 11 10 25 aprile 11 15 presidente ANPI Lissone
 
Esposizione dell'opera di Giacomo Nicola Manenti, "Anelito di libertà" nel cortile della nostra sede di Piazza Cavour.
Giacomo Manenti 3 Giacomo Manenti 1

 
8 maggio 2011: quaranta lissonesi in Val di Susa per ricordare Ercole Galimberti.
 
“VIAGGIO DELLA MEMORIA” a Coldimosso, frazione di Susa (TO), in ricordo del diciottenne lissonese Ercole Galimberti, fucilato per rappresaglia a Coldimosso, dai nazifascisti, il 9 marzo 1945, con altri quattro partigiani che combattevano per la libertà in Val di Susa.
L’iniziativa è realizzata in collaborazione con l’ANPI di Bussoleno.
 
Domenica 8 maggio, una delegazione della sezione dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia di Lissone ha partecipato, insieme ad un nutrito gruppo di cittadini lissonesi, alle celebrazioni, organizzate dall’ANPI di Bussoleno, in memoria di cinque partigiani uccisi dai nazisti a Coldimosso, frazione di Susa, il 9 marzo 1945, tra cui il nostro concittadino Ercole Galimberti, che all’epoca aveva solo diciotto anni. Erano presenti anche le figlie della sorella di Galimberti. Sul luogo dell’eccidio, dove sorge un cippo a perenne ricordo, sono stati deposti fiori e sono stati pronunciati discorsi commemorativi. Hanno parlato i sindaci dei quattro comuni della Val di Susa, situati nelle vicinanze di Coldimosso, e il presidente dell’ANPI di Lissone, Renato Pellizzoni. Molto toccante l’intervento di un vecchio partigiano, nome di battaglia Angelo, che ha rievocato i mesi trascorsi nelle fila della Resistenza e non ha mancato di richiamare l’importanza di difendere e preservare i valori e gli ideali che furono alla base dell’impegno e del sacrificio di tanti giovani per la conquista della libertà e della democrazia per il nostro Paese.
 
a-lissonesi in val di susa b-cippo a Coldimosso c-cippo a Coldimosso particolare2 Coldimosso fiori d-con sindaci un momento della cerimonia intervento di Renato Pellizzoni cippo Coldimosso il partigiano Angelo

    GIOVEDÌ 2 giugno, dalle ore 9 alle 13 in Piazza Libertà, , presentazione delle attività dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia Sezione “Emilio Diligenti” di Lissone.
Verranno distribuite copie della Costituzione italiana.
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17 giugno: in piazza Libertà cerimonia a ricordo dei partigiani lissonesi fucilati
Nel giugno 1944 piombo nazifascista stroncava le giovani vite di cinque lissonesi : Attilio Meroni, fucilato in Valdossola, di anni 19, Pierino Erba, di anni 28 e Carlo Parravicini, di anni 23, fucilati a Lissone nell’attuale Piazza Libertà, Remo Chiusi e Mario Somaschini, di anni 23, fucilati a Monza in Villa Reale.
piazza libertá 009 piazza libertá 010 piazza libertá 015

FESTA del TESSERAMENTO

tessera ANPI 2012

SABATO 3 dicembre dalle ore 15 alle 18

Lissone, Piazza Libertà

Mi iscrivo all ANPI

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per il GIORNO della MEMORIA 2017, il ricordo dei deportati militari italiani nei campi nazisti

14 Janvier 2017 , Rédigé par anpi-lissone

Ha scritto Brunello Mantelli in un articolo inserito nel catalogo della mostra “TRA PIÙ FUOCHI. LA STORIA DEGLI INTERNATI MILITARI ITALIANI 1943-1945”, inaugurata a Berlino:

«L'ingresso ufficiale della prigionia degli IMI nel calendario istituzionale della Repubblica è avvenuto con la legge del 20 luglio 2000, n. 211, che approvata in precedenza dal Parlamento e pubblicata il 31 seguente dalla Gazzetta Ufficiale, istitituiva, fissandolo al 27 gennaio, il “Giorno della Memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”.  Al di là della positività indiscutibile dell’iniziativa, la sua stessa intitolazione richiama l’ambiguità costitutiva del ruolo svolto dall’Italia nella Seconda guerra mondiale e nel ventennio precedente, allorché il paese fu governato dal regime fascista. Si commemora assieme, infatti, ciò che l'Italia ha fatto (la persecuzione antiebraica iniziata nel 1938 poi radicalizzatasi) e ciò che l'Italia ha subito (la deportazione politica e l’internamento militare). Siamo tuttora fermi lì».

Concordo pienamente con lui.

Renato Pellizzoni

Internati militari italiani nei campi nazisti (1943-1945)

Internati militari italiani nei campi nazisti (1943-1945)

per i più fortunati, il ritorno a casa dopo la prigionia

per i più fortunati, il ritorno a casa dopo la prigionia

Legge 20 luglio 2000, n. 211

"Istituzione del "Giorno della Memoria" in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti"

pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 177 del 31 luglio 2000

Art. 1.

La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonchè coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.

Art. 2.

In occasione del "Giorno della Memoria" di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinchè simili eventi non possano mai più accadere.

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In occasione del "Giorno della Memoria", quest’anno desidero ricordare i deportati militari italiani nei campi nazisti e in particolare alcuni internati militari lissonesi le cui vicissitudini mi sono state raccontate, nel tempo, direttamente da loro o che ho conosciuto attraverso i documenti conservati dai loro familiari.

Furono deportati in Germania per essere impiegati come lavoratori coatti nelle fabbriche del Reich. Le loro storie sono raccolte nel nostro sito:

Cassanmagnago Ferdinando

Fumagalli Aldo

Lambrughi Salvatore

Mazzola Evelino

Parma Oreste

Pellizzoni Arnaldo

Lambrughi, Mazzola, Parma e Pellizzoni, benché profondamente provati fisicamente e moralmente sono riusciti a tornare dalla Germania, mentre Cassanmagnago e Fumagalli sono morti, rispettivamente nei lager di Dachau e di Salza.

per il GIORNO della MEMORIA 2017, il ricordo dei deportati militari italiani nei campi nazistiper il GIORNO della MEMORIA 2017, il ricordo dei deportati militari italiani nei campi nazisti
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Oltre 600.000 furono i militari Italiani che dopo l’8 settembre 1943 finirono nei lager nazisti, per quel “NO” che dissero quando “con lusinghe e minacce” fu chiesto loro “di riprendere le armi per il Grande Reich e poi per la Repubblica Sociale Italiana di Mussolini”. Gerard Schreiber, ufficiale della Marina tedesca, ha dedicato un libro ai militari italiani nei lager nazisti intitolato “I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943–1945 Traditi - Disprezzati – Dimenticati”. Questi tre aggettivi sono i più appropriati per descrivere la situazione in cui si sono trovati i 600.000 italiani dopo l’8 settembre 1943.

Gli "schiavi di Hitler", così sono stati definiti, avevano poco più di vent’anni, erano sparsi per mezza Europa, cintati da filo spinato, sottoposti a fame, malattie, schiavitù, violenza, minaccia delle armi e al lavoro forzato: 50.000 morirono…

«… i militari rinchiusi nei campi di prigionia nazisti, nel rifiutare ogni forma di collaborazione con la Repubblica Sociale Italiana e con il Terzo Reich, attuarono anche loro, sia pure senza l’uso delle armi, una forma di resistenza …»

La prigionia nei lager tedeschi va considerata parte integrante della resistenza antifascista e si iscrive a pieno titolo nella storia della Resistenza che ebbe molte forme: quella operata dagli intellettuali e da uomini politici (che si opposero alla dittatura fascista, assassinati  o imprigionati per diversi anni o mandati al confino o costretti a rifugiarsi all’estero), quella degli operai in sciopero nelle fabbriche, quella dei partigiani sulle montagne; resistenti furono anche i civili che li aiutarono, i militari che si schierarono con il Regno del Sud.

Ha detto l’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi: “Quella che a me piace chiamare la Resistenza allargata […] si manifestò in quella sorta di plebiscito, di prima votazione libera degli italiani […] che fecero le centinaia di migliaia di nostri militari deportati nei campi di concentramento tedeschi, preferendo, a schiacciante maggioranza, una durissima prigionia, che costò a molti di loro la vita, pur di mantenere fede al giuramento prestato.” 

Anche Nuto Revelli, scrittore-partigiano, così si espresse sulla vicenda dei militari italiani internati: “la prigionia nei lager tedeschi è una pagina della Resistenza almeno nobile ed eroica quanto la nostra guerra di liberazione”.

Per diversi anni, perfino all’interno delle famiglie, le tristi esperienze vissute nei lager furono un argomento di cui era meglio non parlare. Un deportato italiano così diceva: “raccontare poco non era giusto, raccontare il vero non si era creduti, allora ho evitato di raccontare, sono stato prigioniero e bon, dicevo …” .

La definizione Internati Militari Italiani fu decisa da Hitler il 20 Settembre 1943: per questo i 600.000 italiani non furono tutelati dagli accordi internazionali sui prigionieri di guerra e vennero così sottratti al controllo della Croce Rossa Internazionale. A loro fu riservato un trattamento peggiore che a qualsiasi altra persona catturata in guerra.

Da non molto la storiografia ha incominciato ad occuparsi degli Internati Militari Italiani; per troppo tempo sono stati ignorati anche dallo Stato italiano.

Gli internati hanno ottenuto come riconoscimento dallo Stato italiano la Croce al Merito di guerra per la detenzione nei campi nazisti (D.P.R. 8 settembre 1949),



per il GIORNO della MEMORIA 2017, il ricordo dei deportati militari italiani nei campi nazistiper il GIORNO della MEMORIA 2017, il ricordo dei deportati militari italiani nei campi nazisti

il distintivo d’Onore dei Volontari della Libertà con legge del 1° dicembre 1977 n.344

per il GIORNO della MEMORIA 2017, il ricordo dei deportati militari italiani nei campi nazisti

e recentemente la Medaglia d’Onore con legge del 27 dicembre 2006 n.296.

 

per il GIORNO della MEMORIA 2017, il ricordo dei deportati militari italiani nei campi nazisti

Sia in Italia che in Germania il riconoscimento per la sorte degli internati militari é arrivato molto tardi. La stragrande maggioranza degli internati militari italiani non ha ricevuto fino ad oggi alcun indennizzo da parte tedesca.

Cronaca dei risarcimenti negati

27 febbraio 1953: Accordo di Londra sui debiti esteri germanici

Le rivendicazioni di indennità e risarcimenti nei confronti della Repubblica Federale Tedesca da parte di ex lavoratori coatti e detenuti dei campi di concentramento con cittadinanza straniera vengono rimandate a un futuro trattato di pace.

Giugno 1956: Legge federale sul risarcimento alle vittime della persecuzione nazista

Nessun pagamento agli ex lavoratori coatti e prigionieri di guerra stranieri.

2 giugno 1961: Accordo globale italo-tedesco

La Repubblica Federale Tedesca versa 40 milioni di marchi (circa 20 milioni di euro) a titolo di risarcimento per i perseguitati del regime nazista. Agli ex internati militari non spetta niente.

2 agosto 2000: Legge per l'istituzione della fondazione "Memoria, Responsabilità e Futuro" (EVZ)

La Repubblica Federale Tedesca e l'industria tedesca mettono a disposizione 10 miliardi di marchi (circa 5 miliardi di euro) per il risarcimento agli ex lavoratori coatti e ai deportati

27 novembre 2001: "Informazione" del governo federale in merito all'esclusione degli internati militari dai risarcimenti della EVZ

Il governo federale segue le indicazioni di una perizia che, nonostante il loro passaggio allo status di civili nel 1944, considera gli internati militari come prigionieri di guerra. Come tali sono esclusi dai risarcimenti della EVZ. La maggior parte delle circa 130.000 richieste italiane viene respinta.

11 marzo 2004: Sentenza della Corte di Cassazione italiana

La Repubblica Federale Tedesca è condannata al risarcimento dei lavoratori coatti italiani. Per i risarcimenti agli ex internati questa sentenza rimane senza seguito.

20 giugno 2008:gravi dichiarazioni del ministro degli Esteri Frattini sugli schiavi di Hitler nel corso della sua visita a Berlino.

Ferma presa di posizione del Prof. Valter Merazzi, responsabile del Centro di Ricerca Schiavi di Hitler/Fondo Imi Claudio Sommaruga, delegato del Coordinamento degli enti e associazioni per il risarcimento del lavoro coatto presso l’Oim di Ginevra.

2012: Sentenza della Corte europea di giustizia dell'Aia

La Corte non ammette le cause civili di cittadini stranieri e pertanto nemmeno quelle di cittadini italiani contro la Repubblica Federale Tedesca.

2012: Costituzione di un Fondo italo-tedesco per il futuro

Il Ministero degli Affari Esteri tedesco costituisce un Fondo per il Futuro per finanziare progetti della memoria. Non sono previsti risarcimenti.

20 maggio 2015: Delibera del governo federale per il risarcimento di ex prigionieri di guerra sovietici

Per gli ex internati militari italiani non si prospetta alcun risarcimento.

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In Italia a Cernobbio (CO), ha sede il “Centro Studi Schiavi di Hitler”.

Per informazioni: Centro studi “Schiavi di Hitler”

via Regina, 5   -   22012 Cernobbio tel. 3202461195    info@schiavidihitler.it

Presidente è Valter Merazzi.

Dallo Statuto, la finalità del “Centro Studi Schiavi di Hitler” è quella di “favorire e promuovere l'attività di ricerca storica e di raccolta documentale sui militari e civili italiani deportati e costretti al lavoro forzato nella Germania nazista tra il 1943 e il 1945 e sostenere la campagna per il loro pieno riconoscimento storico e morale”.

La ricerca storica per lo studio della deportazione in Germania tra il 1943 e il 1945, finalizzata al risarcimento del lavoro forzato cui furono costretti gli italiani, é iniziata nel 1999.

Nonostante l'esclusione degli Imi e dei deportati civili (ad eccezione dei Kz) dal risarcimento, la raccolta di documenti, testimonianze, pubblicazioni, lo sviluppo di progetti con enti di ricerca in Italia e in Germania, l'assistenza a ricercatori, la promozione e l'aiuto a reduci e parenti nella richiesta della medaglia d'onore concessa dallo Stato italiano, sono proseguiti sino ad oggi.

Il “Centro studi Schiavi di Hitler" ha una raccolta, unica in Italia, di oltre un centinaio di interviste frutto di un lavoro che si è protratto per oltre quindici anni.

Ha inoltre realizzato una mostra dal titolo: "Schiavi di Hitler. Racconti, immagini, documenti dei deportati italiani 1943-1945"

Nell'anno 2000, con la costituzione della fondazione “Memoria, Responsabilità e Futuro” si sarebbe dovuta concludere la lunga controversia in merito agli indennizzi per gli ex lavoratori coatti durante il periodo nazista. Ma a differenza dei prigionieri polacchi, i soldati sovietici e italiani furono esclusi dagli indennizzi, nonostante che anch’essi fossero stati costretti al lavoro coatto. (Nel caso dei prigionieri di guerra sovietici, il Parlamento Federale tedesco ha deliberato nel 2015 l’erogazione di un simbolico “riconoscimento” finanziario).

Dopo un peggioramento dei rapporti tra Germania e Italia, nel novembre 2008, i ministri degli Affari Esteri di entrambi i paesi (per l’Italia era in carica il ministro Franco Frattini) al vertice italo-tedesco di Trieste decisero di insediare una commissione congiunta di storici. La commissione, nel 2012, ha proposto una mostra permanente al Centro di documentazione sul lavoro coatto durante il nazismo di Berlino-Schöneweide. É questa mostra che è stata inaugurata il 30 novembre 2016. Lo scopo della mostra é quello di far conoscere il destino dei circa 650.000 militari internati italiani e le loro vicissitudini, circostanze che in Germania sono poco conosciute al vasto pubblico.

"E in Germania, un campo di concentramento per militari italiani diventa un museo a Berlino". É  il titolo del servizio TV del corrispondente della Rai Rino Pellino, andato in onda in occasione dell'inaugurazione della mostra. Vedi il servizio: un museo dedicato militari italiani deportati

Il titolo della mostra permanente: “Zwischen allen Stühlen. Die geschichte der Italienischen militärinternierten 1943-1945”. “Tra più fuochi. La storia degli internati militari italiani 1943-1945”.

La mostra è allestita in una delle lunghe e basse casupole in muratura, ancora oggi presenti nel quartiere di Schöneweide, nella parte sud orientale di Berlino, dove nel corso della guerra venne “alloggiato” un consistente numero di lavoratori forzati, il cui gruppo più numeroso era costituito da circa 500 italiani.

Il Lager di Schöneweide, è nei sobborghi di Berlino vicino alla riva della Sprea. Si raggiunge dopo aver attraversato il parco di Treptow, dove è collocato l'imponente memoriale ai caduti dell'Armata rossa nella decisiva battaglia per Berlino.

Il Lager di Schöneweide è oggi un luogo di Memoria. Ospita il “Centro di documentazione sul lavoro forzato nella Germania nazista”, emanazione della fondazione “Topografia del Terrore” che gestisce alcuni fra i principali siti sulla seconda guerra mondiale nella città di Berlino.

In altre casupole sono allestite le mostre in “La vita quotidiana dei lavoratori forzati nella Germania nazista 1938–1945” e “Batterie per la Wehrmacht. Lavoratori coatti alla Petrix 1939-1945”. I sotterranei della baracca n. 13, dove sono stati rinvenuti alcuni minuscoli graffiti vergati da italiani, sono visitabili su richiesta.

La mostra, bilingue si sviluppa su una superficie di 250 mq  e occorrono alcune ore per visitarla. Il ricco catalogo ne ripercorre la scansione e ripropone i documenti più significativi.

Le baracche in muratura, ben conservate, sono inserite in un contesto periferico urbano, collocate in un grande prato con qualche albero circondato da palazzi a quattro-cinque piani. L'ambiente circostante è di per sé un documento di come il lavoro forzato fosse non l'eccezione ma la regola nella società tedesca in guerra.

Nel dopoguerra le baracche sono state utilizzate dal ministero della sanità della Ddr e successivamente alcune per usi commerciali e artigianali.

Il catalogo della mostra

Il catalogo della mostra

ulteriori informazioni sulla mostra

Alla realizzazione della mostra ha contribuito anche il Centro studi “Schiavi di Hitler”, che ha sede in Italia, a Cernobbio. Il Centro studi “Schiavi di Hitler” ha rapporti con alcuni tra i principali centri di ricerca e memoriali della Germania.

All’inaugurazione della mostra ha partecipato anche Valter Merazzi, presidente del Centro studi “Schiavi di Hitler”.

Dalla sua relazione sulla mostra:

«La mostra è molto ben curata nel suo sviluppo e nella grafica. Per la sua realizzazione sono occorsi almeno due anni. Molti i reperti, gli oggetti raccolti con una paziente ricerca in Italia donati da famiglie e associazioni locali. Le postazioni video consentono la visione di sequenze di interviste con sottotitoli anche in inglese. Altre postazioni offrono alcuni semplici strumenti per un approccio didattico-educativo di tipo interattivo.

Dal punto di vista dei contenuti la mostra si sviluppa nei seguenti otto capitoli

1) i rapporti fra Italia fascista e Germania nazista dal 1936 all'8 settembre 1943

2) la cattura

3) le disastrose condizioni del trasporto

4) la condizione di vita degli Imi nei lager e nelle aziende. Malattie e decessi

5) la prigionia degli ufficiali

6) la civilizzazione degli Imi

7) liberazione, attesa e rimpatrio.

8) gli ex internati nel dopoguerra.  Ignorati in Italia, mai indennizzati dalla Germania

Inoltre vengono approfonditi quattro temi sulle “condizioni particolari che determinavano la sorte degli italiani”:

1) la propaganda nazista contro gli italiani traditori

2) La condizione degli Imi e le differenze con gli altri prigionieri di guerra

3) La pecularietà degli italiani. La richiesta di arruolamento dei tedeschi e della Rsi

4) Il ruolo della Rsi verso gli IMI.»

Le videotestimonianze dei protagonisti sono uno degli aspetti salienti della mostra e nell'allestimento sono presenti una quindicina di testimoni la metà dei quali intervistati da Valter Merazzi presidente Centro studi "Schiavi di Hitler", che così ha commentato: «Abbiamo avuto la piacevole sorpresa di essere inclusi nel video dedicato ai principali storici che si sono occupati di questa vicenda; non solo per le videotestimonianze, ma anche per la nostra ostinata attività per una giustizia storica, materiale e morale».

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